« E vidi un angelo che scendeva dal cielo con in mano la chiave dell'Abisso e una grande catena. Afferrò il drago, il serpente antico, che è il diavolo, e lo incatenò per mille anni. » (Ap 20, 1-2) |
In questo capitolo conclusivo ci dedicheremo ad altri interessanti numeri rintracciabili nel testo biblico, dei quali non ci siamo sinora occupati nelle lezioni precedenti: 220 e 284, 6, 153, 1260, il numero di Debora, il problema di Giuseppe Flavio e, dulcis in fundo, 1000. Avverto i lettori che non ci occuperemo del numero sette, perchè in rete ad esso sono state già dedicate infinite pubblicazioni; vi consiglio di leggere in proposito questa pagina. Invece, non possiamo non cominciare dai cosiddetti "numeri amici".
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220 e 284
Tutti sanno che il patriarca Giacobbe fu costretto all'esilio nella Mesopotamia settentrionale dopo aver carpito con l'inganno al padre Isacco la benedizione che spettava al primogenito; non tutti invece sanno che anche da Paddan-Aram (in aramaico "il campo di Aram"), terra in cui egli era rimasto esule per vent'anni, dovette fuggire precipitosamente, perchè i figli di Labano, suo parente e suo datore di lavoro, lo accusavano di avergli sottratto con l'inganno la maggior parte del gregge, come narrato nel capitolo 30 della Genesi. A questo punto, a Giacobbe non resta che tornare nella Terra di Canaan; ma lì lo aspettava suo fratello Esaù, che certo non gli aveva perdonato gli sgarbi passati, anche se in verità, come racconta Gen 25, 29-34, lo stesso Esaù aveva venduto la primogenitura per un piatto di lenticchie rosse. Appare probabile che quest'ultimo episodio sia entrato a far parte abbastanza tardi del primo libro biblico, in modo che lo stratagemma di Rebecca per far benedire Giacobbe al posto di Esaù non apparisse come un ladrocinio, ma come conseguenza di un atto sconsiderato dello stesso primogenito di Isacco (« A tal punto Esaù aveva disprezzato la primogenitura » Gen 25, 34), oltre che un racconto eziologico per spiegare il nome del popolo da lui disceso ("Edom" in ebraico significa "rosso"). Se è così, Esaù aveva ragione a sentirsi defraudato, e poteva cercare legittimamente la sua vendetta. Quando Giacobbe venne a sapere che il fratello gli veniva incontro con quattrocento uomini (Gen 32, 7), un vero e proprio piccolo esercito, si spaventò moltissimo e chiese l'aiuto del Dio di Abramo e Dio di Isacco (« Salvami dalla mano di mio fratello, dalla mano di Esaù, perché io ho paura di lui: che egli non arrivi e colpisca me e, senza riguardi, madri e bambini! » Gen 32, 12) Siccome però il proverbio "aiutati che il Ciel ti aiuta" è evidentemente vecchio quanto i Patriarchi della Genesi, egli pensò bene di cercare di riconciliarsi col fratello gemello inviandogli doni che non potevano essere rifiutati. Ed ecco che cosa fa l'antenato eponimo degli Israeliti:
« Giacobbe rimase in quel luogo a passare la notte. Poi prese, da ciò che gli capitava tra mano, un dono per il fratello Esaù: duecento capre e venti capri, duecento pecore e venti montoni... » (Gen 32, 14-15)
« Lo placherò con il dono che mi precede e in seguito mi presenterò a lui; forse mi accoglierà con benevolenza » (Gen 32, 21b), è il ragionamento di Giacobbe. E la sua pensata si rivela intelligente perchè, dopo l'episodio della lotta con l'angelo al torrente Iabbok, egli incontra finalmente Esaù il quale « gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero » (Gen 33, 4). Ma perchè ci interessano tanto i numeri delle capre e delle pecore donate da Giacobbe, ora diventato Israele, a suo fratello? Perchè 220 è un numero molto famoso, per chi studia le culture dell'antichità. E Paddan Aram, la terra da cui Giacobbe stava tornando, era parte della Mesopotamia, patria di grandi matematici fin dagli albori della storia umana.
Francesco Hayez (1791-1882), "Incontro tra Giacobbe e Esaù" (1844)
Due numeri si dicono "amici" quando la somma dei divisori propri del primo è uguale al secondo, e viceversa. Ebbene, la più piccola coppia di numeri amici è proprio rappresentata da 220 e 284. I divisori propri di 220 sono infatti 1, 2, 4, 5, 10, 11, 20, 22, 44, 55 e 110; quelli di 284 sono 1, 2, 4, 71 e 142; ed è immediato verificare che si ha:
220 → 1 + 2 + 4 + 5 + 10 + 11 + 20 + 22 + 44 + 55 + 110 = 284
284 → 1 + 2 + 4 + 71 + 142 = 220
Nell'antichità non venne scoperta nessuna altra coppia con queste caratteristiche; probabilmente molti arrivarono a pensare che fossero l'unica coppia in assoluto di numeri dotati di questa proprietà, e proprio per questo assunsero un significato così particolare, diventando il sinonimo matematico dell'amicizia per via del profondo legame reciproco tra di essi. Nell'antichità, incisi su un talismano si riteneva inoltre che rafforzassero l'amore in una coppia. Nel Medioevo, quando veniva siglato un patto di amicizia fra due persone, uno dei due amici portava un medaglione su cui era inciso il numero 220, e l'altro un medaglione che portava inciso il 284. Secondo un'antica usanza araba, due innamorati si scambiavano dei dolci sui quali erano segnati i due numeri magici e li mangiavano insieme, per garantirsi amore eterno.
E non è tutto. Il matematico rumeno Titu Andreescu (1956-), oggi all'Università di Dallas, inventò questa storiella per spiegare lo stesso concetto ai suoi studenti. C'era una volta un sultano che si considerava un grande solutore di problemi (gli arabi ereditarono la passione per la matematica degli antichi mesopotamici). Le guardie gli dissero che uno dei suoi prigionieri era un matematico. e allora il sultano andò a fargli visita e gli lanciò la sfida seguente: « Puoi scegliere se rimanere in prigione per tutta la vita o darmi un problema da risolvere. Ma deve essere un problema veramente difficile, perché ti lascerò libero finché non troverò la soluzione; appena avrò trovato la soluzione, ti farò tagliare la testa. » Il prigioniero accettò la sfida e gli chiese di trovare un'altra coppia di numeri amici maggiori di 220 e 284. Il prigioniero se ne andò libero e morì a tarda età con la testa sul collo, perché il sultano non fu mai capace di risolvere il problema. Oggi sappiamo che la seconda coppia di numeri amici è 1184, 1210, come potete facilmente verificare; non si sa però chi la ha individuata per primo. Oltre che all'Autore Biblico, i numeri amici erano già noti alla Scuola Pitagorica. Il matematico arabo Ibn al-Banna al-Marrakushi (1256-1321) scoprì la coppia 17.296, 18.416, che nel 1636 fu ritrovata indipendentemente da Pierre de Fermat. Il matematico iraniano Muhammad Baqir Yazdi nel XVI secolo scoprì la coppia 9.363.584, 9.437.056, poi ritrovata anche da Renato Cartesio, mentre Eulero pubblicò nel 1750 una lista comprendente 62 coppie di numeri amici. Trascurando le prime due, cioè 220, 284 e 1184, 1210, in cima alla lista ci sono le dieci coppie 2.620, 2.924; 5.020, 5.564; 6.232, 6.368; 10.744, 10.856; 12.285, 14.595; 17.296, 18.416; 63.020, 76.084; e 66.928, 66.992.; 67.095, 71.145; e 69.615, 87.633 (a questo indirizzo potete trovarne una lista assai più lunga). Tra 0 e 100.000.000 esistono 236 coppie di numeri amici.
Nel IX secolo il matematico arabo Thābit b. Qurra al-Ṣābiʾ al-Ḥarrānī (826-901) trovò un metodo per determinare delle coppie di numeri amici. Fissato un numero intero positivo n, se i numeri:
p = 3 x
2n–1 – 1
q = 3 x 2n – 1
r = 9 x 22n–1 – 1
sono tre primi dispari, allora la coppia 2n x pq, 2n x r è una coppia di numeri amici. Non tutte le coppie di numeri amici si ottengono con queste formule; ad esempio 1184, 1210 sfugge ad essa. Se n = 2 abbiamo p = 3 x 2 – 1 = 5, q = 3 x 4 – 1 = 11 e r = 9 x 8 – 1 = 71, che sono tutti numeri primi, quindi 22 x 5 x 11 = 220 e 22 x 71 = 284. Se n = 4 si ottiene la già citata coppia 17.296, 18.416; se n = 7, si trova 9.363.584, 9.437.056.
Esistono coppie di numeri che sono più amici degli altri, perchè la somma delle loro cifre è la stessa; i matematici buontemponi li chiamano numeri amici per la pelle. Ad esempio, con i già citati 69.615 e 87.633 abbiamo 69.615 = 6 + 9 + 6 + 1 + 5 = 27 e 87.633 = 8 + 7 + 6 + 3 + 3 = 27. Altri esempi di numeri amici per la pelle sono 100.485, 124.155 e 1.358.595, 1.486.845.
Si pensa che le coppie di numeri amici siano infinite, ma nessuno ne ha ancora dato una dimostrazione. Inoltre in tutte le coppie conosciute due numeri amici sono sempre entrambi pari o entrambi dispari, nonostante non sia mai stato dimostrato se questo debba avvenire necessariamente. Inoltre, ogni coppia conosciuta condivide almeno un fattore. Non si sa se esistano coppie di numeri amici primi tra loro; può darsi che proprio qualche lettore di questa pagina diventi famoso per averli scoperti! Dopotutto, come ha scritto Re Salomone, « Il padre del giusto gioirà pienamente, e chi ha generato un saggio se ne compiacerà! » (Pro 23, 24)
Vi sono poi delle generalizzazioni dei numeri amici. Si dicono numeri socievoli quegli insiemi in cui ogni numero è amico di quello posto accanto ad esso, ed il primo è amico dell'ultimo, cosicché i numeri amici formano una catena ciclica. Nel 1918 il matematico belga Paul Poulet (1887-1946) scoprì l'insieme di numeri socievoli 12.496, 14.288, 15.472, 14.536 e 14.264. La più lunga catena di numeri socievoli conosciuta conta 54 numeri. Invece i numeri fidanzati sono tali che la somma dei divisori propri ed escluso l'1 di uno dà come risultato l'altro, e viceversa. La prima coppia di numeri fidanzati è 48, 75, perché i divisori di 48 escluso l'1 (e il 48 stesso) sono 2, 3, 4, 6, 8, 12, 16 e 24, mentre i divisori di 75 escluso l'1 (e il 75 stesso) sono 1, 3, 5, 15 e 25, e si ha:
48 →
2 + 3 + 4 + 6 + 8 + 12 + 16 + 24 = 75
75 → 3 + 5 + 15 + 25 = 48
La coppia 48, 75 è stata scoperta nel 1946; le due successive sono 140, 195 e 1.050, 1.925, entrambe trovate nel 1960. La coppia maggiore oggi nota è 2.102.750, 2.681.019. Mentre le coppie di numeri amici e le catene di numeri socievoli sono sempre formate da numeri tutti pari o tutti dispari, invece due numeri fidanzati sono sempre uno pari e l'altro dispari; forse è proprio per questo motivo che Pitagora definì i numeri pari come femminili e i numeri dispari come maschili!
Infine, esistono anche i numeri felici. Preso un numero, si elevino al quadrato le sue cifre e se ne sommino i risultati, quindi si ripeta l'operazione con il numero ottenuto. Se dopo una serie di passaggi questo algoritmo conduce al numero 1, il numero di partenza è detto "numero felice". Ad esempio, 19 è un numero felice, perché 12 + 92 = 1 + 81 = 82; 82 + 22 = 64 + 4 = 68; 62 + 82 = 36 + 64 = 100; 12 + 02 + 02 = 1 + 0 + 0 = 1. I numeri felici sono sicuramente infiniti, perchè lo sono tutte le potenze di 10: 1, 10, 100, 1000... I numeri che non godono di questa proprietà si dicono invece infelici. Se un numero è felice, allora tutti i numeri della suddetta sequenza sono felici; se un numero è infelice, invece, tutti i numeri della suddetta sequenza sono infelici.
Si trovano numeri felici nella Bibbia? Sì, e alcuni sono molto importanti. Di Ismaele, primogenito di Abramo, si dice infatti:
« Ismaele, suo figlio, aveva tredici anni quando gli fu circoncisa la carne del prepuzio. » (Gen 17, 25)
Si sa che quella della circoncisione per gli Ebrei è una festa, poiché il circonciso entra a far parte del Popolo di Dio. Si tratta dunque di un giorno felice. Ma anche il 13 è un numero felice, e attraverso due soli passaggi, perchè 12 + 32 = 1 + 9 = 10; 12 + 02 = 1 + 0 = 1. Si noti come in altre culture (e specialmente in quella anglosassone) 13 sia invece considerato il numero sfortunato per eccellenza (la missione Apollo 13 per poco non si concluse con un disastro, e non esiste la monoposto numero 13 nelle gare di Formula Uno!); secondo alcuni tale credenza è dovuta al fatto che Gesù e i Dodici Apostoli erano in 13 nel Cenacolo durante l'Ultima Cena, ed entro poche ore due di loro, Gesù e Giuda, morirono. Faccio notare poi che anche il già citato sette è un numero felice, anzi il più piccolo numero felice a parte l'uno, perchè 72 = 49, 42 + 92 = 16 + 81 = 97; 92 + 72 = 81 + 49 = 130; 12 + 32 + 02 = 10; 12 + 02 = 1 + 0 = 1. E questo può aver contribuito a far sorgere attorno ad esso la fama di numero divino per eccellenza.
