« Una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa... » (Gen 28, 12) |
Questa volta partiremo, per iniziare la nostra lezione, da un episodio molto noto e rappresentato molte volte nella Storia dell'Arte. Nel capitolo 27 della Genesi si racconta di come Rebecca convinse il figlio prediletto Giacobbe (dall'ebraico "calcagno", perchè venne a luce tenendo in mano il calcagno del fratello gemello) ad ingannare il padre Isacco, la ci vista si era di molto indebolita, e a sostituirsi al fratello Esaù per ricevere la benedizione paterna al posto suo. Ovviamente Esaù non la prese bene e meditò di uccidere Giacobbe appena il loro padre fosse spirato; per questo Rebecca convinse il figlio preferito a rifugiarsi a Carran da suo fratello Làbano, finché l'ira di Esaù non si fosse placata (Carran era la città in cui Abramo era stato chiamato da YHWH e da cui era partito alla volta della Terra Promessa). A dir la verità, accanto a tale tradizione la Genesi ne conserva un'altra: Rebecca avrebbe convinto Giacobbe a lasciare Canaan perchè non sposasse donne ittite come aveva fatto Esaù: per gli antichi popoli semitici, i matrimoni endogamici (cioè all'interno della stessa tribù) erano importanti per mantenere la purezza del sangue, ma anche per preservare la religione dei padri. Quest'altra tradizione intende scagionare il patriarca eponimo degli Ebrei dalla colpa di avere ingannato il padre; in ogni caso, Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Paddan-Aram, regno aramaico situato nella Mesopotamia settentrionale con capitale Carran, ed attraversò tutta la Terra di Canaan da mezzogiorno verso settentrione. Ed ecco cosa accadde:
« Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese là una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. » (Gen 28, 10-12)
La scala vista in sogno da Giacobbe è da sempre simbolo della vita contemplativa. I Padri della Chiesa ritenevano che essa fosse immagine della Provvidenza divina, mentre altri vedevano in essa una prefigurazione dell'Incarnazione di Cristo. Ponte gettato tra cielo e terra, la scala ispirò generazioni di mistici e di sognatori, i quali videro in essa una via per raggiungere altri mondi, altri universi, altre dimensioni. Gli esegeti moderni invece, più prosaicamente, vedono in questa incredibile visione il racconto eziologico alla base della fondazione del Santuario di Betel, 10 chilometri a nord di Gerusalemme, uno dei due santuari nazionali del Regno Settentrionale d'Israele, il cui nome in ebraico significa "Casa di Dio". Questa infatti fu la reazione di Giacobbe, dopo che Iddio ebbe promesso la Terra di Canaan in eredità alla sua discendenza:
« Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: "Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo". Ebbe timore e disse: "Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo". La mattina Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betel, mentre prima di allora la città si chiamava Luz. » (Gen 28, 16-19)
Raffaello Sanzio, La Scala di Giacobbe, Stanza di Eliodoro, Musei Vaticani
Come ha scritto la biblista Suor Maria Gloria Riva, « la visione della scala è molto concreta e riporta alle ziggurat babilonesi, torri a gradini destinate al culto alla cui sommità si ergeva un santuario, dimora del Dio della città ove la torre era situata. La torre di Babele è precisamente una di queste ziggurat [...] Se la scala di Babele rappresenta il tentativo dell’uomo di toccare il cielo e il conseguente fallimento dell'unità del genere umano, la scala offerta a Giacobbe in visione è segno del dono di Dio che farà di tutte le nazioni un solo popolo, il popolo di Dio. La benedizione che Dio promette a Giacobbe: "La tua discendenza sarà come la polvere della terra e ti estenderai a occidente e ad oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E saranno benedette per te e per la tua discendenza tutte le nazioni della terra", si ricollega direttamente a quella di Abramo (cfr. Gen 12). Tuttavia ad Abramo Dio aveva detto: "In te saranno benedette tutte le famiglie della terra", ad Isacco disse: "Ti benedirò e moltiplicherò la tua discendenza per amore di Abramo, mio servo", mentre a Giacobbe proclama: per te e per la tua discendenza saranno benedette le nazioni della terra. Abramo fu egli stesso benedizione, Isacco fu il benedetto, mentre Giacobbe fu causa di benedizione tra le genti, anzi il popolo di Dio stesso in Giacobbe diviene causa di benedizione tra i popoli. Per questa missione Giacobbe, a differenza di Abramo e Isacco, riceve da Dio la promessa di assistenza: "Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai". I padri della chiesa, rifacendosi alle parole di Gesù a Natanaele, hanno visto nella visione della scala l’incarnazione del Verbo, quale ponte gettato tra cielo e terra, e Calvino vide nella scala la figura di Cristo:m!ediante il quale il ministero degli angeli la giustizia e la vita e tutte le grazie dello Spirito Santo discendono come per gradini fino a noi!. »
