dedicato a Don Eraldo Colombini
« Ascoltami, figlio, impara la scienza, e nel tuo cuore tieni conto delle mie parole. Manifesterò con ponderazione la dottrina, con cura annuncerò la scienza... » (Siracide 16, 24-25) |
William Blake, "L'Antico di Giorni" (1794)
« I Cattolici hanno un grande rispetto per la Bibbia, ed infatti non la aprono mai. ». L'ironico motto di Paul Claudel è quanto mai attuale, in un mondo in cui quasi nessuno più legge il Libro dei Libri. Eppure, definirlo soltanto un libro sacro per i credenti Ebrei e Cristiani sarebbe molto riduttivo. In realtà, la Bibbia è molto di più: come dice il nome stesso (greco "Biblia"), non si tratta di un libro solo, ma di molti libri: i libri che racchiudono la mentalità, la cultura, la civiltà, le tradizioni ancestrale di un intero popolo, passato attraverso quattromila anni di traversie storiche e di persecuzioni (incluso un tentativo di sterminio totale), e della nascente comunità cristiana nel primo secolo della sua storia. Com'è noto, il grande scienziato pisano Galileo Galilei delimitò chiaramente l'ambito in cui va letto e interpretato questo corpus eterogeneo di scritti, composti in un lunghissimo arco di tempo che va dall'Età del Bronzo fino all'apogeo dell'Impero Romano: la Bibbia ci dice « come si vadia in lo Cielo », mentre la scienza moderna (fondata dallo stesso Galileo) ci insegna « come vadia lo Cielo ». Ciò evita confusioni e sconfinamenti, dopo che a lungo si è pensato che ogni teoria fisica sulla nascita, l'evoluzione e il funzionamento dell'universo nella sua globalità e di ogni sua parte, dovesse essere necessariamente compatibile con i racconti e le cronologie desumibili dall'Antico Testamento. Eppure, se è vero che il famoso episodio di Giosuè 10, 12 (« Fermati, o sole, su Gàbaon, e tu, luna, sulla valle di Àialon ») non può assolutamente essere utilizzato per sostenere il geocentrismo in contrapposizione all'eliocentrismo, né le età dei patriarchi antidiluviani del capitolo 5 della Genesi possono dare ragione a coloro i quali ancor oggi ritengono a torto che il cosmo intero non abbia più di seimila anni, nei 73 libri della Bibbia (dai lunghissimi trattati teologici come il Libro di Isaia fino alla Terza Lettera di Giovanni, poco più che un biglietto) sono contenute tutte le nozioni scientifiche e, perchè no, matematiche, del Popolo Eletto.
Sicuramente si tratta di concezioni del mondo che noi, membri della moderna specie Homo technologicus, abituati a smartphone e telescopi orbitanti, troveremmo sicuramente ingenue, come si legge ad esempio in questa pagina di un altro mio ipertesto. Tuttavia, l'antico Israele è stato deportato nel cuore della Mesopotamia, dove le conoscenze matematiche erano molto avanzate fin dal terzo millennio avanti Cristo, e dunque ha assorbito almeno parte di queste conoscenze, che puntualmente di ritrovano in molti punti della Sacra Scrittura. Scopo di questo ipertesto sarà proprio quello di utilizzare citazioni e passi biblici per illustrare importanti argomenti della Matematica, dai più semplici ed abbordabili fino a quelli più complessi, che richiedono studi superiori per essere compresi appieno. Attenzione: in questa sede non parleremo specificamente di argomenti di Fisica, Tecnologia o Cosmologia, dei quali abbiamo avuto occasione di parlare in altri ipertesti; ad esempio, non ci occuperemo in uno specifico capitolo della concezione dell'universo propugnata dalla Bibbia, concezione che ha al centro un mondo piatto come tutti gli altri modelli di universo antecedenti alla nascita della filosofia greca. Accenneremo a tali argomenti quando discuteremo ad esempio del Diluvio Universale, perchè anche quest'ultimo, come vedremo, è compatibile solo con un mondo piatto, e non con il mappamondo sferico a cui siamo abituati; ma il nocciolo del nostro lavoro sarà costituito essenzialmente dai riferimenti matematici riscontrabili nel testo biblico, un viaggio che spero vi stupirà.
Naturalmente la Bibbia non è solo un compendio della cultura ebraica e paleocristiana: per gli Ebrei osservanti e per la vastissima galassia delle confessioni cristiane è anche un Libro Sacro, cioè è Parola di Dio. Questo ipertesto però non è dedicato solo ai credenti di qualsivoglia culto ispirato alla Bibbia; se vi saranno riferimenti all'esegesi e all'ermeneutica di passi biblici, essi non avranno scopo catechetico ma solo puramente culturale, così da spiegare passaggi difficili a chi non ha mai avuto occasione di sentirseli spiegare (naturalmente, tali spiegazioni potranno servire ai lettori credenti anche per rafforzare la la loro fede). La Matematica infatti non ha colore politico né ideologico né religioso; non può essere sfruttata né per dimostrare l'esistenza di Dio (invocando un "ordine cosmico" che solo un Creatore può avere impresso) né per negarla (un matematico ci ha provato affermando piuttosto scioccamente che "Dio non è onnipotente perchè non può trasformare 82 in un numero primo"); di essa non si può impossessare alcun Masaniello per giustificare le proprie tesi politiche, né alcun filosofo per contrapporre una costruzione mentale ad un'altra. La Matematica è patrimonio di tutta l'umanità, oltre che espressione peculiare dell'intelligenza raggiunta dalla nostra specie nel corso della sua millenaria evoluzione; anzi, potrebbe essere uno dei possibili terreni di incontro con eventuali intelligenze extraterrestri! Infatti un cervello alieno potrebbe ragionare (e quindi utilizzare gli organi del linguaggio) in modo affatto diverso dal nostro, ma i numeri e le fondamentali operazioni tra di essi sarebbero senz'altro gli stessi per tutti gli esseri senzienti dell'universo; e non a caso nel romanzo "Contact" di Carl Sagan (1934-1996) si immagina il "Primo Contatto" tra la civiltà umana ed una aliena attraverso un messaggio radio fatto di una successione di zeri e di uni!
La tavoletta YBC 7289, risalente al 1800 a.C. ed oggi conservata presso l'Università di Yale, contiene il metodo per trovare la diagonale di un quadrato di noto lato attraverso un'approssimazione della radice di due alla quinta cifra decimale. È una prova delle notevoli conoscenze matematiche con cui gli Ebrei vennero in contatto a Babilonia. |
La Bibbia in realtà non è solo un insieme di libri; è un insieme di gruppi di libri! Infatti, i 73 testi (molto eterogenei fra di loro) che lo compongono possono essere raggruppati anzitutto in Antico Testamento e Nuovo Testamento. Di solito si dice che il primo rappresenta la "Bibbia ebraica", e il secondo "l'aggiunta cristiana", ma questa suddivisione semplicistica va ampiamente rivista. Infatti gli Ebrei, come i cristiani Riformati, non ritengono Canonici, cioè ispirati direttamente da Dio, i libri dei quali non si possiede l'originale ebraico: Tobia, Giuditta, Primo e Secondo Libro dei Maccabei, Sapienza, Siracide o Ecclesiastico, Baruc e alcune parti del libro di Ester e del libro di Daniele (Dan 3, 24-45.52-90 e 13, 1 - 14, 42). Questi testi sono chiamati "non canonici" dagli Ebrei e "apocrifi" dai Riformati. Inoltre le varie confessioni cristiane hanno diverse opinioni circa la canonicità di altri libri aggregati all'Antico Testamento. La Chiesa Ortodossa di Costantinopoli ad esempio riconoscono come canonici anche il Terzo e il Quarto Libro dei Maccabei, il Libro delle Odi e il Salmo 151; la Peshitta, la versione siriaca della Bibbia (dal siriaco "mappaqtâ pshittâ", cioè "traduzione genuina"), riconosce come canonici anche i Salmi 152-155 e il Secondo Libro di Baruc; mentre la Chiesa Copta considera ispirati anche il Libro di Enoc etiope e il Libro dei Giubilei (apocrifi per le altre confessioni cristiane).
La Bibbia ebraica probabilmente detta in ebraico dovrebbe essere indicata con il termine "Ha-Sefarim" ("I Libri"). Tale termine ricorre effettivamente nella Scrittura, precisamente nella sezione in ebraico del Libro di Daniele:
« Nel primo anno del suo regno [di Dario] io, Daniele, tentavo di comprendere nei Libri (Ha-Sefarim) il numero degli anni di cui il Signore aveva parlato al profeta Geremia e che si dovevano compiere per le rovine di Gerusalemme, cioè settant'anni. » (Daniele 9, 2)
Abbiamo le prove che tale termine era utilizzato dai rabbini per indicare le Scritture nei primi secoli dopo Cristo, anche nella variante "Sifrei ha-Qodesh" ("Libri Sacri"). Nel Medioevo venne usato anche il termine Miqra' ("Lettura"), per il fatto che il testo era letto pubblicamente nelle sinagoghe. Oggi però il termine usato preferibilmente dagli Ebrei osservanti è Tanakh, un acronimo delle tre sezioni in cui essi dividono l'Antico Testamento: Torah ("Insegnamento"), Nevi'im ("Profeti") e Ketuvim ("Scritti"). La Torah viene resa in italiano con il termine greco "Pentateuco", letteralmente "Cinque Astucci", perchè tale sezione della Scrittura era suddivisa in cinque rotoli, conservati in altrettanti contenitori. Nell'originale ebraico i cinque rotoli prendono il nome dalle prime parole del testo:
1) "Bereshìt"
("Principio"), dalla prima parola («
In principio »).
2) "Shemot"
("Nomi"), dalle prime parole del testo: "Ve'elleh Shemot" («
Questi sono i nomi »).
3) "Vaiyikra"
("Chiamò"), dalle prime parole: "Vaiyikra el-Mosheh" («
[Il Signore] chiamò Mosè »).
4) "Bamidbar"
("Deserto"), dalle prime parole del testo: "Vaydabber Hashem el-Mosheh
bamidbar" («
Il Signore parlò a Mosè nel deserto »).
5) "Devarim"
("Parole"), dall'inizio del testo: "Elleh haddevarim" («
Queste sono le parole »).
Sotto il regno di Tolomeo II Filadelfo (285-246 a.C.) venne eseguita, ad Alessandria d'Egitto, la prima traduzione in greco delle Scritture ebraiche, detta "Traduzione dei Settanta" perchè secondo la tradizione fu eseguita da 72 saggi scribi, sei per ognuna delle Tribù d'Israele, dietro commissione dello stesso re ellenistico, al quale a quel tempo la Palestina apparteneva. La Settanta costituisce tuttora la versione liturgica dell'Antico Testamento per le chiese ortodosse orientali di tradizione greca; gli Ebrei ellenizzati invece smisero di usarla nei primi secoli dopo Cristo proprio perchè era stata adottata dalla Chiesa primitiva, sostituendola con la versione di Aquila di Sinope, una nuova traduzione eseguita intorno al 125 d.C. I traduttori della Settanta comunque preferirono assegnare ai singoli libri dei titoli, secondo l'uso greco, ispirati al loro contenuto. E così "Bereshit" divenne la "Genesi", l'"Origine"; "Shemot" divenne l'"Esodo", l'"Uscita" del popolo d'Israele dalla schiavitù d'Egitto; "Vaiyikra" divenne il "Levitico", cioè "il libro dei Leviti", la redazione della Legge del Sinai operata dai Sacerdoti della Tribù di Levi; "Bamidbar" divenne i "Numeri", per via delle enumerazioni che compaiono nei primi capitoli; e "Devarim" divenne il "Deuteronomio", la "Seconda Legge"che Mosè cnsegna al popolo poco prima di morire, per via della ripetizione delle leggi già contenute nei volumi precedenti.