Prima di chiudere l'argomento dei numeri amici, facciamo notare che nella Bibbia esiste un altro tipo di "amicizia" tra numeri diversi. Infatti, un procedimento molto comune per enfatizzare un concetto importante consiste nell'associare ad un numero quello immediatamente successivo, secondo la formula del Salmo 62:
«
Una parola ha detto Dio,
due ne ho udite:
la forza appartiene a Dio,
tua è la fedeltà, Signore;
secondo le sue opere
tu ripaghi ogni uomo. » (Salmo 62, 12-13)
Il procedimento è frequente nei libri sapienziali, e viene realizzato con varie sequenze numeriche:
uno-due:
Ger 3, 14;
Gb 40, 5
due-tre:
Os 6, 2;
Gb 33,
29; Sir
23, 16
tre-quattro:
Am 1,
3.6.9.11.13; Pr
30, 15-33; Sir
26, 5
quattro-cinque:
Is 17 ,6
cinque-sei:
2Re 13, 19
sei-sette:
Pr 6, 16;
Gb 5, 19
sette-otto:
Mi 5, 4;
Qo 11, 2
nove-dieci:
Sir 25, 7
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Come si sa, il numero perfetto per eccellenza della Bibbia è il sette, anche se noi abbiamo deciso di non occuparci nei dettagli di esso. Se perciò qualcuno venisse a dirvi che il numero sei ha grande importanza numerologica, sicuramente non ci credereste, dato che esso rappresenta il "sette meno uno", e quindi l'imperfezione assoluta; secondo alcuni, il fatidico "666" di Ap 13, 18 del quale ci occuperemo nell'Appendice trae origine proprio dal fatto che il numero del diavolo, il sei dell'imperfezione più totale, è ripetuto per tre volte, quasi a costituire una "trinità diabolica".
Eppure, molto prima delle interpretazioni numerologiche del Cristianesimo primitivo, il numero sei ha avuto una grande importanza nella cultura degli autori dell'Antico Testamento. Il mondo, come tutti sanno, è stato creato in sei giorni:
« Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno. » (Gen 1, 31)
Lia ha dato a Giacobbe sei figli maschi:
« Lia concepì e partorì ancora un sesto figlio a Giacobbe. Lia disse: "Dio mi ha fatto un bel regalo: questa volta mio marito mi preferirà, perché gli ho partorito sei figli." E lo chiamò Zàbulon. » (Gen 30, 19-20)
Il numero sei compare anche nel primissimo, approssimativo censimento degli Ebrei usciti dall'Egitto assieme a Mosè:
« Gli Israeliti partirono da Ramses alla volta di Succot, in numero di seicentomila uomini adulti, senza contare i bambini. » (Es 12, 37)
Importantissimo è il seguente riferimento, perchè ci dice che, se il mondo è stato creato in sei giorni, in sei giorni è stato creato anche il Popolo d'Israele, scelto da Dio tra tutti per consegnargli la Torah:
« La gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La Gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti. » (Es 24, 16-18)
Sei, e non sette, sono le città di asilo concesse ai Leviti da Mosè, che poi ne aggiunge altre 42 = 6 x 7:
« Fra le città che darete ai leviti, sei saranno città di asilo, che voi designerete perché vi si rifugi l'omicida: a queste aggiungerete altre quarantadue città. » (Nm 35, 6)
Provate a indovinare per quanti anni Iefte fu Giudice:
« Iefte fu giudice d'Israele per sei anni. Poi Iefte, il Galaadita, morì e fu sepolto nella sua città in Gàlaad. » (Gdc 12, 7)
Anche Booz non dà a Rut sette, ma sei misure di orzo:
« Le disse: "Apri il mantello che hai addosso e tienilo forte." Lei lo tenne ed egli vi versò dentro sei misure d'orzo. Glielo pose sulle spalle e Rut rientrò in città. » (Rt 3, 15)
Anche il peso dell'arma impugnata dal gigante Golia è molto significativo (vedi anche il capitolo sulle unità di misura):
« L'asta della sua lancia era come un cilindro di tessitori e la punta dell'asta pesava seicento sicli di ferro. » (1Sam 17, 7)
Lo sapevate che anche nell'Antico Testamento compare il fatidico 666 dell'Apocalisse? Eppure è proprio vero, e non ha proprio alcun significato satanico!
« Il peso dell'oro che giungeva a Salomone ogni anno era di seicentosessantasei talenti d'oro » (1Re 10, 14)
Il numero sei compare persino nell'edificazione del Tempio di Gerusalemme!
« Costruì il Santo dei Santi, lungo, nel senso della larghezza del tempio, venti cubiti e largo venti cubiti. Lo rivestì d'oro fino, impiegandone seicento talenti. » (2Cr 3, 8)
Neppure il libro di Giobbe è immune al fascino del numero sei:
« Da sei tribolazioni [Dio] ti libererà, e alla settima il male non ti toccherà » (Giobbe 5, 19)
Anche la tradizione rabbinica aggiunge elementi importanti alla nostra discussione. Il Targum, la traduzione e il commento in lingua aramaica dell'Antico Testamento, riflette sul Cantico dei Cantici e in particolare sul passo in cui, descrivendo il corpo dell'innamorato, l'autore nascosto dietro lo pseudonimo di Salomone scrive: « Le sue gambe, colonne di alabastro, posate su basi d'oro puro » (Ct 5,15). Nell'originale ebraico alabastro si dice "shèsh"; ma in ebraico anche il numero sei è "shèsh", per cui il Targum così traduce: « E i giusti sono le colonne del mondo posate su basi d'oro puro: sono infatti i precetti della Legge che studiano » (cfr. anche i Midràshim Nm Rabbàh 10,1 a 6,2 e Ct Rabbàh 5,15.1). In ebraico dunque la stessa parola "shèsh" significa tanto il numero "sei" quanto "alabastro", "marmo", che il Targum identifica con il mondo, sorretto dalle colonne del Cantico dei cantici che sono i giusti: essi, infatti, stanno solidi sui precetti della Torah, che è pertanto il fondamento del mondo intero. Ed infatti un'antica tradizione giudaica attestata nel Talmud (Sanhedrin 97a-b; Souk 45b) afferma che il mondo è tenuto in piedi grazie ai « 36 giusti » che come minimo in ogni epoca esistono sulla Terra, e i cui meriti, a loro stessa insaputa, garantiscono la sopravvivenza dell'umanità: ogni volta che YHWH pensa di mandare un secondo diluvio per punire i crimini dell'umanità, Abramo Gli ricorda l'esistenza dei trentasei, e il Signore desiste dal suo proposito per non far perire anche loro assieme ai malvagi. Si noti che 6 x 6 = 36; ancora una volta non servono 7 x 7 = 49 o 10 x 10 =100 giusti, ne bastano trentasei!
Marko Ivan Rupnik, "Le nozze di Cana", mosaico del Santuario di Lourdes (foto dell'autore di questo sito)
E non è tutto: il sei riveste una grande importanza anche nel Cristianesimo, a dispetto del 666 apocalittico, come ci convinceremo grazie a semplici esempi. Proprio nel Vangelo di San Giovanni, lo stesso che secondo la tradizione ha scritto anche l'Apocalisse (vedi in proposito quest'altro mio ipertesto), ricorre per ben sette volte il numero "sei", tutti riferimenti che sicuramente contraddicono la sua supposta valenza satanica:
1) Tanto per cominciare, esso ritma la prima settimana dell'attività pubblica di Gesù. Il primo giorno (Gv 1, 19-28) Giovani il Battista dichiara di non essere il Cristo. « Il giorno dopo » (Gv 1, 29) egli battezza Gesù e testimonia che Egli è il Figlio di Dio (Gv 1, 29-34). « Il giorno dopo » ancora (Gv 1, 35) Giovanni fissa lo sguardo su Gesù che passa e dice: « Ecco l'agnello di Dio! », facendo sì che i primo discepoli Lo seguano (Gv 1, 35-42) « Il giorno dopo » (Gv 1, 43) Gesù parte per la Galilea e viene riconosciuto come Figlio di Dio da Natanaele di Cana (Gv 1, 43-51). « Il terzo giorno » (Gv 2, 1) si festeggia lo sposalizio in Cana di Galilea, cui sono invitati anche Maria e Gesù. Questo terzo giorno corrisponde al « sesto giorno » della prima settimana di Gesù descritta da Giovanni, perché segue il triplice « il giorno dopo… il giorno dopo… il giorno dopo », cadenzato come un ritornello.
2) Nel primo dei "segni" operati da Gesù secondo quel Vangelo, quante sono le anfore di pietra la cui acqua verrà mutata in vino, un segno prettamente eucaristico?
« Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri » (Gv 2, 6)
3) Il numero sei è ripreso nell'incontro con la Samaritana al pozzo di Giacobbe: « Gesù, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa l'ora sesta » (Gv 4, 6). Purtroppo l'ultima traduzione della Cei (2008) maschera questo riferimento, traducendolo con « era circa mezzogiorno ».
4) Nello stesso incontro, Gesù dice alla Samaritana che ha « cinque mariti, e quello che hai ora non è tuo marito » (Gv 4, 18), per cui ci troviamo di fronte a una donna che ha avuto sei compagni!
5) Dopo aver ritmato la prima settimana dell'attività pubblica di Gesù, il numero sei ritma anche l'ultima prima della Passione:
« Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. » (Gv 12, 1)
6) La proclamazione della regalità di Gesù da parte di Pilato davanti al popolo d'Israele avviene « circa l'ora sesta », cioè anche questa volta verso mezzogiorno:
« Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: "Ecco il vostro re!" » (Gv 19, 14)
7) Secondo Giovanni Gesù muore nel giorno della "Parascève", cioè il giorno precedente la Pasqua ebraica, quindi il venerdì, che è il « sesto giorno » (Gv 19, 31.42).
Nel Quarto Vangelo i « sei giorni » che precedono le nozze di Cana (la prima settimana di predicazione pubblica di Gesù) e i «sei giorni » prima della Pasqua (l'ultima settimana di Gesù) sono un evidente riferimento ai « sei giorni » della creazione narrata nel primo capitolo della Genesi e ai « sei giorni » del Sinai, nei quali Israele è "creato" come popolo: la Creazione in Cristo Gesù si rinnova da capo, sia rinnovando il mondo intero, sia "creando" il nuovo popolo di Dio, la Chiesa. Inoltre, come i giusti sono le colonne di alabastro su cui (secondo il Targum CT) poggia il mondo, così le sei anfore delle nozze di Cana sono « di pietra », sempre pronte a purificare la sposa-Israele prima di presentarsi al cospetto del suo Sposo-Signore.
Ma non è finita. Secondo i Padri della Chiesa, il numero sei ritma tutte le tappe della storia dell'uomo, essendo sei le età in cui sarebbe divisa la storia del mondo, dall'inizio della Creazione ad oggi, secondo questo schema:
prima età: da
Adamo a Noè;
seconda età: da
Noè ad Abramo;
terza età: da
Abramo a Davide;
quarta età: da
Davide alla deportazione a Babilonia;
quinta età: dalla
deportazione a Babilonia a Gesù;
sesta età: da
Gesù al momento presente.
La "perfezione" del numero sei, tale da essere simbolo numerologico della Creazione, della concessione della Torah, della ricchezza di Salomone, del ministero di Gesù Cristo, della Sua Passione e Morte e dei giusti che salvano il mondo è chiaramente evidenziata anche dalle parole di Sant'Agostino nel suo celebre commento al Libro della Genesi:
« Noi quindi non possiamo dire che il sei è un numero perfetto per il fatto che Dio ha compiuto tutte le sue opere in sei giorni, ma possiamo dire che Dio ha compiuto le sue opere in sei giorni per il fatto che il sei è un numero perfetto. Questo numero perciò sarebbe perfetto anche se queste opere non ci fossero state; se invece esso non fosse perfetto, Dio non avrebbe compiuto le sue opere attenendosi a questo numero. » ("De Genesi ad litteram" IV, 7, 14)
Ma, in buona sostanza, su cosa poggia questa perfezione? A rivelarcelo è un altro esperto conoscitore delle Sacre Scritture, Filone di Alessandria (20 a.C. - 45 d.C.), il quale spiega nella sua opera "Allegoria delle Leggi":
« Quando dunque la Scrittura dice: "Nel sesto giorno portò a termine le opere" (Gen 2, 2) non si deve credere che essa faccia riferimento a un certo numero di giorni, ma al numero sei che è perfetto, perchè è la prima cifra che è uguale alla somma delle sue parti, cioè alla sua metà (6 : 2 = 3), più il suo terzo (6 : 3 = 2), più il suo sesto (6 : 6 = 1): 1 + 2 + 3 = 6; ed è il prodotto di fattori disuguali, appunto 2 x 3 = 6 »
Analoga trattazione conduce Filone nell'altra sua opera "De opificio Mundi", 13, nella quale aggiunge che nel numero sei si comprendono e si fondono insieme il 3 dispari e il 2 pari che, secondo lo stesso Filone e la scuola dei Pitagorici, esprimono l'uno il principio maschile, l'altro quello femminile. Stessa definizione la troviamo nel Padre della Chiesa Origene (185-254) e in Didimo il Cieco (313-398). Tutti questi autori conoscevano bene l'opera di Euclide, nella quale si legge:
« Numero perfetto è quello che è uguale alla somma delle proprie parti. » (Elementi VII, 22)
Quindi un numero perfetto è pari alla somma dei suoi divisori propri; in pratica, è amico di se stesso! E qual è il più piccolo dei numeri perfetti? Proprio il 6, perchè i suoi divisori propri sono 1, 2 e 3 (tutti i divisori del numero, tranne il numero stesso) e, come dice Filone, 1 + 2 + 3 = 6. Il secondo numero perfetto è 28, perchè i suoi divisori propri sono 1, 2, 4, 7 e 14, e 1 + 2 + 4 + 7 + 14 = 28. Ebbene, per gli Ebrei (come per Euclide) tutti i numeri perfetti avevano una grande importanza, come dimostra il fatto che il calendario ebraico si basava sul mese lunare di 28 giorni! E lo stesso numero perfetto ricorre nella descrizione della Tenda sotto la quale sarà custodita nel deserto l'Arca dell'Alleanza:
« Quanto alla Dimora, la farai con dieci teli di bisso ritorto, di porpora viola, di porpora rossa e di scarlatto. Vi farai figure di cherubini, lavoro d'artista. La lunghezza di un telo sarà di ventotto cubiti; la larghezza di quattro cubiti per un telo; la stessa dimensione per tutti i teli. » (Es 26, 1-2)
È facile dimostrare che 28 è un numero felice, secondo la definizione da noi data sopra. È un numero felice anche il terzo numero perfetto, 496, essendo pari alla somma dei suoi fattori 1, 2, 4, 8, 16, 31, 62, 124 e 248. I successivi numeri perfetti sono 8.128 e 33.550.336, 8.589.869.056 e 137.438.691.328. Oggi si conoscono in tutto 49 numeri perfetti, il maggior dei quali ha la bellezza di 44.677.235 cifre!
Un teorema enunciato da Pitagora e dimostrato da Euclide afferma che se 2n − 1 è un numero primo, allora 2n−1 x ( 2n − 1 ) è un numero perfetto. Successivamente Eulero dimostrò che tutti i numeri perfetti pari devono obbedire a questo teorema. Oggi i numeri nella forma 2n − 1 che sono primi sono detti numeri primi di Mersenne, dal nome dell'abate francese Marin Mersenne (1588-1648); i primi numeri primi di Mersenne sono 3, 7, 31, 127, 8191 e 131.071. Si dimostra facilmente che se n non è primo, allora non lo è neanche 2n − 1. Se n = 2, si ha 2n − 1 = 3 che è primo, ed allora 2n−1 x ( 2n − 1 ) = 2 x 3 = 6. Se invece n = 3, si ha 2n − 1 = 7 che è primo, ed allora 2n−1 x ( 2n − 1 ) = 4 x 7 = 28. Se n = 4 si ha 2n − 1 = 15 che non è primo, e dunque non può generare alcun numero perfetto. Se n = 5, si ha 2n − 1 = 31 che è primo, ed allora 2n−1 x ( 2n − 1 ) = 16 x 31 = 496. E così via. Non si sa se i numeri perfetti siano infiniti, né se esistono numeri perfetti dispari; di certo tutti i numeri perfetti finora conosciuto terminano con un 6 oppure con un 8. Infatti, 2n−1 è pari e termina necessariamente per 2, 4, 8 o 6; 2n − 1 invece è dispari e termina per 3, 7, 5 o 1. Calcolando 2n−1 x ( 2n − 1 ) si ha che la cifra finale 5 va scartata perché 2n − 1 deve essere primo, quindi le coppie che rimangono sono 2 x 3, 4 x 7 e 6 x 1, i cui prodotti danno le cifre finali 6 o 8 di ogni numero perfetto pari.
In matematica esistono anche i numeri quasi perfetti. A questo scopo introduciamo la funzione sigma di n, indicata con il simbolo σ(n) e definita come la somma di tutti i divisori di un numero naturale n, incluso n stesso. Ecco i primi 20 valori di n:
n |
1 |
2 |
3 |
4 |
5 |
6 |
7 |
8 |
9 |
10 |
11 |
12 |
13 |
14 |
15 |
16 |
17 |
18 |
19 |
20 |
σ(n) |
1 |
3 |
4 |
7 |
6 |
12 |
8 |
15 |
13 |
18 |
12 |
28 |
14 |
24 |
24 |
31 |
18 |
39 |
20 |
42 |
Ed tabulati i primi 250 valori della funzione σ(n):
Se un numero è perfetto, evidentemente σ(n) = 2 n, perchè per ottenere la funzione sigma bisogna aggiungere n alla somma di tutti i suoi divisori propri, che è proprio pari ad n. Se σ(n) > 2 n, il numero n si dice abbondante; se σ(n) < 2 n, si dice invece difettivo. Ad esempio 18 è abbondante (σ(18) = 39 > 36), mentre 10 è difettivo (σ(10) = 18 < 20). Tutti i multipli interi dei numeri abbondanti e dei numeri perfetti sono a loro volta numeri abbondanti, mentre tutti i numeri primi e le loro potenze sono numeri difettivi; tutti i divisori propri dei numeri difettivi e dei numeri perfetti sono a loro volta numeri difettivi. Invece si definisce numero quasi perfetto un numero tale che la sua funzione sigma è superiore o inferiore a 2 n di una sola unità. In particolare si dice lievemente abbondante un numero n quasi perfetto tale che σ(n) > 2 n + 1; si dice invece lievemente difettivo un numero n quasi perfetto tale che σ(n) > 2 n − 1. Oggi non è noto alcun numero quasi perfetto che sia lievemente abbondante, mentre è facile verificare che tutte le potenze di due sono numeri lievemente difettivi: ad esempio σ(16) = 31 = 2 x 16 − 1. Infatti i divisori delle potenze di 2 sono tutte le potenze di 2 fino a quella considerata, e sommarli significa cercare la somma dei termini di una progressione geometrica di ragione pari a 2. Per quanto detto in un'altra lezione, si ha allora:
Non si sa però se esistono numeri lievemente difettivi diversi dalle potenze di due. Infine, si dice numero pratico quel numero intero positivo n tale che tutti i numeri interi positivi m < n si possono scrivere in almeno un modo come somma di divisori distinti di n. Per esempio, 8 è un numero pratico poiché tutti gli interi da 1 a 7 possono essere scritti come somma dei sui divisori 1, 2, 4 e 8. La proprietà è ovviamente verificata dai suoi divisori 1, 2, 4 e inoltre 3 = 2 + 1, 5 = 4 + 1, 6 = 4 + 2 e 7 = 4 + 2 + 1. Nel 1996 è stato dimostrato che ogni numero pari si può esprimere almeno in un modo come la somma di due numeri pratici; la dimostrazione dell'analoga proprietà dei numeri primi (ogni numero pari si può esprimere almeno in un modo come la somma di due numeri primi, la cosiddetta Congettura di Goldbach) è invece uno dei principali problemi irrisolti della Matematica. I primi numeri pratici sono 1, 2, 4, 6, 8, 12, 16, 18, 20, 24, 28, 30, 32, 36, 40, 42, 48, 54... Sarà un caso che il numero 6 da cui siamo partiti, oltre ad essere perfetto, sia pure pratico?
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Passiamo ora al Nuovo Testamento; o, per meglio dire, torniamo al Vangelo di Giovanni, già utilizzato nell'analisi delle "sei giare di pietra" di Cana di Galilea. Secondo la maggior parte dei biblisti il Vangelo di Giovanni vero e proprio termina alla fine del capitolo 20, con il celebre epilogo: « Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. » (Gv 20, 30-31) Si tratta evidentemente di una formula di chiusura. Tuttavia dopo la morte dell'Apostolo, avvenuta in tardissima età sotto il regno di Traiano, i suoi discepoli aggiunsero un ventunesimo capitolo, il cui scopo era evidentemente quello di confutare la leggenda popolare secondo cui Giovanni era destinato a non morire mai, rimanendo sulla Terra fino alla Seconda Venuta di Cristo (Gv 21, 23), e di chiarire che la sequela di Gesù esige un'adesione totalizzante, ma non necessariamente il martirio: Pietro infatti morì martire, mentre Giovanni morì di morte naturale. Ma non solo: come ha scritto l'esegeta assunzionista Alain Marchadour, « tra il Vangelo incentrato soprattutto sulla figura di Gesù, che si conclude col capitolo 20, e il capitolo 21 non c'è contrapposizione, ma collocamento del Vangelo nella Chiesa. Sono esposte le mediazioni necessarie perché il Rivelatore prosegua la sua opera: la mensa eucaristica, la missione pastorale di Pietro e dei suoi successori, il ruolo del discepolo che Gesù amava e della sua Chiesa. » Questo capitolo tra l'altro, assieme all'apparizione di Gesù su un monte della Galilea (Gv 28, 16-20), sembra ricordare che prima della Pentecoste e dell'inizio della vita della Chiesa ci fu un momentaneo ritorno degli Apostoli alla loro regione di origine e alla loro precedente attività di pescatori, come conseguenza della dispersione che seguì la morte di Gesù da Lui stesso preannunziata (Gv 16, 32). Subito dopo però ritroviamo gli Undici riuniti insieme a Gerusalemme (Lc 23, 53 e At 1, 2-14), forse proprio come conseguenza delle apparizioni del Risorto in Galilea e della loro missione presso tutte le genti.
Il capitolo 21 aggiunto dai discepoli di Giovanni contiene proprio uno dei "segni" che "non sono stati scritti" nel Vangelo del loro maestro, ma che evidentemente era ben noto alla Scuola Giovannea. Troviamo qui l'unica lista di Apostoli del quarto Vangelo: erano riuniti insieme Pietro, che è il primo ad essere nominato come negli altri Vangeli e che prende l'iniziativa di andare a pescare, Tommaso, Natanaele (di solito identificato con Bartolomeo, ma da alcuni anche con Simone il Cananeo), i figli di Zebedeo, cioè Giacomo e Giovanni, e altri due la cui identità non ci è stata tramandata. Si noti che sono in sette, nella Bibbia la cifra simbolica dell'universalità, come se tutti noi fossimo stati presenti a quel prodigioso incontro sulle rive del Lago di Tiberiade. La notte non prendono niente, come simbolo del discepolo che, quando opera senza confidare in Cristo Gesù, brancola nel buio e non riesce a guadagnare nulla di buono. Quando però danno retta all'uomo comparso sulla riva del lago e gettano la rete dalla parte destra della barca (che è quella "giusta" nella mentalità semitica), la pesca diventa abbondantissima. Quando tutti sono sulla riva, ecco cosa leggiamo nell'ultimo capitolo del quarto Vangelo:
« Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. » (Gv 21, 11)
Questo numero così preciso, 153, ha colpito da sempre gli esegeti, così come la precisazione delle "sei anfore di pietra" delle nozze di Cana, o altri numeri di cui ci siamo occupati in questo ipertesto. Davvero, come ha scritto un biblista, « in quel numero dobbiamo vedere semplicemente il desiderio dell'evangelista di mostrare che la sua è una testimonianza oculare, diretta e concreta »? La storicità dei Vangeli non è in discussione, e senz'altro i discepoli di Giovanni potrebbero aver inserito nel racconto della terza apparizione del Signore ai Suoi discepoli quel preciso numero perchè effettivamente Giovanni e gli altri sei testimoni oculari del miracolo avevano effettivamente contato i frutti della pesca miracolosa, trovando « 153 grossi pesci » nella rete da loro gettata dalla parte destra della barca. Noi però in questo ipertesto stiamo cercando di svelare il significato dei numeri della Bibbia, convinti che dietro ad essi, oltre alla preoccupazione cronachistica degna di un moderno fotoreporter, vi siano anche dei significati che l'autore o gli autori hanno voluto tramandarci, e perciò quel 153 così tondo non può certo sfuggire alla nostra analisi.
La pesca miracolosa, mosaico nel Duomo di Monreale
Già San Girolamo tentò una spiegazione ricorrendo alla zoologia dei suoi tempi, che a suo avviso (ma altri autori antichi davano cifre differenti) enumerava 153 specie ittiche, divenute simbolo di tutta l'umanità a cui si sarebbero dovuti rivolgere quei "pescatori di uomini" che erano diventati i discepoli di Cristo (Matteo 4, 19). Invece secondo Sant'Agostino nel suo scritto "De diversis quaestionibus octoginta tribus", il numero 153 rappresenterebbe l'espressione più nobile della Santità della Chiesa, poiché lo si può scrivere in questo modo:
(50 x 3) + 3 = 153
dove il numero 50 rappresenta la perfezione della Chiesa e il numero 3 è, ovviamente, espressione della Trinità. Inoltre Agostino scrive che Dio ha donato al mondo due elementi importantissimi per la fede cristiana, i 10 Comandamenti e i 7 doni dello Spirito Santo; questi due numeri sommati danno 17, che moltiplicato per 9, il quadrato di 3, fornisce proprio 17 x 9 = 153. Il numero 153 diventa così espressione dell'azione di Dio nella vita umana e nella storia. San Cirillo di Alessandria (370-444) riteneva che il misterioso 153 fosse la somma di tre numeri simbolici: 100 sono i Gentili, 50 gli Ebrei, il 3 evoca la Trinità. Nella storia della Chiesa vi è anche chi ha fatto ricorso alla gematria, la scienza che attribuisce un valore numerico ad ogni parola ebraica come spiegheremo meglio nell'Appendice; a questo proposito, l'interpretazionè più suggestiva è quella che vede il numero 153 come la somma di 76 + 77, ossia del valore numerico delle parole Simon e Ichthys (pesce): quest'ultimo infatti fin dalle origini del cristianesimo è un celeberrimo simbolo cristologico, sulla base dell'acrostico « 'Ιησοῦς Χριστός Θεoῦ Υιός Σωτήρ » (Iesùs CHristòs THeù HYiòs Sotèr), cioè « Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore ». Nei tempi moderni il biblista tedesco Heinz Kruse (1911-2005) ha fatto notare che 153 è la somma dei valori numerici delle lettere ebraiche "qhl h'hbh", che significano "chiesa dell'amore". Il teologo anglicano John A. Emerton (1928-2015) invece parte da un passo del profeta Ezechiele, che vede un fiume uscire dal Tempio di Gerusalemme per irrigare tutta la Palestina portando una quantità incredibile di pesci:
« Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il torrente, vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo, perché dove giungono quelle acque, risanano, e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà. Sulle sue rive vi saranno pescatori: da Engàddi a En-Eglàim vi sarà una distesa di reti. I pesci, secondo le loro specie, saranno abbondanti come i pesci del Mare Grande. » (Ez 47, 9-10)
Ebbene, i due toponimi Engàddi a En-Eglàim, che si riferiscono a due località sul mar Morto, hanno valori numerici la cui somma è proprio 153. Secndo me però si tratta di una soluzione piuttosto cervellotica. È stato anche fatto notare che tale numero coincide con quello dei grani di un Rosario completo di 15 misteri e 3 Avemarie, ma la preghiera del Rosario non è attestata prima dell'epoca medioevale, e fu resa popolare solo da San Domenico di Guzmán (1170-1221), cui nel 1212 apparve la Vergine Maria che gli consegnò la corona del Rosario, come si vede nell'icona della Vergine venerata nel Santuario di Pompei.
François Le Lionnais (1901-1984), uno dei fondatori nel 1960 dell'Oulipo ("Ouvroir de Littérature Potentielle", ovvero "Officina di Letteratura Potenziale", una corrente letteraria contemporanea piuttosto stravagante), nella sua celebre opera "Les nombres remarquables" ("Numeri notevoli", del 1983), ha fatto notare che il 153 gode di molte proprietà numeriche, alcune delle quali potrebbero aver convinto la Scuola Giovannea ad inserire tale numero, solo apparentemente insignificante, nell'episodio della pesca miracolosa. Le Lionnais osserva che esso è uno dei quattro soli numeri maggiori di 1 che sono uguali alla somma dei cubi delle loro cifre:
13 + 53 + 33 = 153
Gli altri sono 370, 371 e 407. Tra l'altro 153 è anche pari alla somma dei cubi dei primi tre numeri dispari! Inoltre è la somma dei primi 17 numeri interi:
153 = 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7 + 8 + 9 + + 10 + 11 + 12 + 13 + 14 + 15 + 16 + 17
Questa proprietà era già nota a Sant'Agostino. Inoltre 153 è la somma dei fattoriali dei primi cinque numeri interi:
153 = 1! + 2! + 3! + 4! + 5!
E non è tutto: 153 è un Numero Triangolare. Cosa significa? Che è possibile disporre le sue unità a formare un triangolo. In pratica, basta disporre un elemento sulla prima riga, due sulla seconda, tre sulla terza, eccetera, in modo da dare vita a una disposizione di forma triangolare, così:
Ne consegue che l'ennesimo numero triangolare è pari alla somma dei primi n numeri interi; e siccome si è visto che 153 è la somma dei primi 17 numeri interi, ne consegue che 153 è il 17-esimo numero triangolare. I primi trenta numeri triangolari sono:
1, 3, 6, 10, 15, 21, 28, 36, 45, 55, 66, 78, 91, 105, 120, 136, 153, 171, 190, 210, 231, 253, 276, 300, 325, 351, 378, 406, 435, 465 ...
Sia t (n) la funzione che associa ad n il corrispondente numero triangolare. Tabulandola in un diagramma fino ad n = 80 (in corrispondenza si ha t (80) = 3240), ecco il risultato che si ottiene:
Effettivamente ci ricorda qualcosa, vero? Così ad occhio mi sembra una parabola. Infatti è possibile dimostrare che la somma dei primi n numeri interi è data dalla formula:
Dimostriamola usando il principio di induzione. Se n = 1, la formula è corretta perchè 1 x ( 1 + 1 ) / 2 = 1, ed infatti la somma arrestata ad 1 vale 1. Se è valida per n, dimostriamo che lo è anche per (n + 1):
il che equivale alla formula t (n) scritta ponendo (n + 1) al posto di n. La formula è dunque corretta. E potendosi anche scrivere:
è evidente che stiamo parlando della restrizione di una parabola ai numeri naturali. Della t (n) è possibile anche dare una giustificazione geometrica. Infatti, sommando ad ogni numero triangolare se stesso capovolto, si ottengono dei numeri rettangolari con base n ed altezza (n + 1), come si vede nella figura seguente:
Da qui è immediato ricavare la formula t (n). Naturalmente esistono infiniti numeri triangolari. Ci sono anche infiniti numeri triangolari che sono pure quadrati esatti; i primi di essi sono t (1) = 1 = 12, t (8) = 36 = 62, t (49) = 1225 = 352, t (288) = 41.616 = 2042, t (1.681) = 1.413.721 = 1.1892 e t (9.800) = 48.024.900 = 6.9302.
Tutti i numeri perfetti sono triangolari; inoltre vale il cosiddetto Teorema di Nicomaco, dal nome del matematico greco Nicomaco di Gerasa (60-120 d.C.): il quadrato dell'n-esimo numero triangolare è pari alla somma dei cubi dei primi n numeri interi. Ad esempio il quinto numero triangolare è 15, il cui quadrato è 225, e si ha 13 + 23 + 33 + 43 + 53 = 1 + 8 + 27 + 64 + 125 = 225. Gauss nel 1796 dimostrò anche che ogni numero naturale si può scrivere come somma di al massimo tre numeri triangolari, eventualmente ripetuti: ad esempio 46 = 6 + 6 + 20. Come riconoscere un numero triangolare? Bisogna che esista un n intero positivo a cui corrisponde t (n) intero positivo. Detto T quest'ultimo numero, dalla definizione si ricava che deve essere:
Da cui, applicando la formula risolutiva delle equazioni di secondo grado:
Se n è un numero intero, allora T è un numero triangolare. Ponendo ad esempio T = 153, per restare in tema con il nostro esempio, si ha 1 + 8 x 153 = 1225, che è il quadrato di 35, da cui si ricava n = 17. Come volevasi dimostrare.
Infine, prima di passare ad un altro numero, facciamo notare che 153 è anche un Numero Esagonale; così infatti si chiamano i numeri le cui unità si possono scrivere a formare un esagono, in questo modo:
I primi venti numeri esagonali sono:
1, 6, 15, 28, 45, 66, 91, 120, 153, 190, 231, 276, 325, 378, 435, 496, 561, 630, 703, 780 ...
Come si vede, ogni numero esagonale è anche un numero triangolare, ma non tutti i numeri triangolari sono anche esagonali. Si può dimostrare che ogni intero positivo può essere rappresentato come somma al più di sei numeri esagonali; tuttavia, soltanto due (11 e 26) richiedono sei numeri, e solo tredici richiedono cinque o più numeri. Adrien-Marie Legendre (1752-1833) ha dimostrato nel 1830 che ogni intero maggiore di 1791 può essere espresso come somma di non più di quattro numeri esagonali; in seguito, è stato dimostrato che ogni intero sufficientemente grande è somma di al più tre numeri esagonali. Davvero i discepoli di Giovanni scelsero il numero 153 in Gv 21, 11 perchè è contemporaneamente la somma dei cubi dei primi tre numeri dispari, un numero triangolare (proprietà che rimandano alla Trinità) ed il nono numero esagonale? Non lo sapremo mai, ma è bello pensarlo.
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Con questo nuovo numero saltiamo all'Apocalisse di Giovanni, un libro del quale abbiamo a lungo trattato in un apposito ipertesto. Esso è ricchissimo di simboli e di numeri, ma in questa lezione ci soffermeremo solo su uno di essi, appunto il 1260. Esso compare in due passi del libro il cui titolo significa "Rivelazione". Il primo riguarda la vicenda dei Due Testimoni, che appaiono dopo che il quinto angelo ha suonato la sua Tromba e dopo che Giovanni ha divorato il libro, simbolo della sua capacità di comprendere pienamente la Parola di Dio. All'Evangelista è quindi chiesto di misurare il Santuario, ripetendo il gesto compiuto dall'antico profeta Ezechiele nei capitoli 40-48 del suo Libro; come si sa, nella mentalità semitica conoscere le misure di qualcosa significa possederlo, dunque il Tempio si trova sotto la diretta protezione dell'Altissimo e dei Suoi ministri. L'atrio, dove potevano entrare anche i Gentili, cioè i pagani, è escluso dalla misurazione, ed infatti viene razziato dai nemici di YHWH. Qui incontriamo i primi due numeri di cui ci occuperemo in questo paragrafo, 42 e 1260. Subito dopo, ecco comparire i due misteriosi Testimoni:
« L'atrio, che è fuori dal Tempio, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani, i quali calpesteranno la Città Santa per quarantadue mesi. Ma farò in modo che i miei due testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni. Questi sono i due olivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra. » (Ap 11, 2-4)
Come ha scritto la biblista saveriana Suor Teresina Caffi, « Il passo di Ap 11,1-13 conclude la "sezione delle trombe", che riguarda il tempo pre-escatologico, caratterizzato dalla "parzialità intrastorica", in cui ci sono alti e bassi, ed il trionfo effimero del male. Si parte da un presente, visto con tutte le sue parzialità, ma si ha in vista un futuro, il futuro escatologico, che appartiene alla "Città Santa". C'è il già e il non ancora. » (vedi questo link) Effettivamente, il Maligno sembra trionfare: per 42 mesi la Città Santa, cioè Gerusalemme, sarà razziata dagli eserciti dei pagani, e quando appaiono i due Testimoni" (termine che in greco può essere reso con "martiri"), essi fanno una brutta fine, in linea con l'ammonimento di Gesù: « Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te » (Mt 23, 37a):
« Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l'acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli, tutte le volte che lo vorranno. E quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall'abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. » (Ap 11, 6-7
La risurrezione dei Due Testimoni, Arazzi dell'Apocalisse, Angers, 1373-77
Tra le immaginose visioni dell'Apocalisse, quella dei Due Testimoni non è certo la meno suggestiva e la meno efficace. Alla mente di Giovanni tornano probabilmente le figure di San Pietro e di San Paolo, i quali, trovandosi a Roma al momento dello scoppio della persecuzione neroniana, continuarono imperterriti la loro testimonianza di fede fino al martirio, che secondo la tradizione avvenne lo stesso giorno, il 29 giugno del 67 d.C. A noi lettori, tuttavia, queste due figure profetiche richiamano piuttosto Mosè ed Elia, i testimoni della Trasfigurazione, incarnazione stessa della Legge e dei Profeti. L'espressione "i due olivi e le due lampade" fa riferimento a Zaccaria 4, 2-14 e fa pensare a Giosuè e Zorobabele, rispettivamente il sommo sacerdote e la guida politica del rientro degli Ebrei da Babilonia dopo l'Editto di Ciro; infatti nel tardo giudaismo era diventato abituale riferirsi a questi due personaggi come ai testimoni dell'era messianica. Infine, nella tradizione popolare questi due personaggi sono stati identificati con Enoc ed Elia, gli unici due personaggi dell'Antico Testamento che non sarebbero mai morti, l'uno perchè « camminò con Dio, poi scomparve perché Dio l'aveva preso » (Genesi 5, 24), l'altro perchè rapito in Cielo da un carro di fuoco (2 Re 2, 11); si pensava quindi che sarebbero rimasti in vita fino al momento di offrire la loro testimonianza nei tempi escatologici. A questo proposito è degna di citazione la curiosa leggenda romana secondo cui i due biblici personaggi sarebbero sbucati fuori da una non meglio identificata caverna ("bbùscia", buca) presso la Chiesa di San Paolo fuori le mura, come riporta il poeta romanesco Gioacchino Belli (1791-1863) in questo suo sonetto dedicato all'Anticristo:
« Poi pe ccombatte co sta bbrutta arpia
tornerà da la bbùscia de San Pavolo
doppo tanti mil'anni er Nocchilia »
Da notare la fusione, operata dalla cultura popolaresca, delle due figure in una sola, chiamata con la crasi dei loro nomi: il "Nocchilia". Chiunque si nasconda dietro questi due personaggi escatologici, comunque, è da osservare che il loro numero fa esplicito riferimento alla Legge ebraica: in un processo una testimonianza era da ritenersi valida solo se avvalorata da almeno due testimoni. La loro storia comunque sembra ricalcare passo passo quella di Cristo:
« Gli abitanti della terra fanno festa su di loro, si rallegrano e si scambiano doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra. Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita che veniva da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. Allora udirono un grido possente dal cielo che diceva loro: "Salite quassù" e salirono al cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano. » (Ap 11, 6-7.10-12)
Soffrono, muoiono, la loro morte è festeggiata, ma come per Gesù tutto questo è temporaneo: risorgono ed ascendono al Cielo. L'unica differenza sta nel fatto che Gesù rimane nella tomba per tre giorni (« lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà. » Mc 10, 34), mentre i cadaveri dei Due Testimoni restano esposti sulla pubblica piazza per tre giorni e mezzo; ed ecco il terzo numero che incontriamo in questa lezione, il primo frazionario: 3,5. Esso proviene molto probabilmente da un altro libro oscuramente apocalittico, il libro di Daniele:
« [La quarta bestia]
proferirà parole contro l'Altissimo e insulterà i Santi dell'Altissimo; penserà
di mutare i tempi e la Legge. I Santi gli saranno dati in mano per
un tempo, tempi e metà di un tempo.
» (Dan 7, 25)
« Udii l'uomo vestito di lino, che era sulle acque del fiume, il quale, alzate
la destra e la sinistra al cielo, giurò per Colui che vive in eterno che tutte
queste cose si sarebbero realizzate fra
un
tempo, tempi e metà di un tempo,
quando fosse giunta a compimento la distruzione della potenza del popolo santo.
» (Dan 12, 7)
« un tempo, tempi e metà di un tempo » equivale a 1 + 2 + 0,5 = 3,5. Ma i numeri apocalittici che abbiamo incontrato in Ap 11 hanno una qualche connessione fra di loro? Direi prprio di sì: quarantadue mesi e milleduecentosessanta giorni corrispondono esattamente a tre anni e mezzo. Questa durata nel libro di Daniele (vedi quest'altro mio ipertesto) corrisponde grosso modo alla durata della persecuzione di Antioco IV Epifane, sovrano di Siria dal 175 al 164 a.C. che, per la sua ferocia inaudita, viene presa a paradigma di ogni prova cui nei secoli verrà sottoposto il popolo ebraico prima, la Chiesa Cristiana poi. Da notare che tre e mezzo è la metà di sette: sette è il numero della completezza e della perfezione, per cui la sua metà non può che significare precarietà e limitatezza. I due Testimoni/Martiri restano "tre giorni e mezzo" e non tre in preda della morte perché tre è il numero Trinitario, e fa riferimento alla Divinità di Cristo, mentre tre giorni e mezzo sono simbolo di ciò che è incompiuto e destinato al fallimento. In altre parole, con questa cifra San Giovanni vuole dirci che la persecuzione sarà terribile, ma sarà pur sempre limitata e passeggera. Ciò vale per ogni persecuzione, dalla sete di sangue di Nerone alla Shoah voluta da Hitler fino alle persecuzioni del Daesh negli anni Duemila: può essere sanguinosa, devastante, inenarrabile, ma è pur sempre sotto il controllo di Dio, che non permetterà mai il trionfo dei nemici. Il trionfo definitivo, come sanno tutti i lettori dell'Apocalisse, sarà riservato all'Agnello.
Il numero 1260, simbolo della temporaneità della vittoria del Male, la ritroviamo nel capitolo successivo dell'Apocalisse, una delle pagine più celebri dell'intero Nuovo Testamento, ritenuta capostipite di duemila anni di devozione mariana; il racconto del drago con sette teste e dieci corna e della Donna Vestita di Sole:
« Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto. [...] Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito. Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni. » (Ap 12, 1-2.4b-6)
Nella donna incinta della visione la tradizione ha naturalmente identificato Maria, la Madre di Cristo, che da allora viene tradizionalmente raffigurata nell'arte con la corona di dodici stelle, la luna sotto i piedi e l'abito risplendente: dopotutto sulla croce Gesù affodò Maria proprio all'Evangelista Giovanni. Secondo vari esegeti moderni, invece, tratteggiando questa visione straordinaria l'Autore pensava piuttosto alla Chiesa, cioè al Popolo di Dio dell'Antico Testamento che ci dona Gesù Cristo e diventa il Popolo di Dio del Nuovo Testamento, la quale lotta con Satana per mantenersi fedele a Dio, venendo da Lui sempre salvata. Il parto doloroso non può che richiamare le sofferenze della Passione di Cristo. Il drago si avventa contro la Donna, simbolo dell'eterna persecuzione di cui è fatta oggetto la Chiesa di Cristo, ma ecco che cosa accade:
« Quando il drago si vide precipitato sulla terra, si mise a perseguitare la donna che aveva partorito il figlio maschio. Ma furono date alla donna le due ali della grande aquila, perché volasse nel deserto verso il proprio rifugio, dove viene nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo, lontano dal serpente. » (Ap 12, 13-14)
Riecco l'espressione del Libro di Daniele: tre tempi e mezzo, cioè tre anni e mezzo, la metà dei sette anni che rappresenterebbero un tempo compiuto e fruttuoso, equivalente ai 1260 giorni del versetto 6. E non è finita; i quarantadue mesi
« E vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo. La bestia che io vidi era simile a una pantera, con le zampe come quelle di un orso e la bocca come quella di un leone. Il drago le diede la sua forza, il suo trono e il suo grande potere. [...] Alla bestia fu data una bocca per proferire parole d'orgoglio e bestemmie, con il potere di agire per quarantadue mesi. » (Ap 13, 1-2.5)
Nella mentalità apocalittica del Profeta Daniele (o meglio, del redattore finale del suo libro) e di San Giovanni Apostolo, queste espressioni numeriche ripetute con la cadenza di un ritornello sono nient'altro che il ricorrente della vittoria solo temporanea del Maligno. Purtroppo però in passato del numero 1260 è stata data tutt'altra interpretazione, a partire dalla predicazione del monaco calabrese Gioacchino da Fiore (1130-1202), secondo il quale l'Apocalisse è la "rivelazione" del futuro. Secondo lui la storia del mondo è divisa in tre epoche, segnate dalle tre persone divine: l'Antico Testamento fino a Gesù rappresenta l'era del Padre; l'era del Figlio doveva terminare (secondo lui) nel 1260 dopo Cristo, dando inizio all'era dello Spirito Santo. Secondo Gioacchino pertanto era imminente il momento della venuta dell'Anticristo, sconfitto il quale sarebbe iniziato il Regno dei Mille Anni, ultimo periodo della storia umana prima del definitivo Giudizio Universale. Così scrive a questo proposito il biblista don Claudio Doglio (vedasi questo link):
« Con questo principio ermeneutico la fantasia di molti esegeti si sbizzarrì, trovando nell'Apocalisse le previsioni di tutti i fatti storici accaduti fino a quel tempo; il movimento degenerò presto nella polemica antipapale e il testo di Giovanni fu usato come strumento contro la Chiesa, identificata con Babilonia, e contro il Papa, riconosciuto come l'Anticristo. Il metodo continuò per molto tempo ad essere usato, soprattutto dai riformatori in chiave anticattolica. Il grande commentario biblico del francescano Nicolò di Lyra (1270-1340), professore di teologia a Parigi, purificò questo sistema interpretativo dagli eccessi polemici e lo consacrò come legittimo: da quel momento l'Apocalisse venne letta abitualmente come profezia completa della storia universale, esposizione continuata degli avvenimenti futuri, in ordine cronologico e senza ripetizioni. Ancora oggi questo tipo di lettura è seguito da sètte e movimenti tendenti al fanatismo: infatti, è quanto di più soggettivo si possa immaginare, strumento valido per dir quel che si vuole contro chiunque. Un tale metodo, facendo forza sull'idea di rivelazione trascendente, non tiene in nessun conto l'apporto dell'autore e dei destinatari umani, cioè l'ambiente d'origine, l'uso dell'Antico Testamento e il senso del genere apocalittico. Si può con certezza dire che questo approccio è scorretto e falsifica il senso dell'opera; mancando i punti sicuri di riferimento fra il testo e la storia, ogni spiegazione risulta inevitabilmente infondata. »
Di questo riparleremo alla fine, trattando del fenomeno del Millenarismo. Per ora ci limiteremo a sottolineare come l'Apocalisse non racconti affatto il futuro, bensì il presente della Chiesa, e dunque da esso non è possibile estrarre date venture nelle quali l'Anticristo ci avrebbe dato appuntamento per combattere i seguaci dell'Agnello. Ogni numero in quest'ottica non rappresenta una profezia, ma un simbolo, e noi abbiamo cercato di illustrare quale.
Il drago minaccia la Donna,
Apocalisse di
Enrico II, 1020, Bamberga, Staatsbibliothek
Ma, simboli a parte, il nostro 1260 ha altre proprietà matematiche? Sì, è un numero altamente composto. Si definiscono così gli interi positivi che hanno più divisori di qualsiasi intero positivo minore di loro. I primi venti numeri altamente composti oltre all'uno sono:
1, 2, 4, 6, 12, 24, 36, 48, 60, 120, 180, 240, 360, 720, 840, 1260, 1680, 2520, 5040, 7560, 10080 ...
Essi hanno rispettivamente 1, 2, 3, 4, 6, 8, 9, 10, 12, 16, 18, 20, 24, 30, 32, 36, 40, 48, 60, 64 e 72 divisori positivi. I numeri altamente composti sono infiniti. Per dimostrarlo, supponiamo che N sia un qualsiasi numero altamente composto. Allora 2N avrà più divisori di N (avrà infatti tutti i divisori di N, più perlomeno 2N), e quindi un numero maggiore di N, ma non superiore a 2N, deve essere a sua volta altamente composto.
Un numero altamente composto avrà probabilmente come fattori primi i più piccoli possibili, ma non troppi uguali. Dato un numero N la cui scomposizione in fattori primi è:
dove p1 < p2 < ... < pn sono primi, e gli esponenti k1, k2, ... kn sono interi positivi, allora il numero di divisori di N è ( k1 + 1 ) ( k2 + 1 ) ... (kn + 1 ). Quindi, affinché N sia un numero altamente composto:
1) i k numeri primi p1, p2, ..., pn devono essere precisamente i primi n numeri primi (2, 3, 5, ...); altrimenti, possiamo sostituire uno dei primi dati con uno minore, e ottenere così un numero minore di N con lo stesso numero di fattori (ad esempio, 10 = 2 x 5. Il 5 potrebbe essere sostituito con il 3: 6 = 2 x 3, ed entrambi avrebbero 4 divisori).
2) la sequenza degli esponenti non deve essere crescente, vale a dire k1 > k2 > ... > kn; altrimenti, scambiando due esponenti non in ordine, si può ottenere un numero minore di N con lo stesso numero di divisori (ad esempio 18 = 21 x 32 può essere trasformato in 12 = 22 x 31, entrambi con 6 divisori).
3) ad eccezione dei casi N = 4 e N = 36, l'ultimo esponente kn deve essere uguale ad 1.
I numeri altamente composti maggiori di 6 sono anche numeri abbondanti. Per dimostrarlo basta guardare ai tre o quattro divisori più alti di un particolare numero altamente composto. Tutti i numeri altamente composti sono anche numeri di Harshad: un numero di Harshad è un numero intero positivo divisibile per la somma delle proprie cifre. Ad esempio, il nostro 1260 è divisibile per 1 + 2 + 6 + 0 = 9. Tali numerii furono introdotti dal matematico indiano Dattatreya Ramachandra Kaprekar (1905-1906), ed infatti il termine Harshad deriva dal sanscrito "harṣa" che significa "grande gioia". A volte ci si riferisce a questi numeri anche come numeri di Niven, in onore del matematico canadese Ivan Morton Niven (1915-1999). I primi trenta numeri di Harshad con più di una cifra sono:
10, 12, 18, 20, 21, 24, 27, 30, 36, 40, 42, 45, 48, 50, 54, 60, 63, 70, 72, 80, 81, 84, 90, 100, 102, 108, 110, 111, 112, 114 ...
Si noti che anche il 42 di Ap 11, 2 e 13, 5 è un numero di Harshad! Non è invece un numero altamente composto.
Ogni numero formato da una cifra compresa tra 1 e 9 e da un numero qualunque di zeri (ad es. i 7000 morti di Ap 11, 13) è un numero di Harshad, essendo divisibile per quella cifra. Sono di Harshad anche i numeri scritti in notazione decimale con la stessa cifra ripetuta tre volte, ad es. 777 (l'età di Lamec, padre di Noè, secondo Gen 5, 31). Infatti, detta p tale cifra, il numero in notazione decimale ppp potrà essere scritto come p x 100 + p x 10 + p = p x 111 = p x 3 x 37 = 37 x (3p), e quindi tale numero sarà sicuramente divisibile per la somma delle sue cifre, che è 3p. Analogamente tutti i numeri scritti in notazione decimale ripetendo una stessa cifra un numero di volte pari a un multiplo di 3 è di Harshad. Inoltre tutti i fattoriali fino a 431! compreso sono numeri di Harshad, 432! è il primo a non esserlo.
Infine, 1260 è anche uno dei cosiddetti numeri del vampiro, introdotti per la prima volta nel 1994 da Clifford A. Pickover (1957-) nel capitolo 30 del suo libro "Keys to Infinity". Questo lugubre nome è assegnato ai numeri naturali composti V, con un numero pari di cifre n, che possono essere scritti come il prodotto di due interi x e y (chiamati "zanne" del vampiro!) che non abbiano entrambi degli zeri finali e ognuno dei quali abbia n/2 cifre, dove V contiene precisamente tutte le cifre di x e y, in un ordine qualsiasi, contando la molteplicità. Per esempio, il nostro 1260 è un numero del vampiro le cui zanne sono 21 e 60, dato che 21 x 60 = 1260; 1260 ha 4 cifre e 12 e 60 hanno entrambi 4/2 = 2 cifre, ed è inoltre formato da tutte le cifre di 21 e 60. Invece 1023 (le cui zanne sono 31 e 33) non può essere un numero del vampiro, perché in 1023 non sono contenute tutte le cifre delle zanne: 1023 contiene sì sia il 3 che l'1, ma nelle sue zanne il 3 compare, complessivamente, tre volte, quindi 1023 dovrebbe essere composto da tre 3. I primi venti numeri del vampiro sono:
1260, 1395, 1435, 1530, 1827, 2187, 6880, 102510, 104260, 105210, 105264, 105750, 108135, 110758, 115672, 116725, 117067, 118440, 120600, 123354 ...
Si noti che il 1260 è il primo tra i numeri del vampiro! È proprio il caso di dire che mai nome per una volta fu più azzeccato per un numero, dato che in esso si condensa il potere dei mostri che nell'Apocalisse tentano di imporre il dominio assoluto della Bestia e del drago che le aveva dato il suo sinistro potere.
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Il numero di Debora
L'argomento di cui tratteremo ora si riferisce di nuovo a un personaggio dell'Antico Testamento, ma lo ho posto dopo Daniele e l'Apocalisse perchè tratta un argomento che riguarda più da vicino la Fisica che la Matematica, e in particolare la Reologia. Questa parola, ben poco nota anche a molti di coloro che hanno dimestichezza con la scienza, fu introdotta per la prima volta nel 1928 dal chimico americano Eugene Cook Bingham (1878-1945) e viene dal greco " reo", ossia "scorro", e "logos", cioè "discorso,"; rappresenta quindi la scienza che studia gli equilibri raggiunti nella materia deformata per effetto di sollecitazioni. In pratica, per quanto ciò possa sembrare strano, anche i solidi, sottoposti a sforzi, tendono a comportarsi come se fossero fluidi estremamente viscosi. La reologia interessa una grande varietà di discipline scientifiche: biologia, chimica, fisica, matematica, ingegneria e geologia, e sono svariati i materiali studiati da questa disciplina: farmaceutici, alimentari, materie plastiche, gomme, ceramiche, persino materiali da costruzione, il cui comportamento sotto sforzo può portare, durante il processo di lavorazione, ad esiti inaspettati.
Si dice tempo di rilassamento τ quell'intervallo di tempo, caratteristico di ogni sostanza, che è necessario ai legami delle molecole che costituiscono un materiale per rispondere ad uno stimolo esterno. Può quindi essere considerato il tempo di applicazione di un carico molto intenso, necessario per indurre scorrimento o deformazione (in italiano viene chiamato anche " tempo di risposta"). Ebbene, si dice numero di Debora (indicato con De) un numero adimensionale che rappresenta il rapporto tra il tempo di rilassamento τ che caratterizza la fluidità intrinseca del materiale e il tempo totale Δt durante il quale è osservato il suo comportamento:
De = τ / Δt
Questo numero fu introdotto nel 1964 dallo scienziato israeliano Markus Reiner (1886-1976), il quale non a caso gli diede il nome di Debora (in ebraico דבורה, che significa "ape", come Melissa), una profetessa che fu l'unica Giudice donna del popolo d'Israele. Esercitò questa funzione per 40 anni, alla metà del XII secolo a.C. (secondo i calcoli di alcuni esegeti, fra il 1160 e il 1120 a.C.); la sua vicenda è narrata nei capitoli 4 e 5 del Libro dei Giudici. Il capitolo 4 è in prosa, e narra della guerra vittoriosa sostenuta da Debora e Barak contro il re cananeo Iabin e il suo spietato generale Sisara:
« Gli Israeliti ripresero a fare ciò che è male agli occhi del Signore. Il Signore li consegnò nelle mani di Iabin, re di Canaan, che regnava ad Asor. Il capo del suo esercito era Sìsara, che abitava a Caroset-Goìm. Gli Israeliti gridarono al Signore, perché Iabin aveva novecento carri di ferro e da vent'anni opprimeva duramente gli Israeliti. In quel tempo era giudice d'Israele una donna, una profetessa, Dèbora, moglie di Lappidòt. Ella sedeva sotto la palma di Dèbora, tra Rama e Betel, sulle montagne di Èfraim, e gli Israeliti salivano da lei per ottenere giustizia. Ella mandò a chiamare Barak, figlio di Abinòam, da Kedes di Nèftali, e gli disse: "Sappi che il Signore, Dio d'Israele, ti dà quest'ordine: Va', marcia sul monte Tabor e prendi con te diecimila figli di Nèftali e figli di Zàbulon. Io attirerò verso di te, al torrente Kison, Sìsara, capo dell'esercito di Iabin, con i suoi carri e la sua gente che è numerosa, e lo consegnerò nelle tue mani." » (Gdc 4, 1-7)
Il capitolo 5 invece è in poesia, e contiene quella che, secondo la maggior parte degli esegeti (vedi l'introduzione), è una delle pagine più antiche dell'Antico Testamento, scritta contemporaneamente agli eventi o poco dopo, per festeggiare la vittoria di Barak e Debora su Iabin. Essa infatti parla di una battaglia cosmica combattuta persino dagli astri del cielo, suggerendo così che i suoi autori pensassero ancora alle stelle come semidivinità, quando ancora il Monoteismo perfetto non si era ancora imposto su tutto Israele:
«
Dal cielo le stelle diedero battaglia,
dalle loro orbite combatterono contro Sìsara! » (Gdc 5, 20)
Quello che a noi interessa è il seguente versetto del cosiddetto Cantico di Debora:
«
I monti si sciolsero
davanti al Signore, quello del Sinai,
davanti al Signore, Dio d'Israele. » (Gdc 5, 5)
(da notare che la traduzione CEI del 2008 travisa questo verso traducendo « Sussultarono i monti davanti al Signore ») Infatti dalla definizione del numero di Debora deriva che, per tempi di applicazione del carico molto lunghi, anche le montagne possono "sciogliersi"!
La profetessa Debora come è stata disegnata nella
"Sacra Bibbia a fumetti" della San Paolo (1997)
Dunque qui non ci troviamo di fronte a un numero intero come 220 o 1260, ma ad una costante empirica che può assumere svariati valori a seconda del materiale utilizzato. A seconda di tali valori, possiamo classificare i materiali in tre categorie:
1) Se De >> 1 (τ >> t), i materiali di questo tipo rispondono molto lentamente a un carico esterno e conseguentemente verranno percepiti come solidi; si parla perciò di materiali simil-solidi). I solidi con numero di Debora tendenti ad infinito hanno comportamento analogo ai solidi elastici ideali, che rispettano la Legge di Hooke (quella delle molle).
2) Se De << 1 (τ << t), i materiali di questo tipo rispondono istantaneamente e conseguentemente verranno percepiti come fluidi; si parla perciò di materiali simil-fluidi). Sono tali le sospensioni, le emulsioni, le dispersioni colloidali, i gel e gli unguenti. I solidi con numero di Debora prossimi a zero hanno comportamento analogo ai liquidi viscosi ideali o newtoniani.
3) Se De vale circa 1 (τ prossimo a t), i materiali di questo tipo hanno un comportamento intermedio e verranno percepiti come più o meno solidi o fluidi a seconda del tempo di applicazione dello sforzo. Si parla così di materiali viscoelastici. Un esempio di materiale viscoelastico è lo slime, una miscela di fibre, polimeri e leganti in grado ad esempio di riparare pneumatici sgonfi. Se stressato lentamente scorre come un liquido, mentre se la forza viene applicata rapidamente non scorre e si può rompere in pezzi più piccoli, comportandosi come un solido.
Il numero di Debora insomma è utilizzato in reologia per misurare quanto è "fluido" il comportamento di un materiale. A volte questo numero è confuso con il numero di Weissenberg, dal nome del fisico austriaco Karl Weissenberg (1893-1976);, un numero anch'esso adimensionale utilizzato principalmente nello studio dei fluidi viscoelastici. Per esempio, in presenza di uno sforzo di taglio costante, il numero di Weissenberg si definisce come il prodotto della velocità di applicazione dello sforzo per il tempo di rilassamento. Benché sia simile al numero di Debora, il numero di Weissenberg indica il grado di anisotropia od orientazione generato dalla deformazione, ed è appropriato per descrivere fluidi con allungamento costante, ad esempio un flusso sottoposto a uno sforzo di taglio semplice. Invece il numero di Debora viene utilizzato per descrivere fluidi con allungamento non costante, e fisicamente rappresenta la velocità con la quale l'energia elastica è immagazzinata o espulsa dal fluido. Per valutare il numero di Debora ad esempio dei cementi freschi si utilizza il cosiddetto "slump test": si riempie di cemento fresco un vaso a forma di tronco di cono, lo si rovescia su un piano, si solleva il vaso e si misura quanto tempo impiega il cemento a "scivolare" verso il basso come un fluido a partire da quella forma troncoconica:
Un caso particolare è rappresentato dai cosiddetti fluidi non newtoniani, in cui la viscosità varia a seconda dello sforzo di taglio che viene applicato, e di conseguenza essi non hanno un valore definito di viscosità. Molte soluzioni polimeriche sono fluidi non newtoniani. Esempi comuni di fluidi non newtoniani sono il sangue, l'asfalto, il dentifricio e i fluidi polimerici. Un semplice esempio di fluido non newtoniano può essere realizzato miscelando acqua e amido di mais o fecola di patate, di quelle che si trovano in commercio nei supermercati. L'applicazione di una forza, per esempio riempiendo di questo fluido una bacinella, entrandovi a piedi nudi e cominciando a comprimere il fluido come se si stesse pigiando l'uva, induce il fluido a comportarsi come un solido più che come un liquido: è la proprietà di "ispessimento al taglio". Una persona che applica una forza sufficiente con i piedi può letteralmente camminare sopra un tale liquido! Applicando invece forze più deboli, come il lento inserimento di un cucchiaio nel fluido, lo manterrà nel suo stato liquido, proprio come Gesù camminò sulle acque del lago di Galilea, ma Pietro, che non aveva abbastanza fede, sprofondò in esse!
« La barca distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: "È un fantasma!" e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: "Coraggio, sono io, non abbiate paura!" Pietro allora gli rispose: "Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque." Ed egli disse: "Vieni!" Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s'impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: "Signore, salvami!" E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: "Uomo di poca fede, perché hai dubitato?" » (Mt 14, 24-31)
Anche gli studenti del mio Liceo si sono cimentati con i fluidi non newtoniani nel loro programma di Scienze, ed hanno realizzato il seguente video:
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Il problema di Giuseppe Flavio
Non possiamo concludere la nostra opera senza accennare al cosiddetto problema di Giuseppe Flavio, importante non solo in matematica ma pure in informatica, anche se esso non riguarda una pagina biblica, bensì un episodio della biografia dell'omonimo storico ebreo vissuto fra il 37 e il 100 dopo Cristo. In effetti un legame con la Scrittura c'è, perchè Giuseppe figlio di Mattia (Yosef ben Matityahu in lingua ebraica, come lui stesso ci racconta nella sua Autobiografia) fu capo dell'armata della Galilea durante la grande Sollevazione Giudaica tra il 66 e il 70 d.C., che si concluse con la sconfitta militare degli insorti, la presa di Gerusalemme e la distruzione del Tempio di Gerusalemme, che era stata più volte profetizzata da Gesù Cristo:
« Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del Tempio. Egli disse loro: Non vedete tutte queste cose? In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta." ». (Mt 24, 1-2; vedi anche Mc 13, 1-2 e Lc 21, 5-6)
Nel 66 d.C. gli Zeloti si rivoltarono contro il dominio di Roma (la cosiddetta Prima Guerra Giudaica), ma Nerone rispose inviando in Giudea il generale Vespasiano insieme al giovane figlio di lui, Tito. Nonostante le speranze dei guerriglieri zeloti, Vespasiano passò di vittoria in vittoria e pose l'assedio a Iotapata (in ebraico Yodfat), villaggio fortificato nella Galilea settentrionale, la cui difesa era affidata proprio alla guarnigione di Giuseppe. Quando i ribelli asserragliati nella fortezza si accorsero che i Romani stavano per espugnarla, decisero di suicdarsi in massa, e minacciarono di uccidere anche il loro capo, che invece sembrava incline ad arrendersi ai nemici (in effetti i difensori della fortezza erodiana di Masada commisero un suicidio di massa nel 73 d.C.) Giuseppe, parlando in terza persona come Giulio Cesare, racconta nella sua "Guerra Giudaica" come riuscì a convincerli dell'immoralità del suicidio per i seguaci di YHWH, e come propose di morire non per mano propria, ma per mano dei compagni, estraendo a sorte un uomo a turno che sarebbe stato ucciso dagli altri:
« In un momento così drammatico non
venne meno a Giuseppe l'accortezza e, fidando nell'aiuto di Dio, mise in gioco
la vita dicendo: "Poiché abbiamo deciso di morire, lasciamo alla sorte di
regolare l'ordine in cui dobbiamo darci l'un l'altro la morte: ognuno sarà
ucciso da chi verrà sorteggiato dopo di lui, e così sarà la sorte a stabilire il
destino di tutti, senza che nessuno debba perire di sua mano; non sarebbe giusto,
infatti, che quando gli altri fossero morti qualcuno cambiasse idea e si
salvasse." Le sue parole vennero accolte con fiducia e accettarono di effettuare
il sorteggio.
Ognuno porgeva prontamente il collo a chi era stato sorteggiato dopo di lui,
sicuro che presto anche il capo sarebbe morto; infatti stimavano più dolce della
vita il morire insieme con Giuseppe. Ma questi, non si saprebbe dire se per un
caso o per volere di Dio, restò alla fine assieme ad un altro, e non volendo né
essere condannato dalla sorte, né contaminarsi le mani col sangue di un
connazionale se fosse rimasto ultimo, persuase anche il compagno a fidarsi delle
assicurazioni e ad accettare di aver salva la vita.
Scampato così alla guerra fattagli dai Romani e dai suoi connazionali, Giuseppe
fu condotto da Nicanore davanti a Vespasiano. » (Guerra Giudaica, Libro III, 8, 7-8)
Alla fine, come si vede, rimasero solo in due, uno dei quali era Giuseppe, che non fece fatica a convincere il compagno a consegnarsi ai Romani. Una volta giunto nell'accampamento nemico, profetizzò a Vespasiano che sarebbe divenuto Imperatore, come afferma anche lo storico romano Svetonio:
« In Giudea, mentre stava consultando l'oracolo del dio del Carmelo, le sorti confermarono a Vespasiano che avrebbe ottenuto tutto ciò che voleva e aveva in animo, per quanto fosse grande; ed un nobile tra i prigionieri di nome Giuseppe, mentre veniva messo in catene, affermò che lo stesso Vespasiano lo avrebbe liberato, quando fosse ormai diventato imperatore. » (Vita di Vespasiano, 5)
Anziché farlo giustiziare, il generale gli credette, sapendo che il popolo d'Israele aveva dato i natali a grandi profeti; e quando, il 1 luglio del 79 d.C., Vespasiano sconfisse l'altro pretendente al trono Aulo Vitellio e fu proclamato imperatore, fece liberare Giuseppe e lo trattò con ogni riguardo:
« "Mi sembra una vergogna", concluse Vespasiano, "che chi mi predisse l'impero e fu ministro della voce di Dio sopporti ancora la condizione di prigioniero e l'umiliazione di stare in catene."Ciò detto, mandò a chiamare Giuseppe e diede ordine di togliergli i ceppi. » (Guerra Giudaica, Libro IV, 10, 7)
Giuseppe fu così grato al nuovo imperatore Tito Flavio Vespasiano da aggiungere il nome "Flavio" al proprio; e fu così che a Roma divenne Giuseppe Flavio. Nell'Urbe, dove il sovrano lo portò, egli trascorse il resto della propria vita, scrivendo opere storiche che oggi ci sono preziosissime per conoscere le vicende del giudaismo nel primo secolo dell'Era Volgare: le "Antichità Giudaiche", la "Guerra Giudaica", l'"Autobiografia" e il "Contro Apione". Queste opere avevano lo scopo di illustrare ai lettori romani la storia, gli usi, i costumi e la religione degli Ebrei. Quasi tutti i Giudei a lui contemporanei lo consideravano un traditore e un apostata, amico di quei romani che avevano distrutto il Tempio di Gerusalemme, e probabilmente la prima stesura in aramaico delle sue opere non ci è giunta perchè fu distrutta dai suoi correligionari; per fortuna però ce ne è giunta la traduzione in greco. I cristiani infatti preservarono le sue opere nel Medioevo perchè nelle "Antichità giudaiche", libro XVIII, 63-64 è contenuto il cosiddetto "Testimonium Flavianum", uno dei primi riferimenti alla figura storica di Gesù al di fuori dei Vangeli (anche se alcuni zelanti copisti cristiani aggiunsero all'opera di Giuseppe Flavio la frase « Questi era il Cristo », che certamente non è opera sua, poiché in nessun altro passo delle sue opere egli afferma di aver aderito al nascente cristianesimo). In passato qualcuno ha avanzato l'ipotesi che il personaggio evangelico di Giuseppe di Arimatea sia da identificarsi con Giuseppe Flavio, ma ciò è in contrasto con i dati della sua Autobiografia, dato che il nostro scrittore nacque nel 37 d.C., quindi dopo la morte di Gesù in croce, e non fece mai parte del Sinedrio. Giuseppe Flavio morì a Roma nei primi anni del II secolo, sotto il regno di Traiano. Chi di voi vuole leggere integralmente la "Guerra Giudaica", può scaricarla da questo link.
Giuseppe Flavio, incisione del XIX secolo
La questione che ci interessa ora è la seguente. Davvero Giuseppe durante l'assedio di Iotapata restò uno degli ultimi due superstiti « per un caso o per volere di Dio », come scrive lui stesso, o piuttosto perchè aveva capito in anticipo come fare per salvarsi la pelle? È così che nascque il cosiddetto "problema di Giuseppe Flavio", quello che in inglese oggi si chiama un "problema di counting-out" (cioè in cui i giocatori vengono eliminati l'uno dopo l'altro, ovviamente non sempre fisicamente). Oggi lo possiamo formulare così. I giocatori si dispongono in cerchio, quindi da un punto specifico inizia il conteggio; ovviamente non si tira a sorte, se no la soluzione sarebbe davvero abbandonata al puro caso, ma si conta ad esempio una persona ogni due, o una ogni tre, o una ogni quattro, e così via. Chi viene selezionato da questo tipo di conteggio, viene immediatamente eliminato dal gioco e non più conteggiato; la procedura viene ripetuta con i restanti giocatori, iniziando con la persona accanto, andando nella stessa direzione e saltando lo stesso numero di giocatori (per questo si parla anche di "permutazione di Giuseppe Flavio"). Lo scopo del problema è il seguente: conoscendo il numero di giocatori, il punto di partenza del conteggio, la direzione e il numero di concorrenti da saltare, occorre scegliere la posizione in cui sistemarsi nel cerchio iniziale, in modo da evitare l'esecuzione restando l'ultimo in vita.
Formulato in questo modo il problema, anziché con il meccanismo dell'estrazione a sorte, più che un predestinato da YHWH a sopravvivere per narrare alle future generazioni le vicende della Guerra Giudaica, Giuseppe Flavio appare piuttosto come un furbacchione che, conoscendo approfonditamente la matematica e il calcolo combinatorio (lui stesso nell'Autobiografia ci narra di aver studiato a fondo, da giovane, la cultura greca), ha saputo scegliere il posto giusto in cui posizionarsi per rimanere in vita, lasciando poi volutamente nel vago i dettagli del meccanismo utilizzato in questa impresa per far credere di essersi salvato non per codardia, ma per un preciso volere divino. Accusa che evidentemente gli avevano mosso sul serio i suoi compatrioti, se uno dei difensori di Iotapata gli rinfaccia: « Tu sei attaccato alla vita, Giuseppe, e sei disposto anche a diventare uno schiavo pur di vivere? Come hai fatto presto a scordarti di te stesso! » (Guerra Giudaica, Libro III, 8, 4) Nel 1612 il matematico francese Claude-Gaspard Bachet de Méziriac (1581-1638) fu il primo a formulare il problema in questo modo e a suggerire la tecnica con cui gli uomini devono disporsi in cerchio contando a tre a tre per determinare l'ordine di eliminazione. Invece Israel Nathan Herstein (1923-1988) e Irving Kaplansky (1917-2006) nel 1974 hanno studiato la formulazione del problema in cui Giuseppe e 39 compagni sti dispongono in cerchio ed ogni settimo uomo viene eliminato. Sandy L. Zabell nel 1976, basandosi sul testo che abbiamo letto sopra, ha aggiunto il fatto che Giuseppe aveva un complice; il problema consiste allora nel prevedere i posti che devono occupare gli ultimi due giocatori rimasti, la cui cospirazione garantisce la sopravvivenza (Zabell conclude che Giuseppe ha posizionato se stesso e il suo complice rispettivamente nel 16° e nel 31° posto). Invece una versione medievale del problema di Giuseppe Flavio coinvolge 15 turchi e 15 cristiani a bordo di una nave in tempesta che affonderà, a meno che la metà dei passeggeri non siano gettati in mare per alleggerirla. Tutti i 30 passeggeri si dispongono in cerchio, ed ogni nona persona deve essere gettata in mare. Dove devono posizionarsi i cristiani per fare in modo che solo i turchi finiscano in acqua? (ovviamente nella versione islamica del problema i ruoli dei turchi e dei cristiani sono scambiati tra loro).
Affrontiamo ora la soluzione del problema almeno in un caso particolare. Indichiamo con n il numero di concorrenti nel cerchio iniziale, e k i posti che devono essere saltati ad ogni passo. In altre parole, k – 1 persone sono saltate e la k-esima viene eliminata. I concorrenti disposti in cerchio sono numerati da 1 a n. Consideriamo il caso più semplice, in cui k = 2: ciò significa che i giocatori sono eliminati uno sì e uno no. Se n è piccolo, ad esempio n = 6, il problema si risolve con pochi passaggi, illustrati nella figura seguente:
I cerchi gialli indicano i concorrenti eliminati ad ogni giro, che poi infatti diventano neri. Come si vede, in questo caso la successione delle eliminazioni è 2 – 4 – 6 – 3 – 1 – 5, dunque il quinto concorrente resta per ultimo e si salva (l'ultimo cerchio bianco). Ma se n è molto grande, allora il conteggio diventa tutt'altro che rapido, e diventa necessario determinare un algoritmo che ci fornisca il risultato. Noi esprimeremo tale soluzione in modo ricorsivo. Sia f (n) la posizione del sopravvissuto quando ci sono inizialmente n giocatori. Al primo giro intorno al cerchio, tutte le persone che occupano un posto pari lasciano il gioco. Al secondo giro intorno al cerchio, se ne vanno i concorrenti che ora occupano la 2a, 4a, 6a ecc. posizione; e così via. Se il numero iniziale di giocatori era pari, allora la persona in posizione x durante il secondo giro intorno al cerchio era originariamente in posizione 2 x – 1 per qualsiasi scelta di x. Sia allora n = 2 q. Il giocatore in posizione f (q) che ora sopravvivrà in origine era in posizione 2 f (q) – 1. Questo ci fornisce la seguente formula ricorsiva:
f (2 q) = 2 f (q) – 1
Se il numero iniziale di giocatori invece era dispari, allora pensiamo che il giocatore che occupa il posto numero 1 sarà eliminato alla fine del primo giro intorno al cerchio. Anche in questo caso, durante il secondo giro intorno al cerchio, lasciano i giocatori che occupano la 2a, la 4a, la 6a ecc. posizione. In questo caso però il giocatore in posizione x era originariamente in posizione 2 x + 1. Questo ci dà la formula ricorsiva:
f (2 q + 1) = 2 f (q) + 1
Quando tabuliamo i valori di n e di f (n), costruiamo la seguente tabella:
n |
1 |
2 |
3 |
4 |
5 |
6 |
7 |
8 |
9 |
10 |
11 |
12 |
13 |
14 |
15 |
16 |
f (n) |
1 |
1 |
3 |
1 |
3 |
5 |
7 |
1 |
3 |
5 |
7 |
9 |
11 |
13 |
15 |
1 |
Questo suggerisce che f (n) sia una sequenza dispari crescente che ricomincia con f (n) = 1 quando n è una potenza di 2. Pertanto , se scegliamo m e h in modo che n = 2m + h e 0 ≤ h < 2m, allora f (n) = 2 h + 1. È evidente che i valori della tabella soprastante soddisfano questa equazione. Oppure possiamo pensare che dopo h giocatori eliminati ci siano solo 2m concorrenti in gara, e noi passiamo alla ( 2 h + 1 )-esima persona, che sarà il sopravvissuto cercato. Dimostriamo dunque che:
f (n) = 2 h + 1
Diamone una dimostrazione per induzione. Il caso in cui n = 1 naturalmente è vero. Consideriamo separatamente i casi in cui n è pari o dispari. Se n è pari, allora scegliamo h' ed m' in modo che ( n – 1 ) / 2 = 2m' + h' e 0 ≤ h' < 2 m'. Si noti che h' = h / 2. Abbiamo f (n) = 2 f (n / 2) – 1 = 2 [(2 h') + 1] – 1 = 2 h + 1, dove la seconda uguaglianza segue dall'ipotesi di induzione.
Se n invece è dispari, allora scegliamo h' e m' in modo che (n – 1) / 2 = 2m' + h' e 0 ≤ h' < 2m'. Si noti che h' = ( h – 1 ) / 2. Abbiamo f (n) = 2 f [( n – 1 ) / 2] + 1 = 2 [( 2 h') + 1] + 1 = 2 h + 1, dove la seconda uguaglianza segue dall'ipotesi di induzione. Questo completa la dimostrazione. Ad esempio, se n = 20, la potenza di 2 più vicina è 2m = 16, per cui h = 20 – 16 = 4 e dunque f (n) = 2 x 4 + 1 = 9. Il giocatore nella nona posizione si salva e vince.
Siamo in grado di risolvere in funzione di h per ottenere una espressione esplicita per f (n):
dove [ x ] indica la parte intera di x, cioè il più grande intero minore o uguale a x. Sia ad esempio n = 12. Il logaritmo in base 2 di 12 vale ln12 / ln 2 = 3,58496..., quindi la sua parte intera è 3. Di conseguenza:
f (12) = 2 ( 12 – 23 ) + 1 = 2 ( 12 – 8 ) + 1 = 9
Ecco una rappresentazione grafica dei valori di f (n) per i primi 30 numeri naturali:
La forma più elegante della soluzione coinvolge la rappresentazione binaria di n: f (n) può infatti essere ottenuto tramite lo spostamento ciclico a sinistra di un bit del valore binario di n. Cosa significa questo? Se rappresentiamo n in base 2 come n = 1 b1 b2 b3 ... bm, allora la soluzione è data da f (n) = b1 b2 b3 ... bm 1.
La dimostrazione di questa affermazione deriva dalla rappresentazione di n come 2m + h o dall'espressione sopra scritta per f (n). Se n indica il numero di giocatori, la posizione di sicurezza è dato dalla funzione f (n) = 2 h + 1, dove n = 2m + h e 0 ≤ h < 2m. Ora, se rappresentiamo il numero in formato binario, il primo bit indica 2m e i bit rimanenti rappresentano h. Per esempio, quando n = 41, la sua rappresentazione binaria è:
n = 1 0 1 0 0 1
Se n = 41, 2m = 32, m = 5 e h = 9. Allora f (41) = 2 x 9 + 1 = 19. La rappresentazione binaria di questo numero è:
f (n) = 0 1 0 0 1 1
che si ottiene proprio da n facendo scivolare ogni cifra binaria di un posto verso sinistra e portando l'1 iniziale nell'ultimo posto a destra! Il problema di Giuseppe Flavio si può considerare risolto. A questo link troverete anche un programma in linguaggio C per risolvere automaticamente il nostro esercizio.
Una possibile generalizzazione del nostro problema è la seguente. Supponiamo che ogni m-esima persona viene eliminata da un gruppo di n concorrenti, in cui la p-esima persona è la superstite. Se si aggiungono x persone al cerchio, allora il sopravvissuto è in posizione ( p + mx )-esima se questo valore è minore o uguale a n + x. Se x è il valore minimo per il quale ( p + mx ) > ( n + x ), allora il sopravvissuto è in posizione [( p + mx ) – ( n + x )]esima.
Resta un'ultima domanda cui rispondere. Giuseppe Flavio fece bene, ad arrendersi ai Romani insieme all'ultimo soldato rimasto in vita insieme a lui, o avrebbe dovuto piuttosto suicidarsi (o "farsi suicidare") come i suoi commilitoni e i difensori di Masada? Per gli Ebrei a lui contemporanei, non vi era dubbio: egli era stato un codardo e un traditore, passato dalla parte del vincitore appena le cose avevano cominciato a mettersi male per gli Zeloti, se non addirittura un apostata. Oggi però vediamo la sua vicenda sotto una luce differente. Il filosofo della scienza Giulio Giorello, nella sua opera "Il tradimento in politica, in amore e non solo" (Longanesi, 2012), scrisse che egli, in un periodo nel quale le preponderanti forze pagane minacciavano la totale distruzione del monoteismo ebraico, abbia perseguito con lucidità il fine della sua conservazione, al prezzo di duri compromessi con il mondo romano allora vincente. Credo che, in questo caso più che mai, valga l'ammonimento di Nostro Signore:
« Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi. » (Matteo 7, 1-2)
.
E siccome la Sacra Scrittura si apre con la Creazione del Mondo e si chiude con la sua Fine, è giusto chiudere questo capitolo facendo un cenno alla simbologia dei mille anni, che è alla base di quel vasto fenomeno religioso oggi noto con il nome di Millenarismo o Chiliasmo (dal greco "chìlioi", "mille"). Tale fenomeno afferma come certo il ritorno visibile di Cristo sulla Terra (in greco si parla di "parusia", cioè di "presenza"), che porterà a un rinnovamento profondo dell'umanità e dell'intero universo, in genere segnato dalla distruzione dell'ordine preesistente. Naturalmente il punto di riferimento per tale credenza è l'Apocalisse di Giovanni, nella quale si dice:
« E vidi un angelo che scendeva dal cielo con in mano la chiave dell'Abisso e una grande catena. Afferrò il drago, il serpente antico, che è il diavolo e Satana, e lo incatenò per mille anni; lo gettò nell'Abisso, lo rinchiuse e pose il sigillo sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni, fino al compimento dei mille anni, dopo i quali deve essere lasciato libero per un po' di tempo. Poi vidi alcuni troni - a quelli che vi sedettero fu dato il potere di giudicare - e le anime dei decapitati a causa della testimonianza di Gesù e della parola di Dio, e quanti non avevano adorato la bestia e la sua statua e non avevano ricevuto il marchio sulla fronte e sulla mano. Essi ripresero vita e regnarono con Cristo per mille anni; gli altri morti invece non tornarono in vita fino al compimento dei mille anni. Questa è la prima risurrezione. Beati e santi quelli che prendono parte alla prima risurrezione. Su di loro non ha potere la seconda morte, ma saranno sacerdoti di Dio e del Cristo, e regneranno con lui per mille anni. » (Ap 20, 1-6)
Sulla base di questo passo, i millenaristi credono nell'avvento di un periodo di tempo di mille anni, nei quali il mondo materiale conoscerà una situazione di pace e prosperità, prima dell'ultima battaglia escatologica tra il Bene e il Male, cui seguiranno la fine del mondo e il Giudizio Universale. Alcuni millenaristi si sono spinti ad affermare che la storia del mondo sarebbe duri sei "giorni" (come la biblica Creazione), ciascuno di mille anni, al termine della quale avverrà la prima risurrezione, quella dei Salvati. La "settimana cosmica" così introdotta sarà conclusa da un settimo giorno, anch'esso di mille anni, coincidente con l'avvento messianico promesso nei versetti appena letti. Sulla base di essi, nel decimo secolo d.C. vari predicatori Cominciarono ad ammonire i loro contemporanei che l'appuntamento con la Fine del Mondo era fissato per l'anno mille, grazie a un'interpretazione per così dire molto libera del giovanneo « regno dei mille anni », da loro fatto cominciare con la morte di Gesù. Ovviamente il 1 gennaio dell'anno 1001 il mondo andò avanti come prima, infischiandosene dei numeri tondi, ma questo non scoraggiò certo i millenaristi cui questo mondo non piaceva, e che speravano di vederne sorgere un altro dalle sue ceneri. Ad esempio Umberto Eco (1932-2016) nel suo celebre romanzo "Il Nome della Rosa", ambientato nell'anno 1327, fa dire ad un personaggio che la fine del mondo è vicina, perchè secondo lui i famosi "mille anni" andavano contati a partire dalla leggendaria Donazione di Costantino, considerata la data di inizio del potere temporale del papato, e datata al 30 marzo 315. Così si è espresso in proposito il vaticanista di "Repubblica" Domenico del Rio (1926-2003):
« Il Millenarismo di per sé non è la Parusia, non è la venuta finale di Cristo giudice, ma questo tempo millenario intermedio, che segna un trionfo terreno di carattere messianico. L'idea millenaristica affascinò un po' tutti i primi scrittori cristiani. Papia di Gerapoli afferma: "Ci saranno ancora mille anni dopo la risurrezione dei morti, e il regno di Cristo sarà materiale e si attuerà sulla terra". E descrive le meraviglie della terra durante questo regno: "Ogni vigna avrà diecimila rami... e quando un grappolo starà per essere colto da uno dei giusti, un altro dirà: io sono un grappolo migliore, cogli me, benedici il Signore per la mia bontà". Oltre che negli ambienti colti del primitivo cristianesimo, il Millenarismo trova largo seguito tra gli strati sociali più umili, in cui viene alimentata l'attesa di rinnovamento e di giustizia. Cominciano, però, i contrasti su questa interpretazione ingenua e grossolana del regno di Cristo. Eusebio, lo storico della Chiesa, legato a Costantino e alle sorti dell'Impero, lo avversa per il suo carattere antipolitico e antiimperiale. È soprattutto sant'Agostino che, dopo aver aderito anch'egli per qualche tempo alle idee millenaristiche, penserà, nel "De Civitate Dei", a un'interpretazione spiritualistica del capitolo 20 dell'Apocalisse, intendendo la "prima risurrezione" come la remissione dei peccati e i mille anni di regno come simbolo della vita della Chiesa. L'interpretazione agostiniana fa svanire a poco a poco la vecchia tensione millenaristica per lasciare il posto a un'altra fase del Millenarismo. Nel Medioevo, il Millennio cessa di avere le caratteristiche di tempo intermedio del Regno trionfante di Cristo per assumere, invece, la fisionomia di un'epoca indeterminata temporalmente, ma che apporterà un trionfo religioso, spirituale. »
Il monaco calabrese Gioacchino da Fiore
È in questo clima spirituale che si inserisce Gioacchino da Fiore, già citato sopra, con la sua Era dello Spirito Santo. La sua data della parusia, fissata al 1260, segue da una cattiva interpretazione dei « milleduecentosessanta giorni » di Ap 12, 6. E il suo non è certo un caso isolato e limitato ai secoli medioevali: anche nell'età moderna periodicamente si sentono cassandre annunciare con grande clamore sui media che la fine del mondo è vicina, e a volte riescono a convincere parecchia gente della bontà delle loro asserzioni. Il 3 ottobre 1533 fu la volta del teologo luterano tedesco Michael Stifel (1487-1567), il quale convinse alcuni seguaci a vendere tutti i loro beni in vista dell'incipiente fine del mondo. Nel Seicento, in Germania, il beato Bartholomäus Holzhauser (1613-1658) prevedeva la nascita dell'Anticristo nell'anno 1855 e la sua uccisione nel 1911. Tra i personaggi nati e morti esattamente in quest'anno io ho trovato il pittore italiano Luigi Serena (1855-1911), il poeta francese Maurice Montégut (1855-1911) e l'imprenditore vinicolo inglese Adam Findlater (1855-1911), citato anche nel "Fnnegan's Wake" di James Joyce,, ma non mi risulta che essi abbiano mai scatenato alcuna Apocalisse! In tempi più vicini a noi, l'ex ingegnere della NASA Edgar Whisenant (1932-2001) pubblicò un libro, "88 ragioni per cui la fine del mondo potrebbe avvenire nel 1988", che divenne un bestseller e pubblicò quattro milioni e mezzo di copie, facendogli guadagnare un sacco di soldi, ma anche facendogli perdere la faccia il 1 gennaio 1989, quando il mondo continuò ad esistere senza curarsi del suo parere. Nel 1993 il santone David Koresh (1959-1993, vero nome Vernon Wayne Howell), fondatore della setta dei Davidiani, si proclamò Messia e si asserragliò con altri 100 suoi adepti nel proprio ranch di Waco, nel Texas, ad aspettare la fine del mondo, e dopo 51 giorni di assedio da parte delle forze dell'ordine statunitensi il 19 aprile appiccò il fuoco al ranch: morirono in 76, tra cui 21 bambini e lo stesso Koresh. Il telepredicatore americano Harold Camping (1921-2013) nel 1994 annunciò che il mondo aveva le ore contate, destinato com'era a finire il 6 settembre di quell'anno. Non accadde nulla e ci riprovò il 21 maggio 2011; niente da fare neanche stavolta. Il 26 marzo 1997, 38 fedeli della setta Heaven's Gate si suicidarono, convinti che il passaggio ravvicinato nella spettacolare cometa Hale-Bopp avrebbe causato la fine del mondo. Nel 2008, poi, 35 membri della "Vera Chiesa Ortodossa di Russia" si chiusero per sei mesi in una grotta, dato che il loro capo Pyotr Kuznetsov (1964-) aveva previsto nel maggio di quell'anno il ritorno di Cristo e la fine del pianeta Terra (si salvarono per miracolo). Poi fu la volta della cosiddetta "Profezia dei Maya": dato che la fine del 13esimo Baktun del Calendario Maya, iniziato il 13 agosto dell'anno 3114 a.C. e della durata di ben 1.872.000 giorni, cadeva esattamente il 21 dicembre 2012, i soliti profeti di sventure affermarono che la fine del mondo era annunciata per quel giorno; ma in realtà a finire era solo un ciclo del calendario, un po' come il secondo millennio dopo Cristo si è chiuso il 31 dicembre 2000 senza alcuna apocalisse di sorta. L'ultimo in ordine di tempo tra i catastrofisti è stato Chris McCann: aveva previsto che l'Apocalisse sarebbe arrivata il 7 ottobre 2015, ma anche in questo caso l'universo se ne infischiò delle sue fosche previsioni, e decise di andare avanti. Tra i movimenti millenaristi del secolo XXI si possono annoverare anche la Chiesa Cristiana Millenarista, i Davidiani, la "House of Yahweh" e, in una certa misura, anche la New Age, con la sua ansiosa attesa del'"Era dell'Acquario" che rinnoverà il mondo dalle fondamenta.
Ma a battere ogni record in fatto di presunte "fini del mondo" sono stati i soliti Testimoni di Geova i quali, in base a calcoli cervellotici compiuti sulle loro (errate) traduzioni dei testi biblici, hanno fissato la data della fine di tutto nel 1914. Perchè proprio nel 1914? Come ha scritto Padre Luis Santamaría del Río (1982-) sul sito aleteia.org, i Testimoni di Geova sono partiti dalla deportazione a Babilonia di Sedecia, ultimo sovrano del Regno di Giuda appartenente alla dinastia davidica, da parte di Nabucodonosor, e dal passo di Daniele in cui egli dice del re caldeo:
« Si muti il suo cuore e invece di un cuore umano gli sia dato un cuore di bestia; sette tempi passino su di lui. » (Dn 4, 13)
Fraintendendo completamente (com'è loro solito) il testo biblico, i TdG hanno iniziato a contare un periodo di dominio pagano sul mondo che secondo loro sarebbe durato appunto "sette tempi", ciascuno dei quali corrisponderebbe a un anno che dura 360 anni anziché 360 giorni. Questi sette tempi corrispondono a 2.520 anni. Sempre secondo i TdG, la deportazione di Sedecia avrebbe avuto luogo nel 606 a.C. (invece la caduta di Gerusalemme, secondo gli storici, si colloca tra il 587 e il 586 a.C.), e sommando a questa data i 2.520 anni suddetti, si arriva proprio all'anno 1914! Quando in quell'anno scoppiò la Prima Guerra Mondiale, i TdG esultarono, credendo vicino il ritorno di Cristo. Ma Cristo non tornò visibilmente, e in cielo si sentirono non le trombe angeliche, ma il rombare degli aerei da guerra. Poco male: i capintesta della setta cambiò versione, sostenendo che nell'autunno del 1914 c'era stata davvero la fine del potere dei pagani sulla terra, perchè « le Nazioni si sono alleate e l'ira di Dio è stata da allora su di loro », come scrisse nel 1920 Joseph F. Rutherford (1869-1942), secondo presidente dei Testimoni di Geova. Questi si inventò poi che Gesù era davvero tornato nel 1914 per dare inizio alla sua "presenza invisibile", chiamando così quella che i cristiani (quelli veri) chiamano la seconda venuta di Cristo (vedi Matteo 24, 3). Sempre secondo Rutherford, « entro un periodo di tempo definito il vecchio ordine sarà completamente sradicato e il nuovo ordine sarà in completo dominio; queste cose avranno luogo nel tempo di questa generazione, e ci sono quindi milioni di persone che ora vivono sulla terra che le vedranno accadere, alle quali sarà offerta la vita eterna e che, se la accetteranno nei termini offerti e obbediranno a questi termini, non moriranno mai ». Per accettarla, ovviamente, dovevano diventare Testimoni di Geova. Non contenti, i TdG hanno fissato a più riprese nuove date per la fine del mondo nel 1925 e nel 1975, spostando arbitrariamente la data da cui far partire i "sette tempi" e sostenendo le loro pretese con un martellante battage pubblicitario, e siccome ogni volta hanno fatto cilecca, hanno insistito sempre più sul "ritorno invisibile di Cristo" per coprire i fallimenti dei loro annuncio apocalittici. Eppure, loro che leggono la Bibbia tanto alla lettera, dovrebbero ben conoscere l'ammonimento di Cristo nel Vangelo di Matteo:
« Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre. » (Mt 24, 36)
e quello di Paolo nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi:
« Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo! » (2Ts 2, 1-3a)
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Come ha scritto il già citato Padre Luis Santamaría del Río, « se ci atteniamo alla Bibbia, dobbiamo riconoscere che il regno di Cristo in cielo è iniziato dopo la sua Ascensione, e qualsiasi altro calcolo temporale non ha senso. Già dall'inizio della sua predicazione, infatti, Gesù afferma che il Regno di Dio è giunto con lui (Mt 4, 17). Qualsiasi affermazione di una data concreta è un tentativo vano di conoscere il progetto di Dio e i suoi tempi, che solo il Padre conosce. » E Papa Benedetto XVI, uno dei più grandi biblisti del nostro tempo, nell'Udienza Generale di mercoledì 12 novembre 2008 ha dichiarato:
« San Paolo alla conclusione della sua seconda Lettera ai Corinzi ripete e mette in bocca anche ai Corinzi una preghiera nata nelle prime comunità cristiane dell'area palestinese: Maranà, thà! che letteralmente significa "Signore nostro, vieni!" (16, 22). Era la preghiera della prima cristianità, e anche l'ultimo libro del Nuovo Testamento, l'Apocalisse, si chiude con questa preghiera: "Signore, vieni!" Possiamo pregare anche noi così? Mi sembra che per noi oggi, nella nostra vita, nel nostro mondo, sia difficile pregare sinceramente perché perisca questo mondo, perché venga la nuova Gerusalemme, perchè venga il giudizio ultimo e il giudice, Cristo. Penso che se sinceramente non osiamo pregare così per molti motivi, tuttavia in un modo giusto e corretto anche noi possiamo dire, con la prima cristianità: "Vieni, Signore Gesù!" Certo, non vogliamo che adesso venga la fine del mondo. Ma, d'altra parte, vogliamo anche che finisca questo mondo ingiusto. Vogliamo anche noi che il mondo sia fondamentalmente cambiato, che incominci la civiltà dell'amore, che arrivi un mondo di giustizia, di pace, senza violenza, senza fame. Tutto questo vogliamo: e come potrebbe succedere senza la presenza di Cristo? Senza la presenza di Cristo non arriverà mai un mondo realmente giusto e rinnovato. »
Prima di chiudere, aggiungiamo che il numero 1000, di cui ci siamo occupati in quest'ultimo paragrafo, oltre ad essere il cubo di 10, è anche un numero pratico e un numero di Harshad. Inoltre i suoi divisori: propri sono 1, 2, 4, 5, 8, 10, 20, 25, 40, 50, 100, 125, 200, 250 e 500. La loro somma è 1340 > 1000, per cui si tratta di un numero abbondante.
E con questo, abbiamo finito? No: l'interpretazione dei numeri contenuti nelle Sacre Scritture non ha attirato soltanto l'interesse di noi matematici, ma anche di individui convinti, in buona o in cattiva fede, che tali numeri nascondano qualche arcano messaggio, criptato per noi dal Signore nelle eterne pagine della Bibbia. In tal modo, oltre ad una matematica della Bibbia, è nata anche una numerologia della Bibbia. Chi è interessato a questo argomento, lo troverà sintetizzato nell'Appendice.