Ma perchè in questa lezione ci siamo interessati al mito della scala, il quale giustificò la consacrazione del Santuario di Betel come contraltare del Tempio di Gerusalemme nel Regno Settentrionale? Perchè Giacobbe vide gli angeli scendere dal Cielo fin sulla Terra, ed è evidente che il dislivello coperto era altissimo, se viene adoperato dal Salmista addirittura come metro per stimare la bontà divina:
« Quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono! » (Salmo 103, 11)
Ma non preoccupatevi: non voglio intrattenervi con una disquisizione su quanto, secondo la cosmologia ebraica, fosse alto l'universo creato: di altezze vertiginose abbiamo già disquisito ampiamente nella lezione dedicata alla Torre di Babele. In questa sede vogliamo approfittare del sogno della scala per domandarci: quale traiettoria avrebbero dovuto seguire gli angeli di Dio, per scendere dal Cielo sulla Terra nel minor tempo possibile?
Questo è noto come il problema della brachistocrona (dal greco brachistos, "il più breve", e chronos, "tempo"), e può essere formulato in questi termini: dati nel piano due punti P1 e P2, tra tutte le linee che li congiungono occorre determinare quella che un punto materiale deve percorrere senza attrito per scendere da P1 a P2 nel minor tempo possibile.
Già Galileo Galilei aveva notato che una sfera scende più in fretta rotolando lungo un arco di cerchio piuttosto che sulla corda del cerchio, anche se quest'ultima è più corta. Il problema della brachistocrona fu però proposto e risolto per la prima volta nel 1697 dal matematico svizzero Johann Bernoulli (1667-1748), e rappresentò uno dei primi grandi risultati del calcolo infinitesimale. Ma come fece Bernoulli a risolvere questo arduo problema dell'Analisi matematica avanzata? Attraverso lo studio dei funzionali.
Si dice funzione un'applicazione che associa ad un numero un altro numero, come ad esempio il logaritmo in base 2, che al numero 8 associa il numero 3. Si dice operatore un'applicazione che associa ad una funzione un'altra funzione, come la derivazione, che alla funzione x2 associa la funzione 2 x, o l'integrazione indefinita, che a cos x associa sen x. Invece si dice funzionale un'applicazione che associa a una funzione un numero, come ad esempio l'integrale definito:
Insomma, il funzionale è definito su uno spazio funzionale ed ha valori numerici:
dove C0[a ; b] è lo spazio funzionale formato da tutte le funzioni continue sull'intervallo [a ; b]. Lo si indica di solito con J( f ). Per esempio:
è un funzionale che associa alla funzione f(x) l'area da essa sottesa tra x = a e x = b. Come f(x) non è generalmente definita su tutto il campo reale R, ma su un certo dominio, così J è definito su tutta una famiglia di funzioni [ y ] che rappresenta un sottoinsieme di C0[a ; b].
Inoltre, come per le funzioni il problema principale è rappresentato dalla ricerca dei massimi e dei minimi, così per un funzionale il problema principale consiste nella ricerca delle funzioni, dette estremanti, che rendono massimo o minimo il valore di J( f ). Per trovare questo massimo o minimo, tuttavia, occorre introdurre il concetto di intorno di una funzione, così come al principio dell'Analisi Matematica si introduce il concetto di intorno di un numero. Definiamo allo scopo una distanza detta distanza uniforme o distanza di Čebyšëv tra due funzioni, che consiste nell'estremo superiore dell'insieme dei valori assoluti delle due funzioni date:
Essa prende il nome dal matematico russo Pafnutij L'vovič Čebyšëv (1821-1894); tale estremo superiore esiste per il Teorema di Weierstrass. Scelgo insomma il punto dove lo scarto tra due funzioni è massimo. Non si tratta di una definizione puntuale, bensì globale, perchè vale su tutto l'intervallo [ a ; b ]. Con tale definizione lo spazio delle funzioni diventa metrico, perchè dotato di distanza.