La suddivisione ora introdotta è stata operata in seguito all'evidente desiderio di ripartire in sezioni un testo ritenuto troppo vasto ed eterogeneo. Tuttavia, dal punto di vista dei contenuti, l'unica suddivisione logica è quella alla fine del capitolo 50 della Genesi, perchè a quel punto, con la morte di Giuseppe, si conclude la storia dei patriarchi, e con il successivo primo capitolo dell'Esodo, ambientato centinaia di anni dopo la storia di Giuseppe, inizia la storia del Popolo Eletto. Il Libro dei Numeri segna una cesura con il precedente solo perchè introduce il censimento di Israele, e il Deuteronomio solo perchè con il suo primo capitolo inizia il grande discorso d'addio di Mosè; la suddivisione tra Esodo e Levitico, invece, è molto più sfumata dal punto di vista ei contenuti. Una suddivisione più precisa e basata sui contenuti potrebbe essere la seguente:
I)
Genesi 1-11:
la Creazione e la Preistoria
II) Genesi 12-50:
le vicende dei Patriarchi (Abramo, Isacco, Giaccobbe e i
suoi dodici figli)
III) Esodo 1, 1 -
15, 21: l'oppressione degli Israeliti in
Egitto e il loro Esodo verso la libertà
IV) Esodo 15, 22 -
Numeri 10, 10: il cammino del popolo ebraico
verso il Sinai e la sua permanenza presso di esso
V) Numeri 10, 11 -
Deuteronomio 34, 12: il viaggio di Israele
dal Sinai fino al Giordano, al confine della Terra Promessa, e la morte di Mosè
sul monte Nebo
Jan de
Wespin, Adamo ed Eva nella Prima Cappella del
Sacro Monte di Varallo (VC), foto dell'autore di questo sito
La composizione della Torah, dai tempi più remoti fino al XVIII secolo, era attribuita a Mosè, tanto da far parlare di "letteratura mosaica" (anche il celebre kolossal "I Dieci Comandamenti" di Cecil B. de Mille si conclude con un anziano Mosè che consegna i cinque Rotoli della Legge al suo successore Giosuè). Tuttavia, fin dal Medioevo si cominciò a mettere in dubbio la paternità mosaica del Pentateuco. Per quanto ne sappiamo, il primo a farlo fu Isaac ben Yashush (982-1057), erudito ebreo di Toledo, il quale notò che il passo di Gen 36, 31: « Questi sono i re che regnarono nel territorio di Edom, prima che regnasse un re degli Israeliti » si poteva spiegare solo supponendo già esistente la monarchia, quando fu ultimata la redazione finale della Genesi. Un secolo dopo l'esegeta ebreo spagnolo Abraham Ibn Ezra (1093-1167) scrisse che Mosè non può aver detto, al passato, che « nella terra si trovavano allora i Cananei » (Gen 12, 6b), poiché essi erano ancora là al tempo dei Giudici, molto tempo dopo la morte del grande profeta. Bisognò aspettare il 1520 affinché il tedesco Andreas Rudolph Bodenstein von Karlstadt (1480-1541), uno dei padri della Riforma Protestante, nel suo "De Canonicis Scripturis Libellus", si rendesse conto che Mosè non può aver scritto il racconto della sua morte, il cui stile però è identico a quello del resto del Deuteronomio, il quale perciò non può essere più attribuito a lui. Jacques Bonfrère (1573-1642), nel suo "Pentateuchum" del 1625, cercò di spiegare questa contraddizione ammettendo che Giosuè abbia inserito molte aggiunte nel Deuteronomio, incluso il racconto della morte di Mosè. Il grande filosofo fiammingo Baruch Spinoza (1632-1677), nel capitolo 8 del suo "Tractatus theologico-politicus" (1670), individua altri elementi evidentemente post-mosaici, e propone che il Pentateuco, i libri di Giosuè, dei Giudici, di Samuele e dei Re ("Enneateuco") siano opera di un solo autore, forse Esdra, il quale avrebbe utilizzato materiali precedenti, anche mosaici (alcune leggi), senza però riuscire a concludere il suo lavoro e ad armonizzare le numerose discordanze. La sua opera, com'è noto, venne messa all'Indice, perchè la Chiesa non era ancora pronta a questo approccio alle Sacre Scritture.
In età illuministica comunque ormai era chiaro che il testo del Pentateuco è assolutamente eterogeneo, presenta un'esposizione tutt'altro che logica e consequenziale, vi sono vaste lacune, soprattutto nei racconti delle Origini (lunghissimi periodi sono coperti solo da scarne genealogie), e inspiegabili ripetizioni; per esempio, la vicenda di Abramo che spaccia sua moglie Sara per sua sorella è ripetuta due volte, in Gen 12, 10-20 con protagonista il Faraone, e in Gen 20, 1-18 con protagonista Abimelec; e una terza versione del racconto è presente in Gen 26, 6-11, sempre con protagonista Abimelec re di Gerar, ma stavolta riferita ad Isacco e Rebecca! Inoltre, come se non bastasse, si alternano stili molto diversi, asciutti elenchi di nomi e numeri con scene drammatiche di immani distruzioni; e, soprattutto, si alternano diversi nomi di Dio, circostanza che fu notata per la prima volta dal francese Jean Astruc (1684-1766), medico personale del re di Francia Luigi XV, nel suo pamphlet del 1753 « Conjectures sur les mémoires originauz don't il paroit que Moyse s'est servi pour composer le livre de la Génèse » (« Congetture sui documenti originali che Mosé sembra aver usato nella composizione del Libro della Genesi »). I due nomi principali sono "Elohim" e "YHWH".
Le moderne edizioni della Bibbia traducono normalmente con Dio il nome ebraico "Elohim", plurale maiestatico di "Eloah" che ricorre ben 2570 volte in tutta la Scrittura; in Esodo 12, 12b però ha il significato plurale indicando delle divinità pagane: « farò giustizia di tutti gli dèi dell'Egitto ». Invece il tetragramma sacro di YHWH, formato dalle quattro consonanti che Iddio rivelò a Mosè sull'Oreb (Esodo 3, 14 e 6, 2-3), appare ben 6.828 volte nell'Antico Testamento, più 50 volte nella cosiddetta "forma breve" Jah, e viene di solito tradotto con il termine "Signore". Tale nome è costituito da quattro consonanti: yod, he, waw, he, senza vocali, perchè la lingua ebraica a tutt'oggi è scritta con lettere dal valore consonantico, mentre la vocalizzazione è indicata ortograficamente attraverso altri segni diacritici, introdotti però solo dai Masoreti nella seconda metà del I millennio d.C. L'iscrizione più antica che riporta il tetragramma sacro è la famosa Stele di Mesha, scoperta nel 1868 dal reverendo Frederick Augustus Klein, che risale all'anno 840 a.C.; qui a fianco si può leggere il tetragramma in caratteri fenici (in alto), aramaici (al centro) ed ebraici moderni (in basso). Il tetragramma era ed è considerato impronunciabile dagli Ebrei osservanti, anche se, sulla base di antiche traslitterazioni in greco, la pronuncia più probabile era Yahweh. I più oggi ritengono che YHWH sia una voce verbale, derivata dalla radice "hyh" che significa "essere", "avvenire". In Esodo 3, 14 Dio rivela il Suo nome nella forma "Ehyeh Asher Ehyeh", tradotto dalla CEI come « Io sono colui che sono », cioè "Io sono Colui che è in grado di darsi l'Essere da solo, senza riceverlo da nessuno". Parte dell'esegesi ebraica tuttavia pensa a una derivazione dalla radice HWH, con il significato di "Colui che induce ad esistere", cioè "Colui che dà la vita". Quando gli Ebrei osservanti leggono il testo biblico, sostituiscono YHWH con "Adonày", termine più generico che significa "Mio Signore" e che compare nell'Antico Testamento per 439 volte. Da tale termine deriva anche il nome greco di Adone, mitologico e sfortunato amante della dea Afrodite, personificazione della divinità orientale Tammuz, citato anche nel Libro di Ezechiele (« Mi condusse all'ingresso della porta del tempio del Signore che guarda a settentrione e vidi donne sedute che piangevano Tammuz »: Ez 8, 14). Associando alle consonanti ebraiche Y, H, W, H le vocali di "Adonay" nacque il nome "Geova", che secondo la Società Torre di Guardia (i Testimoni di Geova) è l'autentico nome di Dio, ma in realtà si tratta di una costruzione molto tarda, risalente alla seconda metà del primo millennio dopo Cristo, e sebbene un tempo fosse diffuso nel mondo anglosassone, ormai è stato quasi del tutto abbandonato, eccezion fatta per i TdG. Nelle preghiere gli Ebrei osservanti sostituiscono YHWH anche con il sinonimo HaShem ("il Nome") oppure "Hakadosh Baruch Hu" ("Il Santo Benedetto"). L'antica traduzione greca della Settanta rende il nome sacro con il greco "Kyrios", termine che nel Nuovo Testamento indicherà la qualifica divina di Cristo risorto; la Vulgata usa invece la parola "Dominus". In Gen 2, 4b (« Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo... ») i due nomi sono accostati, in modo da affermare che il Dio che ha liberato Israele dall'Egitto (YHWH) è lo stesso che ha creato il cielo e la terra (Elohim).
Nel suo pamphlet, Jean Astruc avanzò l'ipotesi che l'uso dei due nomi nella Genesi corrisponda a due diverse tradizioni, in origine indipendenti l'una dall'altra, da lui definite Jahvista ed Elohista in base ai nomi di Dio che utilizzano, confluite poi nel Pentateuco come oggi lo conosciamo ad opera di un ignoto redattore finale. Invece l'inglese Alexander Geddes (1737-1802) nella sua opera "Critical Remarks" del 1792 sostenne che alla base del Pentateuco vi sarebbe essenzialmente un testo di tradizione Elohista, al cui interno sarebbero stati successivamente inseriti dei testi frammentari anteriori di tradizione Jahvista, insieme ad altro materiale minore. Johann Gottfried Eichhorn (1752-1827) nella sua "Einleitung in das Alte Testament" del 1783 riprese l'ipotesi di Astruc, estendendola fino al Levitico, e propose l'esistenza di qualche altra possibile fonte, ad esempio in Gen 14. Karl David Ilgen (1763-1834) nel saggio "Die Urkunden des ersten Buchs von Moses in ihrer Urgestalt" ("I testi del primo libro di Mosè nella loro forma originale", 1798), fu il primo a notare che nei testi dove Dio è chiamato Elohim si possono distinguere due fonti diverse, introducendo oltre allo Jahvista un primo Elohista (che in seguito sarà chiamato Sacerdotale) e un secondo Elohista; in tal modo le fonti divennero tre. Tutti questi autori però, a differenza di Spinoza, non negavano affatto la paternità mosaica del Pentateuco, anzi la difendevano, sostenendo che Mosè era sempre l'autore delle diverse fonti, poi messe insieme in quella che oggi è la redazione finale della Torah.
Nella prima metà dell'ottocento, grazie ai contributi di altri esegeti come Heinrich Georg August Ewald (1803-1875), si fece strada l'idea di un « grande epos Elohista » nel quale erano state interpolate delle inserzioni di altri autori, tra cui lo Jahvista: è la cosiddetta Ipotesi dei Supplementi. Ben presto però questa teoria semplicistica venne criticata, ad esempio dal teologo luterano Johann Heinrich Kurtz (1809-1890) che nel 1846 si pose la domanda: se il documento Elohista è il più antico e sta alla base delle inserzioni Jahviste, com'è possibile che l'Elohista faccia riferimento ai contenuti dello Jahvista? Hermann Hupfeld (1786-1866) nel suo "Die Quellen der Genesis" ("Le fonti della Genesi", 1853) chiamò Elohista lo scritto fondamentale più antico che assicura l'unità delle diverse parti del Pentateuco, dalla creazione fino all'insediamento in Canaan; in seguito sarebbe venuta un'opera indipendente, per mano dello Jahvista, che copre lo stesso periodo di tempo dalle origini alla conquista, ma con un diverso stile. A questo Jahvista sarebbe stato amalgamato un secondo Elohista, molto frammentario e mal conservato. Il posto del Deuteronomio in questo contesto fu precisato nel 1854 da Eduard Karl August Riehm (1830-1888), il quale propose che esso provenisse da una fonte indipendente assai posteriore, risalente all'epoca della riforma di Giosia narrata in 2 Re 23, 1-30. Nasceva così il concetto di autore Deuteronomista.
Nel 1878, con la pubblicazione dei "Prolegomena zur Geschichte Israels" ("Introduzione alla storia di Israele") dell'orientalista tedesco Julius Wellhausen (1844-1918), si giunse infine a formulare la cosiddetta Ipotesi Documentale, detta anche Teoria delle Quattro Fonti o Teoria JEDP, che sistematizza in modo oeganico tutte le ipotesi degli autori precedenti. Essa presuppone che il cosiddetto Esateuco, cioè i cinque libri del Pentateuco più il libro di Giosuè, siano il risultato della giustapposizione da parte di uno o più redattori finali di quattro diverse fonti o documenti, che avevano originariamente un'esistenza autonoma come scritti indipendenti; nel corso del lavoro redazionale parti delle singole fonti sono andate perdute, cosicché esse non possono più essere ricostruite integralmente;, ma in origine erano indipendenti e complete. La J, la E e la D e indicano rispettivamente l'autore Jahvista, quello Elohista e quello Deuteronomista; invece la P sta per Priestercodex o Codice Sacerdotale, termine coniato nel 1869 dall'orientalista tedesco Theodor Nöldeke (1836-1930) nel saggio "Die sogenannte Grundschrift des Pentateuchs, in Untersuchungen zur Kritik des Alten Testaments" ("La cosiddetta fonte di base del Pentateuco, negli studi sulla critica del Vecchio Testamento") per indicare la fonte delle ampie porzioni liturgiche del Pentateuco, concentrate soprattutto nel Levitico, che sarebbero state elaborate dalla classe sacerdotale, in precedenza indicate con il nome di "Secondo Elohista". La teoria documentaria fu poi ripresa ed ampliata da Samuel Rolles Driver (1846-1914) nella sua "Introduction to the Literature of the Old Testament" (1891), William Robertson Smith (1846-1894) in "The Old Testament in the Jewish Church" (1881) e dal domenicano padre Marie-Joseph Lagrange (1855-1938) ne "La critique rationnelle" (1936).
Le quattro fonti di cui parla la teoria documentale contengono materiale orale anteriore di secoli alla loro messa per iscritto, che è distribuita lungo un arco di tempo che va dall'inizio della Monarchia in Israele fino al ritorno dall'esilio a Babilonia. La fonte J e la fonte E narrano sostanzialmente gli stessi avvenimenti ed hanno un'origine comune nei racconti popolari che trattavano della storia di Israele: una fonte originaria costituitasi in forma orale (e forse perfino scritta) all'epoca dei Giudici, quando gli Ebrei cominciarono ad esistere come popolo. La Tradizione Jahvista nelle sue linee essenziali risale al X secolo a.C., quindi al Regno di Salomone: fu dunque la prima a mettere per iscritto le antiche tradizioni orali del Popolo Eletto. Essa utilizza il tetragramma sacro YHWH fin dai racconti della Creazione, molto prima della rivelazione sull'Oreb; probabilmente ha avuto origine in Giudea; è caratterizzata da uno stile vivace e colorito, con il quale Dio è descritto molto vicino al suo popolo e in alcuni casi è antropomorfizzato: così ad esempio quando lo vediamo passeggiare nel giardino dell'Eden, come un signorotto orientale che si gode il fresco della sera (Gen 3, 8). È poco interessata ai materiali liturgici e giuridici, chiama "Sinai" il monte della Rivelazione e copre la storia fin dalle origini. In particolare, l’opera dello jahvista è riconoscibile nella parte narrativa più antica del Pentateuco: la Creazione, i patriarchi, l’esodo, l’entrata degli Israeliti nella Terra Promessa. Invece la Tradizione Elohista si è formata in epoca successiva, nell'VIII secolo a.C., e nel Regno del Nord (sotto il regno di Geroboamo II, che governò dal 782 al 755 a.C.); inizia con l'alleanza di Abramo e descrive Dio con il nome Elohim e in modo più trascendente: appare nei sogni o parla per mezzo di mediatori, gli angeli. È caratterizzata da uno stile sobrio, da una morale esigente e dalla preoccupazione di rispettare la distanza che separa l'uomo da Dio; anch'essa, come lo Jahvista è poco interessata ai temi legislativi e alle cronologie numeriche. Si pensa che dopo la caduta di Samaria ad opera degli Assiri le fonti J ed E siano state fuse tra d loro, forse per impulso del re di Giuda Ezechia (726–697 a.C.) che concentrò in Gerusalemme il culto di YHWH, eliminando tutti i templi al di fuori di quella città. La ricostruzione della fonte Elohista è sempre stata difficoltosa a causa della sua frammentarietà; per questo alcuni si sono limitati a definire "jehovistico" lo strato più antico del Pentateuco.
Esempio di traduzione parola per parola del testo biblico: si tratta di Gen 6, 4, di Tradizione Jahvista. In verde il testo in caratteri ebraici, in azzurro il testo traslitterato in caratteri latini, in giallo la traduzione letterale di ogni termine |
Nella Tradizione Sacerdotale si riconoscono molti strati redazionali, alcuni dei quali piuttosto antichi, ma fu fissata nella sua forma definitiva durante l'Esilio a Babilonia, quando la casta sacerdotale dei Leviti fece di tutto per impedire la dissoluzione dell'identità di Israele come Popolo, facendolo stringere intorno alla Legge di Mosè e al suo Dio che aveva detto loro: « Se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa » (Es 19, 5-6) Per questo il Priestercodex riguarda essenzialmente norme liturgiche e rituali, evidenzia la predilezione di Israele da parte di Dio, ha uni stile astratto e ridondante ed è facilmente identificabile nella minuziosa descrizione dell'organizzazione del Santuario, delle prescrizioni rituali e della funzione dei sacerdoti. La si riconosce alla fine del'Esodo, in ampie sezioni dei Numeri ed è predominante nel Levitico. Infine, la Tradizione Deuteronomista è fatta risalire al VII secolo a.C. ad opera dei Leviti fuggiti a Gerusalemme dal Regno del Nord dopo la rovina di Samaria. È predominante nel libro del Deuteronomio, ha intenti didattici riguardanti la Legge, è caratterizzata da uno stile forbito ed oratorio, ed è particolarmente interessata ai numeri, ai censimenti e alle dettagliate cronologie (per questo risulterà particolarmente utile ai fini di questo ipertesto). Secondo alcuni la prima redazione della Fonte Deuteronomista sarebbe da identificare nel rotolo della Legge ritrovato nel Tempio nell'anno diciottesimo del regno di Giosia, che diede il via alla riforma religiosa di questo sovrano di Giuda nel 621 a.C.:
« Il sommo sacerdote Chelkia disse allo scriba Safan: "Ho trovato nel Tempio del Signore il Libro della Legge." [...] Lo scriba Safan annunciò al re: "Il sacerdote Chelkia mi ha dato un libro." Safan lo lesse davanti al re. Udite le parole del Libro della Legge, il re si stracciò le vesti. Il re comandò al sacerdote Chelkia, ad Achikàm figlio di Safan, ad Acbor, figlio di Michea, allo scriba Safan e ad Asaià, ministro del re: "Andate, consultate il Signore per me, per il popolo e per tutto Giuda, riguardo alle parole di questo libro ora trovato; grande infatti è la collera del Signore, che si è accesa contro di noi, perché i nostri padri non hanno ascoltato le parole di questo libro, mettendo in pratica quanto è stato scritto per noi." » (2 Re 22, 8.10-13)
Il grande erudito spagnolo Moshe ben Maimon, noto anche come Mosè Maimònide (1135-1204), una delle più grandi figure dell'ebraismo medioevale, nella sua opera fondamentale "Sefer haMitzvot" ("Libro dei Comandamenti"), enunciò le 613 mitzvòt (ebraico תריג) o "precetti" contenuti nella Torah, cui ogni Ebreo osservante è tenuto ad obbedire. Siccome questo nostro lavoro è dedicato alla Matematica, non possiamo fare a meno di precisare che di essi 248 sono mitzvòt aseh (מצות עשה), cioè comandamenti positivi o obblighi (ad es. l'obbligo della circoncisione di tutti i maschi), mentre 365 sono mitzvòt lo taaseh (מצות לא תעשה), cioè comandamenti negativi o divieti (ad es. il divieto di mangiare carne di animali impuri). Secondo la Tradizione Rabbinica, 248 sarebbe il numero delle ossa del corpo umano, mentre 365, oltre al numero dei giorni dell'anno solare, sarebbe anche il numero dei legamenti che collegano tra loro le ossa del nostro corpo. Secondo Mosè Maimonide, quindi, con le nostre 248 singole ossa dobbiamo compiere le 248 azioni prescritte, e ogni giorno dell'anno dobbiamo impegnarci a non violare i 365 precetti negativi (anche se in pratica non tutti questi precetti sono attuabili, dal momento che alcuni di essi richiedono l'esistenza del Tempio di Gerusalemme).
Gli otto libri successivi della Bibbia ebraica sono i Nevi'im ("Profeti"), distinti a loro volta in:
a) Nevi'im Rishonim ("Profeti
anteriori"):
6) Y'hoshua (il Libro di Giosuè)
7) Shoftim (il Libro dei Giudici)
8) Sh'muel (il Primo e il Secondo Libro di Samuele)
9) M'lakhim (il Primo e il Secondo Libro dei Re)
b) Nevi'im Aharonim ("Profeti
posteriori"):
10) Isaiah (il Libro di Isaia)
11) Yirmĭyahu (il Libro di Geremia)
12) Yehzqè'l (il Libro di Ezechiele)
13) Trei Asar ("i Profeti minori").
Comprende i libri di Hošeah (Osea), Joel (Gioele),
Amos, Obadiah (Abdia),
Jonah (Giona), Micà (Michea),
Nahum, Havaqquq (Abacuc),
Tsefanjà (Sofonia), Haggai (Aggeo),
Zekharya (Zaccaria) e Malachì (Malachia).
Si noti che quelli che per noi sono "Libri Storici" (Giosuè, Giudici, I e II Samuele, I e II Re), secondo la tradizione d'Israele sono annoverati tra i libri profetici, perchè anch'essi annunciano la venuta del Messia. Inoltre in essi appaiono molti profeti da noi definiti "non scrittori" (a differenza dei "Profeti posteriori") perchè non ci hanno lasciato libri composti di loro pugno: tra questi Debora, Samuele, Natan, Elia ed Eliseo. La Bibbia cristiana contiene sedici libri profetici, quella ebraica solo otto, perchè Daniele è annoverato tra gli Scritti, e quelli che noi chiamiamo i dodici "Profeti minori" sono raggruppati in un unico testo.
Gli ultimi undici libri della Bibbia ebraica sono invece i Ketuvim ("Scritti"), corrispondenti ai nostri Libri Sapienziali:
14) Tehillim ("Lodi",
il Libro dei Salmi)
15) Mishlei (il Libro dei Proverbi)
16) Iyyov (il Libro di Giobbe)
17) Shir ha-Shirim (il Cantico dei Cantici)
18) Shavuot (il Libro di Rut)
19) Eikhah (il Libro delle Lamentazioni)
20) Qohelet (il Libro dell'Ecclesiaste)
21) Esther (il Libro di Ester)
22) Daniyyel (il Libro di Daniele)
23) Ezra v'Nechemia (il Libro di Esdra e il Libro di
Neemia)
24) Divrei Hayamim ("le cose dei giorni",
il primo e il secondo Libro delle Cronache)
Si osservi che noi annoveriamo i libri di Rut, Esdra, Neemia, Ester e i due libri delle Cronache tra i Libri Storici, e il libro di Daniele tra i Profeti Maggiori; a proposito di quest'ultimo, si veda quest'altro mio ipertesto. Il Cantico dei Cantici, Rut, le Lamentazioni (attribuite a Geremia dalla tradizione posteriore), il Qoelet ed Ester sono le cinque megilloth, testi che vengono letti a scopo liturgico durante particolari festività ebraiche:
a) il Cantico dei Cantici viene letto in
sinagoga l'ottavo giorno della festa di Pesach e,
in alcune comunità sefardite, tutti i venerdì sera;
b) il Libro di Rut viene letto e commentato nella festa di Shavuot, cinquanta giorni dopo Pesach,
compleanno di Re Davide (che da Rut discende), anche perchè il contesto temporale
del racconto è quello della raccolta dei cereali, all'inizio dell’estate;
c) il Libro delle Lamentazioni è letto il nono giorno del
mese di Av (Tisha BeAv), giorno n cui si ricorda la distruzione del
Tempio di Gerusalemme con un digiuno di ventiquattr'ore;
d) il Libro del Qoelet è letto nella festa di Succot o
delle Capanne, in ricordo del periodo trascorso da Israele nel deserto
dopo l'Esodo dall'Egitto;
e) infine, il Libro di Ester viene letto in occasione della
festività di Purim ("le Sorti"), che cade il 14 di
Adar, la cui istituzione è narrata prprio in Ester 9, 19. Il digiuno del giorno
precedente ricorda quello analogo fatto da Ester e Mardocheo quando il perfido
Aman, consigliere di Re Assuero, tramò per sterminare tutti gli ebrei, come un
Adolf Hitler ante litteram. Siccome Aman aveva gettato le sorti per determinare
la data in cui dare avvio a quella Shoah dell'Evo Antico, la festa fu chiamata
Purim.
Rotolo di Ester (una delle Megillot) del XVIII secolo, scritto su tre membrane di pergamena cucite assieme con trenta miniature, oggi al Museo di Arte Ebraica Italiana U.Nahon di Gerusalemme (da questo sito) |
Nella Bibbia cattolica invece i Libri Storici comprendono dodici libri che abbracciano un lunghissimo periodo della storia del Popolo Eletto, dall'occupazione della Terra di Canaan intorno al 1200 a.C. fino alla rivolta dei Maccabei che si colloca tra il 175 e il 134 a.C. I libri di Giosuè, dei Giudici, di Samuele e dei Re sono ricondotti dall'esegesi moderna all'Autore Deuteronomista, termine che indica non una persona fisica ma un'ampia scuola storiografica influenzata dal Deuteronomio e dalla sua dottrina. Questa scuola affonda le sue radici in tradizioni orali e documenti scritti che differiscono tra di loro per antichità e per motivazioni; ogni libro conserva traccia di diverse edizioni, una delle quali risale al regno del già citato Giosia, e la seconda durante l'esilio a Babilonia. L'autore Deuteronomista cerca di interpretare in chiave teologica la drammatica storia del popolo ebraico, con il tragico epilogo della distruzione del Tempio e della fine della dinastia davidica: secondo l'Autore, tale crollo non fu dovuto alla incapacità da parte di YHWH di difendere il Suo popolo, ma anzi proprio dalla Sua potenza, giacché Egli ha ammonito per secoli gli Ebrei esortandoli alla conversione attraverso la predicazione dei Profeti. Proprio il mancato accoglimento di questo appello provocò la punizione divina, come leggiamo ad esempio in questo passo:
« Geroboamo non abbandonò la sua via cattiva. Egli continuò a prendere da tutto il popolo i sacerdoti delle alture e a chiunque lo desiderava conferiva l'incarico e quegli diveniva sacerdote delle alture. Tale condotta costituì, per la casa di Geroboamo, il peccato che ne provocò la distruzione e lo sterminio dalla faccia della terra. » (1 Re 13, 33-34)
Geroboamo è il primo Re del Regno Settentrionale d'Israele, eppure già i suoi peccati prefigurano la rovina dello stato avvenuta due secoli dopo, nel 722 a.C., ad opera degli Assiri! Questa non è dunque storiografia nel senso moderno del termine, ma è storiografia rivisitata dalla fede sulla base della cosiddetta "teoria della retribuzione": Iddio castiga severamente i peccati degli uomini, e dunque i guai subiti dal Popolo Eletto sono conseguenza diretta della sua infedeltà alla Legge di Mosè. Lo sfondo della riflessione dell'Autore Deuteronomista è costituito dalla tragedia dell'esilio, ed è per questo che si colloca la redazione finale del Corpus Deuteronomista durante l'Esilio a Babilonia. All'interno di tale lunga opera storiografica è però possibile riconoscere dei sostrati più antichi. Ad esempio, il Libro di Giosuè presenta la conquista dell'intera Terra Promessa attraverso le spietate campagne militari di un unico condottiero, Giosuè appunto, e la suddivisione di tutta la Terra di Canaan tra le Dodici Tribù; invece Giudici 1, 1 - 2, 5 presenta una narrazione ben diversa e sicuramente più antica, verosimilmente di Tradizione Jahvista, secondo la quale la conquista è avvenuta gradualmente, attraverso l'insediamento di singole tribù in territori pianeggianti e pressoché spopolati, mentre le alture restavano saldamente in mano agli indigeni Cananei, che vi avevano edificato imprendibili piazzaforti. Inizialmente questo insediamento avvenne pacificamente da parte di comunità nomadi o seminomadi provenienti dal deserto, e in caso di scontri armati i Cananei avevano la meglio perchè superiori sul piano tecnologico (possedevano già la metallurgia del ferro). Lo testimonia ad esempio questo passo:
« Manasse non scacciò gli abitanti di Bet-Sean e delle sue dipendenze, né quelli di Taanac e delle sue dipendenze, né quelli di Dor e delle sue dipendenze, né quelli d'Ibleàm e delle sue dipendenze, né quelli di Meghiddo e delle sue dipendenze; i Cananei continuarono ad abitare in quella regione. » (Gdc 1, 27)
Invece, Gdc 2, 6 dice: « Quando Giosuè ebbe congedato il popolo, gli Israeliti se ne andarono, ciascuno nella sua eredità, a prendere in possesso la terra... » Si tratta della continuazione diretta del racconto del Libro di Giosuè, e mostra una Terra Promessa già completamente conquistata, come se l'introduzione Jahvista al Libro dei Giudici non fosse presente. Il confronto con i vari fenomeni di sedentarizzazione nel Vicino Oriente rende ben più verosimile la versione più antica dell'insediamento graduale, ma il Deuteronomista ci tiene a sottolineare la condotta di Giosuè che, seguendo alla lettera gli insediamenti di Mosè, fu premiato dal Signore con una serie impressionante di vittorie, in stridente contrasto con i Re di Giuda e d'Israele, i quali, tollerando o addirittura praticando l'idolatria, si attirarono addosso la collera divina, fino all'irreversibile disastro dell'invasione babilonese. La redazione Deuteronomista inoltre insiste sulla netta separazione tra Israeliti e Cananei, segnata dai massacri delle popolazioni con cui gli Ebrei non doveva stabilire alcun contatto, per timore di contaminare la purezza del culto di YHWH: massacri che hanno scandalizzato i lettori di ogni tempo. Che questi massacri non siano mai avvenuti lo dimostra la presenza di una numerosa popolazione cananea durante tutta la prima metà del primo millennio avanti Cristo. In realtà si tratta di una problematica fortemente sentita nel periodo dell'esilio e dell'immediato post-esilio, quando il popolo ebraico intendeva distinguersi dagli alti popoli attraverso la sua originalità religiosa, senza rischiare di essere assorbita nel contatto con altre culture. Anche nel Libro dei Giudici la tentazione del Redattore Deuteronomista è quella di presentare l'attività dei maggiori Giudici estesa alla totalità della nazione ebraica, ma di fatto ciascuno di essi opera soltanto in regioni geograficamente limitate, come dimostra il caso di Sansone, che è presentato come "Giudice d'Israele", ma di fatto opera solo nella regione di confine tra le città-stato filistee e la tribù di Dan, o dell'incauto Iefte, la cui attività si colloca essenzialmente in Transgiordania.
Del resto, la coesistenza di brani di epoca molto diversa all'interno dei Libri Storici lo dimostra proprio il Libro dei Giudici, che nel capitolo 5 contiene il cosiddetto Cantico di Debora, ritenuto il primo testo dell'Antico Testamento messo per iscritto, insieme al Salmo 104 che quasi certamente è una traduzione ebraica dell'egiziano Inno ad Aton (XIV secolo a.C.). Si pensa che il nucleo centrale del Cantico di Debora risalga addirittura all'epoca stessa della vittoria di Debora e Barak alla guida di una coalizione di sei tribù sulle montagne di Efraim contro le popolazioni cananee guidate dal generale Sisara, verso la metà dl XII secolo a.C. Il testo non presenta tracce di rielaborazioni deuteronomistiche, ed anzi vi sono versetti che non citano proprio il Dio d'Israele e presentano invece chiari connotati pagani, come l'intervento in guerra degli astri e dei fiumi a fianco degli Ebrei:
« Dal cielo le stelle diedero battaglia, dalle loro orbite combatterono contro Sìsara. Il torrente Kison li travolse; torrente impetuoso fu il torrente Kison. Anima mia, marcia con forza! » (Gdc 5, 20-21)
La profetessa Debora, incisione di Gustave Dorè
Quanto ai Libri di Samuele, essi originariamente costituivano un'opera unica, suddivisa in due a partire dalla Settanta, e la stessa cosa vale per i due Libri dei Re; in effetti, tutti e quattro questi libri rappresentano un'opera storiografica unica. La suddivisione appare arbitraria, perchè solo il Primo Libro di Samuele si chiude con la morte di Saul e di suo figlio Gionata nella battaglia di Gelboe. Logicamente, il Secondo Libro di Samuele dovrebbe chiudersi con la morte di Davide e la sua successione al trono, ed invece si conclude con il censimento di Israele e la conseguente pestilenza inviata da Dio. La fine di Davide è contenuta solo nel secondo capitolo del Primo Libro dei Re. Quest'ultimo si chiude con la morte di re Acab in battaglia e la conseguente ascesa al trono di suo figlio Acazia, ma il primo capitolo del Secondo Libro dei Re si apre a sua volta con lo scontro tra lo stesso Acazia e il profeta Elia, che gli profetizza la morte per aver consultato il dio pagano Baal-Zebub anzichè il vero Dio d'Israele: vi è dunque una continuità ininterrotta anche fra questi due volumi. In particolare, la successione al trono di Davide (2 Sam 9-20 e 1 Re 1-2) è considerata il primo vero esempio di storiografia come oggi la intendiamo, secoli prima di Tucidide e di Polibio: infatti è opera di un ottimo narratore che vede la storia come una serie di avvenimenti legati tra loro da rapporti di causa ed effetto, dominati dalla teoria della retribuzione. Si pensa che quest'opera sia già stata messa per iscritto già durante lo stesso regno di Salomone, il quale aveva la preoccupazione di presentare se stesso come legittimo erede del padre, nonostante la presenza di figli più anziani e più forti in battaglia di lui, come Assalonne ed Adonia. I Libri dei Re possiedono una forte unità interiore ed esprimono giudizi molto pesanti contro i Re di Giuda e d'Israele, che vengono costantemente confrontati con Re Giosia e con la sua riforma religiosa. In particolare motivo di lode è l'aver soppresso i santuari cananei o sincretisti a favore dell'unico culto nel Tempio di Gerusalemme. In questo orizzonte l'autore Deuteronomista condanna tutti i re d'Israele senza eccezioni, avendo eretto i santuari sincretistici di Dan e Betel , mentre dei re di Giuda solo otto vengono lodati, con l'annotazione che però « le alture non scomparvero », intendendo i santuari pagani posti nei luoghi sopraelevati. Alcune fonti dei Libri dei Re sono esplicitamente nominate: il Libro delle Gesta di Re Salomone (1 Re 11, 41), il Libro delle Cronache dei Re di Giuda (1 Re 14, 29 e altre 14 volte) e il Libro delle Cronache dei Re d'Israele (1 Re 14, 19 e altre 16 volte): si tratta probabilmente degli Annali di corte dei singoli Re. Uno dei problemi principali offerti dall'esegesi di questi testi è la cronologia, dal momento che i diversi studiosi sono giunti a risultati molto diversi tra di loro. La difficoltà nasce dal fatto che la cronologia dei Re d'Israele viene calcolata in base a quella dei Re dei Re di Giuda, e viceversa, senza precisare alcuna data precisa, se si fa eccezione per alcune corrispondenze con gli annali assiri e con alcuni fortunati ritrovamenti archeologici, come quelli effettuati nel 1910 a Samaria da George Andrew Reisner (1867-1942), che riguardano il regno di Geroboamo II. Al problema delle cronologie bibliche dedicheremo uno dei capitoli di questo ipertesto.
Nell'Antico Testamento però si ritrova un secondo gruppo di libri storici, i Libri delle Cronache, anch'essi in origine due sezioni di una singola opera, che probabilmente comprendeva anche i Libri di Esdra e Neemia, per via dello stile simile e di alcune ripetizioni. L'autore dei Libri delle Cronache viene definito il Cronista, ma anche in questo caso si pensa ad una scuola teologica esistita in un periodo assai più tardo di quello della scuola Deuteronomistica, all'inizio dell'era ellenistica, verso il 350-300 a.C. Israele non esiste più come nazione autonoma, è parte prima dell'Impero Persiano, poi di quello di Alessandro Magno e infine dei regni dei Diadochi (i Tolomei d'Egitto fino al 198 a.C., poi i Seleucidi di Siria). A contatto con la cultura ellenistica ormai preponderante, solo l'adesione alla fede in YHWH può tenere unita la nazione giudaica, e l'opera del Cronista punta proprio ad una rivisitazione in chiave religiosa della tormentata storia di Israele. Il titolo greco dell'opera secondo i Settanta è "i Paralipomeni", cioè "le cose tralasciate", lasciando intendere che questi libri dovrebbero contenere il materiale omesso dai Libri del Re, a completamento del corpus Deuteronomistico; invece, è facile rendersi conto che si tratta di un'opera parallela, che in parte attinge alle stesse fonti dei Libri precedenti: in 1 Cr 9, 1 sono citati i Libri dei Re di Giuda e in 2 Cr 33, 18 gli Atti dei Re d'Israele. I primi nove capitoli contengono vaste genealogie, con notizie inedite rispetto al Pentateuco, che fanno risalire la storia sacra fino ad Adamo e ai patriarchi antidiluviani. In seguito (1 Cr 10-29) è narrata la vita di Davide, omettendo il peccato con Betsabea e le guerre che travagliarono la parte finale del suo regno, perchè ciò che interessa al Cronista sono solo i preparativi per la costruzione del Tempio. Seguono il regno di Salomone (2 Cr 1-9), esaltato come il costruttore del Tempio, e poi (2 Cr 10-36) la vicenda dei soli Re di Giuda. Per il Cronista il centro la storia d'Israele ruota intorno al Tempio, massima istituzione sacrale del Popolo Eletto, e dunque la storia antecedente a quella di Davide e le vicende del Regno Settentrionale semplicemente non gli interessano. I protagonisti sono Davide, Salomone e i oro epigoni Giosafat, Ezechia e Giosia, autori di importantissime riforme religiose; si può parlare di vera e propria agiografia, dato che vengono messi in ombra tutti gli aspetti negativi di questi re, a partire dai peccati di Davide e dall'idolatria di Salomone. Per questi motivi, a lungo il Cronista fu considerato un teologo, non uno storico, e la sua opera fu posta in secondo piano rispetto a quella del Deuteronomista, ma in tempi recenti è stata rivalutata: ad esempio i dati cronologici sulla riforma di Giosia (2 Cr 34, 3-7) sono più precisi di quelli di 2 Re 22-23; inoltre oggi si considera l'opera del Cronista come un'interpretazione ampia e originale della storia del Popolo Eletto. Del tutto nuovo è poi il racconto delle vicende di Esdra e Neemia, che accompagnano il difficile ritorno di Israele nella sua patria e la ricostruzione non solo del Tempio, ma dell'identità nazionale. Mentre il Deuteronomista parte dalla storia e trova in essa i motivi della sua predicazione, il Cronista muove innanzitutto dalla sua prospettiva religiosa e adatta spesso la storia alla sua predicazione.
Un terzo livello di storiografia nell'Antico Testamento è rappresentato dai due Libri dei Maccabei. A differenza delle coppie di libri precedentemente analizzate (Samuele, Re e Cronache), in questo caso ci troviamo di fronte due opere nettamente separate e di autori diversi. Di essi non possediamo un originale ebraico, e per questo Ebrei e Protestanti non li considerano divinamente ispirati. Il Primo Libro tratta la ribellione dei Giudei contro il tentativo di ellenizzazione forzata voluto dal re di Siria Antioco IV Epifane (sul trono dal 175 al 164 a.C.), guidata dal sacerdote Mattatia e dai suoi figli, i fratelli Maccabei (dall'ebraico "martello"), Giuda, Gionata e Simone. La versione dei Settanta giunta fino a noi è la traduzione di un originale ebraico andato perduto, opera di un Giudeo vissuto all'epoca degli Asmonei, i sovrani succeduti ai Maccabei, quindi intorno al 100 a.C. Tale autore ha finalità patriottiche e si è servito di documenti preesistenti, parafrasandoli e riassumendoli, e dunque alla sua opera si può senz'altro riconoscere validità dal punto di vista storiografico. Invece il Secondo Libro è presentato dal suo autore come il riassunto di un'opera in cinque libri di un certo Giasone di Cirene, autore del quale al di fuori della Bibbia non si sa nulla. Non rappresenta la continuazione del primo, ma racconta di nuovo la sollevazione giudaica dalla morte di Seleuco IV, predecessore di Antioco IV, fino alla sconfitta di Nicanore prima della morte di Giuda Maccabeo (in pratica, gli eventi di 1 Mac 1-7). Come il Cronista, anche l'autore di 2 Mac nutre un vivo interesse per il Tempio, che è al centro di tutto il racconto: minacciato, profanato, riconquistato e riconsacrato. L'autore scrive in ottimo greco e compone un'opera stilisticamente perfetta con tanto di prologo e di epilogo; mostra un interesse maggiore per narrazioni epiche, come quella del castigo di Eliodoro (2 Mac 3, 24-30), e per le vicende edificanti, come quella del martirio del vecchio Eleazaro (2 Mac 6, 18-31) e dei sette fratelli con la loro madre (2 Mac 7, 1-41). Il Libro inoltre contiene importantissime affermazioni circa l'aldilà (2 Mac 6, 46), la resurrezione dei morti (2 Mac 7, 11 e 14, 46), le preghiere per i defunti (2 Mac 12, 41-46) e l'intercessione dei santi (2 Mac 15, 12-16); nel complesso, il suo Autore sembra più un teologo che uno storico. A chi vuole saperne di più, consiglio di visitare questo mio ipertesto dedicato interamente ai Libri Storici della Bibbia.
F. Monzio Compagnoni, Giuda
Maccabeo, da
"La Bibbia per la Famiglia", edizioni San Paolo
Tra quelli che noi chiamiamo i Libri Sapienziali, molti sono "pseudoepigrafici", cioè sono attribuiti in modo fittizio ad un grande personaggio biblico per rafforzarne l'autorità, esattamente come gli "Inni Omerici" furono attribuiti all'autore dell'Iliade e dell'Odissea per accrescerne il prestigio, anche se sono stati composti in un lungo arco di tempo che va dal VII secolo a.C. fino all'età ellenistica. Così, il Libro dei Proverbi nell'antichità attribuito in blocco a Re Salomone; se è vero che alcuni di essi risalgono al X secolo a.C., la redazione finale dell'opera avvenne nel V secolo a.C. Idem dicasi per la Sapienza di Salomone, in realtà composto in una data compresa fra il 200 a.C. e l'epoca di Cristo (San Girolamo lo attribuiva all'erudito ebreo Filone di Alessandria, vissuto tra il 20 a.C. e il 45 d.C.). Anche il Libro del Qoelet o Ecclesiaste rivendica di essere stato scritto dall'antico sovrano dalla sapienza leggendaria, ma non può essere stato scritto prima del IV secolo a.C.
Vale inoltre la pena di ricordare che i Salmi sono una raccolta di 150 composizioni poetiche di vario genere, chiamati in ebraico "Tehillim", parola che contiene la radice "Hallel", "Lode", da cui il termine "alleluia" ("lodate YHWH"). Secondo la tradizione, la maggior parte di essi è stata composta da Davide o da Salomone, ma la stesura finale del testo risale all'esilio babilonese. I Salmi non hanno la stessa numerazione in ebraico e nelle versioni greche e latine. In queste ultime, infatti, il Salmo 9 e il Salmo 10 formano un unico salmo, e così pure il Salmo 114 e il Salmo 115, mentre nel testo ebraico i Salmi 116 e 147 sono divisi in due. La salmodia ebraica risale addirittura all'epoca mosaica, come testimonia il Cantico di Miriam di Esodo 15, 21, un altro dei testi più antichi dell'intera Bibbia (« Cantate al Signore, perché ha mirabilmente trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare! »); tuttavia, essa fiorì nella liturgia prima della tenda e poi del Tempio. Come ha scritto Alfons Deissler, « in molti modi l'Eterno ha incontrato Israele, come Colui che si dona, ma anche come Colui che si sottrae, ed è qui la sorgente di ogni discorso rivolto a Dio, ora lode, ora lamento, ora invocazione ». I Salmi possono essere distinti in varie sezioni. Gli inni celebrano la potenza di Dio nella Storia della Salvezza: tale è il salmo 136, chiamato anche "il grande Hallel". I Salmi di lamentazione (come il celebre Salmo 22) rappresentano la maggior parte dei Salmi e si articolano in formulazioni standardizzate per occasioni dolorose, da una malattia fino alla minaccia da parte dei nemici. I Salmi di ringraziamento (come il Salmo 138) sono stati probabilmente scritti per occasioni liturgiche nei luoghi di culto. I Salmi profetici (come il Salmo 2) vengono interpretati come rielaborazione poetica degli oracoli dei Profeti. I Salmi alfabetici infine sono quelli i cui versetti cominciano con le successive lettere dell'alfabeto ebraico: tale è il Salmo 119, il più lungo del Salterio. Il cosiddetto Salmo 151 si trova solo in alcune versioni della Settanta ed è considerato ispirato solo dalle Chiese Ortodosse; tra i manoscritti di Qumran tuttavia sono stati trovati due brevi salmi ebraici che sembrano alla base del Salmo 151 (« Piccolo ero di tra i miei fratelli, insignificante di tra i figli di mio padre. Mi ha posto Pastore del Suo Gregge, e capo in mezzo ai suoi Piccoli »).
Una menzione particolare merita il Libro di Giobbe, grande opera poetica annoverata tra i capolavori della letteratura universale. Come ha scritto un commentatore, « Giobbe è assieme l'uomo che si interroga sull'enigma dell'esistenza e la comunità israelitica che riflette, si macera e infine si apre a una nuova forma di rapporto con il proprio Dio, è l'uomo lacerato e tempestato dal dubbio che, come in ogni tempo, impreca contro un dolore incomprensibile, e il credente messo alla prova che si abbandona infine al mistero del volto di Dio ». Giobbe non è un ebreo: vive nel paese di Uz, il cui nome proviene da una tribù aramea citata in Genesi 10, 23; in Ezechiele 14, 14 il suo nome è accostato a quello di altri due giusti non Ebrei, Noè e Daniele. Ciò che lo ha reso così popolare presso gli uomini di ogni tempo è il fatto che egli soffre ingiustamente: gli muoiono sette figli e tre figlie, perde ogni avere ed è colpito da una piaga fastidiosissima. In un mondo dominato dalla "teoria della retribuzione", le sventure di Giobbe non possono che essere percepite come punizione di qualche grave peccato, e infatti tre "amici" (Elifaz, Bildad, e Zofar) vanno a trovarlo per convincerlo della sua colpevolezza, ma il protagonista sa in cuor suo di essere innocente e si ribella contro quella che ritiene un'ingiusta persecuzione. All'apice del contraddittorio, dopo che ogni argomentazione umana si è mostrata insufficiente e resta in piedi il disperato dolore di Giobbe, lo stesso Iddio interviene rivendicando la trascendenza della Sua Persona, l'assoluta libertà del Suo operato e la Sua potente opera creatrice, rispetto alla quale l'uomo è solo un granello di polvere. A Giobbe non resta che chinare il capo di fronte a Lui: « Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi Ti hanno veduto » (Gb 42, 5) Alla fine, Dio biasima i tre "amici" e reintegra Giobbe nelle sue fortune. Il luogo comune che vede Giobbe simbolo della pazienza è però da accantonare: quello di Giobbe è un tormento esistenziale irriducibile ad ogni categoria di rassegnazione, che ruota intorno allo scandalo del dolore innocente. Come ha scritto Gerhard Von Rad (1901-1971), il fallimento delle teorie della sapienza umana lascia il passo a quello che resta in ogni tempo il desiderio di un incontro faccia a faccia con il Signore. E come ha intuito Carl Gustav Jung (1875-1961) nella sua "Antwort auf Hiob" ("Risposta a Giobbe", 1952), il grido ultimo del libro resta senza risposta; solo un altro grido, quello di Dio fatto uomo in Gesù Cristo, potrà dar risposta al grido di Giobbe.
E ora, qualche parola sul Nuovo Testamento, la raccolta dei 27 libri canonici che per i cristiani costituiscono la seconda parte della Rivelazione, e che vennero scritti in seguito alla alla predicazione di Gesù di Nazaret. Quest'ultimo non ha lasciato alcun testo scritto, ma le Sue parole sono state tramandate e riferite con grande precisione dai testimoni oculari, tanto che alcuni decenni dopo la Sua morte il discepolo da Lui prediletto potrà scrivere nel suo Vangelo: « Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. » (Gv 14, 25-26) Gran parte dell'esegesi del Novecento ruota attorno ad una presunta "primitiva comunità cristiana" che avrebbe rielaborato il materiale dell'originaria predicazione dei discepoli, "riscrivendo" ex novo le Parole del Maestro secondo le sue esigenze catechetiche; ma i versetti di Giovanni sopra riportati spazzano via ogni ipotesi circa l'incolmabile distanza tra l'oscuro Gesù della storia e lo sfolgorante Cristo annunciato dai Vangeli. Le parole di Gesù che leggiamo nel Nuovo Testamento sono in effetti quasi le stesse parole che Gesù ha pronunciato, proprio perchè esse erano considerate così sacre che nessuno dei primi discepoli si sarebbe sognato di rielaborarle, o addirittura di inventarle di sana pianta, come sostiene invece buona parte dell'esegesi moderna. Del resto, lo stesso Gesù aveva dato il buon esempio: « In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. » (Mt 5, 18) Dopotutto il primo manoscritto contenente un'opera di Euripide risale al X secolo, quindi quasi 1500 anni dopo la morte del suo autore, eppure nessuno si sogna di dire che le opere di Euripide sono apocrife ed opera di autori romani o bizantini. Il primo frammento del Vangelo di Giovanni a noi pervenuto risale invece al 120 d.C., quindi appena 90 anni dopo la morte in croce di Gesù, ed è quasi certo che un frammento del Vangelo di Marco (il celebre frammento 7Q5) sia stato ritrovato a Qunran, in una grotta nella quale nessun manoscritto è posteriore al 70 d.C.: meno di quarant'anni dopo la morte del Maestro.
La più antica lista dei libri del Nuovo Testamento a noi pervenuta è il cosiddetto Canone Muratoriano, scoperto nel 1740 dall'erudito Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) in un manoscritto dell'VIII secolo scritto probabilmente a Bobbio e appartenente alla Biblioteca Ambrosiana. Siccome l'autore anonimo si riferisce al pontificato di papa Pio I (142 - 157) come ad un evento recente, probabilmente si tratta della traduzione dal greco di un originale datato circa al 175 d.C. L'autore accetta quattro vangeli: di due è detto il nome (Luca e Giovanni), degli altri due invece non è più leggibile l'autore. Vengono accettati pure gli Atti degli apostoli e tredici delle lettere di Paolo, ma non la Lettera agli Ebrei, la lettera di Giuda e due delle lettere di Giovanni, oltre al Libro della Sapienza di Salomone, che oggi fa parte del canone dell'Antico Testamento per cattolici e ortodossi. Infine, il testo accetta pure l'Apocalisse di Giovanni e l'Apocalisse di Pietro, ma non il Pastore di Erma. Vediamo alcuni di questi libri nel dettaglio.
L'incipit del Vangelo secondo Giovanni nel cosiddetto Vangelo di San Cuberto, risalente al VII secolo e oggi alla British Library di Londra (da questo sito) |
È vero che i testi dei Vangeli a noi pervenuti sono scritti in greco, ma rivelano tutti un evidente sostrato semitico. I più semitici di tutti sono proprio i Vangeli di Marco e di Matteo, che secondo l'esegesi oggi imperante sarebbero posteriori all'80 d.C. Se fosse così, le profezie sulla Distruzione del Tempio in esse contenute sarebbero eventi post factum, e gran parte di quella che i cristiani ritengono "Parola di Dio" sarebbe in realtà attività redazionale da parte di discepoli che non avevano mai conosciuto il Maestro, ma cercavano di ricostruire le Sue parole. Questa concezione riflette la concezione razionalistica della nostra epoca, che vorrebbe ridurre Gesù Cristo ad un mero maestro di morale, come Buddha e Confucio, "epurando" gli scritti neotestamentari non solo da tutti i racconti dei miracoli (uno dei più noti biblisti contemporanei si è spinto ad affermare che Gesù avrebbe solo guarito Lazzaro da una malattia, senza risuscitarlo) ma anche da tutte le parole escatologiche riguardanti l'aldilà, la vita eterna, il Paradiso, l'Inferno, la risurrezione dei morti: tutte cose che sono ritenute indegne di una "fede adulta", propria degli uomini ipertecnologizzati del Terzo Millennio, è che è meglio attribuire alla fervida fantasia di discepoli sognatori. Lasciando da parte questo atteggiamento illuministico, è possibile che Marco e Matteo siano stati scritti originariamente in ebraico o in aramaico, e poi tradotti in greco per permetterne una più ampia diffusione; l'antichità del testo di Marco è comunque attestata dal fatto che quasi certamente l'autore inserì se stesso tra i personaggi presenti al momento dell'arresto di Gesù nel Getsemani: « Lo seguiva un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo » (Mc 14, 51-52). Invece il Vangelo di Luca e quello di Giovanni sarebbero stati scritti direttamente in greco, ma utilizzando materiale preesistente aramaico. Matteo, Marco e Luca sono detti i Vangeli Sinottici (in greco "che guardano insieme") per gli evidenti parallelismi tra di essi, che permette di leggerli su tre colonne affiancate, mentre Giovanni attinge a fonti diverse ed ha differenti intenti pastorali. Il Vangelo di Marco è incompleto: il testo dell'autore, che scrisse probabilmente sotto dettatura di San Pietro, si interrompe al versetto 8 del capitolo 16; per colmare la lacuna fu in seguito inserita la cosiddetta "Aggiunta Canonica" (Mc 16, 9-20), opera di un autore che si considera comunque ispirato dallo Spirito, e che conosce i testi di Matteo e di Luca. Il Vangelo di Luca riflette invece la predicazione di San Paolo. Chi vuole saperne di più, consulti quest'altro mio ipertesto.
Luca scrisse anche gli Atti degli Apostoli, in cui narra la storia delle prime comunità cristiane sotto la guida di Giacomo, Pietro e Paolo. A motivo dello stile e dei contenuti, il Vangelo di Luca e gli Atti degli Apostoli formano un'unica opera, divisa in due parti. Opera di San Paolo, l'Apostolo delle Genti, sono invece le Lettere, inviate a varie comunità in risposta alle loro esigenze o a singoli individui, come il Vescovo di Efeso Timoteo, suo figlio spirituale. L'esegesi del Novecento tendeva a ritenere autentiche, ossia scritte da Paolo di Tarso di suo pugno o sotto dettatura a degli scrivani (come Terzo, colui che scrisse materialmente la Lettera ai Romani), solo la Lettera ai Romani, la Prima e la Seconda lettera ai Corinzi, la Lettera ai Galati, la Lettera ai Filippesi e la Prima lettera ai Tessalonicesi; invece la Lettera agli Efesini, la Lettera ai Colossesi, la Seconda lettera ai Tessalonicesi e le cosiddette Lettere Pastorali (la Prima e la Seconda lettera a Timoteo, la Lettera a Tito e la Lettera a Filemone) sarebbero state attribuite a Paolo, ma in realtà scritte dopo la sua morte. Oggi però queste sette lettere vengono invece considerate "deuteropaoline", cioè scritte da Paolo dopo gli eventi narrati negli Atti degli Apostoli, durante la prigionia al termine della quale venne decapitato. Nella Lettera ai Colossesi inoltre si cita una quattordicesima lettera, quella ai Laodicesi: « E quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che venga letta anche nella Chiesa dei Laodicesi e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi. » (Col 4, 16) In effetti in alcuni codici della Vulgata latina, come nel Codex Fuldensis del VI secolo, si trova un testo greco molto breve di appena 20 versetti, presentato come la Lettera ai Laodicesi, ma in realtà un collage di passi paolini attinti dalle altre lettere canoniche, e va quindi considerato un testo apocrifo. Secondo alcuni la Lettera ai Laodicesi di cui parla Paolo sarebbe quella oggi nota come Lettera agli Efesini, perchè Laodicea si trovava in Frigia vicino a Efeso, ed è quindi possibile che Paolo abbia inviato una lettera destinata a entrambe queste comunità.
Un caso particolare è rappresentato dalla Lettera agli Ebrei, la quale sicuramente non è di Paolo e non è neppure una lettera, ma piuttosto un'omelia rivolta a cristiani di origine ebraica tentati di ritornare alle istituzioni giudaiche. L'ignoto autore conosce molto bene la teologia paolina, le norme sacerdotali ebraiche, le Scritture di Israele e le scuole esegetiche ebraiche; Clemente Alessandrino (150-215) propose di identificare tale autore con l'evangelista Luca, mentre Origene (185-284) suggerì invece il nome di Clemente di Roma, quarto Vescovo di Roma dopo Pietro, Lino e Anacleto. Martin Lutero (1483-1546) pensò che si trattasse di Apollo, giudeo di Alessandria d'Egitto di cui si parla in Atti 18,24, mentre Adolf von Harnack (1851-1930) propose Priscilla, moglie di Aquila citata in Atti 18, 2.18, Romani 16, 3 e 1 Corinzi 16, 19. Papa Clemente I dimostra di conoscere la Lettera agli Ebrei, citandola nella sua Lettera ai Corinzi; siccome la liturgia del Tempio è descritta come ancora in atto, si pensa che essa sia stata composta negli ultimi anni dell'impero di Nerone (morto il 9 giugno del 68 d.C.)
Il Nuovo Testamento comprende anche altre sette lettere, dette Cattoliche perché indirizzate non alla comunità cristiana di una città particolare, ma a tutte le chiese: la Prima e la Seconda Lettera di Pietro, la Lettera di Giacomo, la Lettera di Giuda e le tre Lettere di Giovanni. La Prima Lettera di Pietro indica come autore San Pietro Apostolo, il quale specifica: « Vi ho scritto brevemente per mezzo di Silvano » (5, 12), di solito identificato con Sila, collaboratore di Paolo citato nei capitoli 15, 16, 17 e 18 degli Atti degli Apostoli. La Seconda Lettera di Pietro è considerata da molti pseudoepigrafica, ma essa si presenta come scritta da « Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo », l'autore conosce dettagli sulla vita di Gesù che solo Pietro poteva conoscere, la lettera presuppone la formazione di un corpus di lettere paoline e che Paolo sia ancora vivo; è più semplice dunque ritenerla proprio di Pietro, forse attraverso la redazione di un collaboratore come Sila. La Prima lettera di Giovanni manifesta evidente somiglianze di contenuto, vocabolario e stile con il Vangelo secondo Giovanni, per cui la sua paternità è indiscussa; secondo alcuni esegeti fu scritta come prefazione al detto Vangelo, secondo altri invece è posteriore; siamo comunque nell'ultimo quarto del primo secolo. Il padre subapostolico Policarpo di Smirne (69-155), che di Giovanni fu discepolo, la cita nella sua Lettera ai Filippesi. I destinatari della lettera sono pagani dell'Asia Minore che si sono convertiti al Cristianesimo, e lo scopo dell'autore è quello di richiamare le comunità cristiane all'amore fraterno e di metterle in guardia verso il nascente gnosticismo, che nega l'incarnazione di Gesù Cristo. La pericope « Dio è amore; chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio rimane in lui » (1 Gv 4, 16) ha dato il titolo all'enciclica "Deus Caritas est" di Papa Benedetto XVI. L'autore della Seconda Lettera di Giovanni, di soli 13 versetti, si riferisce a se stesso semplicemente come « il Presbitero »; a partire dal IV secolo si formò la tradizione che la attribuisce a San Giovanni, visto il suo stile e la sua dottrina, ma la paternità è oggetto di controversie, e lo stesso vale per la Terza Lettera di Giovanni, di soli 15 versetti, indirizzata a un certo Gaio, presumibilmente il vescovo di una qualche comunità cristiana: è possibile che entrambe le brevi epistole vengano dalla scuola giovannea che aggiunse al quarto Vangelo il ventunesimo ed ultimo capitolo. La Lettera di Giacomo è stata scritta da un cristiano che si presenta come « servo di Dio e del Signore Gesù Cristo »; di solito si pensa che si tratti dell'Apostolo Giacomo il Minore, "Fratello del Signore" e primo Vescovo di Gerusalemme, morto per lapidazione il 3 maggio del 62 d.C. La Lettera di Giuda è invece attribuita all'Apostolo San Giuda Taddeo (da non confondersi con Giuda Iscariota), fratello di Giacomo il Minore e primo Catholicos di tutti gli Armeni. Origene annovera tra le Lettere Cattoliche anche la Lettera di Barnaba, scritta dall'omonimo collaboratore di Paolo di Tarso e primo Vescovo di Milano, in realtà un trattato teologico posteriore al 70 d.C., perchè fa riferimento ad un tempio distrutto dal nemico; nel IV secolo però essa venne esclusa dal Canone dei libri ispirati. In alcuni codici dei primi secoli è contenuto anche il Pastore di Erma, un trattato di genere apocalittico che godette di un'ampia fortuna tra i cristiani del II secolo, e che prende il nome dal personaggio principale della Quinta Visione, l'Angelo della Penitenza, il quale appare ad Erma nelle vesti di un pastore. Secondo Origene, il Pastore fu composto da Erma, citato da San Paolo nella Lettera ai Romani (« Salutate Asìncrito, Flegonte, Erme, Pàtroba, Erma e i fratelli che sono con loro », Rm 16, 14); il Canone Muratoriano invece afferma che il Pastore di Erma fu composto da Erma, fratello di papa Pio I (140-154). È composto da cinque "Visioni", dodici "Comandamenti" e dieci "Similitudini"; originariamente scritto a Roma in lingua greca alla metà del secondo secolo, fu presto tradotto in latino, ma in seguito escluso dal Canone dei libri ispirati.
Richard Harris interpreta San Giovanni nel film "L'Apocalisse" (2002) di Raffaele Mertes
Infine, il Nuovo Testamento è chiuso dall'Apocalisse di Giovanni, un trattato escatologico complesso e suggestivo, elaborato a Patmos verso il 90 d.C. con temi desunti dall'apocalittica giudaica, originalmente reinterpretati alla luce della fede in Gesù; ad esso ho dedicato un intero ipertesto. Un'altra apocalisse, nota come Apocalisse di Pietro, fu composta in greco attorno al 135 d.C. e attribuita in modo pseudoepigrafico a San Pietro apostolo, che vi narra del suo viaggio in paradiso e all'inferno guidato dal Signore Gesù. Clemente Alessandrino (150-215) alla fine del II secolo la considerava ispirata, e così pure il Canone Muratoriano, ma Eusebio di Cesarea (265-340) la escluse dal Canone. Considerata perduta per secoli, fu riscoperta nel 1887 presso Akhmim in Egitto. Essa non va confusa con un'altra Apocalisse di Pietro, conservatasi in lingua copta e nata in ambiente gnostico.
Dedichiamo alcune righe anche alle fonti documentarie delle edizioni critiche della Bibbia che furono realizzate nei secoli. Sono cinque i manoscritti della Bibbia in greco particolarmente degni di nota, tutti scritti su pergamena:
1) il Codice Alessandrino,
risalente all'inizio del V secolo, contiene quasi l'intera Bibbia: mancano solo alcune porzioni
della Genesi, del Primo Libro dei Re, del Salterio e del Nuovo Testamento (il
Vangelo di Matteo manca quasi per intero). In appendice sono presenti alcuni scritti apostolici.
Scoperto ad Alessandria d'Egitto, da cui il nome, è oggi conservato al
British Museum di
Londra.
2) il Codice Vaticano, costituito da 759 fogli e
trascritto probabilmente in Egitto nel IV secolo, contiene quasi tutta la Bibbia
tranne i due Libri dei Maccabei, che mancano completamente, e varie altre lacune In appendice sono presenti alcuni scritti apostolici. Considerato il più autorevole manoscritto, base per
tutte le moderne edizioni critiche, è oggi conservato nella
Biblioteca Vaticana, da cui
il nome.
3) il Codice di Efrem, così detto perché fu
raschiato nel XII secolo e riutilizzato per trascrivere delle omelie teologo Efrem
il Siro (in termine tecnico si parla di "palinsesto"). Si pensa che risalga al V secolo;
in origine conteneva tutto il testo biblico, ma ne rimangono solo varie porzioni di tutti i libri.
Oggi è conservato alla Bibliothèque
Nationale di Parigi.
4) il Codice Cantabrigense, così chiamato perché
ora è conservato all'Università
di Cambridge. Appartenne al teologo calvinista Teodoro di Beza
(1519-1605), dopo essere stato sottratto a un monastero di Lione dagli Ugonotti. Contiene i Vangeli, gli Atti
e la Terza Lettera di Giovanni sia in greco che in latino, risale al V secolo ed
è stato vergato in Egitto o in Africa del nord.
5) e soprattutto il Codice Sinaitico, risalente alla metà del IV secolo. Fu ritrovato da
Konstantin von Tischendorf (1815-1874) nella biblioteca del
Monastero di Santa Caterina sul monte Sinai tra il 1844 e il 1859, quando fu
venduto allo Zar di Russia; nel 1933 l'Unione Sovietica lo vendette per 100,000
sterline alla British Library,
dove si trova tuttora. Originariamente conteneva l'intero Antico Testamento
nella versione greca della Settanta, l'intero Nuovo Testamento e altri due
scritti cristiani, la Lettera di Barnaba e il Pastore di Erma: nei 346 fogli che compongono il codice risultano mancanti diversi brani più o meno ampi di Genesi, Numeri, 1 Cronache, Esdra
e Lamentazioni, ma il Nuovo Testamento è completo. Secondo alcuni il Codice
Sinaitico è una delle 50 copie della Bibbia commissionate dall'imperatore romano
Costantino a Eusebio di Cesarea dopo il Concilio di Nicea.
Nel 1616 l'orientalista italiano Pietro Della Valle (1586-1652), nel corso di un suo viaggio in Oriente avvenuto tra il 1614 e il 1626, presso la comunità samaritana di Damasco trovò una copia del Pentateuco Samaritano, la traduzione in aramaico della Torah eseguita dai Samaritani per il loro uso liturgico. Da una citazione di San Gerolamo sappiamo dell'esistenza di una versione greca del Pentateuco Samaritano, denominata "Samaritanicon", definita però più fedele al testo dei Settanta che all'originale in aramaico. Il manoscritto più antico e completo del Pentateuco Samaritano risale al 1150 d.C. ed è conservato a Cambridge. In origine si pensava che la sua fedeltà rispetto ad un ipotetico "testo originale" della Torah fosse maggiore di quella del testo masoretico, ma nel 1815 il grande orientalista tedesco Heinrich Friedrich Wilhelm Gesenius (1786-1842) mostrò che un gran numero delle sue varianti erano corruzioni o interpolazioni effettuate su un testo giudaico antecedente. Le differenze tra il testo del Pentateuco Samaritano e il testo masoretico (circa 6.000) stanno nella teologia dei samaritani, per i quali il monte scelto dal Signore è il Garizim e non il monte Sion di Gerusalemme: ad esempio, il Pentateuco Samaritano introduce dopo Esodo 20, 17 una glossa basata su Esodo 27, 2-7 e 11, 30, per affermare il comando divino di costruire un altare sul monte Garizim.
Bisogna aggiungere il fatto che la suddivisione della Bibbia in capitoli e versetti fu adottata per la prima volta dai Masoreti (in ebraico "ba'alei hamasorah"), scribi ebrei che tra il VII e l'XI secolo d.C. si riunirono nella cosiddetta "Scuola di Tiberiade" (dal nome della città che li ospitò) per studiare e sistematizzare la Tanakh, eliminando deformazioni del testo e aggiunte inserite dai vari copisti nel corso dei secoli; inoltre, siccome (come si è già detto sopra) inizialmente il testo ebraico della Tanakh era scritto con le sole consonanti, dato che le vocali venivano lette ma non trascritte, essi aggiunsero i simboli vocalici e diacritici, oggi indispensabili per una corretta lettura ed interpretazione del testo. Il termine ebraico "masorah", oggi reso con "Tradizione", significava in origine "catena", e lo si ritrova per la prima volta in questo passo biblico: « Vi farò passare sotto il mio bastone e vi condurrò sotto il vincolo dell'Alleanza » (Ezechiele 20, 37): la Tradizione infatti ci "vincola" al significato originario della Tanakh, escludendo interpretazioni posteriori ed inesatte. Il più antico testo masoretico oggi conosciuto è il cosiddetto Codice di Aleppo, opera dello scriba Aaron ben Moses ben Asher (morto nel 960 d.C.); oggi ne restano 295 fogli su un totale originario di 480. Il testo masoretico è la versione ebraica della Bibbia oggi ufficialmente in uso fra gli ebrei osservanti. In ambito cristiano invece la suddivisione in capitoli la dobbiamo al teologo inglese Stephen Langton (1150-1228), cardinale e arcivescovo di Canterbury, mentre quella in versetti risale al 1528 per opera del domenicano Sante Pagnini (1470-1541), nativo di Lucca. La prima Bibbia completa con l'attuale divisione in capitoli e versetti fu pubblicata nel 1551 dal teologo francese Robert Estienne (1503-1559).
Le grotte di Qumran in cui furono ritrovati i famosi rotoli degli Esseni (da questo sito)
Nel nostro ipertesto, evidenziate in questo modo indicheremo le citazioni bibliche secondo la traduzione eseguita dalla CEI nel 2008, l'ultima in ordine di tempo, che può essere consultata online cliccando qui. Com'è noto, sono state pubblicate tre versioni diverse del testo biblico ufficializzato dalla Conferenza Episcopale Italiana: la prima fu pubblicata il 25 dicembre 1971, dopo che il Concilio Vaticano II (Dei Verbum 22) aveva deciso di rendere fruibile a tutti il testo biblico nelle varie lingue nazionali, e non più solo in latino. Essa era molto aderente al testo originale, anche a costo di utilizzare espressioni non immediatamente comprensibili, come « nei secoli dei secoli » (Gal 1,5), al posto del più immediato « per l'eternità ». Siccome in questa versione erano presenti alcune imperfezioni stilistiche, il 14 aprile 1974, giorno di Pasqua, venne pubblicata una versione riveduta, la cosiddetta "Editio minor", curata da Monsignor Alessandro Piazza (1915-1995). L'uso liturgico tuttavia mise in luce altre inesattezze nella traduzione (ad es. in Matteo 10,27 « predicatelo sui tetti » invece del più corretto « dalle terrazze »), che il 9 ottobre 1986 condussero la Commissione Episcopale per la Liturgia della CEI a commissionare una nuova revisione, che avrebbe dovuto essere stata pronta per il Grande Giubileo del 2000. A causa di vari ritardi, solo il 1 ottobre 2008 fu pubblicata la versione della CEI oggi in uso. Il testo della versione 2008 è meno aderente al testo originale delle versioni precedenti, ma è più vicino al linguaggio contemporaneo; ad esempio, nell'episodio delle Nozze di Cana la risposta di Gesù a Maria, che nella Editio Minor suonava « Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora », è diventata: « Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora » (Gv 2, 4).
Naturalmente quella della CEI non è l'unica versione della Bibbia esistente in lingua italiana. Molto diffusa è anche "La Bibbia di Gerusalemme", una traduzione pubblicata a fascicoli tra il 1948 e 1953 e poi integralmente e con revisione finale nel 1973 ad opera della École Biblique de Jérusalem, fondata nel 1890 dal padre domenicano e Servo di Dio Marie-Joseph Lagrange (1855-1938). Tale traduzione fu rivista nel 1998 e nel 2009, ed unisce alla qualità letteraria il rigore critico, oltre ad una grande mole di note; il suo testo è consultabile a questo link. Invece la traduzione della Bibbia utilizzata dai protestanti italiani è la cosiddetta Bibbia Diodati, edita a Ginevra nel 1607 dal lucchese Giovanni Diodati (1576-1649); l'ultima versione moderna di questa traduzione è del 1999, il testo può essere consultato a questo link. La Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente (titolo ufficiale " Parola del Signore - La Bibbia in lingua corrente") fu pubblicata nel 1985 dalla Libreria della Dottrina Cristiana e dall'Alleanza Biblica Universale, ed è importante perchè è frutto di una collaborazione tra teologi cattolici e protestanti. In essa, ad esempio, l'inizio del Prologo di Giovanni, che per la CEI suona « In principio era il Verbo », diventa « In principio, c'era colui che è "la Parola" ». A questo link potete leggerne il testo integrale. Infine, la "Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture" (1987) è il testo usato dai Testimoni di Geova, una versione inattendibile perchè il testo originale è capziosamente piegato alle ideologie propagandate da questa setta, come si può evincere cliccando qui. Ad esempio, nella Lettera di Paolo a Tito si dice: « ...nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo » (Tito 2, 13), ma la "traduzione" dei TdG dice invece: « ...mentre aspettiamo la felice speranza e la gloriosa manifestazione del grande Dio e del Salvatore nostro Cristo Gesù »: sembra la stessa cosa, ma in realtà da questo testo, con l'aggiunta di un "del", emergerebbe che il grande Dio e Gesù Cristo sarebbero due persone distinte, perchè com'è noto i TdG rifiutano la Divinità di Cristo. E siccome la Scrittura è zeppa di riferimenti a tale divinità, essi hanno pensato bene di stravolgere il testo biblico, spacciando la loro edizione per la "corretta" traduzione del testo greco, quando invece anche uno studente del Ginnasio può controllare l'assoluta inattendibilità della loro versione.
Infine, una necessaria precisazione. Un mio collega si è espresso contro questo ipertesto, perchè a sentir lui la scienza (incarnata nella sua più alta astrazione mentale dalla Matematica) sarebbe incompatibile con qualsiasi trattazione legata alla metafisica ed al sovrannaturale, quali sono la Bibbia, il Corano e i Libri Sacri di tutte le religioni. Ma, come si è espresso benissimo il mio amico Alessandro Cerminara, che ringrazio calorosamente, la scienza NON PUÒ rifiutare il sovrannaturale, semplicemente perché NON SE NE OCCUPA. La scienza si occupa di definire come funziona ciò che è naturale, non di dire se può esserci o meno qualcosa che va al di là di esso! Tutto ciò che rientra nella sfera metafisica e che "va al di là" non è misurabile, non è sperimentabile, e, quindi, non è campo di studio della scienza. Pretendere di giudicare scientificamente se vi è o meno qualcosa che va al di la del mondo fisico è altamente ANTISCIENTIFICO. L'empirismo ottocentesco (o meglio, quella parte dell'empirismo ottocentesco cui si riferiva il mio collega) era una posizione filosofica, non la verità rivelata che farebbe "superare" alcunché. Anzi, è una posizione, oltre che già contestata da molti suoi contemporanei, anche a sua volta superata e confutata dalla filosofia della seconda metà del '900, che ha smontato pezzo per pezzo le teorie secondo cui ciò che è reale è anche empirico. Presunzione umana che pretende di racchiudere la realtà in ciò che possiamo sentire coi nostri piccoli e limitati sensi. E credo che nessuno potrebbe esprimere la mia posizione in termini più chiari e netti di questi.
Dopo questa doverosa introduzione, è ora di inoltrarci nel nostro cammino attraverso la Matematica nascosta tra le pieghe dei versetti biblici. Nel corso di esso vedremo che è possibile affrontare, a partire dai 73 libri da cui sono composte oggi le nostre Bibbie, argomenti attinenti ai seguenti rami della scienza dei numeri:
Ad ognuno di questi argomenti corrisponderà una pagina dell'ipertesto, ciascuna delle quali sarà introdotta da una citazione particolarmente significativa del testo biblico nella traduzione eseguita dalla CEI nel 2008. Come si vede, non ci occuperemo di biologia, fisica, ingegneria e tecnologia, perchè questi argomenti richiederebbero un ipertesto appositamente dedicato ad essi. In fondo all'ipertesto è posto un indice dei principali numeri citati nella Bibbia ed un indice ipertestuale, per una più agevole consultazione dell'opera. Spero che questo itinerario, non meno arduo di quello affrontato dal Popolo Eletto nel suo Esodo verso la Terra Promessa, vi appassioni e vi dimostri che è possibile apprendere nozioni di Matematica anche in modo alternativo alla solita lezione libresca. Ricordiamoci però il saggio consiglio che l'Ecclesiaste dà a suo figlio al termine del suo libro:
« Ancora un avvertimento, figlio mio: non si finisce mai di scrivere libri e il molto studio affatica il corpo. » (Qoelet 12, 12)
Buon viaggio a tutti.
Una pagina del Papiro 46, detto anche Papiro Chester Beatty II: datato all'inizio del terzo secolo, contiene in 86 fogli frammenti delle lettere di San Paolo e della lettera agli Ebrei |
Appare necessario riportare qui una Bibliografia di riferimento:
"Nuova Bibbia CEI", Edizioni Messaggero, Padova, 2008
a cura di M. Scarpa, "La Bibbia di Gerusalemme", EDB, Bologna, 2014
AA.VV., "Introduzione alla Bibbia", Tascabili Economici Newton, Roma, 1997
AA.VV., "Atlante della Bibbia", Ed. Touring, Milano, 2014
Werner Keller, "La Bibbia aveva ragione", Garzanti, Milano, 2007
"L'Epopea di Gilgamesh", a cura di N.K. Sandars, Adelphi, Milano, 1986
Giuseppe Flavio, "La guerra giudaica", Mondadori, Milano, 1995
Carl Benjamin Boyer, "Storia della matematica", Mondadori, 1990
Paolo Zellini, "Breve storia dell’infinito", Adelphi, 1993
La Bibbia CEI online:
http://www.bibbia.net/
La Bibbia di Gerusalemme online:
http://iosonoamore.altervista.org/Bibbia/Indice.htm
La Nuova Diodati online:
http://lucespirituale.altervista.org/bibbia_italiano/Nuova_Diodati_1991.pdf
I testi biblici in lingua originale:
http://www.bibbiaedu.it/
Molte versioni della Bibbia a confronto:
http://www.laparola.net/
The Catholic Encyclopedia:
http://www.newadvent.org/cathen/
Il sito della École Biblique de
Jérusalem:
http://www.ebaf.edu/?lang=fr/
Falsificazioni apportate alla Traduzione del Nuovo Mondo delle
Sacre Scritture:
http://bibbia.sentieriantichi.org/varie/torre.html
Atlante biblico online:
http://web.archive.org/web/20060617205033/www.anova.org/sev/atlas/htm/index.html
Bibbia e scienza a confronto:
https://bibbiaescienza.wordpress.com/
L''ipotesi documentale circa la formazione
del Pentateuco:
http://www.sufueddu.org/fueddus/biblioteca/pinna/Pent/PremPent.book.pdf
Sintesi dei differenti sistemi di
numerazione:
http://www.dmi.unict.it/fstanco/medicina/Sistemi%20di%20numerazione.pdf
Un convertitore automatico tra diverse
basi numeriche:
http://www.new-software.ch/temp/codici-numerici.php
I numeri nella Bibbia:
http://it.cathopedia.org/wiki/Numero
Le antiche unità di misura bibliche di
lunghezza:
http://units.wikia.com/wiki/Ancient_Hebrew_units_of_length_or_distance
Le difficoltà della cronologia biblica:
http://www.biblistica.it/wordpress/?page_id=1142
Ancora sui problemi offerti dalla
cronologia biblica:
http://www.newadvent.org/cathen/03731a.htm
La mummia del Patriarca Giuseppe?
http://www.gianlucamarletta.it/wordpress/2011/09/yuya-giuseppe/
La stella di Betlemme:
http://disf.org/stella-di-betlemme
Gli Elementi di Euclide online:
http://www.scienzaatscuola.it/euclide/index.html
Fondamenti di trigonometria
sferica:
http://www.simonescuola.it/areadocenti/s590/Breve%20trattato%20di%20trigonometria%20sferica.pdf
http://www.robertobigoni.it/Matematica/Sferica/sferica.html
Sintesi di astronomia
sferica:
http://www.webalice.it/maxcarfagna/Didattica/Astronomia%20I/astronomia%20I.html#La%20misura%20degli%20angoli
Curiosità sul pi greco:
http://www.wired.it/attualita/tech/2015/03/13/pi-greco-day-cose-da-sapere/
http://www.focus.it/scienza/scienze/storia-e-curiosita-su-pi-greco
Il calcolo del pi greco con quante
iterazioni volete:
http://www.saluccinicola.net/pagina6.html
Achille e la tartaruga: una carrellata sul concetto di infinito in matematica (e dintorni):
http://progettomatematica.dm.unibo.it/Achille/akille.htm#BM8
Il numero di Debora:
http://www.2la.it/aneddoti-e-aforismi/665-il-numero-di-debora/
La corsa al grattacielo più alto del
mondo:
http://www.citylab.com/design/2012/08/there-limit-how-tall-buildings-can-get/2963/
Matematica e...
http://areeweb.polito.it/didattica/polymath/htmlS/Archivio/Mappa/Argomenti/Matematicae.htm
Le profezie dei Testimoni di Geova sulla
fine del mondo:
http://it.aleteia.org/2015/01/02/per-i-testimoni-di-geova-cristo-ha-compiuto-un-secolo-di-regno-in-cielo-e-vero/