Il Nuovo Testamento

14 - INTRODUZIONE AI VANGELI

14.A - Significato dell'opera evangelica

Tutti gli scritti del N.T. si inquadrano nell'azione missionaria della Chiesa primitiva: i Vangeli costituiscono il cuore di questa azione, e dell'azione più generica di tutta la Bibbia. Essi sono il frutto di un'attenta riflessione in seno alla comunità in un periodo in cui le prove e le persecuzioni si assommavano, e la maggior parte dei testimoni principali della vita di Gesù, erano ormai giunti al termine del loro viaggio terreno. In questo stato di cose il desiderio di conservare i ricordi più importanti e più cari della vita di Gesù si fece sentire impellente e finì per spingere i fedeli della prima generazione a raccogliere i vari elementi della vita di Gesù e tramandarli. Dato il valore centrale di questi scritti, prima di prenderli in esame singolarmente, sarà bene fermarsi brevemente e globalmente su di loro per conoscerne il vero concetto e il modo in cui si formarono. Come linee guida generali possiamo rifarci al modo di composizione dei libri profetici dell'A.T., i quali con la tecnica dei Vangeli hanno molti punti in comune: sappiamo infatti che i discepoli dei profeti trascrissero il messaggio orale del loro maestro in base ad alcune idee chiave o ad argomenti fondamentali, aggiungendovi alcuni dati biografici. La stessa cosa è più o meno avvenuta per i nostri Vangeli. Parlando di "vangelo", noi comunemente intendiamo uno dei quattro noti oggi come ispirati, però nel senso di "libro scritto" il termine "vangelo" non si trova mai nella Sacra Scrittura; dobbiamo infatti aspettare il 180 d.C., quando Giustino per la prima volta parla di « memorie degli Apostoli dette: Vangeli ». Come anche altri grandi uomini della storia, Gesù non ci ha lasciato alcuna parola scritta; come per Buddha, Confucio, Socrate ecc., anche per Gesù sono stati i suoi discepoli a riportare i suoi insegnamenti. Una sola volta Gesù si chinò per terra per scrivere qualcosa (Gv 8,6-8).

Egli scelse come collaboratori della sua attività alcuni uomini, ma non richiese da loro particolari capacità letterarie: non intendeva formare degli scrittori, ma dei predicatori, e prima dell'Ascensione diede loro il compito non di scrivere, ma di andare a predicare a tutte le genti. Come gli antichi profeti anche Gesù basò tutto sull'insegnamento orale, che del resto era in piena sintonia con l'uso e la prassi del tempo; lo scritto comparve solo in un secondo tempo, per supplire e perpetuare fedelmente la voce dei predicatori. Il termine Vangelo, pertanto, ha il significato originale greco di "lieto annuncio", e designa essenzialmente la predicazione orale di Cristo circa il messaggio salvifico e le opere da Lui compiute in vita per la salvezza degli uomini: miracoli, profezie, sofferenze, morte e risurrezione.

Questo termine, del resto, era di facile comprensione sia per gli ebrei, che, nell'A.T. trovavano questa parola in una visuale profetica di salvezza futura da realizzarsi tramite il Messia, sia per i pagani, che con questa espressione designavano qualsiasi lieto annuncio, specialmente i decreti e le azioni degli imperatori, considerati divinità.

La Palestina al tempo di Gesù

La Palestina al tempo di Gesù

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14.B - La formazione dei Vangeli

A) La forma della tradizione orale

Subito dopo la prima guerra mondiale alcuni autori tedeschi, lavorando indipendentemente e partendo da uno stesso principio, arrivarono ad un'identica conclusione: i Vangeli attuali sono il frutto di una lunga tradizione orale in ambienti diversi. Questi autori proposero uno strumento d'indagine che permise di risalire dai vangeli scritti alle prime "forme" dell'evangelizzazione, e così precisare le variazioni che le forme avevano subito passando da Gesù ai discepoli, e da questi alle comunità cristiane.

Il metodo si fonda su alcuni principi o regole che si possono formulare così: la tradizione evangelica non è letteraria, ma popolare, e perciò è da comprendere e spiegare alla stessa maniera delle forme, piccole unità letterarie, consimili, esistenti nelle altre letterature. Queste piccole unità letterarie non soltanto sono classificabili, ma hanno stretti rapporti con le condizioni interne della comunità: questo è il loro "ambiente vitale". La tradizione evangelica, dunque, prima di essere messa per iscritto esisteva in unità separate che si potevano classificare secondo la loro forma, e tali unità sorsero dalle situazioni o bisogni socio-culturali e spirituali della prima comunità. Sulla base della duplice tradizione evangelica, quella riguardante i fatti di Gesù e quella circa le sue parole (At 1,1), si possono elencare a titolo d'esempio le seguenti forme:

tradizione delle parole:
1. sentenze profetiche: Lc 12,32;
2. sentenze sapienziali: Mt 6,34;
3. detti sulla sequela: Mt 8,18-22;
4. detti sulla venuta: Mt 10,35;
5. norme per la comunità: Mt 9,35;
6. parabole.

tradizione dei fatti
1. paradigmi ed esempi: Mc 1,16-20;
2. discussioni: Mc 12,28-34;
3. racconto di miracoli: Mc 5,25-34;
4. racconto biografico: Mc 6,1-6;
5. storia della passione;
6. teofanie: Mc 1,9-11.

B) Formazione delle prime unità letterarie.

A questo punto ci si può chiedere: come mai dalle sentenze, parabole, dialoghi, sorti in ambienti e per motivi diversi, si e passati alla formazione di discorsi più ampi, alla collezione di miracoli e parabole? Il motivo principale di queste composizioni è senz'altro il desiderio di possedere un insegnamento più completo su Gesù. La tradizione si organizzò secondo alcuni centri d'interesse; dapprima per l'istruzione più approfondita dei credenti si formarono dei raggruppamenti in cui si intrecciarono parole e fatti. Poi certi avvenimenti e certe sentenze si coagularono attorno ad un luogo o regione: la giornata tipo di Cafarnao, Mc l,21-38; i miracoli attorno al lago, Mc 4,35-5,43. Altre volte è un personaggio, come Giovanni Battista o un gruppo, quello delle donne, che diventa il centro d'interesse. La scomparsa dei Dodici e degli altri testimoni oculari, la lontananza da Gerusalemme nel tempo e nello spazio suscitarono presso i nuovi convertiti un più vivo interesse per la storia concreta di Gesù e i suoi tratti umani, per la sua famiglia, la sua infanzia od origine storica. Si cercò allora di collocare il complesso del materiale evangelico dentro una cornice, ancora identificabile nel Vangelo di Marco e nel discorso di Pietro a Cornelio (At 10,34-43):

1. Preparazione messianica sulle rive del Giordano;
2. attività di Gesù in Galilea;
3. viaggio a Gerusalemme; 
4. passione, morte e resurrezione a Gerusalemme.

Questo è il vero e proprio schema del vangelo orale. Per garantire una maggiore fedeltà nella trasmissione alcune comunità misero per iscritto questi abbozzi di Vangelo, sia in aramaico che in greco; ma siamo ancora lontani dai Vangeli che possediamo.

C) La storia della redazione.

Dopo la seconda guerra mondiale, un gruppo di ricercatori si occupò del problema della redazione dei Vangeli. Si è dato a questa scuola il nome di Redaktionsgeschichte ("scuola della storia della redazione"). Dagli studi di questi autori risulta che gli evangelisti sono stati molto di più che semplici compilatori, bensì dei veri autori, dei seri storici e solidi teologi. Se da una parte gli evangelisti ricevettero la tradizione evangelica formatasi all'interno della comunità primitiva, dall'altro seppero anche essere degli scrittori che seguirono con la loro personalità la tradizione e i testi usati. Pur essendo portavoce della tradizione viva, seppero scegliere, riassumere o sviluppare secondo i casi il materiale in funzione dei bisogni e delle esigenze dei lettori. In altri termini gli evangelisti non furono dei cronisti che ricostruirono il seguito dei fatti giorno per giorno, ma dei veri storici, cioè degli scrittori che fecero rivivere un'esperienza per introdurre i lettori nel segreto della persona di Gesù. Al contrario del reporter o del giornalista, l'autore del Vangelo è uno scrittore impegnato. Essendo preso dal rapporto di fede con Dio, egli cerca di comunicare la sua fede e il suo amore. Pur essendo meno esatto di quello di un cronista, il suo racconto è molto più vero, più vivace e colorito. L'attività redazionale degli evangelisti consistette nello scegliere e selezionare l'ampio materiale che la tradizione mise loro a disposizione per integrarlo nella propria visione teologica e spirituale, come è chiaro in Gv 20,30.

Siamo dunque giunti, dopo un lungo processo evolutivo, alla definizione dei momenti necessari alla pubblicazione del Vangelo, ma non tutti i testi che vennero di volta in volta pubblicati conservarono gli stessi caratteri originali.

« Poiché molti hanno posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che furono testimoni fin dal principio, così ho deciso anch'io di far accurate ricerche e di scriverne per te un resoconto ordinato... » scrive Luca nel prologo del suo Vangelo.

Molti hanno scritto, ben più di quattro, e per questo è necessario rimettere ordine affinché nessuno sia ingannato; per farlo scientificamente occorre eseguire "ricerche accurate", vale a dire interrogare i testimoni ancora in vita e ricercare le tracce della verità nella storia umana. In mezzo al pullulare di numerosi Vangeli si impose, dunque, una cernita per conservare integro e genuino l'insegnamento di Gesù. Qui entrò in scena il Magistero della Chiesa, che stabilì quali scritti meglio rappresentassero e fossero meglio capaci di perpetuare l'insegnamento di Gesù.

Molti testi furono rigettati, e sono questi i cosiddetti "vangeli apocrifi", e altri approvati: i quattro di Marco, Matteo, Luca e Giovanni.

La Sacra Famiglia e la SS. Ttinità, Chiesa di San Rocco, Vanzaghello (MI)

La Sacra Famiglia e la SS. Ttinità, Chiesa di San Rocco, Vanzaghello (MI)

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14.C - L'ambiente vitale dei primi scritti cristiani

Tra la morte di Gesù di Nazaret e i primi scritti canonici del N.T., il cristianesimo conosce un rapido sviluppo. Dopo vent'anni di vita, il movimento religioso suscitato da Gesù è presente in tutta l'area geografica del Mediterraneo. Un osservatore esterno di fenomeni religiosi registrerebbe già verso gli anni 50 la presenza di cristiani in Palestina, Siria, Fenicia, Cipro, Asia minore, Macedonia, Grecia, Italia, Egitto e Creta.

Un primo dato merita di essere osservato: il cristianesimo nasce e si sviluppa nelle città. Le lettere di Paolo sono indirizzate tutte a cristiani presenti in importanti centri urbani, e gli Atti degli Apostoli contengono pochi e incerti accenni ad una presenza cristiana nei villaggi e nelle campagne. Qui gli abitanti vivevano nella certezza religiosa. La localizzazione nelle grandi città permetteva una migliore diffusione delle comunità cristiane; grazie alla fitta rete stradale e commerciale che collegava tra loro le città dell'impero romano, l'opera missionaria fu possibile e organizzata su larga scala. Molte città come Antiochia di Siria, Efeso e Corinto furono scelte come centri di diffusione del messaggio in quanto porti marittimi, o comunque poste su grandi vie commerciali. Quanto all'estrazione religiosa dei convertiti al cristianesimo, schematizzando si potrebbe dire così: negli anni 30-40 il maggior numero di convertiti proviene dal mondo giudaico, la conversione dei pagani non è esclusa ma essa resta ancora un fatto eccezionale; negli anni 40-50 il numero più rilevante di convertiti è costituito da "coloro che temono Dio", mentre i convertiti dal paganesimo sono già una consolante realtà, tanto che si sente il bisogno di risolvere con il Concilio di Gerusalemme il problema di principio sui modi della loro partecipazione alla Chiesa; dopo gli anni 50 la stragrande maggioranza delle conversioni proviene dal mondo pagano. I cristiani della Chiesa primitiva non appartengono, comunque, ad una sola classe sociale. Tra di loro c'erano:

a) operai come Aquila e Priscilla (At 18,3).
b) pescatori, almeno sei apostoli svolgevano quest'attività (Mt 4,18-23). La situazione economica dei pescatori era molto buona in un tempo in cui il pesce e non la carne era il cibo della massa della popolazione. Zebedeo, padre di Giacomo e Giovanni, aveva una barca propria con degli operai che lavoravano al suo servizio (Mc l,20).
c) esattori d'imposta (Mt 3,5).
d) vedove, bisognose d'assistenza economica (At 6,1).
e) schiavi, obbligati a lavorare perché considerati una cosa, non una persona.
f) persone facoltose come Sergio Paolo (At 13,7-12) o Cornelio (At 10,1).

Questa varietà della situazione economica non ostacolava l'esperienza di autentica fraternità delle comunità ecclesiali, dove dominava la convinzione che in Cristo « non c'è giudeo né greco, non c'è schiavo né libero » (Gal 3,28). Altro punto interessante e di attuale studio, è la posizione della donna nel servizio liturgico. A lei è esplicitamente riconosciuto il diritto di prendere parte attiva nella preghiera, nella profezia e questa prassi è seguita in diverse comunità. Nelle chiese pagano-cristiane continua quel processo d'emancipazione della donna che è anche visibile nelle comunità giudeo-cristiane ellenistiche (1 Cor 11,2-16).

Tra le comunità cristiane antiche Pietro occupa un posto preminente. Interviene d'autorità in alcuni casi disciplinari (At 5,1-11; 8,18-23), ma la sua non è un'autorità monarchica. A Gerusalemme agisce sempre in compagnia di Giovanni, e al Concilio di Gerusalemme il decreto finale porta la firma di tutti gli Apostoli. A differenza di Giacomo che rimase costantemente a Gerusalemme, Pietro operò anche nella Samaria (At 8,14-24), nelle città ellenistiche della costa del Mediterraneo (At 9,32-11,18), a Corinto e ad Antiochia di Siria dove Paolo, pur rimproverandolo, riconobbe la funzione guida che Pietro esercitò nella Chiesa. Prima, naturalmente, di giungere a Roma.

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14.D - I vangeli apocrifi

Il N.T. non comunica alcuna notizia circa l'infanzia di Gesù, sulla vita e la morte di sua madre Maria, sui viaggi missionari degli Apostoli. Non deve quindi stupire che la pia immaginazione dei fedeli si sia sentita in dovere di fornire dei particolari. A scopo di edificazione, gli autori delle leggende si presero ogni libertà. Da parte loro, poi, gli eretici sentirono il bisogno di possedere narrazioni evangeliche suscettibili di dare un sostegno alle loro dottrine. Si svilupperà, dunque, intorno al Canone delle Scritture, tutto uno sciame di leggende comprendenti quelli che siamo soliti chiamare gli apocrifi del N.T.

Originariamente un libro apocrifo rivestiva un carattere troppo sacro e misterioso per essere conosciuto da tutti; doveva essere tenuto nascosto al pubblico e riservato solo ai seguaci della setta. Per trovare credito, questi libri circolavano sotto il nome di un Apostolo o di un pio discepolo di Gesù. Quando fu riconosciuta la falsità di queste attribuzioni, il termine "apocrifo" prese un altro senso e cominciò a significare: "contraffatto, falso, inaccettabile". Questi testi, che per altro non ci sono giunti nella loro interezza, ma in frammenti più o meno vasti, hanno però un valore importantissimo per la storia della Chiesa, poiché portano preziose informazioni sulle tendenze e le consuetudini che caratterizzarono gli inizi del cristianesimo. Fra tutti gli esempi che potremmo cogliere per illustrare meglio questi testi, scegliamo un brano tratto dal Vangelo apocrifo detto dello pseudo-Tommaso. Si tratta di un testo limite, quindi non può essere utilizzato come "unità di misura" per lo studio e la critica di questi vangeli, ma ci fa ben capire il perché la Chiesa lo abbia rigettato.

« Un'altra volta, Gesù attraversava il villaggio, e un bambino correndo lo urtò ad una spalla. Gesù irritato gli disse: "Non continuerai la tua strada." E tosto il bambino cadde morto. Alcune persone che avevano visto ciò che era accaduto, dissero: "Donde verrà mai questo bambino, che ciascuna sua parola si realizza subito?" I genitori del bambino morto vennero a trovare Giuseppe e si lamentarono dicendo: "Con un bambino simile non puoi abitare fra di noi nel villaggio, oppure insegnagli a benedire e non a maledire; giacché egli fa morire i nostri figli." Giuseppe prese da parte Gesù e lo rimproverò dicendo: "Perché fai così? Queste persone soffrono, ci odiano e ci perseguitano." Gesù rispose: "So che le parole che pronunci non sono tue; tuttavia tacerò per amor tuo; ma loro subiranno il castigo". E subito quelli che lo accusavano divennero ciechi » (4,1-5,2)

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14.E - La cronologia della vita di Gesù

In Lc 3,23 si afferma che Gesù iniziò il suo ministero pubblico a circa trent'anni. Dionigi il Piccolo nel IV secolo prese alla lettera quest'informazione non badando molto a quel "circa" (osei) decisivo per il nostro problema. Se Gesù aveva trent'anni, pensò Dionigi, nell'anno XV di Tiberio (vedi Lc 3,1), che corrispondeva al 782 a.U.c., l'inizio della nostra era doveva essere posto al massimo nel 753 a.U.c.

In Mt 2,13-18 è ricordata la strage degli innocenti perpetrata dal re Erode contro tutti i bambini che avevano meno di due anni, con l'intento di liberarsi del futuro "re dei Giudei". Erode però, secondo Flavio Giuseppe, morì nel 749 a.U.c., che corrisponde secondo i calcoli di Dionigi, al 4 a.C.

È evidente allora che o Erode non è morto nel 4 a.C. o Gesù non e nato nell'anno zero. Dal momento che non abbiamo elementi che ci permettono di dubitare dell'asserzione di Flavio Giuseppe, non ci resta che pensare che Gesù non sia nato nell'anno zero. Ipotizzando che Erode abbia ordinato la strage degli innocenti pochi giorni prima di morire, dobbiamo concludere che Gesù sia nato intorno al 6 a.C.; per gli studiosi la data del 7-6 a.C. è, così, la più probabile. Fra il 19 agosto del 28 e il 19 agosto del 29 (anno XV dell'impero di Tiberio Cesare) Gesù avrebbe iniziato la sua vita pubblica, all'età di 35-36 anni. Tenendo buona la cronologia di Giovanni che ricorda tre Pasque (2,23; 6,4; 12,1) forse quattro (5,1), Gesù sarebbe morto il 7 aprile del 31, considerando come prima la Pasqua del 29, oppure il 7 aprile del 32, considerando come prima la Pasqua del 30. Se invece la famosa altra "festa dei Giudei" fosse un'altra Pasqua (la quarta: 5,1), Gesù sarebbe morto il 7 aprile del 33, e qui incontreremmo, guarda caso, la data canonica che la tradizione ci ha riportato. Nell'ipotesi breve la vita di Gesù sarebbe durata 37 anni, nell'ipotesi lunga 40.

Per quanto attiene invece al giorno di nascita, il 25 dicembre è considerato dai più solo una data convenzione voluta tardivamente dal vescovo di Roma con l'intento di sacralizzare una festa pagana, quella del "sol invictus". In quella data, infatti, ci si accorgeva che le giornate si allungavano e che le tenebre non erano riuscite ad avere la meglio nel giorno del solstizio d'inverno. La chiesa d'Oriente ricorda la nascita di Gesù il 6 gennaio, Epifania (= manifestazione), data l'antichità di questa tradizione, non macchiata da alcuna convenzione, è una delle date più probabili. Ma, considerando che i pastori la notte di Natale si trovavano all'addiaccio, c'è invece chi propone una data settembrina.

Di recente però il professor Shemarjahu Talmon, che insegna all'Università Ebraica di Gerusalemme, ha riaperto il didattico, trovando prove secondo cui quella del 25 dicembre non sarebbe affatto una data convenzionale. Egli è partito da un passo dell'incipit del Vangelo di Luca:

« Al tempo di Erode, re della Giudea, c'era un sacerdote chiamato Zaccaria, della classe di Abìa, e aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta. [...] Mentre Zaccaria officiava davanti al Signore nel turno della sua classe, secondo l'usanza del servizio sacerdotale, gli toccò in sorte di entrare nel tempio per fare l'offerta dell'incenso. » (Lc 1,5.8-9)

Come si vede, Luca si preoccupa di precisare che Zaccaria apparteneva alla classe sacerdotale di Abia e che, quando ebbe l'apparizione dell'Angelo che gli annunciò la nascita di Giovanni il Battista, officiava « nel turno della sua classe ». In effetti, coloro che nell'antico Israele appartenevano alla casta sacerdotale erano divisi in 24 classi che, avvicendandosi in ordine immutabile da secoli, dovevano prestare servizio liturgico al tempio per una settimana, due volte l'anno. Si sapeva che la classe di Zaccaria, quella di Abia, era l'ottava nell'elenco ufficiale. Ma quando cadevano i suoi turni di servizio? Orbene, lavorando su testi rinvenuti nella biblioteca essenica di Qumran, il professor Talmon è riuscito a ricostruire in quale ordine cronologico si susseguivano le 24 classi sacerdotali. Quella di Abia prestava servizio liturgico al tempio due volte l'anno, come le altre, e una di queste due volte cadeva nell'ultima settimana di settembre. La Chiesa cattolica non ha una festa liturgica per ricordare il concepimento del Battista, ma le antiche Chiese d'Oriente lo celebrano solennemente tra il 23 e il 25 settembre: in perfetto accordo, dunque, con la ricostruzione compiuta da Talmon. Segno, questo, che la tradizione di tale ricorrenza deve risalire direttamente alla primitiva Chiesa giudeo-cristiana di Gerusalemme: una memoria antichissima quanto tenace, quella delle Chiese d'Oriente, come confermato in molti altri casi.

Ora, se Giovanni il Battista è stato concepito il 25 settembre, sei mesi dopo va collocata l'Annunciazione a Maria, in base alle parole dell'evangelista Luca:

« Nel sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria » (Lc 1,25-27)

Si arriva così al 25 marzo. Logicamente, la nascita di Gesù deve cadere nove mesi dopo, cioè proprio intorno al 25 dicembre! Giorno che, dunque, non fu fissato solo per contrastare le feste pagane nei giorni del solstizio d'inverno. A quanto pare, i Vangeli non cessano di riservare sorprese: dettagli apparentemente futili rivelano all'improvviso la loro ragion d'essere, il loro carattere di segni di una verità nascosta.

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14.F - Le testimonianze extrabibliche su Gesù

Non solo i testi evangelici ci parlano di Gesù, ma anche alcuni documenti extrabiblici che dimostrano come non si possa mettere in discussione l'esistenza storica di Gesù di Nazaret. Le testimonianze non evangeliche sono le seguenti:

A. Flavio Giuseppe, in Guerra giudaica, XVIII, 63.
« Ci fu, verso questo tempo, un uomo sapiente, la sua condotta era buona ed era stimato per le sue virtù. Attirò a sé molti giudei ed anche molti greci, ed avendo Ponzio Pilato, su denuncia degli uomini notabili fra noi, punito lui di croce, non cessarono coloro che da principio lo avevano amato. Essi, infatti, raccontarono che era apparso loro tre giorni dopo la sua crocifissione ed era vivo. »
Flavio Giuseppe era un ebreo della nobiltà sacerdotale vissuto fra il 37 e il 97; schieratosi con i Romani dopo la distruzione del Tempio, scrisse "Le Antichità Giudaiche", grande opera che ripercorre tutta la storia del Popolo Eletto, e la "Guerra Giudaica", che parla della rovina di Gerusalemme del 70 d.C.

B. Talmud babilonese, trattato Sanhedrin, 43a.
« Ecco ciò che è trasmesso: il giorno di Pasqua fu appeso Gesù. Un araldo ha camminato quaranta giorni davanti a lui dicendo: "Deve essere trafitto perché ha praticato la magia ed ha sviato e sedotto Israele. Chi ha qualcosa a sua discolpa venga a difenderlo." Ma non fu trovata nessuna difesa e fu appeso il giorno della preparazione della Pasqua. »
Il Talmud babilonese è un testo ufficiale in uso presso i rabbini e i teologi di religione ebraica. Esso riporta notizie false su Gesù, però è importante perché indica come data della morte di Cristo il 14 di Nisan, la stessa segnalata nel vangelo di Giovanni.

C. La lettera di Mara Bar Serapion.
« Che vantaggio trassero gli ateniesi dal condannare a morte Socrate?... gli uomini di Samo dal bruciare Pitagora?... i giudei dal giustiziare il loro sapiente Re? Fu proprio dopo tale delitto che il loro regno fu distrutto. Dio giustamente vendicò questi tre uomini saggi: gli ateniesi morirono di fame; gli uomini di Samo furono sopraffatti dal mare; i giudei, rovinati e cacciati dalla loro terra, vivono in completa diaspora. Ma Socrate non morì per i buoni; continuò a vivere nell'insegnamento di Platone. Pitagora non morì per i buoni; continuò a vivere nella statua di Hera. Né morì per i buoni il Re sapiente; continuò a vivere nell'insegnamento che aveva impartito. »
Un manoscritto siriaco del VII secolo contiene il testo di una lettera del siriano Mara Bar Serapion indirizzata a suo fratello Serapione, lettera certamente successiva al 73 d.C. Il testo presenta Socrate, Pitagora e il "saggio Re" dei Giudei come personaggi storici, e quest'ultimo non può essere che Gesù di Nazaret, il quale fu giustiziato e con il suo messaggio dette "nuove leggi" all'umanità.

D. Caio Svetonio Tranquillo, Vita di Claudio, 25; Vita di Nerone, 16. 
« Claudio espulse da Roma i Giudei i quali, per colpa di Cresto, facevano frequenti tumulti. »
« Si suppliziano i cristiani, gente che apparteneva ad una superstizione nuova e pericolosa" »
Svetonio, segretario dell'imperatore Traiano vissuto fra il 55 e il 120, fu biografo di dodici Imperatori Romani ed evidentemente non sapeva distinguere tra cristiani e Giudei.

E. Publio Cornelio Tacito, in Annali, XV, 44.
« Quindi, per mettere a tacere la voce che l'incendio di Roma fosse stato ordinato da lui, Nerone presentò come colpevoli e colpì con supplizi raffinatissimi coloro che il volgo, odiandoli per i loro delitti, chiamava cristiani. L'autore di questa denominazione, Cristo, sotto l'impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore romano Ponzio Pilato. Repressa, sul momento questa superstizione detestabile, si faceva di nuovo strada, non solo in Giudea, dove aveva avuto origine, ma anche a Roma... »
Publio Cornelio Tacito fu uno dei più grandi storici romani e visse fra il 75 e il 150. Egli non può nascondere il suo disprezzo verso la "detestabile superstizione" che per lui è il Cristianesimo, ma nonostante questo egli dimostra di provare compassione per i cristiani, uccisi per soddisfare i desideri di un uomo solo, Nerone, e proprio grazie ad essa ci ha lasciato questa preziosissima testimonianza.

F. Plinio il Giovane, in Epistole, X, 96.
« Dopo vari interrogatori accompagnati da minacce, faccio giustiziare coloro che si ostinano nel dichiararsi cristiani. Alcuni hanno negato di esserlo e hanno persino maledetto Cristo. Ma a quanto sembra ciò non succede ad un vero cristiano. La mia inchiesta ha chiarito che tutta la colpa o errore consiste nell'essere soliti riunirsi in un giorno fissato prima della levata del sole per cantare fra loro alternativamente un inno a Cristo come ad un Dio; ad impegnarsi con giuramenti a non perpetrare alcun crimine, a non commettere furti, né atti di brigantaggio, né adulteri e a non mancare alla parola data... Non avendo trovato che una superstizione irragionevole e smodata, ho sospeso la mia ricerca di informazioni ed ho pensato di ricorrere al tuo consiglio. La cosa mi sembra proprio meritevole del tuo consiglio, soprattutto a motivo del gran numero di accusati... »
Plinio il Giovane (62-114 d.C.), amico personale dell'imperatore Traiano, fu da lui nominato governatore della Bitinia, ed in una a lui lettera inviata nel 112 gli domanda come deve comportarsi nei confronti dei cristiani. Traiano gli risponde in maniera tollerante: gli consiglia di non far ricercare i cristiani ma, se denunciati con lettera non anonima, bisogna punirli se non accettano di sacrificare agli Dei. Un secolo più tardi Tertulliano rimprovererà all'imperatore l'illogicità di questa strana sentenza: se ritieni colpevoli i cristiani, perché non vai anche a cercarli? Se non li ritieni colpevoli, perché condanni quelli che vengono denunciati?

Ci si può domandare perché le fonti non cristiane siano così avare di testimonianze a proposito di Gesù. A parte il fatto che a quei tempi non vi erano certo mezzi di comunicazione di massa né agenzie di stampa e tantomeno Internet, per rispondere a questo interrogativo basta ricordare quanto scrisse in proposito Vittorio Messori: « Nessuno di quegli scrittori avrebbe potuto occuparsi di Gesù se non per inciso. Essi parlano di coloro che furono "re" nell'ordine della forza e della sapienza. Le tracce che Gesù ha lasciato non sono quelle su cui si basa la storia ufficiale: palazzi reali, templi, monete con il suo nome e il suo profilo, segni di guerre e di conquiste. Egli ha lasciato solo un elemento impalpabile, in apparenza insignificante: la sua parola, affidata a un gruppo di rozzi provinciali. Non è un caso, infatti, che le testimonianze antiche più che di lui parlino degli effetti "politici" della sua esistenza. Gli storici, cioè, non hanno colto il Cristo, confuso com'era nel torrente delle vicende orientali. Hanno notato invece il cristianesimo, che andava organizzandosi come vivace e inquietante "gruppuscolo" che era impossibile disperdere. »

Nella mappa satellitare qui sopra è visibile la Città Vecchia di Gerusalemme.

La linea rossa indica le mura della Città Santa al tempo di Gesù, notevolmente spostata verso sud rispetto alla città attuale. Queste mura erano state fatte ingrandire e fortificare da Erode il Grande (37-4 a.C.) La città era separata in due dalla Valle del Tyropeion. A sinistra in basso si vede la Valle della Geenna, dove venivano bruciati i rifiuti della città, e che Gesù prese a modello dell'Inferno. A destra in basso corre invece la Valle del Cedron, che prende il nome dal torrente che vi scorre, e che separa la città dal Monte degli Ulivi (a destra).

La linea viola indica la spianata del Tempio di Erode, posta sul Monte Moria. Lungo il lato orientale correva il Portico di Salomone; lungo quello meridionale, il Portico Regio. Qui, secondo la tradizione, Abramo tentò di sacrificare suo figlio Isacco; qui Salomone fece edificare il suo Tempio; e qui, dopo la definitiva distruzione ad opera dell'imperatore Adriano nel 135 d.C., fu elevato un tempio dedicato a Giove. In seguito il califfo Omar ibn al-Khattab (581-644) vi fece costruire una famosissima moschea, la Cupola della Roccia, ultimata nel 691 d.C. e a tutt'oggi esistente. Oggi la spianata porta il nome arabo di Aram al-Sharif ("il Nobile Santuario").

La linea gialla indica le mura attuali della Città Vecchia, fatte edificare dal Sultano ottomano Solimano II il Magnifico nel 1534. La Città attuale è divisa in quattro quartieri: Armeno, Cristiano, Ebraico e Musulmano.

Legenda: 1 - spianata del Tempio. 2 - Moschea di Omar, edificata nel punto dove sorgeva il Santuario del Tempio. 3 - luogo dove sorgeva la Fortezza Antonia, sede del Pretorio. 4 - Moschea di Al-Aqsa ("la Lontana"), uno dei tre luoghi santi dell'Islam con la Mecca e Medina. 5 - il cosiddetto "Pinnacolo" del Tempio, alto oggi 47 metri dal suolo (Mt 4,5). 6 - il Monte degli Ulivi, luogo dell'agonia di Gesù. 7 - il Colle dell'Ofel, dove re Davide aveva la sua reggia. 8 - il Monte Sion, sede della fortezza dei Gebusei conquistata da Davide che ne fece la sua capitale. 9 - la Porta di Sion. 10 - la Chiesa di San Pietro in Gallicantu. 11 - il Cenacolo. 12 - il Quartiere Armeno. 13 - il Quartiere Ebraico. 14 - il Palazzo di Erode il Grande. 15 - il Monte Calvario. 16 - Il Santo Sepolcro, oggi inglobato assieme al Calvario nell'omonima Basilica crociata. 17 - il Quartiere Cristiano. 18 - il Quartiere Musulmano. 19 - la Porta di Erode. 20 - La Porta dei Leoni. 21 - la Porta di Giaffa e la Torre di Davide. 22 - la Porta di Damasco.

« Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa quanti la amate! » (Galati 4,26)

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15 - I QUATTRO VANGELI

15.A - La questione sinottica

Sono definiti "vangeli sinottici" i vangeli di Marco, Matteo e Luca, in quanto presentano fra loro notevoli "concordanze", a tal punto che molte pagine di questi Vangeli possono essere accostate le une alle altre e lette in modo simultaneo, perché riportano gli stessi racconti di miracoli e le stesse raccolte di sentenze. Esistono delle edizioni di vangeli. chiamate, appunto, "sinossi", che pongono il testo evangelico su tre colonne parallele, dove, generalmente Marco occupa una posizione centrale rispetto a Matteo e Luca.

Non bisogna, però, farci ingannare: le concordanze esistono relativamente alla materia trattata, allo schema, alle espressioni, ecc.; tuttavia lo scopo proprio di ogni autore, come pure i particolari destinatari cui si rivolgono, hanno obbligato i sinottici ad una cernita del materiale che avevano a disposizione, creando così fra i tre delle discordanze che ancora oggi costituiscono un serio problema per gli studiosi. Come si è detto numerose e innegabili sono le similitudini, come anche le differenze che si riscontrano fra i sinottici in vari campi, quali:

l) nella materia trattata dai tre evangelisti, abbiamo:

2) Nell'ordine in cui viene presentata la materia, abbiamo:

3) Nella forma notiamo:

Varie soluzioni sono state cercate, ma nessuna ha convinto del tutto. Questi tentativi possono comunque essere ricondotti a due modelli fondamentali: l'ipotesi delle due fonti e quella di più documenti.

15.B - Il Vangelo di Marco

1) L'autore.

Le prime notizie sul vangelo secondo Marco e sul suo autore si hanno già all'inizio del II secolo in una testimonianza del vescovo Papia di Gerapoli (discepolo immediato degli Apostoli e "uomo antico", come lo 

Papia di Gerapoli †

Discepolo diretto degli Apostoli e amico di Policarpo di Smirne, aderì fin dall’inizio al movimento millenarista. Non ci sono giunte sue opere, mai dai frammenti contenuti in Eusebio di Cesarea appare chiara l'importanza del Vangelo orale nella sua predicazione.

definisce Ireneo), il quale insiste fortemente nell'affermare la dipendenza tanto di Marco quanto del suo scritto dall'apostolo Pietro e dalla sua predicazione orale.

« Diceva quel presbitero (Giovanni) che Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse diligentemente ciò che ricordava, non riportando però con ordine ciò che il Signore aveva detto e fatto. Egli non aveva ascoltato, infatti, il Signore e non era stato suo discepolo, ma, come ho già detto, seguì Pietro, il quale faceva la sua catechesi secondo la necessità e non per comporre un resoconto delle parole (in greco ton loghion) del Signore »

Similmente alla fine del medesimo secolo faceva Ireneo, che riferisce pure l'inizio e la fine dell'opera marciana e ne dà un giudizio complessivo molto lusinghiero.

Nel III secolo la prima testimonianza è quella di Clemente Alessandrino, il quale, almeno in un testo 

Clemente Alessandrino †

Nato verso il 150, forse ad Atene, intorno al 200 venne nominato vescovo di Alessandria d’Egitto, due anni dopo dovette abbandonare la sua cattedra in seguito alla persecuzione di Settimio Severo. Morì nel 215 in esilio. E’ autore di molte opere fra cui spiccano gli "Stromati".

frammentario, precisa che l'opera fu scritta a Roma su richiesta dei fedeli convertiti da Pietro. Successivamente ne parlarono Origene, Epifanio, Girolamo e tanti altri. La tradizione è dunque unanime nell'accreditare a Marco la paternità del secondo vangelo.

Marco, il cui vero nome era in realtà Giovanni Marco, non fu un Apostolo, ma un loro immediato discepolo. Un cristiano, dunque, della seconda generazione. Di distinta e abbiente famiglia di Gerusalemme, figlio di una certa Maria, fu in strettissimo rapporto con la Chiesa di questa città che per un certo tempo si riunì per le celebrazioni proprio nella sua casa (At 12,12-17), dove probabilmente fu battezzato da Pietro.

Benché la tradizione affermi che non abbia conosciuto Gesù, alcuni studiosi lo vogliono identificare con quel giovane che, nell'orto degli ulivi, la sera del tradimento, fuggi via nudo (Mc 14,51-52). Cugino di Barnaba (Col 4,10), entrò nell'orbita di Paolo dal quale ricevette tutti gli insegnamenti teologici necessari ad un buon missionario; stette al suo fianco anche durante la prigionia romana. Secondo Eusebio e Girolamo avrebbe fondato la chiesa di Alessandria d'Egitto, anche se oggi molti mettono in discussione questa notizia, anche perché Clemente alessandrino ed Origene, che pure erano di quella chiesa, non ne parlarono affatto; così come piuttosto recente è la notizia circa il suo martirio (IV secolo).

2) La composizione.

Il vangelo di Marco è stato scritto certamente prima del 70 d.C., perché non dà molto peso alle profezie sulla caduta di Gerusalemme, cosa che avrebbe certamente fatto se avesse scritto a distruzione avvenuta. Recentemente alcuni studiosi propongono la data del 45 d.C. dando credito, probabilmente a ragione, al 7Q5.

L'opera ha, comunque, visto la luce verosimilmente a Roma; i destinatari potrebbero realmente essere i cristiani d'Italia, in particolare i romani. Anche in mancanza di testimonianze esterne, noi saremmo, comunque in grado di dire che questo Vangelo fu scritto per dei latini o più genericamente per dei pagani, per i seguenti motivi:

Come ha mostrato l'esegeta francese Jean Carmignac (1914-1991), molto probabilmente esso fu scritto originariamente in aramaico e poi tradotto in greco, come dimostrano alcuni passi controversi del suo testo. Per esempio, perchè in Mc 5,13 il gregge di porci invasati dal demonio è valutato in duemila unità? Troppe, non c'è alcun dubbio. Ma la parola KLPYM (al tempo di Gesù in ebraico e in aramaico le vocali non erano scritte) significa "duemila" se vocalizzata in k'alpayim, "a branchi" se la si legge invece kàalapim. I porci si sono dunque precipitati nel lago "a branchi", e l'errore di lettura da parte dell'ignoto traduttore ha fatto il resto.

Inoltre quello di Marco è il più corto fra i vangeli, contando solo 16 capitoli. È piuttosto difficile trovare un filo conduttore nell'opera di Marco, a mano a mano che ci si addentra nella sua lettura, però, si comprende come questo sia costituito dalla presentazione progressiva della figura di Gesù. Il vangelo si presenta articolato in due parti:

1. ministero di Gesù (1,1-8,20)
2. rivelazione dell'identità di Gesù (8,21-16,18).

Marco offre così un messaggio di fede traumatico per il senso religioso e di fede comune per quei tempi: Gesù, cioè un Dio, è tale in forza della Sua morte, ma anche della Sua resurrezione.

3) La struttura.

Segue strettamente la linea dello schema del vangelo orale, trattando solo della vita pubblica di Gesù, quale si sviluppò prima in Galilea e quindi in Giudea. Si tratta di uno schema che segue di pari passo la predicazione di Pietro riportata negli Atti degli Apostoli.

In Marco mancano i discorsi propri di Matteo, ad esempio non riferisce nulla sull'infanzia di Gesù; notevoli sono i sommari che esprimono il ripetersi dei fatti; tutto è incentrato sullo "scandalo della croce", vale a dire sull'apparente assurda conclusione che il Dio dei cristiani è tale anche se morto in croce (non si tiene conto della resurrezione).

4) La dottrina.

Per Marco l'avvento del Regno non è qualcosa di pacifico. Si tratta di una lotta contro il potere opposto, quello del male, ed è dimostrato via via dalle tentazioni nel deserto, dagli esorcismi che compie, dall'opposizione dei suoi avversari.

In varie parabole, Marco ci presenta il regno di Dio come una realtà proiettata verso il futuro, verso le realtà ultime, ma già con un fondamento qui in terra quale periodo di preparazione.

Questo Regno è già presente, ma non ancora nella sua definitività. È incentrato su Gesù, vero uomo nella morte, vero Dio nella resurrezione. Il Gesù di Marco è vicino all'uomo. Se con la resurrezione ha dimostrato di essere vero Dio, non significa che Marco lo abbia voluto presentare come persona lontana dall'uomo, che non condivide il retaggio dell'uomo. Gesù ha compassione, si stupisce, è ironico, è abbattuto, indignato, ecc. Questa presentazione della sua persona è il frutto dell'esperienza diretta degli apostoli dei quali Marco si è fatto portavoce.

Un ambito del tutto particolare è quello che gli studiosi chiamano: "segreto messianico", cioè la constatazione che durante tutto il Vangelo Gesù vieta di parlare, inspiegabilmente, della sua messianicità (1,25; 1,44; 3,12...). Probabilmente il motivo va ricercato nell'intenzione di Gesù di non voler essere frainteso, di non voler essere indicato come Messia secondo l'accezione che gli ebrei davano a questa parola: liberatore politico-militare della nazione israelitica.

5) L'integrità.

Per "integrità" si intende la certezza che tutta l'opera sia stata scritta dalla stessa mano. Per quanto concerne il Vangelo di Marco si è parlato di integrità in particolare per la parte finale (Mc 16,9-20), nota come "aggiunta canonica". Certamente il brano è ispirato e canonico, come risulta dalla definizione del Concilio di Trento (IV sessione, 8 aprile 1546); meno sicura è l'autenticità letteraria, mancando il testo in diversi codici. In particolare è assente nel codice Vaticano, B, e Sinaitico, S; mentre è presente nei codici: A alessandrino, C Efrem riscritto, D Beza, K del secolo IX di Parigi, del secolo X di Monaco e molti altri sia maiuscoli che minuscoli, nonché in diverse versioni e in molti padri. Al loro posto alcuni codici, fra i quali il "bobiensis", hanno questa seconda finale breve:

« Poi, però, riferirono brevemente a quelli che erano con Pietro tutte le cose che erano state loro comandate. Dopo di che, Gesù stesso diffuse per mezzo di loro da oriente ad occidente il sacro ed imperituro messaggio dell'eterna salvezza. Amen. »

I sospetti circa l'autenticità letteraria nascono dal fatto che la finale non è tanto la continuazione del racconto precedente, quanto piuttosto un sunto conciso di quanto gli altri evangelisti dicono su Gesù risorto, in modo che la finale di Marco, se non si conoscesse la narrazione degli altri autori sacri, rimarrebbe incomprensibile. Si nota che lo stile non è più quello del resto del Vangelo, e per di più contiene delle piccole contraddizioni: ad es. la Maddalena è presentata come se fino allora il lettore non ne avesse mai sentito parlare, quando invece la troviamo già in altri brani; le pie donne non seguono il comando di annunciare la risurrezione ai discepoli, ma tacciono; infine la lingua stessa non è quella comunemente utilizzata da Marco. Criticamente, quindi, l'autenticità letteraria della finale non è molto ben fondata, tanto che, comunemente, gli studiosi sono propensi ad ammettere che si tratti di un brano di altra mano.

Rimane comunque l'enigma di come Marco abbia potuto terminare in modo così brusco il suo vangelo al versetto 16,8. Non mancano gli autori che pensano che sia esistita un'altra finale andata persa e poi sostituita dall'attuale, parendo impossibile a costoro di avere un vangelo che termini senza un riferimento alle apparizioni del risorto, elemento caratteristico del kerygma ("annuncio") primitivo.

Gli evangelisti Giovanni e Marco con i rispettivi simboli, affreschi cinquecenteschi nell'abside della Chiesa Parrocchiale di Lonate Pozzolo

Gli evangelisti Giovanni e Marco con i rispettivi simboli, affreschi cin-
quecenteschi nell'abside della Chiesa Parrocchiale di Lonate Pozzolo

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15.C - Il Vangelo di Luca

1) L'autore.

Secondo la testimonianza del "Canone Muratoriano", gli "Acta omnium apostolorum", dedicati a Teofilo, sono opera di un certo Luca, testimone oculare di quanto narra. Così pure il "Prologo antimarcionita" che risale, come il documento precedente, alla seconda metà del II secolo d.C., afferma che Luca, dopo aver scritto il Vangelo, ha composto anche gli Atti. Ireneo, morto nel 200 circa, cita assai spesso gli Atti nei suoi scritti e ripetutamente scrive che loro autore è il "discepolo e seguace degli Apostoli, Luca". Egli tra l'altro scrive:

« Omnibus iis cum adesset Lucas, diligenter conscripsit ea, uti neque mendax, neque elatus deprehendi possit, eo quod omnia haec constaret...Quoniam non solum prosecutor, sed et cooperarius fuerit apostolorum, maxime autem Pauli » (Adv. Haer., IIE,14,1. PG 7,914)

Clemente Alessandrino, morto intorno al 215, ed Origene, morto nel 250, affermano più volte che gli Atti sono opera di Luca. Tertulliano li qualifica come un "commentario di Luca". Avendo gli Atti uno stile e un vocabolario identico a quello del Vangelo, un'introduzione comune, con identico destinatario, essendo gli Atti un'opera di Luca, per conseguenza viene così accreditata la paternità del Vangelo.

Questo personaggio non fu un apostolo, né conobbe di persona Gesù. Alcuni hanno ipotizzato si tratti di uno dei discepoli di Emmaus (24,13-35), dal momento che questo episodio viene ricordato solo dal Vangelo di Luca, ma tale tesi non ha trovato molto credito fra gli studiosi. Si trattava di un pagano convertito, probabilmente originario di Antiochia di Siria (At 11,28), ma anche questa informazione è dubbia: risale, infatti, solo al testo occidentale, tuttavia sembra confermata dalla precisa conoscenza della situazione di quella comunità, verificabile in At 11,19-27; 13,1; 14,19; 15,1 ecc. È quindi l'unico evangelista a non essere un ebreo. Esercitò la professione di medico, come ci ricorda Paolo in Col 4,14, il che è confermato dall'unanime tradizione e dalle precisazioni mediche che troviamo nel suo Vangelo ove cerca sempre di stabilire la diagnosi esatta delle malattie (Lc 4,38; 5,12; 6,6; 22,50).

Per la stesura del suo Vangelo fece "ricerche accurate" e interrogò i testimoni oculari dei fatti, mentre per gli Atti, essendo egli stesso un testimone oculare, parla spesso in prima persona. Sono queste le famose "sezioni noi" (At 16,10-17; 20,5-15; 21,1-28; 27,2-28,16).

Amico carissimo di Paolo, lo seguì nel suo peregrinare da una comunità all'altra, nei suoi viaggi missionari. Gli fu vicino fino alla morte, come ci riferisce Paolo stesso in 1 Tim. 4,9-11:

« Fai il possibile per venire presto da me, perché Dema mi ha abbandonato: ha preferito le cose di questo mondo ed è andato a Tessalonica. Anche Crescente e Tito sono andati via, uno verso la Galazia e l'altro in Dalmazia. Soltanto Luca è con me. »

Per apprezzare il valore della tradizione sull'origine lucana di questo vangelo, basta ricordare che attraverso Luca parla sicuramente l'apostolo Paolo, che d'altra parte quando in Rom 2,16; 16,25; 2 Tim 2,8 parla di "mio vangelo", probabilmente allude a quello di Luca.

Con la morte di Paolo si perdono le tracce di questo fedele discepolo e compagno, lasciando campo libero alle suggestioni della tradizione, la quale si è sbizzarrita nell'attribuirgli i più svariati luoghi di apostolato (Dalmazia, Gallia, Italia, Egitto).

2) La composizione

Il terzo vangelo si presenta ricco di elementi non riscontrabili negli altri scrittori sacri; tra l'altro è possibile sottolineare:

In conclusione possiamo dire che, tenendo conto del rapporto fra il terzo Vangelo e quello di Marco, dal quale in parte dipende, si può collocare la sua composizione fra il 50 e il 70 d.C.

La tradizione primitiva tentò di identificare l'ambiente geografico e culturale di stesura del Vangelo di Luca: Antiochia o Corinto. L'inventario delle preoccupazioni e dei centri di interesse lucani può confermare l'ambiente socio-culturale dei destinatari, provenienti in massima parte dal mondo greco–ellenistico.

3) La struttura.

Il Vangelo di Luca è articolato in quattro parti. Una prima unità comprende i due capitoli sull'infanzia di Gesù: annunciazione, nascita e presentazione al Tempio. Questa parte è chiamata anche "vangelo dell'infanzia".

Questa terminologia, però, anche se usata, non è esatta, perché dell'infanzia di Gesù si dice ben poco o nulla. L'unico episodio che potrebbe riguardare l'infanzia è quello di Gesù dodicenne che si ferma nel tempio di Gerusalemme durante una festa di Pasqua per discutere con i maestri ebrei.

In realtà, questo fatto può essere considerato più attinente alla giovinezza di Gesù, perché a 12-13 anni in Palestina i ragazzi entrano a far parte dell'età adulta con una specie di esame per fare la lettura pubblica nella sinagoga e sottostare agli obblighi della legge giudaica.

Il Vangelo pubblico nell'edizione di Luca può invece essere suddiviso in tre grandi parti. Luca segue lo schema di Marco, quello schema che egli stesso riproduce negli Atti, nella predica di Pietro in casa di Cornelio:

l - attività di Gesù in Galilea
2 - viaggio a Gerusalemme
3 - morte e resurrezione.

Una prima sezione del vangelo di Luca abbraccia l'attività in Galilea (3,1-9,50). Dopo questa parte Luca introduce "il grande viaggio" che porta Gesù dalla Galilea a Gerusalemme, 9,51–19,28.

Per dieci capitoli l'autore del terzo vangelo sviluppa questa cornice di viaggio collocandovi quel materiale che ha trovato nelle sue indagini e ricerche particolari: per esempio la parabola del figliol prodigo, quella del buon samaritano e l'incontro con le due sorelle di Lazzaro. Questi sono brani caratteristici lucani. Il cammino che porta Gesù a Gerusalemme è anche il cammino che porta ogni credente a seguire il proprio Maestro.

Nella terza parte del Vangelo (19,29-24,53), infine, si racconta il dramma della morte. Per questa parte Luca, pur seguendo in linea di massima la traccia di Marco, la arricchisce con il materiale delle sue indagini: si rivelano più frequenti anche i contatti o somiglianze di Luca con la tradizione di Giovanni.

4) La dottrina.

Luca manifesta una prima, ricorrente preoccupazione, quella della fedeltà alle origini, all'evangelo letto "sine glossa", alla memoria, sia pure sconvolgente e scandalosa, del mistero pasquale di Gesù morto e risorto.

Luca ricerca e raccomanda l'ortodossia, la retta fede, garantita dalla sicura memoria storica della vicenda terrena di Gesù e sulla storia dalla primitiva comunità cristiana.

La comunità per la quale Luca scrive dimostra di avere un altro grosso problema che la angustia: il problema del ritorno del Signore che sembra tardare, e pertanto questa comunità si vede costretta a riflettere sul tempo che si protrae oltre le primitive prospettive.

Come dev'essere considerato e soprattutto vissuto un tempo come questo? si tratta solo di un tempo intermedio, nel senso più vuoto e innocuo del termine?

Ecco perché Luca privilegia il tema escatologico, sia nei capitoli 17 e 21 del suo Vangelo, sia nei discorsi kerygmatici dei primi capitoli del libro degli Atti.

Per Luca questo è un tempo prezioso, cioè decisivo in ordine alla salvezza, perché in esso devono essere assunte le proprie responsabilità; in esso bisogna fare delle opzioni fondamentali pro o contro Cristo, pro o contro il Vangelo, pro o contro la Chiesa. Questo è il tempo nel quale lo Spirito del Risorto opera mediante la presenza testimoniale degli apostoli, mediante la fede che si diffonde.

La comunità di Luca sente, inoltre, il peso di un vangelo che vuole essere vissuto in tutta la sua radicalità senza mezze misure, senza compromessi d'alcun genere. Di fronte a questa radicalità molti sarebbero tentati di abbandonare la via, cioè il cristianesimo; emerge, allora, forte e prepotente il problema della "sequela" di Cristo: non solo del dovere di seguirlo, ma soprattutto della misura da adottare nella sequela, si possono ricordare, a questo proposito, certe vocazioni sollecitate da Gesù, o certe sue radicali affermazioni: 9,23-26.57-62;14,25-33 ecc.

5) L'integrità.

La questione dell'integrità di questo vangelo è stata posta a proposito dell'episodio del sudore di sangue nell'orto del Getsemani:

« "Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. In preda all'angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra. » (22,43-44)

Questi due versetti sono presenti nei codici Beza - D, del sec. VI; parigino - K, del sec. IX; Regio - L, del sec. VII; Monaco - X, del sec. X. A parte il primo, quindi, tutti onciali e minuscoli molto recenti. Sono assenti invece in testimoni più antichi quali: Alessandrino - A, del sec. V; Vaticano - B, del sec. IV; Romano - T, del sec. V; Freer - W, del sec. V; e specialmente il Papiro Bodmer - P75 del sec. III.

Nonostante questo, la maggior parte degli studiosi propende per l'autenticità del brano letterario e spiega l'assenza dei versetti nei codici più antichi e presso i Padri adducendo delle motivazioni apologetiche: il timore che gli ariani, che sostenevano la priorità della natura umana del Cristo, avessero potuto abusare di questi versetti in favore del loro insegnamento eretico. Sconfitta l'eresia intorno al V-VI secolo, non ci fu più bisogno di "censurare" il testo e i versetti trovarono, quindi, la loro originaria sistemazione.

Fernando Monzio Compagnoni, L'Evangelista Luca

Fernando Monzio Compagnoni, L'Evangelista Luca

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15.D - Il Vangelo di Matteo

l) L'autore.

La più antica voce che ha accreditato la paternità del primo vangelo a Matteo è quella di Papia, che scrive intorno al 120-130. Eusebio di Cesarea nella "Storia Ecclesiastica", III, 39,15-16, riporta un testo di un'opera di 

Eusebio di Cesarea †

Nacque verso il 263 a Cesarea, dove divenne vescovo nel 313. Aderì al partito ariano e per questo venne scomunicato nel 325 dal Sinodo di Antiochia. Partecipò al Concilio di Nicea dove propose come traccia per il nuovo "Credo" il simbolo battesimale in uso presso la sua comunità. Grande ammiratore di Costantino, morì nel 339. È considerato uno dei maggiori storici della Chiesa.

questo Papia dal titolo "Esegesi dei detti del Signore", opera che è andata persa, nella quale l'autore scrisse:

« Matteo, poi, ordinò (una lezione variante dice "mise in iscritto") i detti (in greco tà lòghia) in lingua ebraica: e ciascuno li interpretò come ne era capace. »

La testimonianza di Papia, veramente interessante, non eccelle purtroppo in chiarezza per il fatto che ogni sua parola è suscettibile di svariate interpretazioni. A parte, infatti, l'espressione "in lingua ebraica" in cui è da ravvisare con ogni probabilità, come in At 21,40, la lingua aramaica, del tutto ambiguo rimane il termine "tà lòghia" (che è la parola chiave). Si tratta di soli detti, oppure di detti e fatti insieme, vale a dire di dottrina e di gesta quali sono appunto i nostri Vangeli?

Oltre a questa testimonianza va ricordata anche quella di Origene:

« Così ho ricevuto dalla tradizione circa i quattro Vangeli che soli, senza discussione alcuna, sono ammessi in tutta la Chiesa che è sotto il cielo. Per primo fu scritto il Vangelo secondo Matteo, il quale era stato pubblicano e poi apostolo di Gesù Cristo; pubblicò il suo scritto in lingua ebraica per i credenti venuti dal giudaismo. »

Ireneo di Lione

Nacque fra il 140 e il 160 a Smirne, discepolo del vescovo Policarpo durante la sua giovinezza. Nominato vescovo di Lione, è l'autore di numerose e fondamentali opere fra le quali l'"Adversus haereses". Non si conosce la data della sua morte. Secondo Gregorio di Tours morì martire, ma non è provato.

Quella di Ireneo suona così:

« Dopo che il Signore fu risorto da morte e dopo che gli Apostoli furono rivestiti della forza superiore dello Spirito Santo [...] partirono per i confini del mondo ad annunciare le grazie provenienti da Dio a noi e la pace celeste, avendo tutti e ciascuno, in eguale misura, il Vangelo di Dio. Così Matteo, fra gli Ebrei, nella loro lingua, compose un Vangelo scritto, mentre Pietro e Paolo evangelizzavano Roma e fondavano la Chiesa. »

Ma chi era questo Matteo?

Dai Vangeli sappiamo che il suo vero nome era Levi, e che prima di convertirsi esercitava l'attività di pubblicano, cioè esattore delle imposte, mestiere che presso i giudei assumeva il significato di tradimento, tanto che era sinonimo di "pubblico peccatore". Svolgendo questa professione, la conversione dovette essere difficile e radicale, sia per la dottrina che abbracciava, sia per la povertà cui andava incontro.

Dopo la chiamata di Gesù, il suo nome appare ancora qualche volta nei Vangeli, ma mai in posizione preminente, né mai accompagnato a fatti sensazionali.

Quanto ci è tramandato circa il suo apostolato dopo la morte e la resurrezione di Gesù proviene da tradizioni non sempre attendibili. È detto pure martire, ma anche ciò è incerto.

2) La composizione.

Considerando le caratteristiche interne di questo Vangelo è probabile una duplice edizione di questo Vangelo. Ci fu, in altre parole, un'edizione aramaica seguita da una seconda greca, frutto di un unico autore, e Matteo greco dipende completamente da un Matteo aramaico andato perso. La lingua greca del nostro vangelo presenta i sintomi di una lingua di traduzione da originale semitico, e di fatto, il greco di Matteo abbonda di aramaismi, che permettono di spiegare le differenze con gli altri sinottici. Così, in Mc 8,27 Gesù percorre "i villaggi" (qiryot) e in Mt 16,13 "le regioni" (qesawwot) di Cesarea di Filippo: la differenza è evidentemente dovuta a un errore di lettura, poiché Y e W in ebraico si scrivono quasi identiche. Tuttavia alcuni studiosi rifiutano quest'ipotesi, sostenendo che Matteo non contenga più aramaismi degli altri vangeli, compreso quello dell'ellenista Luca. Inoltre la maturità sia letteraria sia teologica riconosciuta a Matteo, che lo pone non agli inizi, ma quasi al vertice del processo evolutivo subito dalle tradizioni storiche-letterarie del cristianesimo primitivo, secondo questi autori non consentirebbe di scorgere nel primo Vangelo la riproduzione sic et simpliciter, in terreno greco, di un Vangelo aramaico sorto per primo, in terra di Palestina, subito dopo la resurrezione.

Alla luce degli studi attuali si può concludere che il Vangelo di Matteo di cui ci parla Papia, scritto in aramaico, è stato redatto intorno al 40-45, mentre quello greco che possediamo noi va datato tra il 50 e il 70 d.C. Gli altri autori citati sopra sono di diverso avviso, e ritengono che Matteo, scritto direttamente in greco, sarebbe frutto di una comunità almeno dell'80 d.C., riflettendo il mondo culturale del giudaismo rabbinico posteriore di qualche anno alla caduta di Gerusalemme. Una data, questa, probabilmente troppo tarda.

Il luogo della prima edizione deve essere individuato in ambiente palestinese, mentre la traduzione greca con ogni probabilità fu effettuata in Siria, forse ad Antiochia. Il motivo di tale preferenza sta nel fatto che Antiochia rappresentò fin dai primi anni della Chiesa il punto d'incontro fra il giudeo-cristianesimo di origine palestinese con il paganesimo ellenista assetato di salvezza, come anche il punto di partenza dell'evangelizzazione del mondo affidata da Cristo alla Chiesa (At 13,1-3).

3) La struttura.

Nei 28 capitoli del suo Vangelo, Matteo non segue tanto l'ordine cronologico, quanto quello logico-didattico, basato soprattutto su cinque discorsi, raggruppanti gli insegnamenti di Gesù, i quali a loro volta sono inquadrati da una narrazione sull'infanzia, che fa da prologo, e dal racconto della passione-resurrezione, che fa da conclusione.

Tutti e cinque i discorsi intorno ai quali si sviluppa il ministero di Gesù sono chiusi da una stessa formula:

« Ed avvenne che quando Gesù ebbe finito questi discorsi... » (Mt. 7,28; 11,1; 13,53; 19,1; 26,1).

Il tema dei discorsi è unico, ma trattato da punti di vista differenti:

Questi cinque discorsi sono tra loro separati da sezioni narrative che fanno da preparazione al tema del discorso successivo.

4) La dottrina.

Punto centrale della dottrina di Matteo è il Regno. È questo il tema fondamentale, quello che inaugura e sintetizza la predicazione di Gesù:

« Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino » (4,17)

Il termine "Regno" è quello che ricorre più frequentemente nei sinottici, particolarmente in Matteo, e che sembra meglio definire l'oggetto proprio e specifico del messaggio di Gesù.

Questo termine ricorre nei Vangeli, in bocca a Gesù, 18 volte in Marco, 56 volte in Matteo, 12 volte in Luca, 3 volte in Giovanni. Si noterà che Matteo ha il numero maggiore di ricorrenze. Ma che cosa intendeva Matteo con questo concetto?

Il Regno di Dio è qualcosa di celeste che viene fra gli uomini (6,10; 12,28), discende sulla terra, vi è come piantato (13,24), non per rimanervi, ma per ritornare alla fine (13,40), con abbondanza di frutti, nella sfera celeste. Questa realtà dai molteplici volti è vista concretarsi da Matteo nella società visibile che si raccoglie intorno a Cristo e nel nome di Cristo (18,20), come già la "comunità di Yahwè" nel deserto (Dt 23). A lei il primo evangelista, e l'unico, dà, in 16,18 e 18,17, il nome di Chiesa, termine con cui la LXX traduce l'ebraico "qahal" cioè "comunità di Yahwè".

Agli Apostoli, i dodici capostipiti del nuovo Israele (19,28), sono affidati i misteri del "regno dei cieli" (13,11); ed essi con a capo Pietro, la roccia-fondamento (16,18), sono, con l'incarico di "maggiordomi del Regno", i distributori sulla terra delle ricchezze misteriose del cielo (18,18).

Per tutto questo non ha senso credere in Cristo e non credere nella chiesa cristiana, in quanto essa non è altro che il risultato visibile dell'opera di Cristo stesso. Chi non crede nella chiesa, non può credere neanche in Cristo.

Per entrare in questo Regno Gesù proclama, poi, la necessità di una perfetta giustizia, una giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei (5,20); per questo "perfeziona" la Legge (come ben evidenziato nelle unità "ma io vi dico", 5,22.28.32.34.39.44), dandone un'interpretazione vera, si mostra rigido di fronte al formalismo ebraico ed insiste sul rinnovamento del cuore e dello spirito.

Gesù, per Matteo, è colui che adempie le profezie dell'A.T. Infatti Matteo lo presenta come il Messia promesso dall'A.T., in quanto figlio di Abramo e di Davide che realizza le profezie (nasce a Betlemme, da una vergine, è richiamato in Egitto, predica in Galilea, parla in parabole, entra trionfalmente e umilmente in Gerusalemme, patisce, muore e risorge).

Matteo lo presenta anche come il Figlio di Dio: le manifestazioni della sensibilità umana di Gesù che in Marco sono intense e vive, in Matteo diventano più quiete e luminose, anzi più tenui. Cristo è dichiarato Figlio di Dio dal Padre, dai demoni e da Pietro, è affermato da lui stesso attraverso i miracoli e l'atteggiamento da padrone nei confronti della Legge mosaica.

5) Matteo e i numeri.

Matteo ama i raggruppamenti numerici, secondo una simpatia propria della letteratura semitica. I numeri che ricorrono più di frequente sono sette, cinque, tre e due.

7 sono le domande del Padre Nostro, le parabole, i guai contro i farisei, i demoni, i pani.
5 sono i grandi discorsi e i “quadri” del Vangelo dell’infanzia.
3 sono le tentazioni, le pratiche pie (elemosina, preghiera e digiuno), le preghiere nel Getsemani.
2 sono i ciechi guariti, le vocazioni, i falsi testimoni.

Chi volesse sapere di più sul confronto tra la genealogia di Gesù data da Matteo e quella di Luca è invitato a cliccare qui.

Caravaggio, "San Matteo e l'angelo", Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma

Caravaggio, "San Matteo e l'angelo", Chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma

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15.E - La questione giovannea

Il Vangelo di Giovanni è profondamente diverso dagli altri tre, non nel senso che dica altre cose, ma perché le presenta in modo differente, con una struttura molto diversa e specialmente in un ordine diverso. Questa problematica va sotto il nome di "questione giovannea".

Le diversità toccano vari campi.

1) Nell'ambito della topografia:
si notano subito evidenti difficoltà: secondo i sinottici, Gesù è battezzato in Giudea, sviluppa essenzialmente il suo ministero in Galilea, compie un unico viaggio a Gerusalemme dove trova la morte.
Giovanni pone l'apostolato di Gesù per lo più in Giudea, ricorda che sali cinque volte a Gerusalemme, pur essendosi portato più volte in Galilea.

2) Nell'ambito della cronologia:
i sinottici pongono l'inizio del ministero di Gesù dopo la cattura del Battista e lo fanno esaurire in un solo anno, ricordando una Pasqua. Per Giovanni, invece, Gesù inizia il suo ministero pubblico prima ancora della cattura del Battista e si protrae per più anni, dal momento che ricorda più Pasque. Tra l'altro i sinottici pongono la cacciata dei venditori dal Tempio alla fine del ministero, mentre Giovanni la pone all'inizio.
Per i sinottici l'ultima cena sarebbe avvenuta il 14 di Nisan e la morte di Gesù il 15 dello stesso mese; in Giovanni invece i due fatti sarebbero avvenuti rispettivamente il 13 e il 14 di nisan.

3) Nell'ambito della narrazione:
Giovanni ha in comune con i sinottici solo tre miracoli, la prima moltiplicazione dei pani (Gv 6,1-15; Mt 14,13-21; Mc 6,32-44; Lc 9,10-17); la camminata di Gesù sulle acque (Gv 6,16-21; Mt 14,22-33; Mc 6,45-52); la guarigione del figlio di un funzionario reale (Gv 4,46-54; Mt 8,5-13; Lc 7,1-10) gli altri quattro miracoli che ricorda (le nozze di Cana, la guarigione a Betzaeta, il cieco nato, la resurrezione di Lazzaro) sono propri.
È da rilevare anche che nella presentazione dei miracoli nei sinottici Gesù appare mosso dall'esterno a compiere il miracolo (la preghiera, la fede o la compassione), mentre in Giovanni è mosso dall'interno (il segno della sua divinità).

4) Nell'ambito dei discorsi:
nei sinottici occupano una minima parte, gli uditori sono le folle, il tema trattato è a sfondo morale ed escatologico, mentre lo stile rimane semplice e popolare.
In Giovanni, invece, i discorsi occupano i cinque sesti del Vangelo, hanno per uditori o delle persone singole oppure dei gruppi influenti, l'argomento verte sui misteri più profondi come la divinità di Cristo o la SS. Trinità, ed inoltre lo stile ha carattere allegorico.

5) Nell'ambito della figura di Gesù:
nei sinottici Gesù è presentato come Figlio dell'Uomo, profeta, taumaturgo pieno di compassione per le folle ed i peccatori, che intenzionalmente non vuole essere riconosciuto per Messia fino alla confessione di Pietro; in Giovanni Gesù è presentato subito come il Figlio del Padre, coeterno, onnisciente, che non teme di essere subito riconosciuto come tale.

Con tutto questo non si vuole, però, affermare che fra Giovanni e i sinottici ci sia un insanabile opposizione, in quanto non mancano concordanze piuttosto notevoli, come.

1) La struttura in pericopi del vangelo:
è un insieme di brani accostati fra di loro in base ad una struttura particolare che deve presentare un insegnamento dottrinale.

2) La divisione fondamentale della vita di Gesù:
segue a grandi linee l'indirizzo marciano: inizialmente il Cristo si rivolge al popolo, solo in un secondo tempo ai suoi discepoli.

3) Nella materia trattata:
vi sono espressive convergenze, come la centralità della figura di Gesù, la trama comune della passione, morte e resurrezione.

La critica moderna alla luce di nuovi studi è giunta a proporre una teoria circa la questione giovannea. Si è giunti alla convinzione che il quarto vangelo non abbia conosciuto i sinottici: in molti casi è chiaro che riferisce su materiale simile, ma da una prospettiva diversa; non si limita a togliere o aggiungere. Sembra un documento da uno sviluppo autonomo. Questo sviluppo autonomo ha sicuramente risentito dell'influenza della comunità di Qumran. Spesso si ritrovano espressioni comuni: spirito di verità e spirito di menzogna, provare gli spiriti, Spirito Santo, principe dei figli delle tenebre, fare la Verità e andare alla Luce, preferire le tenebre e la menzogna, figli della luce, luce della vita, camminare nelle tenebre, opere di Dio, collera di Dio, vita eterna, testimone della verità. Anche a Qumran si parlava così, ma rimane con Qumran la differenza di fondo: l'assenza-attesa di un intervento salvatore a contrasto con la presenza-testimonianza di Gesù "che è il Cristo e il Figlio di Dio" (20,31).

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15.F - Il Vangelo di Giovanni

l) L'autore.

La più antica ed esplicita testimonianza concernente l'autore del quarto vangelo è quella di Ireneo nell'opera "Adversus haereses" (circa 180 d.C.), nella quale è affermato:

« In seguito Giovanni, il discepolo del Signore, quello che riposò sul petto di Lui, ha pubblicato anch'egli un vangelo, quando dimorava ad Efeso in Asia. »

Policarpo di Smirne †

Testimone della predicazione degli Apostoli e loro successore. A lui è indirizzata una delle lettere di Ignazio di Antiochia. È certamente a Roma intorno al 155, dove discute con papa Aniceto sulla data della Pasqua. 
Muore martire sul rogo forse il 22 febbraio 156.

Nella lettera a Fiorino, poi, parla anche del suo incontro con il vescovo Policarpo di Smirne, avvenuto quando egli era giovinetto e ricorda ciò che Policarpo diceva riguardo alla sua amicizia con Giovanni e alla familiarità che aveva con gli altri discepoli, i quali avevano visto i miracoli del Signore e ne avevano ascoltato gli insegnamenti. Ireneo, inoltre, rievocando la persona e l'opera di Papia, vescovo di Gerapoli, afferma che questi ha ascoltato ed è stato compagno di Giovanni.

Che Giovanni sia vissuto ad Efeso lo conferma anche Policrate, quando scrive:

« Giovanni, che ha posato il capo sul petto del Signore, [...] è morto ad Efeso. »

Cosa, per altro, confermata dall'archeologia con la scoperta del mausoleo del III secolo dedicato a Giovanni nell'omonima basilica di Selkuk, una collina vicino ad Efeso.

Un'altra importante testimonianza è offerta dal "Frammento o Canone Muratoriano"; il testo dice:

« Quartum evangeliorum Iohannis ex discipulis. Cohortantibus condiscipulis et episcopis suis, dixit: coniuniate mihi hodie triduo et quid cuique fuerit revelatum, alterutrum nobis enarremus. Eadem nocte revelatum Andrae ex Apostolis, ut recognoscentibus cunctis Iohannes suo nomine cuncta describeret. »

Questa testimonianza pur antica, rimane manifestamente leggendaria, suppone, infatti, che tutti gli apostoli siano vivi nel momento in cui Giovanni scrive il suo Vangelo e lo approvino.

Ultima testimonianza è quella di Clemente Alessandrino che, parlando dell'ordine dei Vangeli, afferma che secondo una tradizione degli antichi presbiteri l'ordine sarebbe il seguente: prima Matteo, poi Luca, quindi Marco e infine:

San Giovanni (e non Maria Maddalena!) nell'Ultima Cena di Leonardo« Quanto a Giovanni, l'ultimo, vedendo che le cose corporali erano state esposte nei vangeli sinottici, spinto dai suoi discepoli e divinamente ispirato, fece un Vangelo spirituale. »

L'autore di questo Vangelo, secondo la tradizione più antica, sarebbe, dunque l'Apostolo Giovanni; ma l'indagine interna al Vangelo ha fatto sorgere vari problemi.

In questo Vangelo il suo autore è definito in maniera anonima e misteriosa con il titolo di "discepolo che Gesù amava" (13,23; 19,26.27; 20.2; 21,7.20).

In altre scene è definito in maniera ancora più vaga come "l'altro discepolo" (20,4.8; 21,23). In altre due occasioni un. discepolo rimane ancor più difficile da identificare. Tra i discepoli del Battista, ad un certo momento due seguono Gesù (l,37): uno è presentato poco dopo come Andrea, dell'altro non si dice nulla. Quando Gesù è catturato e portato dal Sommo Sacerdote Anna, l'evangelista nota che « Simon Pietro seguiva Gesù insieme con un altro discepolo. »

Ma andiamo con ordine. L'esame interno del Vangelo conferma molti punti della tradizione, infatti, l'autore è:

Chi era allora questo discepolo che Gesù amava?

Dai sinottici sappiamo che tre erano i discepoli che Gesù prediligeva: Pietro, Giacomo e Giovanni (Mc 5,37; 9,2; 13,3; 14, 33). È tra questi tre che va ricercato l'autore del quarto vangelo.

Procedendo per via di esclusione, possiamo affermare che questi non può essere Pietro, ricordato spesso e nominato distintamente dal discepolo prediletto (13,24-26; 18,16...) e neppure Giacomo che fu ucciso da Agrippa I, pronipote del re Erode, nel 44 d.C. (cfr. At 12,1). Non rimane altro che l'identificazione con Giovanni, ricordato spesso dai sinottici ma mai nominato nel IV Vangelo.

Dal N.T. sappiamo che Giovanni nacque probabilmente a Betsaida, e che svolgeva la professione di pescatore nell'azienda di proprietà del padre.

Discepolo del Battista, solo in seguito fu con Gesù, prendendo parte ai primi avvenimenti della vita pubblica, tra cui le nozze di Cana.

Dal temperamento ardente ed orgoglioso, con il fratello Giacomo si meritò da Cristo il soprannome di "figlio del tuono". Unitamente a Pietro e Giacomo fu testimone degli avvenimenti principali della vita di Gesù. Sul Calvario ebbe da Cristo stesso come madre Maria. Dopo l'Ascensione fu testimone della guarigione dello storpio ad opera di Pietro; con il capo degli apostoli fu imprigionato dal Sinedrio e con lui fece il viaggio in Samaria e partecipò al Concilio di Gerusalemme. Di tutto questo ci parlano gli Atti degli apostoli.

La tradizione, come visto, ci assicura che soggiornò ad Efeso, il che dovette avvenire con tutta probabilità dopo il 70 (intatti la 2 Tim, indirizzata a Timoteo vescovo di Efeso, è anteriore al 70 e non lo ricorda, cosa improbabile se fosse stato presente).

Fu pure affermato che, sotto Domiziano, subì il martirio mediante immersione in olio bollente, uscendone indenne; in seguito fu relegato a Patmos (Ap 1,9) esilio da cui fu liberato sotto Nerva (96-98) che gli permise di tornare ad Efeso ove sarebbe morto sotto Traiano ormai novantenne, verso il 104.

2) La composizione.

La formazione della tradizione che sta alla base di questo Vangelo si deve essere completata prima del 66 d.C., essendo Gerusalemme ancora in piedi. Ad esempio in 5,2 si legge:

« A Gerusalemme, presso la Porta delle Pecore, c'è una vasca, chiamata in ebraico Betesda, che ha cinque portici. »

Ignazio di Antiochia †

Condannato "ad bestias" dall’Imperatore Traiano, ricevette per questo il perentorio ordine di recarsi a Roma. Durante il viaggio scrisse sette lettere indirizzate alle comunità di Efeso, Magnesia, Smirne, Tralli, Filadelfia, Roma e al collega Policarpo.

Se Tito avesse già devastato la città, il verbo "c'è" sarebbe al passato. Invece secondo la maggior parte degli studiosi la redazione definitiva è posta dopo il 70 d.C., cioè dopo la caduta di Gerusalemme, dal momento che ne parla come di un fatto passato; alcuni ritengono addirittura che essa risalirebbe alla vecchiaia dell'apostolo, fra il 95 e il 100, ma probabilmente anche questa data è troppo tarda perché Ignazio di Antiochia lo cita già nel 107, e forse anche Clemente di Roma ancora prima. Tutti sono concordi, sulla base delle più antiche voci, a situarla nella città di Efeso.

Sicuramente l'ultimo capitolo fu redatto dopo la morte di Pietro dai discepoli di Giovanni, dal momento che in 21,18-19 si legge:

« In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio stenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: seguimi. »

Il testo si diffuse molto rapidamente e fu letto in tutte le comunità fin dai primissimi anni di pubblicazione come dimostrano le copie rinvenute presso le comunità egiziane (papiro Ryland 457 - P52; papiro Egerton 2; Bodmer 2 – P66, tutte dell'inizio del II secolo). In particolare nell'immagine a destra è visibile il cosiddetto papiro Ryland, datato al 125 d.C. e così chiamato perché appartiene alla John Rylands Library di Manchester. Nessuna altra opera dell'antichità ha testimonianze manoscritte così vicine agli originali.Il papiro Ryland (vedi testo) Basti pensare che il manoscritto più antico giunto fino a noi con le tragedie di Euripide, vissuto tra il 480 e il 406 a.C., risale al IX secolo d.C.!

3) La struttura.

Durante la lettura del Vangelo, il lettore inesperto può disorientarsi facilmente, può perdere il senso dell'unità e della coerenza del testo, perché si tratta di un'opera apparentemente semplice, ma in realtà complessa e profonda. È difficile già solo rilevare il piano direttivo su cui Giovanni ha intessuto il suo racconto. Per alcuni non c'è una trama unitaria, ma solo una collezione varia di episodi senza coordinazione. Però l'unità di pensiero ed il ricorrere di temi specifici fanno pensare al contrario. Qual è, dunque, il filo conduttore dell'opera?

Ricordiamo alcune tra le soluzioni più note e maggiormente attendibili.

a) Trama tipologica: il filo unitario del IV vangelo è dato dall'imitazione e schematizzazione dei grandi temi dell'esodo; è il Vangelo della salvezza che nell'A.T. aveva il suo tipo nella liberazione dall'Egitto. Comunemente si ammette che questa soluzione sia un po' forzata.

b) Trama cronologica: Giovanni divide la vita di Gesù in sette periodi di sette giorni ciascuno, e ad ogni periodo corrisponde uno dei sette giorni della creazione della Genesi; per questo si cerca di stabilire anche una certa qual relazione dottrinale fra il Vangelo e la Genesi.

c) Trama dottrinale: basata sull'opposizione luce-tenebre. Per tutto il Vangelo si sviluppa la lotta fra la luce e le tenebre in un continuo crescendo, che si concluderà nel giorno della resurrezione.

L'idea guida di tutto il Vangelo è la rivelazione storica del Verbo Incarnato, Messia e Figlio di Dio, che dona la vita mediante la fede. L'opera appare suddivisa nelle seguenti sezioni:

4) La dottrina.

Il tema ricorrente nei primi quattro capitoli è l'incontro con il Messia.

Quando si tratta dei primi discepoli, Giovanni sembra darci uno schema concreto della vocazione cristiana: spesso c'è la testimonianza di qualcuno (Battista per i primi due discepoli, Andrea per Pietro, Filippo per Natanaele).

Segue l'iniziativa di Gesù: "Che cercate?" (1,38). Poi la conoscenza mediante un colloquio, come per Natanaele, o più semplicemente mediante lo stare insieme; poi la confessione o proclamazione della fede più o meno matura: "Abbiamo trovato il Messia" (1,41) ;infine il cambiamento di vita: "Ti chiamerai Cefa" (1,42).

Il racconto di Giovanni non è molto realistico, almeno nel senso moderno del termine: è poco probabile che così presto i discepoli siano arrivati a questi livelli di conoscenza e di fede (poco più avanti li troviamo più incerti e titubanti, 14,9). Giovanni però traccia in questo caso una sintesi esemplare, fa una meditazione.

Le due scene, di Cana (le nozze) e di Gerusalemme (la cacciata dei venditori dal Tempio), hanno un chiaro carattere simbolico. Quel vino di Cana significa qualcosa di più di un rimedio miracoloso ad una situazione di umana necessità: "Gesù manifestò la sua gloria [...] il terzo giorno". Tutti elementi che riportano alla resurrezione, a ciò che si sarebbe verificato tre anni dopo! La quantità di acqua trasformata in vino da Gesù è esagerata, 600 litri: il vino è il simbolo dell'Eucarestia, del suo sangue versato.

A Gerusalemme lo sdegno di Gesù non nasce soltanto dallo sdegno istintivo alla vista degli abusi commerciali che profanano la santità del Tempio. Egli non butta all'aria soltanto le bancarelle, ma l'intero regime religioso dell'A.T., sia perché è corrotto da complicazioni giuridiche che soffocano la fede genuina, sia perché la venuta del Messia lo fa diventare di colpo superato. È arrivata l'epoca del nuovo Tempio, quello che realizzerà in modo pieno ciò che tutti i templi precedenti rappresentavano in modo imperfetto: la presenza di Dio fra gli uomini.

Per indicare i miracoli, Giovanni usa due termini: "opere" (erga) quando parla Gesù, "segni" (semeia) quando parla l'evangelista o altri. L'aspetto del prodigio è posto in secondo piano, l‘importante è capire che per Gesù i miracoli sono il suo compito, il suo incarico, la sua competenza. Per l'infermo della piscina Gesù è in un primo momento un guaritore generoso e potente; ma poiché si dimostra uno che supera con disinvoltura i limiti religiosi-giuridici del sabato, si fa più seria la domanda: "Chi è costui?". Per i giudei è soltanto un uomo ribelle ed irreligioso; per il guarito diventa uno che gli può dire autorevolmente di vivere lontano dal peccato. Nessuno può comprendere il senso delle sue azioni se non conosce chi Egli sia; e chi Egli realmente sia non deve essere deciso a partire da preconcetti che ognuno ha. Ad esempio, a prima vista egli sembra uno che non ha rispetto del sabato, il giorno sacro; In realtà egli provoca la sensibilità religiosa dei Giudei per portarli ad una comprensione di Dio che sia più fedele alla tradizione precedente e sia aperta alla nuova rivelazione.

Giovanni non riporta le famose parabole dei sinottici; in un certo senso non riferisce nessuna parabola, ma ci fa conoscere alcune immagini che gli altri evangelisti trascurano. Non sono vere e proprie parabole, ma sono parole e immagini da collegare ad altre, dove ricorre l'espressione: "Io sono", che è tipica di questo Vangelo.

Sullo sfondo delle consuetudini sociali palestinesi, in particolare la pastorizia, e l'uso che già l'A.T. fa di immagini tratte da questo mondo, Gesù parla di sé. Dichiara di essere la porta, l'unico ingresso autentico; bisogna passare attraverso di lui. Soprattutto dichiara di essere il buon pastore, quello che offre "la vita per le sue pecore".

5) L'integrità.

Anche se non sono mancati dei critici che hanno contestato l'unità del IV vangelo, essa è però sicuramente presente in tutta l'opera, anche se bisogna ammettere che esistono delle difficoltà di connessione con incongruenze varie, alle quali gli studiosi hanno cercato di offrire una soluzione. Ricordiamo le principali.

Queste incongruenze in genere, sono spiegate con un cambio di rotoli, o meglio, forse, come il frutto di più redazioni dovute all'Apostolo stesso o ai suoi discepoli, in cui è stato inserito susseguentemente altro materiale giovanneo; oppure anche come il frutto del procedimento letterario semitico dell'inclusione: l'inizio di un passo ripropone il motivo dominante della finale del brano precedente.

Per quanto attiene all'integrità propriamente detta, poi, tre sono i brani che recano difficoltà:

a) 5, 3-4: dove si ricorda il moto sanatorio dell'acqua ad un cenno di un angelo, il che sarebbe un miracolo di prim'ordine (intervento diretto da parte di Dio), che però non è attestato da alcuna altra fonte, specie rabbinica. Comunemente s'intende il versetto 4 come un'interpolazione popolare che attribuiva a Dio le virtù naturali dell'acqua.

b) 7,53- 8,11: la canonicità del brano è indiscussa, i dubbi sono invece al riguardo dell'autenticità critica in quanto i versetti manifestano uno stile propriamente sinottico. Questo passo qui collocato è ignorato dai codici orientali più antichi e dai Padri greci del primo millennio fino a Teofilatto; manca pure nelle antiche versioni siriache e copte, come pure in alcuni manoscritti della Vetus latina, in Ambrogio, Agostino e Girolamo (Volgata) . Nei codici onciali greci è normalmente trascritta solo a partire dal 900. Un gruppo di codici onciali (f13) la mettono dopo Lc 21,38. Gli studiosi lo spiegano come un errore di trascrizione; il passo sarebbe passato dal vangelo di Luca a quello di Giovanni.

c) 21,24-25: anche su questo brano non si discute della canonicità, ma solo della sua autenticità critica. Questo passo ha un evidente carattere di appendice, con uno stile che è diverso da quello del IV evangelista, anzi, dall'insieme il testo lascia intendere che Giovanni era già morto. La maggior parte degli studiosi ritengono che sia un'aggiunta posteriore dovuta ai discepoli dell'Apostolo prediletto.

6) L'Appendice.

Molto comune fu nell'antichità l'uso di presentare tanto i quattro evangeli quanto i loro autori sotto il simbolismo dei quattro "animali" di cui si era servito il profeta Ezechiele per descrivere i quattro volti o aspetti dei cherubini da lui contemplati nella celebre visione che segnò la sua chiamata al ministero profetico (Ez 1,5-14). Ireneo, in particolare, si sofferma a spiegare le ragioni di questo simbolismo, mostrando dettagliatamente come i quattro aspetti dei cherubini rappresentavano "l'attività del Figlio di Dio": il leone quale suo simbolo dell'azione dominatrice e regale; il toro o vitello della sua destinazione al sacrificio e al sacerdozio; l'uomo della sua venuta nella natura umana; l'aquila dello Spirito che soffia sulla Chiesa.

Nel proporre l'applicazione di questi quattro aspetti ai quattro libri evangelici, Ireneo guardò soprattutto ai caratteri generali di ciascuno di loro riconoscendo il leone in Giovanni, il vitello in Luca, l'uomo in Matteo, l'aquila in Marco.

La proposta non ebbe fortuna, però, come quella dovuta successivamente a Girolamo, secondo il quale Matteo porta il simbolo dell'uomo perché si apre con la genealogia umana di Gesù "figlio di Abramo e di Davide" (1,1). Marco è rappresentato dal leone perché inizia con la predicazione, si può dire, ruggente di Giovanni Battista (l,2-8). Luca porta il simbolo del vitello perché inizia la sua narrazione riferendo dell'apparizione dell'angelo a Zaccaria durante l'offerta di sacrifici al Tempio (1.8-25). Giovanni, infine, è accompagnato dalla figura dell'aquila, perché il suo vangelo si apre con quel prologo meraviglioso, nel quale, come disse il grande Tommaso d'Aquino: "come aquila sopra gli altri vola", risalendo fino alla vita del Verbo nel Padre.

La conversione di San Paolo nella splendida "Bibbia a fumetti" disegnata da Roberto Rinaldi per "Il Giornalino"

La conversione di San Paolo nella splendida "Bibbia a fumetti" disegnata da Roberto Rinaldi per "Il Giornalino"

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16 – PAOLO E LA SUA OPERA

16.A - Saulo di Tarso

Per ricostruire nel dettaglio la cronologia paolina, oltre ai dati degli Atti, possiamo riferirci ad una iscrizione scoperta a Delfi nel 1905, in cui si nomina Lucio Giulio Gallione, proconsole romano a Corinto, davanti al quale Paolo comparve dopo diciotto mesi di permanenza in quella città (At 18, 11-12).

Ora, dato che è possibile stabilire la data dei fatti cui fa riferimento quest'iscrizione in maniera abbastanza precisa (fra il gennaio e l'agosto del 52 d.C.), e poiché l'incarico proconsolare aveva la durata di un anno, ne deriva che Paolo fu presentato a Gallione nella primavera del 52, e che il suo arrivo a Corinto deve essere collocato nel 50 d.C.

Attorno a questo punto certo della cronologia paolina si possono riferire tutti gli altri dati che conosciamo, e ricostruire la successione con buona probabilità.

Più difficile è stabilire la data di nascita di Paolo. All'esecuzione capitale di Stefano (At 7,58) egli è presentato come un giovane, mentre nel breve scritto a Filemone (intorno al 62) egli appare come un uomo già avanzato in età. Tenendo conto di questi dati, si può concludere che egli debba essere più giovane di Gesù di almeno 10-17 anni, e fissare la sua data di nascita fra il 5 e il 10 d.C. (convenzionalmente si parla dell'8 d.C.)

L'antica tradizione indica l'anno 67 come data della sua morte, e può essere considerata attendibile.

Come vedremo, è anche possibile formulare una successione cronologica degli avvenimenti salienti della vita di Paolo, in particolare le date dei grandi viaggi missionari e della stesura delle lettere.

Paolo è un ebreo della diaspora, cioè un ellenista, nato e cresciuto in pieno mondo pagano, a Tarso in Cilicia.

« Io sono un giudeo nato a Tarso, in Cilicia, ma educato in questa città (Gerusalemme), istruito ai piedi di Gamaliele, nella rigorosa osservanza della legge dei padri, pieno di zelo verso Dio, come lo siete voi tutti » (At 22,3)

La colonia giudaica di Tarso era particolarmente avvantaggiata per una esperienza culturale cosmopolita. Tarso, infatti, era il punto d'incontro fra oriente ed occidente: qui i due mondi si potevano confrontare. Paolo è, dunque, portato per formazione culturale ed ambiente di vita ad essere aperto, senza prevenzione alcuna, e in questo senso possiamo dire che possedeva un autentico senso ellenistico.

TAVOLA CRONOLOGICA

5-10: Nascita di Paolo (data tradizionale 8 d.C.)
34-35: Conversione sulla via di Damasco
39 (circa): Fuga da Damasco
45-49: Primo viaggio missionario
47-48: Carestia e colletta per Gerusalemme
48-49: Concilio di Gerusalemme
inverno 50 - estate 52: Secondo viaggio missionario
50-51: 1-2 Tessalonicesi
primavera 52: Incontro con Gallione
53-58: Terzo viaggio missionario
55: 1 Corinti
55-56: Filippesi, 2 Corinti, Galati
inizio 57: Romani
58: Arresto a Gerusalemme
58-60: Prigionia a Cesarea
59-60: viaggio a Roma
60-63: 2 Efesini, Colossesi, Filemone, forse un viaggio in Spagna
64-67: Martirio a Roma

In Fil 3,4b-6 si legge:

« Se altri crede di poter riporre la propria fiducia nelle proprie umane situazioni, io lo posso maggiormente: circonciso l'ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio d'Ebrei; riguardo all'interpretazione della Legge, un fariseo; quanto a zelo, un persecutore della chiesa; quanto alla giustizia che si fonda sulla legge irreprensibile. »

In At 22,4-5:

« Ho perseguitato a morte questa Via, mettendo in catene e gettando in prigione uomini e donne, come me ne può rendere testimonianza anche il Sommo Sacerdote e tutto il consiglio degli anziani. Da loro avevo anzi ricevuto delle lettere per i fratelli di Damasco e stavo andandovi nell'intento di tradurre in carcere a Gerusalemme quelli che erano colà, perché fossero puniti. »

In Gal 1,13-14:

« Avete sentito parlare della mia vita giudaica d'un tempo, come perseguitavo oltre misura la chiesa di Dio e cercavo di devastarla e facevo continui progressi nel giudaismo superando molti coetanei nel mio popolo, massimamente zelante per le tradizioni che avevo ereditato dai padri. »

Dopo l'esperienza della conversione, Paolo si impegnò con lo stesso zelo e la stessa onestà a diffondere il cristianesimo in tutto il medio oriente, l'Europa e l'Africa settentrionale. A questo proposito organizzò almeno tre viaggi che lo portarono fino a Roma; un quarto, se riuscì a compierlo, lo portò addirittura in Spagna.

Primo e secondo viaggio missionario di San Paolo

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16.B - Le lettere di Paolo

Prescindendo dai Vangeli e dagli Atti degli apostoli, il N.T. contiene numerosi scritti in forma epistolare, oltre all'Apocalisse di Giovanni.

Quasi tre quinti di questa parte non narrativa del N.T. sono costituiti dalle lettere di Paolo. Il linguaggio non sempre facile, il vigore del pensiero, il problema dell'attribuzione di alcune di esse all'apostolo suscitano non poche questioni d'ordine critico, storico e teologico. Generalmente la tradizione attribuisce a Paolo tredici lettere (solo per grossolana approssimazione in alcune epoche gli si è attribuita anche la "lettera agli Ebrei"). La loro autenticità, tuttavia, è oggetto d'ampia discussione. Le maggiori difficoltà riguardano le cosiddette "lettere pastorali" (1-2 Tim, Tt), sia per ragioni linguistiche (secondo alcuni studiosi il greco di queste lettere si scosterebbe troppo da quello delle altre) che per motivi di contenuto (si ritiene che l'organizzazione gerarchica presentata in queste lettere rifletta una situazione storica più tarda); altre due lettere, Colossesi ed Efesini, sono oggetto di acceso dibattito.

Le difficoltà per la prima non hanno però ragione d'essere. La lettera ai Colossesi, infatti, fu inviata unitamente al biglietto a Filemone (Col 4,9 - Fil 11), se quest'ultimo è considerato autentico, non si riesce a capire perché non lo sia anche la lettera ai Colossesi.

Per quanto attiene, invece, la lettera agli Efesini, la cosa è molto più complessa. C'è chi ritiene che non sia una lettera, non sia di Paolo e non sia stata inviata agli efesini! Ha lo stile del trattato teologico, circolare e dallo stile abbastanza diverso da quello di Paolo. Mentre gli studiosi continuano il loro meticoloso lavoro d'analisi, nel tentativo di dirimere la vasta problematica, è necessario rilevare e tenere come punto fermo che, in ogni caso, tutt'e tredici le lettere riflettono l'ambiente paolino e si ricollegano coerentemente alla dottrina dell'apostolo.

A titolo di curiosità, si può aggiungere che Paolo scrisse anche altre lettere, oltre a quelle citate, che però non ci sono pervenute; abbiamo notizia, infatti, di altri scritti indirizzati ai Corinti (almeno due, 1 Co 5,9; 2 Co 2,4) e di una lettera inviata alla comunità di Laodicea (Col 4,16).

Le lettere, come scritti autonomi, sono una novità assoluta per la Bibbia, anche se trovano riscontro nella letteratura antica (nell'A.T. troviamo qualche analogia in Ger 29,1-23; 2 Mac 1,1-2,14).

La loro novità consiste soprattutto nel modo con cui esse sono redatte. Nell'introduzione e nella conclusione, certo, esse presentano alcuni elementi convenzionali, tipici delle antiche epistole orientali. Paolo, però, trasforma anche questi elementi, per il modo con cui qualifica se stesso, nomina i suoi collaboratori (Col 4,14; Fil 23), si rivolge ai destinatari (Fil 1-2).

Del tutto nuovo, poi, è il fatto di introdurre ampie riflessioni a carattere dottrinale e considerazioni di ordine etico. Per quanto riguarda l'impressione di frammentarietà che alcune volte le lettere suscitano, si deve tenere presente che Paolo non le redigeva a tavolino, ma le dettava, probabilmente a più riprese (ci è giunto il nome di uno dei suoi segretari, Terzo: Rom 16,22). Generalmente, poi, aggiungeva qualche riga di suo pugno, come saluto e come sigillo dell'autenticità dello scritto (Gal 6,11). Questo spiega anche lo stile non lineare, la presenza di alcune frasi interrotte, la concitazione del pensiero.

Terzo e quarto viaggio missionario di San Paolo

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16.C - Ultime tracce di Paolo dopo gli "Atti"

Tre libri del Nuovo Testamento accennano fugacemente all'attività di Paolo successive a quanto raccontato degli Atti degli Apostoli: furono scritti a due giovani capi della Chiesa che avevano collaborato con lui.

Nella Prima Lettera a Timoteo Paolo al trova fuori di prigione, probabilmente rilasciato dopo gli arresti domiciliari a Roma di cui riferisce l'ultimo capitolo degli Atti. È stato di recente ad Efeso, dirigendosi verso la Macedonia, ed ha lasciato Timoteo ad Efeso per continuare la sua opera (1 Tim 1,3).

Anche nella Lettera a Tito l'Apostolo delle Genti appare fuori di prigione. Sembra che si sia recato con Tito a Creta. Conosce bene la situazione di quella Chiesa: è probabile che sia rimasto sull'isola per un certo periodo. Vi ha lasciato Tito, ed ora gli chiede di Incontrarlo a Nicopoli, sulla strada per la Dalmazia, dove intende passare l'inverno (Tito 3,12). Come riporta 2 Tim 4,10, Tito in seguito è andato in Dalmazia. Ma lui e Paolo si incontrarono davvero, come erano d'accordo prima che Tito proseguisse il suo viaggio? Purtroppo non ci è dato di saperlo.

Nella Seconda Lettera a Timoteo, invece, Paolo scrive dalla cella in cui è prigioniero a Roma, dopo essere stato nuovamente arrestato. È già stato giudicato una volta (2 Tim 4,13), e sembra in attesa dell'imminente esecuzione. Ha viaggiato di recente, lasciando il mantello e alcuni libri a Troade (2 Tim 4,13). È passato anche per Mileto e Corinto (2 Tim 4,20). Vi è anche un accenno a un suo passaggio per Efeso (2 Tim 4,14-15), dove si erano verificati dei disordini.

Nessun accenno invece al viaggio in Spagna che Paolo aveva progettato in Romani 15,24.28, ma è probabile che l'Apostolo delle Genti vi si sia recato davvero, come attestano tradizioni molto antiche.

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16.D - La teologia di Paolo

Un semplice dato statistico per comprendere come l'annuncio di Gesù sia veramente il fulcro di tutto il messaggio paolino. L'attribuzione di "Signore" ricorre sotto la sua penna 280 volte, "Cristo" 400, "Gesù" 220.

I numeri, però, sono ben poca cosa di fronte all'attaccamento personale che l'apostolo mostra nei confronti del suo Signore. La folgorazione sulla via di Damasco penetra fin nel profondo tutta la personalità dell'apostolo che ne è radicalmente trasformato:

« Sono stato crocefisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me » (Gal 2,20)

L'impronta indelebile che ne deriva alla sua vita si fonda sulla consapevolezza di un amore unico e personale che ne costituisce il nuovo orientamento:

« Questa vita presente, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2,20)

La vita dell'apostolo ha assunto un nuovo significato:

« Per me, infatti, il vivere è Cristo e il morire un guadagno » (Fil 1,21)

« Perché se uno è in Cristo è una creatura nuova » (2 Co 5,17)

Tutta la sua vita è orientata alla conoscenza di Cristo:

« Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui » (Fil 3,8)

La grande statua dell'Apostolo delle Genti davanti alla Basilica di San Paolo fuori le Mura a RomaQuesta centralità di Cristo non è, dunque, per Paolo uno schema teologico, ma realtà che proviene dalla sua esperienza esistenziale; essa orienta tutta la sua teologia che può essere compresa solo in questa prospettiva cristologica:

« La realtà è Cristo » (Col 2,17)

In tutta la sua vita Paolo difese contro ogni avversario la centralità della figura di Cristo. Ad Antiochia in Galazia, a Corinto e a Gerusalemme Paolo si trova di fronte al problema della Legge, sollevato dai giudaizzanti. Costoro pretendevano di riconoscere alla Legge di Mosè un ruolo centrale e insostituibile. Operando un compromesso fra la Legge e la fede in Cristo pretendevano di far dipendere l'efficacia dell'azione salvifica di Cristo dalla puntuale osservanza delle norme giudaiche e dal compimento delle opere prescritte dalla Legge.

Problema capitale, che vedrà impegnata la chiesa delle origini nella prima assise conciliare, a decidere il proprio futuro fra Legge e Vangelo (At 15).

Paolo vede acutamente che il problema non consiste semplicemente nel discutere sulla validità di un certo codice di vita morale e religiosa. Si tratta, in realtà, di prolungare la concezione della Legge, propria del giudaismo. Qui essa appare non tanto come un insieme di precetti e norme, quanto come un compiuto sistema di salvezza che sviluppa l'affermazione di Lv 18,5:

« Osserverete, dunque, le mie leggi e le mie prescrizioni, mediante le quali, chiunque le metterà in pratica, vivrà. Io sono il Signore »

È questa mentalità che elabora il concetto di giustizia (intesa non distributivamente: dare a ciascuno il suo, ma teologicamente, vale a dire: essere giusti davanti a Dio) nei termini di fedele e accurata osservanza della Legge.

Paolo elabora un concetto di Legge sostanzialmente buono: la Legge esprime la "volontà di Dio" (1 Tes 4,3); è santa e giusta ecc. Paradossalmente, però, Paolo afferma che proprio questa Legge si rivela impari al compito che Dio le ha assegnato. Non solo la Legge mosaica nella sua formulazione storica, ma ogni legge deve essere considerata insufficiente a ristabilire il corretto rapporto fra l'uomo e Dio e a riaprire la via della salvezza. È il regime legale, in quanto tale, che deve essere abbandonato; ed è quanto, secondo Paolo, è avvenuto con Cristo. Di fatto, dunque la Legge, data per la salvezza, si rivela inefficace; essa non è in grado di realizzare la promessa fatta ad Abramo, perché, insieme al precetto non comunica anche la forza sufficiente per eseguirlo (Gal 3,8-14).

La vera salvezza, invece, viene da Dio, è Lui a compiere il primo passo, senza alcun merito da parte dell'uomo:

« Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi » (Rom 5,8)

Tale disegno incontra l'opposizione dei giudei, i quali, invece pretendono di salvarsi mediante le opere della Legge, e dei greci, che cercano il proprio riscatto nello sviluppo della capacità conoscitiva, nella sapienza. La salvezza, invece, è dono di Dio in Cristo (1 Cor 1,23-24). È il dono che il Padre fa del proprio Figlio, è il dono che il Figlio fa di se stesso. Il suo dono totale riapre all'uomo la possibilità di incontrarsi con Dio.

« E' per la libertà che Cristo ci ha liberato » (Gal 5,1)

La forte affermazione di Paolo vuole precludere ogni possibilità di ripensamento. Cristo è il termine delle Legge, Egli l'ha distrutta (Ef 2,14), l'ha inchiodata sulla croce (Col 2,14). Il compito per il quale la Legge era stata data è stato realizzato da Cristo. È Lui la nuova Legge, capace di dare la giustizia di Dio, la vita. Ma una salvezza che si configura come libertà potrebbe anche essere fraintesa: il cristiano è libero da ogni dovere. Si è forse passati dal legalismo all'arbitrio dell'anomia?

Paolo è molto chiaro a questo proposito. Anzitutto egli richiama che il fondamento proprio della libertà del cristiano non consiste in una liberazione esteriore, ma in una salvezza che è ristrutturazione radicale, che è nuova possibilità offerta: essere Figli di Dio.

Di fronte allo scacco totale della Legge, Paolo proclama la vittoria dell'uomo, in Cristo. Una vittoria che non è solo sulla Legge, ma sul peccato (Rom 6,14.18). È per questo che la Legge non ha alcun potere su di Lui. Ciò è avvenuto mediante la morte e resurrezione di Cristo, il fatto veramente rivoluzionario che ha modificato il cammino della storia.

Riguardo all'Apocalisse, si veda invece il seguente ipertesto ad essa dedicato.

La più antica immagine mariana in Italia

Quella qui rappresentata è considerata la più antica immagine mariana finora ritrovata in Italia. Proviene dalle catacombe di Priscilla, a Roma; nota come la Madonna con il Profeta, risale probabilmente alla metà del II secolo. L'immagine decora una volta e mostra Maria seduta con il Bambino in grembo. Accanto a lei un uomo vestito di una tunica, che a sinistra porta un volume e con la mano destra leggermente alzata indica una stella sopra la testa della Madre. Nel personaggio è possibile identificare un profeta, forse Balaam, che previde una stella come segno dell'avvento del Messia, oppure Michea o Isaia, visti i richiami biblici alla nascita di Cristo (Mi 5,1-4; Is 7,14;9,1).


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