Fissata una funzione f(x) appartenente allo spazio funzionale C0[a ; b], si dice intorno circolare della funzione data, e lo si indica con B ( f, ρ ), l'insieme delle funzioni appartenenti a C0[a ; b] che distano da f(x) meno di ρ secondo la distanza di Čebyšëv. In pratica, come si vede nella figura qui sotto, più che di un intorno si tratta di un striscia:
Stabilita questa nozione topologica, è possibile fondare la teoria dei funzionali sulla definizione seguente. Si dice che y0 appartenente ad [ y ] è estremante di minimo relativo per il funzionale J( f ) se esiste un conveniente raggio ρ > 0 tale che il funzionale J, valutato in ogni linea u della famiglia e contenuto nell'intorno B( y0 , ρ ), è maggiore o uguale di J valutato in y0. Del tutto analoga sarà la definizione di estremante di massimo relativo. Ma... su quali funzioni cerchiamo il massimo e il minimo?
Si dice variazione della y l'incremento che si deve dare ad y per ottenere un'altra linea della famiglia:
δy(x) = u(x) – y(x)
Noi allora cercheremo la funzione che rende massimo o minimo il funzionale, tra tutte quelle che hanno una variazione nulla agli estremi:
δy(a) = δy(b) = 0
Cioè tali che u(a) = y(a) = y1, u(b) = y(b) = y2.
Come trovare dunque questi estremanti? Si può dimostrare che vale il Teorema di Eulero-Lagramge. Sia dato il funzionale così definito:
tale che:
dove fy è la derivata parziale di f rispetto ad y, fy' è la derivata parziale di f rispetto ad y', fy'x è la derivata parziale seconda di f rispetto ad y' e ad x, fy'y è la derivata parziale seconda di f rispetto ad y' e ad y, ed fy'y' è la derivata parziale seconda di f calcolata due volte rispetto ad y'. Condizione necessaria affinché una linea y0 sia estremante di massimo o di minimo è che soddisfi la cosiddetta equazione di Eulero-Lagrange:
Essa trae nome da due dei più grandi matematici del XVIII secolo, Leonhard Euler (1707-1783) e Giuseppe Lodovico Lagrange (1736-1813). In pratica, bisogna cercare le linee che soddisfano le seguenti condizioni:
Le soluzioni di questo sistema differenziale sono le candidate ad essere estremanti, e vengono chiamate linee estremali. Per trovare, tra tutte le estremali, le linee effettivamente estremanti, però, la condizione necessaria rappresentata dal Teorema di Eulero-Lagrange non basta; occorre una condizione sufficiente, e questa è garantita dal seguente teorema. Nelle medesime ipotesi del Teorema di Eulero-Lagrange, a cui si aggiunge la continuità di fyy ( x, y, y' ), condizione sufficiente affinché le estremali trovate siano anche estremanti di minimo relativo è che sia positivo il determinante H così definito:
e che sia positiva la derivata seconda fyy ( x, y, y' ). Se invece si dà il caso che:
le estremali sono estremanti di massimo relativo. La ricerca degli estremanti di massimo e di minimo relativo, nell'ipotesi di variazione nulla agli estremi, prende il nome di calcolo delle variazioni. Proviamo a determinare, per mezzo di quanto si è detto fin qui, la linea estremante di un funzionale. Consideriamo il seguente esempio:
Determiniamo la linea estremante passante per i punti P1 ( 0 ; 1 ) e P2 ( ln 2 ; 4 ), e stabiliamo se essa è di massimo o di minimo. Tanto per cominciare, determiniamo le derivate di f(y):
Sostituiamo questi risultati nell'Equazione di Eulero-Lagrange ed otteniamo:
il che equivale a:
Quella tra parentesi è un'equazione differenziale del secondo ordine omogenea a coefficienti costanti. La si risolve attraverso l'equazione caratteristica:
Le sue soluzioni sono λ = – 1 e λ = 2. L'integrale generale dell'equazione differenziale sopra scritta si può allora scrivere nella forma:
Per determinare C1 e C2 occorre imporre il passaggio per i punti P1 ( 0 ; 1 ) e P2 ( ln 2 ; 4 ). È facile verificare che si trova C1 = 0 e C2 = 1; di conseguenza la linea estremale cercata è y = e2x.
Ora però bisogna decidere se si tratta di un estremante, e se sì di che tipo. Essendo:
risulta soddisfatta la condizione sufficiente perchè ogni linea estremale sia estremante. Inoltre, avendosi 3 e–x > 0 per qualunque valore di x, se ne conclude che y = e2x è un estremante di minimo.
Marc Chagall, "Il sogno di Giacobbe", olio su tela, Museo del Messaggio Biblico di Nizza
Il calcolo delle variazioni è fondamentale nello studio della Meccanica, soprattutto sulla base del cosiddetto Principio di Fermat: un sistema evolve sempre in modo che il tempo necessario all'evoluzione sia minimo. Tale principio è dovuto a Pierre de Fermat (1601-1665), uno dei più grandi matematici di ogni tempo. Poiché il tempo dipende dalla funzione che descrive l'evoluzione del sistema, e quindi è rappresentato da un funzionale, è evidente l'importanza assunta nella Meccanica Razionale dal calcolo delle variazioni. Facciamo un esempio.
Presi nel piano i due punti P1 ( a , y1 ) e P2 ( b , y2 ) con a < b, vogliamo determinare tra tutte le linee y = y(x) di estremi P1 e P2 quella di lunghezza minima. In questo caso l'insieme [ y ] è rappresentato da tutte le linee di classe C1[a ; b] che soddisfano alle condizioni al contorno y(a) = y1 e y(b) = y2. Ricordiamo la formula che esprime la lunghezza di un arco di curva:
Essa si può ricavare in questo modo. Data una curva y(x), prendiamo su di essa un punto A e diamo un incremento dx alla sua ascissa. La sua ordinata subisce allora un incremento dy = y'(x) dx (per definizione di differenziale di una funzione). La lunghezza ds del corrispondente arco di curva può essere espressa per mezzo del Teorema di Pitagora:
(ds)2 = (dx)2 + y'2 (dx)2 = [ 1 + y'2 ] (dx)2
da cui si deduce la formula sopra scritta. Il funzionale che dobbiamo minimizzare può allora venire espresso in questo modo:
In questo caso abbiamo:
Sostituendo questi risultati nell'Equazione di Eulero-Lagrange si trova:
Svolgendo i calcoli, si ricava:
Essa è verificata da y'' = 0. Ma questo significa che y' = m costante, e che y = m x + q con q costante. Le estremali sono dunque rette, e poiché:
si ricava che la retta congiungente P1 e P2 fornisce il minimo dell'integrale. Questo è il risultato fondamentale noto fin dalla geometria euclidea: il più breve cammino tra due punti è il segmento di retta che li congiunge. Una scoperta banale? No, perchè ci conferma la validità del calcolo delle variazioni. Mentre svolgevamo questo calcolo, ci sembrava di sentire un'eco delle parole del Salmista:
«
Mostrami, Signore, la tua via,
guidami sul retto cammino » (Sal 27,11)
Torniamo ora al problema da cui eravamo partiti, quello della brachistocrona, che ora riformuleremo come segue: dati nel piano due punti P1 ( a ; y1 ) e P2 ( b ; y2 ), con a < b e y1 < y2, tra tutte le linee congiungenti P1 e P2 qual è quella che un punto materiale deve percorrere senza attrito per scendere da P1 a P2 nel minor tempo possibile? Allo scopo di risolverlo, assumiamo P1 come origine delle coordinate e orientiamo l'asse y verso il basso, come in figura, Supponiamo inoltre che la velocità iniziale del punto materiale sia nulla in P1, e che sia s la lunghezza dell'arco di traiettoria compresa tra P1 e il generico punto P [ x ; y(x) ]. Il punto materiale si trova in P nell'istante t, cioè P = P(t). Per il principio di conservazione dell'energia meccanica totale, all'istante t si ha:
L'elemento di lunghezza ds è dunque percorso nel tempo infinitesimo dt pari a:
Per trovare il tempo T necessario a percorrere l'intero arco P1P2 occorre integrare in dx tra a e b:
Bisogna dunque determinare la y(x) che rende minimo il funzionale:
Avendosi y(0) = 0, si tratta di un integrale improprio. Osserviamo ora che, se y' = 0, si ha:
Il secondo membro è nullo per l'equazione di Eulero-Lagrange; ne segue che anche il primo membro è nullo. Se la sua derivata rispetto a x è nulla, vuol dire che la detta espressione è costante:
Quello che abbiamo utilizzato è un metodo più semplice di trattare la complicata Equazione di Eulero-Lagrange. Nel nostro caso, ciò significa che:
Cioè:
Poniamo C2 = 1/2R ed otteniamo:
Purtroppo si tratta di un'equazione differenziale di non immediata soluzione. Si può però dare una rappresentazione parametrica del risultato ponendo:
Allora:
Cioè:
Si ha poi:
E, integrando:
Se ne conclude che le equazioni parametriche della soluzione cercata sono:
Queste sono le equazioni parametriche di un arco di cicloide. Si chiama cicloide (dal greco kýklos, "cerchio") la curva tracciata da un punto fisso su una circonferenza che rotola lungo una retta; in pratica essa è tracciata da un punto sulla periferia di una ruota che rotola senza strisciare:
Essa fu studiata per la prima volta da Nicolò Cusano (1401-1464) e enne così battezzata nel 1599 da Galileo Galilei. Il suo discepolo Evangelista Torricelli (1608-1647) dimostrò che l'area sottesa da un arco di cicloide è equivalente al triplo dell'area del cerchio generatore, un risultato molto importante per quei tempi, mentre l'inglese Christopher Wren (1632-1723) nel 1658, sfidato da Pascal, dimostrò che la lunghezza di un arco di cicloide è pari a quattro volte il diametro del cerchio generatore. L'equazione cartesiana di una cicloide è molto complessa:
La dimostrazione che abbiamo condotto in questa lezione prova che la cicloide è la brachistocrona cercata, come mostra anche questa animazione:
La cicloide ha anche un'altra proprietà: è tautocrona (dal greco "Tauto", "stesso", e "chronos", "tempo"). Consideriamo una guida a forma di cicloide; supponendo che la resistenza dell'aria e l'attrito della guida siano trascurabili, un punto materiale dotato di massa raggiunge il punto più basso della traiettoria sempre nello stesso tempo, da qualunque punto di partenza prenda le mosse, come mostra questa animazione:
Inoltre in meccanica ha una grande importanza il cosiddetto pendolo cicloidale, ideato nel 1659 da Christiaan Huygens (1629-1695), le cui oscillazioni sono isocrone indipendentemente dalla loro ampiezza. Questa proprietà nel caso del pendolo semplice vale solo per ampiezze piccole; invece Huygens dimostrò che un punto materiale che oscilla seguendo una traiettoria cicloidale sotto l'azione della gravità ha un periodo costante che dipende unicamente dalle dimensioni della cicloide. Questa scoperta consentì al fisico olandese di costruire orologi a pendolo molto precisi.
Anche in questo caso, sembra di sentir riecheggiare le parole millenarie del Libro dei Proverbi riguardo la Sapienza del Signore:
« Il Signore mi ha creato come inizio
della sua attività,
prima di ogni sua opera, all'origine; [...]
Quando Egli fissava i cieli, io ero là;
quando tracciava un cerchio
sull'abisso. » (Prov 8, 22.27)
Morale della favola: se gli angeli avessero voluto scendere dal Cielo fin sulla Terra scegliendo la traiettoria più rapida possibile, avrebbero dovuto utilizzare, più che una scala, uno scivolo a forma di cicloide, come si vede nella ricostruzione immaginaria qui sotto, in cui la figura di Giacobbe dormiente, con la testa appoggiata alla pietra che diverrà la stele di Betel, è tratta dall'olio su tela "Il sogno di Giacobbe" di Josè de Ribera (1591-1652), dipinto nel 1639 e oggi al Museo del Prado di Madrid: