Ciro, l'eletto di YHWH
A partire da questo capitolo fino alla conclusione del testo in lingua
ebraica, e quindi fino al termine del capitolo 12, il Libro di Daniele ci offre
una nuova, grandiosa visione, il cui contenuto avrà un impatto formidabile non
solo sul Giudaismo ad esso posteriore, ma anche su Cristianesimo ed Islam.
L'incipit è in terza persona:
« L'anno terzo di Ciro re dei Persiani, fu rivelata una parola a Daniele, chiamato Baltazzàr. Vera è la parola e la lotta è grande. Egli comprese la parola e gli fu dato d'intendere la visione. » (Daniele 10, 1)
Anche in questo caso si fornisce una datazione apparentemente molto precisa: l'anno terzo di Ciro. Evidentemente non si pensa al terzo anno dall'ascesa di questo grande condottiero al trono di Persia, avvenuta nel 559 a.C., ma al terzo anno da quando egli governava anche la Giudea. Ciro (in realtà Ciro II, essendo Ciro I un suo antenato vissuto un secolo prima) nacque verso il 590 a.C. e si chiamava in realtà Kūrush, "lungimirante" (secondo altri invece significa "devoto al Sole"). Suo padre era Cambise I, vassallo del re dei Medi Astiage, e subito dopo la sua ascesa al trono nel 559 a.C. Ciro concepì un grandioso progetto di conquista militare, che lo avrebbe portato ad unificare nelle sue mani l'intero mondo conosciuto. Ciro riunì sotto il suo regno le varie tribù iraniche, quindi liberò i Persiani dal dominio dei Medi e fuse i due popoli in uno solo. Nel 547 a.C. Ciro marciò sulla Lidia, tradizionale rivale della Media, governata dal famoso re Creso, della dinastia dei Mermnadi, rimasto proverbiale per la sua ricchezza. Secondo la tradizione, Creso inviò una delegazione all'Oracolo di Delfi, chiedendo se avrebbe dovuto ingaggiare o meno un combattimento con Ciro. L'Oracolo gli rispose: "Se scenderai in guerra, distruggerai un grande regno". Creso scese in guerra, ma il grande regno che distrusse fu... il proprio. Sconfitto da Ciro nella Battaglia di Pteria, presso il fiume Halys, Creso si rinchiuse a Sardi, che fu cinta d'assedio dai Persiani; alla fine Creso fu catturato e, come racconta Erodoto, fu legato sopra una grande pira. Ma, quando essa stava per essere accesa, Creso gridò: "Ah, Solone, Solone!" Ciro, incuriosito, lo fece slegare dalla pira e volle che gli raccontasse il perchè di quell'invocazione: alcuni anni prima Solone di Atene aveva avuto con Creso una discussione sulla caducità delle corone umane, e ora l'ex re di Lidia si rendeva conto della veracità di quelle parole. Colpito, Ciro decise di graziare Creso e di tenerlo con sé alla propria corte. Nel 539 a.C. Ciro si impossessò anche di Babilonia, scalzando dal trono re Nabonide, e per di più senza sparare un colpo di cannone, come si direbbe in termini moderni. Come sappiamo, infatti, Nabonide era devoto alla dea della Luna, Sin, e tentò di imporne il culto ai babilonesi, che invece da sempre erano devoti a Marduk. Ciro ebbe buon gioco presentandosi come inviato di Marduk e promettendo di rispettare culti e tradizioni babilonesi: la nobiltà cittadina scacciò Nabonide, e Ciro fu accolto come un liberatore. In tal modo il sovrano persiano riunì nelle sue mani un dominio vasto quanto l'intero Medio Oriente e si proclamò « Re di Persia, Re di Anshan, Re di Media, Re di Babilonia, Re di Sumer e Akkad, Re dei Quattro Angoli del Mondo », formula incisa sul cosiddetto Cilindro di Ciro. Il sovrano progettò di conquistare anche Arabia, Egitto e Grecia, ma non ci riuscì mai, né riuscì a dare un'organizzazione unitaria al proprio immenso dominio: morì infatti nel 529 a.C., in battaglia contro i Massageti. Secondo Erodoto (Storie I, 215-216) Ciro fece prigioniero Spargapise, figlio della regina Tamiri, e lo fece uccidere; Tamiri allora mosse guerra ai Persiani, uccise Ciro e fece gettare la sua testa in un otre pieno di sangue, così da placare la sua sete di sangue. Dante, che ritrovava questo episodio in Paolo Orosio, lo rievocò nel XII Canto del suo Purgatorio:
« Mostrava la ruina e 'l crudo scempio
che fé Tamiri, quando disse a Ciro:
Sangue sitisti, e io di sangue t'empio! » (Purg. XII, 55-57)
Ciro è ricordato non solo come un grande comandante militare, ma anche come un sovrano illuminato, amante dell'arte e della cultura. Il suo nome è ben noto alla Bibbia per la sua decisione di permettere il rientro in patria agli Ebrei deportati da Nabucodonosor II
« Nell'anno primo del regno di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola che il Signore aveva detto per bocca di Geremia, il Signore destò lo spirito di Ciro re di Persia, il quale fece passare quest'ordine in tutto il suo regno, anche con lettera:
"Così dice Ciro re di Persia: Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra; egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio in Gerusalemme, che è in Giudea.
Chi di voi proviene dal popolo di lui? Il suo Dio sia con lui; torni a Gerusalemme, che è in Giudea, e ricostruisca il tempio del Signore Dio d'Israele: egli è il Dio che dimora a Gerusalemme. Ogni superstite in qualsiasi luogo sia immigrato, riceverà dalla gente di quel luogo argento e oro, beni e bestiame con offerte generose per il tempio di Dio che è in Gerusalemme."
» (Esdra 1, 1-4)
Anche il Secondo Isaia loda Ciro definendolo addirittura "l'eletto" di YHWH:
« Dice il Signore del suo eletto, di Ciro: Io l'ho preso per la destra, per abbattere davanti a lui le nazioni, per sciogliere le cinture ai fianchi dei re, per aprire davanti a lui i battenti delle porte e nessun portone rimarrà chiuso. » (Isaia 45, 1)
Di lui così scrive Senofonte nella sua "Ciropedia", opera in otto libri in cui è descritta l'educazione del giovane Ciro da parte di suo padre Cambise I:
« Quelli che erano soggetti a lui, li ha trattati con stima e rispetto, come se fossero i propri figli, mentre i suoi stessi sudditi rispettavano Ciro come loro "padre" [...] Quale altro uomo, oltre a Ciro, dopo aver rovesciato un impero, morì con il titolo di "Padre" attribuitogli dal popolo che aveva ridotto in suo potere? Perché è evidente che si tratta del nome adatto per uno che elargisce, piuttosto che per uno che rapina! »
Lo studioso musulmano sunnita Abul Kalam Azad Ahmed Muhiyuddin (1888-1958), di nazionalità indiana, ha suggerito che il personaggio del Corano noto come Dhul-Qarnayn sia proprio Ciro il Grande; tale teoria è condivisa anche dallo sciita iraniano Muhammad Husayn Tabatabaei (1904-1971). Gran parte dei successivi sovrani di Persia, a partire da Alessandro Magno fino all'ultimo Shah Reza Pahlevi, si sono detti eredi di Ciro il Grande, e secondo l'orientalista Richard Nelson Frye (1920-) Ciro riveste ancor oggi per il popolo persiano un ruolo quasi mitico, simile a quella di Romolo e Remo a Roma; inoltre il nome "Ciro" è oggi diffusissimo nel Sud d'Italia, tanto che il fossile di Scipionyx samniticus, piccolo dinosauro di 113 milioni di anni fa scoperto nel 1980 a Pietraroja (BN), è stato popolarmente ribattezzato proprio "Ciro"!
La tomba di Ciro il Grande a Pasargade, Iran (clic per ingrandire)
"L'anno terzo di Ciro re dei Persiani" dovrebbe dunque corrispondere al 536 a.C., in modo che queste visioni seguano cronologicamente quelle contenute nei capitoli precedenti. Si noti ciò che specifica l'Autore: "Vera è la parola e la lotta è grande". Ma di quale lotta si parla? Non occorre certo avere una laurea in teologia per comprendere che la lotta a cui si allude è quella degli Ebrei contro gli Ellenisti, capitanati dal solito Antioco IV Epifane. Alcuni commentatori pensano invece che la "lotta" riguardi lo sforzo dello stesso Daniele per comprendere la profezia, dal momento che nel versetto 8 si allude al fatto che la visione prosciuga quasi ogni energia vitale del veggente; in ogni caso, il senso dell'espressione ebraica "saba gadol" qui resa con "grande lotta" resta tuttora piuttosto oscuro.
Se ricordate, già in Dan 9, 3 il protagonista del nostro Libro aveva "pregato e supplicato Dio con il digiuno, veste di sacco e cenere". Anche stavolta l'incipit è lo stesso:
« In quel tempo io, Daniele, feci penitenza per tre settimane, non mangiai cibo prelibato, non mi entrò in bocca né carne né vino e non mi unsi d'unguento finché non furono compiute tre settimane. » (Daniele 10, 2-3)
Sembrano i preparativi fatti dagli Ebrei prima di assistere alla grandiosa teofania sul Monte Sinai, quando a Mosè fu rivelato il Decalogo:
« Il Signore disse a Mosè: "Và dal popolo e purificalo oggi e domani: lavino le loro vesti e si tengano pronti per il terzo giorno, perché nel terzo giorno il Signore scenderà sul monte Sinai alla vista di tutto il popolo." » (Esodo 19, 10-11)
Il digiuno è prescritto per lo Yom Kippur, il "Giorno dell'Espiazione", in cui è proibito persino lavarsi e profumarsi, portare sandali e avere rapporti con la propria moglie. Digiuni pubblici sono prescritti per scongiurare gravi calamità, come la siccità, la carestia o la pestilenza; ecco infatti come reagisce Gioele al flagello delle cavallette:
« Proclamate un digiuno, convocate un'assemblea, adunate gli anziani e tutti gli abitanti della regione nella casa del Signore vostro Dio. » (Gioele 1, 14)
Il digiuno è anche prescritto per rievocare tragedie nazionali, come la distruzione del Tempio di Gerusalemme, tanto che il Signore annuncia a Zaccaria:
« Così dice il Signore degli eserciti: Il digiuno del quarto, quinto, settimo e decimo mese si cambierà per la casa di Giuda in gioia, in giubilo e in giorni di festa, purché amiate la verità e la pace. » (Zaccaria 8, 19)
La penitenza di Daniele dura ben tre settimane, e comprende anche il fatto di rinunciare agli "unguenti". Nel Medio Oriente si faceva un uso industriale di questi linimenti, non solo a scopo puramente cosmetico, ma anche per rinfrescare il corpo, per proteggerlo dal calore del sole e per favorire la traspirazione; non si trattava dunque di un sacrificio da poco. Anche il famoso trucco egiziano degli occhi, come ha appurato un gruppo di ricercatori del Centre National de la Recherche Scientifique e dell'Università Pierre e Marie Curie di Parigi, coordinato da Christian Amatore, in origine era in realtà un linimento per combattere le irritazioni agli occhi, probabilmente causate dal vento che soffiava dal vicino deserto.
L'Uomo
Vestito di Lino
Anche la collocazione spaziotemporale è
molto precisa:
« Il giorno ventiquattro del primo mese, mentre stavo sulla sponda del gran fiume, cioè il Tigri... » (Daniele 10, 4)
Il primo mese dell'anno ebraico è il mese di Nisan, corrispondente al nostro mese di marzo-aprile (il mese di Pasqua, per capirci). Nel capitolo 8 Daniele era a Susa, qui invece si trova di nuovo in Mesopotamia, però sulle rive del Tigri, non dell'Eufrate che bagna Babilonia. La visione da lui ricevuta non è meno grandiosa di quelle dei capitoli precedenti:
« Alzai gli occhi e guardai: ed ecco un Uomo Vestito di Lino, con ai fianchi una cintura d'oro di Ufaz; il suo corpo somigliava a topazio, la sua faccia aveva l'aspetto della folgore, i suoi occhi erano come fiamme di fuoco, le sue braccia e le gambe somigliavano a bronzo lucente e il suono delle sue parole pareva il clamore di una moltitudine. » (Daniele 10, 5-6)
La descrizione dell'"Uomo Vestito di Lino" è fatta di pietre e metalli preziosi, una tecnica narrativa che tornerà alla ribalta nel Libro dell'Apocalisse. Il lino è una fibra molto pregiata, morbida, flessibile e resistente, già utilizzata 3000 anni prima di Cristo per fasciare le mummie egizie; anche la Sacra Sindone è un tessuto di lino molto pregiato. Quanto all'"oro di Ufaz", questo termine è di difficile interpretazione. Lo si ritrova anche in Cantico dei Cantici 5, 11, e spesso viene tradotto con "oro puro", dando per scontato che si tratti di una qualità di oro particolarmente pregiata, come il famoso "oro di Ofir" citato otto volte nell'Antico Testamento, ad esempio:
« Giòsafat costruì navi di Tarsis per andare a cercare
l'oro in Ofir; ma non ci andò, perché le navi si sfasciarono in
Ezion-Gheber. » (1Re 22, 49)
« [La sapienza] non la si acquista con l'oro di
Ofir, con il prezioso berillo o con lo zaffiro.
» (Giobbe 28, 16)
« Figlie di re stanno tra le tue predilette; alla tua destra la regina in ori di
Ofir. » (Salmi 44, 10)
« Renderò gli uomini più rari dell'oro fino, più rari dell'oro di
Ofir. » (Isaia
13, 12)
Alcuni esegeti hanno avanzato l'ipotesi che quello di Daniele e del Cantico dei Cantici sia un mero errore di trascrizione da parte di antichi copisti, e che "Ufaz" stia proprio per "Ofir", dato che in ebraico le vocali non si scrivono, e che le consonanti "r" e "z" si somigliano molto. Anche Ofir, però, nessuno è mai riuscito a localizzarlo con sicurezza. C'è chi pensa che fosse posto sulle rive del Mar Rosso, poiché il testo biblico ci dice che il porto di partenza delle navi ebraiche dirette ad Ofir era Esion-Gheber sul Golfo di Aqaba, nei pressi dell'attuale porto israeliano di Eilat. Qualcuno ha posto in relazione il nome di Ofir con il popolo degli Afar nel Corno d'Africa, altri pensano all'Oman; il filologo tedesco Friedrich Max Müller (1823-1900) ha proposto di identificare Ofir con Abhira, un antico porto nell'attuale Pakistan, e c'è anche chi ha pensato agli Oviyar, un popolo che viveva nei pressi dell'attuale città di Jaffna, nell'estremo nord di Sri Lanka, una terra effettivamente ricca di animali esotici e di legno pregiato. Più ci si allontana dalla Palestina, tuttavia, e più le identificazioni diventano improbabili, considerando quanto erano difficili nell'antichità i viaggi via mare.
Quanto al topazio, pietra alla quale è paragonato il corpo dell'Uomo Vestito di Lino avvistato da Daniele, si tratta di un fluorosilicato di alluminio dall'intenso colore giallo dorato, che ricorda quello del miele; il suo nome deriva dal sanscrito tapas, "calore", per il suo colore che ricorda un carbone ardente. Presso gli antichi egizi infatti esso simboleggiava Ra, il dio del Sole, ed è probabile che in Egitto gli Ebrei lo abbiano conosciuto per la prima volta. Tale pietra preziosa è citata più volte nella Bibbia; è una delle dodici pietre incastonate nel pettorale del Sommo Sacerdote:
« Lo coprirai con una incastonatura di pietre preziose, disposte in quattro file. Una fila: una cornalina, un topazio e uno smeraldo: così la prima fila. » (Esodo 28, 17)
Il fatto che sia in prima fila, dimostra la sua importanza per gli antichi Ebrei. L'autore del Libro di Giobbe paragona la Sapienza proprio alla gialla pietra di cui ci stiamo occupando, specificando anche la sua provenienza dall'Etiopia, il che rafforza l'ipotesi che l'Ebraismo la abbia incontrata per la prima volta in Egitto:
« [La Sapienza] non la eguaglia il topazio d`Etiopia; con l`oro puro non si può scambiare a peso. » (Giobbe 28, 19)
Di topazio inoltre sono le ruote del Carro del Signore nella fantasmagorica visione inaugurale di Ezechiele:
« Le ruote avevano l'aspetto e la struttura come di topazio e tutt`e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un`altra ruota. » (Ezechiele 1,16)
Questo paragone significa che le ruote hanno l'aspetto di metallo incandescente: ricordiamo che le lingue semitiche non conoscevano termini astratti, e per rendere concetti come quelli di calore e luminosità si ricorre a similitudini e metafore. Infine, il topazio lo ritroviamo in un'altra celebre elencazione di pietre, quella dei materiali di cui nell'Apocalisse sono costruite le dodici porte della Gerusalemme Celeste:
« Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l'ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l'undecimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. » (Apocalisse 21, 19-20)
La visione dell'Uomo Vestito di Lino, stampa popolare
Il resto della descrizione dell'Uomo Vestito di Lino apparso in visione a Daniele comprende aspetti tipici delle teofanie bibliche: la faccia luminosa come la folgore, gli occhi di fiamma, gli arti di bronzo. Tali immagini verranno riprese da San Giovanni nell'Apocalisse, e precisamente nella visione inaugurale del Figlio dell'Uomo, il quale:
« [...] aveva gli occhi fiammeggianti come fuoco, i piedi avevano l'aspetto del bronzo splendente purificato nel crogiuolo [...] e il suo volto somigliava al sole quando splende in tutta la sua forza. » (Apocalisse 14b-15a.16b)
Si tratta di metafore destinate ad esaltare la trascendenza del soggetto e la sua appartenenza all'orizzonte divino: gli occhi fiammeggianti indicano la provenienza dalla sfera celeste (sede dei fulmini) e la capacità di vedere ogni cosa, l'aspetto di bronzo rilucente indica la perfezione in rapporto alla finitudine umana, il volto simile al sole richiama il fatto che questo soggetto vede Iddio faccia a faccia, come Mosè la cui pelle del viso era fosforescente, dopo aver parlato con YHWH nella tenda dove c'era l'arca:
« Quando Mosè scese dal monte Sinai - le due tavole della Testimonianza si trovavano nelle mani di Mosè mentre egli scendeva dal monte - non sapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poiché aveva conversato con Lui. » (Esodo 34, 29)
Si noti che il destinatario della visione è il solo Daniele, anche se l'evento è talmente eclatante, da venire percepito confusamente anche dagli uomini che stanno accanto a lui, uomini dei quali nulla sappiamo:
« Soltanto io, Daniele, vidi la visione, mentre gli uomini che erano con me non la videro, ma un gran terrore si impadronì di loro e fuggirono a nascondersi. Io rimasi solo a contemplare quella grande visione, mentre mi sentivo senza forze » (Daniele 10, 7-8a)
Anche a Saulo di Tarso apparirà il Signore sulla via di Damasco, e la visione sarà destinata a lui solo, anche se i suoi compagni udiranno la stessa enigmatica voce:
« Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno. » (Atti 9, 7)
Daniele è sconvolto anche fisicamente da questa visione, come già accaduto in 8, 17-18; nell'Antico Testamento l'esperienza del divino è sempre fonte di turbamento, se non di vero e proprio timore della morte:
« Il mio colorito si fece smorto e mi vennero meno le forze. Udii il suono delle sue parole, ma, appena udito il suono delle sue parole, caddi stordito con la faccia a terra. » (Daniele 10, 8b-9)
Addirittura la visione dell'Uomo Vestito di Lino provoca a Daniele un vero e proprio svenimento, ma l'Essere si premura di parlargli e di soccorrerlo:
« Ed ecco, una mano mi toccò e tutto tremante mi fece alzare sulle ginocchia, appoggiato sulla palma delle mani. Poi egli mi disse: "Daniele, uomo prediletto, intendi le parole che io ti rivolgo, alzati in piedi, poiché ora sono stato mandato a te." Quando mi ebbe detto questo, io mi alzai in piedi tutto tremante. » (Daniele 10, 10-11)
Come si è visto, anche il Primo, l'Ultimo e il Vivente porrà la sua "destra" su Giovanni per rincuorarlo dopo l'incredibile apparizione tra i sette candelabri d'oro (Ap 1, 17). In questo caso, Daniele è chiamato "uomo prediletto", cioè speciale agli occhi di Dio, unico tra i suoi contemporanei, e per questo scelto per compiere la sua missione profetica. In particolare Daniele è così caro al Signore perché si è "sforzato" di capire la Sua Parola, e soprattutto si è "umiliato" davanti a Dio:
« Egli mi disse: "Non temere, Daniele, poiché fin dal primo giorno in cui ti sei sforzato di intendere, umiliandoti davanti a Dio, le tue parole sono state ascoltate e io sono venuto per le tue parole. Ma il principe del regno di Persia mi si è opposto per ventun giorni: però Michele, uno dei primi prìncipi, mi è venuto in aiuto e io l'ho lasciato là presso il principe del re di Persia; ora sono venuto per farti intendere ciò che avverrà al tuo popolo alla fine dei giorni, poiché c'è ancora una visione per quei giorni." » (Daniele 10, 12-14)
Cosa significano queste parole? La visione è arrivata al nostro profeta con un ritardo di 21 giorni, ovvero di tre settimane: è la durata del digiuno penitenziale citato al versetto 2. A provocare questo ritardo è stato "il principe del regno di Persia"; siccome i "principi" nel linguaggio apocalittico sono gli angeli, è presumibile che l'Autore alluda all'angelo custode di quello stato: si tratta di un tema ricorrente della letteratura apocalittica, secondo la quale gli angeli sono inviati da Dio a governare le nazioni in modo segreto e provvidenziale. Persia e Israele sono in lotta tra di loro, ed allora l'angelo del primo regno ha cercato di ritardare la missione del secondo, protettore della nazione ebraica. Solo l'intervento di Michele ha permesso di sbloccare la situazione, e Daniele finalmente potrà ricevere la rivelazione del futuro.
"Chi
è come Dio?"
Michele, dopo
Gabriele, è il secondo angelo chiamato per nome dal Libro di Daniele, nel quale
ritornerà ancora, e in veste di protagonista, al principio del capitolo
12. Il
suo nome significa "Chi è come Dio?", ed
è l'unico a cui la Bibbia attribuisce espressamente il titolo di "arcangelo",
perchè è "uno dei primi principi"; la tradizione successiva ne farà
il comandante in capo delle milizie celesti. Oltre che nel Libro di Daniele,
egli è citato per nome nel Nuovo Testamento nella Lettera di Giuda:
« L'arcangelo Michele quando, in contesa con il diavolo, disputava per il corpo di Mosè, non osò accusarlo con parole offensive, ma disse: Ti condanni il Signore! » (Giuda 9)
Già qui lo vediamo nella sua veste di nemico numero uno di Satana, con riferimento a una leggenda ebraica circa il destino del corpo di Mosè. Sempre con il suo nome lo ritroviamo nell'Apocalisse, e non poteva essere altrimenti, visti gli stretti legami tra questa e il Libro di Daniele; qui Michele appare per la prima volta come comandante di una legione di angeli impegnati nella lotta contro il drago, cioè contro il diavolo:
« Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. » (Apocalisse 12, 7-8)
In questa stessa veste di "capo dell'esercito del Signore" probabilmente lo ritroviamo nel Libro di Giosuè, anche se al tempo della redazione di quest'ultimo l'angelologia ebraica non si era ancora sviluppata compiutamente, e non gli era ancora stato assegnato un nome:
« "Io sono il capo dell'esercito del Signore. Giungo proprio ora". Allora Giosuè cadde con la faccia a terra, si prostrò e gli disse: "Che dice il mio signore al suo servo?" Rispose il capo dell'esercito del Signore a Giosuè: "Togliti i sandali dai tuoi piedi, perché il luogo sul quale tu stai è santo". Giosuè così fece. » (Giosuè 5, 14-15)
Quasi certamente è allo stesso angelo, ancora innominato, cui pensa il profeta Zaccaria quando scrive:
« L'angelo del Signore disse a Satana: "Ti rimprovera il Signore, o Satana! Ti rimprovera il Signore che si è eletto Gerusalemme! Non è forse costui un tizzone sottratto al fuoco?" » (Zaccaria 3, 2)
Come riporta il "Dizionario delle Creature Spirituali" di Giordano Berti, l'arcangelo Michele compare anche in numerosi testi apocrifi. Nell'"Apocalisse Siriaca di Baruc" è lui che tiene le chiavi del Paradiso; nella "Vita di Adamo ed Eva" è Michele ad insegnare ad Adamo a coltivare la terra; nell'"Assunzione di Mosè" insegna ai figli di Adamo ed Eva i doveri rituali verso i defunti; nel "Vangelo di Bartolomeo" si racconta che fu lui a portare a Dio la terra e l'acqua necessarie a creare Adamo; nell'"Ascensione di Isaia" poi si aggiunge che fu lui a rimuovere la pietra dal sepolcro di Gesù, la mattina di Pasqua; nell'"Apocalisse della Madre di Dio" accompagna addirittura la Vergine in un viaggio attraverso l'Inferno per mostrarle le pene dei dannati. Nell'esegesi ebraica si ritiene che l'angelo che apparve ad Abramo per impedirgli si sacrificare suo figlio in Genesi 22, 11-12, quello che lottò con Giacobbe secondo Genesi 32, 24-34 e quello che sbarrò il passo all'asina di Balaam in Numeri, 22, 22 siano tutti da identificare proprio con Michele. I Padri della Chiesa aggiunsero che fu lui a scacciare il superbo Eliodoro dal Tempio di Gerusalemme in 2 Maccabei 3, 24-30 e a liberare gli apostoli dalla prigione in Atti 5, 19. Il nostro angelo è citato nel Corano (sura II, versetto 98) con il nome di Mīkāīl, dove si dice che è di pari rango rispetto a Jibrīl (Gabriele) e, assieme a quest'ultimo, avrebbe provveduto a ispirare il profeta Maometto. Le chiese avventiste invece sostengono che Michele e Gesù Cristo sono la stessa persona, proprio perchè Daniele lo chiamerà "il Gran Principe".
Michele è citato anche nella Divina Commedia, precisamente al principio del Canto VII dell'Inferno, quando il demone Pluto con il suo famosissimo « Papè Satàn, papè Satàn aleppe » cerca di terrorizzare Dante invocando Lucifero, e subito Virgilio lo sgrida:
« Non è sanza cagion l'andare al cupo:
vuolsi ne l'alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo! » (Inf. VII, 10-12)
Come si vede, anche in questo caso l'arcangelo è "fotografato" nella sua iconografia più tradizionale, quella di compiere la vendetta la vendetta del "superbo strupo", probabile metatesi di "stupro" nel senso di "gravissimo peccato di superbia". Invece Natalino Sapegno propone di far derivare strupo dal basso latino "stropus", cioè "schiera"; in tal caso vediamo Michele nell'atto di scacciare dal cielo la schiera dei demoni che per superbia si ribellò a Dio. Anche Giuseppe Gioacchino Belli cita Michele in uno dei suoi più famosi sonetti, "L’Angeli ribbelli", datato 16 febbraio 1833, in cui descrive con il solito tono popolaresco la caduta dei demoni:
« Poi San Micchel'Arcangelo a ccavallo
de gran galoppo, a uso der Croscifero,
uscì cco uno Stennardo bbianch'e ggiallo.
E ddoppo er zono d’un tammurro e un pifero,
lesse st'editto: "Iddio condanna ar callo
l'angeli neri e 'r Capitan Luscifero!" »
In questo caso Michele è rappresentato addirittura come un capitano della guardia pontificia, tanto è vero che inalbera uno stendardo "bianco e giallo", i colori della bandiera del Papa, e dopo aver suonato un tamburo per richiamare la folla, come un qualsiasi banditore legge un editto, nel quale Lucifero è trattato come un capitano di ventura ribelle e condannato "ar callo", cioè all'Inferno. Una descrizione molto terra terra, che però rende ragione della vasta popolarità di questo arcangelo presso il popolo cristiano di Roma.
Guido Reni, San Michele sconfigge Satana (1635),
chiesa di Santa Maria della Concezione, Roma
Diffusissimo infatti è il culto di San Michele Arcangelo fin dalle origini del cristianesimo. Secondo una tradizione assai radicata, l'8 maggio 490 l'arcangelo apparve a San Lorenzo Maiorano, vescovo di Siponto, oggi frazione di Manfredonia in Puglia, gli indicò una grotta sul Gargano e lo invitò a farne un importante santuario; lì sorge tuttora il Santuario di San Michele Arcangelo (oggi nel centro cittadino di Monte Sant'Angelo), che nel Medioevo fu santuario nazionale dei Longobardi e meta di ininterrotti flussi di pellegrini, tra i quali anche San Francesco d'Assisi. Il culto di Michele fu assai caro ai Longobardi, che vedevano in lui un santo guerriero come loro, ed è per questo che in Italia l'arcangelo Michele è patrono di molti paesi e città, tra i quali Acireale (CT), Albenga (SV), Alghero (SS), Aprilia (LT), Bastia Umbra (PG), Bitonto (BA), Castiglion Fiorentino (AR), Cerveteri (RM), Caltanissetta, Cuneo, Gravina in Puglia (BA), Leffe (BG), Magnago (MI), Sant'Angelo dei Lombardi (AV) e Vasto (CH), ed è compatrono di Caserta e di Venezia. A Tufo (AV) ogni 8 maggio si rappresenta l'antichissimo dramma sacro "La cacciata degli angeli ribelli dal Paradiso", ispirato alle gesta di San Michele. E non è tutto: nella Leggenda Aurea, che narra la vita di papa Gregorio I, si legge che nell'anno 590 Roma fu colpita una tremenda pestilenza; il Pontefice allora organizzò una processione con il canto delle litanie istituite da lui stesso per le vie di Roma e, giunto presso la tomba dell'imperatore Adriano, Gregorio vide apparire sopra di essa San Michele che riponeva la spada nel fodero, segno che le preghiere erano state ascoltate e che la terribile epidemia sarebbe cessata. Per commemorare l'episodio sul cenotafio fu eretta una statua raffigurante l'arcangelo, e a poco a poco il monumento pagano si trasformò nell'odierno Castel Sant'Angelo. Nel medioevo i cavalieri erano consacrati dai loro feudatari toccando le loro spalle con la spada e pronunciando la formula « Per Dio, per San Giorgio e per San Michele, ti faccio cavaliere », invocando così l'arcangelo come difensore della fede.
Altro luogo di venerazione dell'arcangelo Michele è l'isolotto francese di Mont Saint-Michel, nel canale della Manica, dove l'arcangelo Michele apparve nel 709 a Sant'Uberto, vescovo di Avranches, chiedendo che gli fosse costruita una chiesa sulla roccia. Il vescovo ignorò per due volte la richiesta finché san Michele non gli praticò un foro rotondo nel cranio con il tocco del suo dito, lasciandolo tuttavia in vita. Il cranio di sant'Uberto con il foro è conservato nella cattedrale di Avranches. Sul Monte Pirchiriano, nel territorio del comune di Sant'Ambrogio di Torino, all'imbocco della Val di Susa, i Longobardi costruirono un'altra piccola edicola dedicata all'Arcangelo Michele, che successivamente nell'anno 986 divenne Abbazia, oggi denominata Sacra di San Michele. Se si osserva una cartina d'Europa, si noterà che Monte Sant'Angelo in Puglia, la Sacra di San Michele e Mont Saint-Michel sono quasi allineati, tanto da somigliare proprio all'arcangelo Michele che spiega le sue ali a protezione del continente europeo!
Fin dai tempi di Gesù, Michele era considerato l'angelo patrono del Popolo Ebraico. Per la sua caratteristica di guerriero celeste, invece, San Michele è considerato dai cristiani patrono degli spadaccini, dei maestri d’armi; dei doratori, dei commercianti, di tutti i mestieri che usano la bilancia, dei farmacisti, dei pasticcieri, dei droghieri, dei merciai, ma anche dei radiologi e della Polizia. La festa di San Michele Arcangelo ricorre (assieme a Gabriele e Raffaele) il 29 settembre, probabile data in cui ai tre arcangeli fu consacrata qualche antica chiesa. Nella liturgia bizantina invece Michele con gli altri due arcangeli è ricordato l'8 novembre. La sua iconografia è una delle più diffuse: ogni scuola pittorica, in Oriente e in Occidente, lo ha quasi sempre raffigurato armato, nell'atto di sconfiggere il demonio. San Michele viene solitamente rappresentato con in mano una lancia, un turibolo, un reliquiario o ancora con una bilancia con la quale pesa le anime dei defunti. Nel convento di Dionisio sul Monte Athos, che risale al 1547, i tre arcangeli sono raffigurati insieme, Raffaele in abito ecclesiastico, Michele da guerriero e Gabriele in abiti quotidiani: essi rappresentano così i poteri religioso, militare e civile.
Lotta
tra angeli
La visione vera e propria di
Daniele è preceduta dalla preparazione dell'eletto, le cui labbra sono di nuovo
abilitate a parlare dopo che il terrore dell'incontro con il divino lo ha fatto
ammutolire, e il cui corpo è rinvigorito perchè possa affrontare quest'esperienza
eccezionale:
« Mentre egli parlava con me in questa maniera, chinai la faccia a terra e ammutolii. Ed ecco uno con sembianze di uomo mi toccò le labbra: io aprii la bocca e parlai e dissi a colui che era in piedi davanti a me:
"Signor mio, nella visione i miei dolori sono tornati su di me e ho perduto tutte le energie. Come potrebbe questo servo del mio signore parlare con il mio signore, dal momento che non è rimasto in me alcun vigore e mi manca anche il
respiro?"
Allora di nuovo quella figura d'uomo mi toccò, mi rese le forze e mi disse:
"Non temere, uomo prediletto, pace a te, riprendi forza, rinfrancati." Mentre egli parlava con me, io mi sentii ritornare le forze e dissi:
"Parli il mio Signore perché tu mi hai ridato forza." » (Daniele 10,
15-19)
Il modello di questi cinque versetti è chiaramente la visione della corte celeste avuta da Isaia "nell'anno in cui morì il re Ozia":
« Dissi: "Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono
e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto
il Re, il Signore degli Eserciti."
Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle
dall'altare. Egli mi toccò la bocca e mi disse: "Ecco, questo ha toccato le tue labbra,
perciò è scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato."
» (Isaia 6, 5-6)
A partire dal versetto 20 inizia la rivelazione vera e propria, la quale, con linguaggio volutamente oscuro e apocalittico, intende riassumere tutti i dolori che Israele dovrà sopportare nei tumultuosi rivolgimenti politici del Medio Oriente:
« Allora mi disse: "Sai tu perché io sono venuto da te? Ora tornerò di nuovo a lottare con il principe di Persia, poi uscirò ed ecco verrà il principe di Grecia. Io ti dichiarerò ciò che è scritto nel libro della verità. Nessuno mi aiuta in questo se non Michele, il vostro principe, e io, nell'anno primo di Dario, mi tenni presso di lui per dargli rinforzo e sostegno" » (Daniele 10, 20-21.11, 1)
L'angelo apparso a Daniele dovrà ancora "lottare con il principe di Persia", cioè con l'intelligenza angelica protettrice di quel popolo, poiché la contesa tra Ebrei e Persiani non è ancora conclusa, eppure già si annuncia l'apertura di una nuova tensione con un altro popolo, quello di Grecia, cioè con l'ellenismo diffuso da Alessandro Magno e incarnato dal solito Antioco IV Epifane. L'unico a soccorrere Israele in questa apparentemente impari lotta sarà Michele, l'angelo custode del popolo giudaico. Si osservi questa importante concezione della storia, l'esito delle cui vicende non è dovuto all'azione degli uomini o a un puro e semplice meccanicismo, bensì dei "principi" angelici; essi sono lo strumento dell'azione divina nel mondo e, a loro volta, sono controllati da gerarchie angeliche superiori, come Michele. Così infatti ha affermato il Santo Papa Giovanni Paolo nell'Udienza Generale del 30 luglio 1986:
« Agli angeli è affidata una speciale cura e sollecitudine per gli uomini, per i quali presentano a Dio le loro domande e preghiere, come ci ricorda, ad esempio, il Libro di Tobia (cfr. specialmente Tobia 3,17 e 12,12), mentre il Salmo 90 proclama: "Egli ha dato ordine ai suoi angeli... di portarti sulle loro mani perché non inciampi nella pietra il tuo piede". Seguendo il Libro di Daniele si può affermare che i compiti degli angeli come ambasciatori del Dio vivo si estendono non solo ai singoli uomini e a coloro che hanno speciali compiti, ma anche a intere nazioni (cfr. Daniele 10,13-21). »
I
tre (?) re di Persia
Il discorso dell'angelo traccia un
grandioso quadro storico, tutto descritto con i verbi al futuro, poiché
l'Autore del testo si pone dal punto di vista di Daniele, la cui visione è
collocata verso la metà del VI secolo a.C. In pratica il capitolo 11 contiene la successione dei sovrani fino alla morte del re Antioco,
e si comincia con i sovrani persiani:
« Ed ora io ti manifesterò la verità. Ecco, vi saranno ancora tre re in Persia: poi il quarto acquisterà ricchezze superiori a tutti gli altri e dopo essersi reso potente con le ricchezze, muoverà con tutti i suoi contro il regno di Grecia. » (Daniele 11, 2)
Dato che la visione è ambientata "nel terzo anno di Ciro", i tre re di Persia qui nominati sono probabilmente lo stesso Ciro II, suo figlio Cambise II e suo genero Dario I. Il quarto re è allora Serse, del quale abbiamo parlato nel capitolo precedente, il quale tentò una sfortunata spedizione contro la Grecia, incassando le storiche sconfitte di Salamina e di Platea, dopo aver sconfitto i Trecento di Leonida alle Termopili e dopo aver inutilmente bruciato Atene. Alcuni però non sono convinti che la successione dei re persiani secondo Daniele sia questa, dato che il regno di Ciro il Grande è già in corso, e propongono quest'altra ricostruzione. Il primo dei tre sovrani sarebbe Cambise II (in persiano Kambūjia, di etimologia sconosciuta, forse elamita), figlio di Ciro il Grande, noto per la sua crudeltà: succeduto al padre nel 529 a.C., fece uccidere il fratello Bardiya (conosciuto anche con il nome greco di Smerdi), quindi nel 525 a.C. sconfisse l'ultimo faraone autoctono d'Egitto, Psammetico III della XXVI dinastia, ed annesse l'Egitto al suo impero. Cominciò allora a pensare a nuove grandiosi conquiste, dalla Nubia a Cartagine, ma durante la sua assenza un sacerdote di nome Gaumata approfittò dell'impopolarità di Cambise per impadronirsi del trono, proclamando di essere Bardiya redivivo. Cambise cercò di rientrare precipitosamente a Susa, ma morì in circostanze non del tutto chiare durante il viaggio nel marzo del 522 a.C. Il secondo dei tre re persiani citati da Daniele sarebbe allora Gaumata (il falso Bardiya). Dario, figlio di Istaspe e imparentato alla lontana con Ciro, in quel momento ricopriva il ruolo di ufficiale negli Immortali, la famosa guardia reale persiana; grazie all'appoggio di alcuni commilitoni uccise l'usurpatore nel settembre del 522 a.C. e si proclamò Re dei Re; questi sarebbe dunque il terzo dei re "previsti" da Daniele attraverso una profezia post-factum. Il quarto sarebbe comunque Serse.
Rovine del palazzo di Dario I a Persepoli
Altri invece, visto che nel versetto successivo si allude ad Alessandro Magno, propongono che colui che "muoverà con tutti i suoi contro il regno di Grecia" sia Dario III Codomano (336-330 a.C.), ultimo dei sovrani della dinastia Achemenide e testimone delle strepitose imprese belliche di Alessandro. Egli infatti radunò tutte le sue forze per opporsi all'avanzata del Re di Macedonia (evidentemente a questo allude il profeta con l'espressione "Re di Grecia", titolo affatto inesistente), ma gli andò buca, fu sconfitto a Gaugamela il 1 ottobre del 331 a.C. e l''impero persiano tramontò; dopo la parentesi ellenistica e partica, i persiani avrebbero ripreso il controllo del loro paese solo 555 anni dopo, nel 224 d.C., con la dinastia Sasanide, che non a caso si proclamò erede degli Achemenidi. Dario III è sicuramente più vicino cronologicamente di Dario I e di Serse all'autore del Libro di Daniele, ma allora si apre un altro problema: quali sono i "tre re in Persia" cui pensa l'autore? I Re dei Re achemenidi fra Ciro e Dario III sono infatti ben dieci, senza contare il falso Bardiya:
Difficile arguire a quali di questi re pensasse l'Autore; forse i più grandi e famosi, cioè Dario I, Serse I (secondo alcuni da identificare con l'Assuero del Libro di Ester) e Artaserse I, colui che lasciò partire Neemia per la terra dei suoi padri. Ma c'è anche chi pensa ad Artaserse III, con la motivazione che probabilmente è da identificarsi con lui il re chiamato "Nabucodonosor" nel Libro di Giuditta. Naturalmente c'è un'altra e più semplice spiegazione. Abbiamo già ripetuto più volte che l'Autore ha conoscenze molto approssimative dei secoli piuttosto lontani da lui; così come crede che Dario sia figlio di Serse e non viceversa, potrebbe pensare benissimo che fra Ciro II e Dario III i sovrani persiani siano solo tre.
La
successione dei sovrani ellenistici
Proseguiamo ora con la lettura del nostro
libro:
« Sorgerà quindi un re potente e valoroso, il quale dominerà sopra un grande impero e farà ciò che vuole » (Daniele 11, 3)
Ovviamente il re di cui si parla è Alessandro Magno. L'autore è informato abbastanza bene sulle vicende dell'impero nato dalle sue conquiste:
« Ma appena si sarà affermato, il suo regno verrà smembrato e diviso ai quattro venti del cielo, ma non fra i suoi discendenti né con la stessa forza che egli possedeva; il suo regno sarà infatti smembrato e dato ad altri anziché ai suoi discendenti. » (Daniele 11, 4)
Alla morte prematura del Macedone, il suo vasto dominio viene diviso in quattro parti ("dato ai quattro venti del cielo"), ma non tra i suoi discendenti: il figlio infante Alessandro IV e il fratellastro Filippo III Arrideo, come si è detto nel capitolo precedente, regnarono solo nominalmente e per breve tempo. Inoltre i suoi successori si rivelano "meno forti" del fondatore dell'ellenismo, giacché nessuno di essi riesce a prevalere sugli altri e a ricostruire l'unità del suo impero.
« Il re del mezzogiorno diverrà potente e uno dei suoi capitani sarà più forte di lui e il suo impero sarà grande. » (Daniele 11, 5)
Chi è il "re del mezzogiorno"? Non è difficile arguire che si tratta del generale che ha ereditato l'Egitto, cioè Tolomeo I. Il fatto che egli è detto "potente" allude probabilmente al fatto che, per quasi tutta la durata del III secolo a.C., il regno tolemaico conservò la preminenza tra tutti gli stati ellenistici, tanto da espandersi anche al di fuori dell'Egitto. Tolomeo deve però ben presto confrontarsi con uno dei suoi ufficiali, che diventa addirittura "più forte di lui". È quasi certo che il testo alluda a Seleuco I, il fondatore del regno ellenistico di Siria e tradizionale rivale dell'Egitto.
Moneta di Tolomeo I d'Egitto, circa 298 a.C. (da questo sito)
« Dopo qualche anno faranno alleanza e la figlia del re del mezzogiorno verrà al re del settentrione per fare la pace, ma non potrà mantenere la forza del suo braccio e non resisterà né lei né la sua discendenza e sarà condannata a morte insieme con i suoi seguaci, il figlio e il marito. » (Daniele 11, 6)
Ormai è chiaro: il capitolo 11 di Daniele descrive, con la tecnica della profezia post-factum, le lunghe lotte e alleanze tra le dinastie ellenistiche e le gesta dei loro sovrani. Se il "re del mezzogiorno" era quello d'Egitto, il "re del settentrione" sarà ovviamente quello di Siria. Nel versetto 6 si allude a un'alleanza tra tolomei e seleucidi; la "figlia del re del mezzogiorno" va identificata con Berenice, figlia di Tolomeo II d'Egitto, che sposa Antioco II Callinico, nipote di Tolomeo I, matrimonio del quale abbiamo già parlato commentando il famoso sogno della statua nel capitolo 2. La "figlia del del re del mezzogiorno" tuttavia non "conserverà la forza del suo braccio", tipica espressione semitica per indicare che non potrà mantenersi a lungo in situazione di potere, poiché Laodice, prima moglie di Antioco II ripudiata proprio per sposare Berenice, riuscirà ad eliminare sia l'ex marito, sia la nuova moglie, sia il figlioletto che essi avevano avuto, spianando la strada all'ascesa al trono di suo figlio Seleuco II.
« In quel tempo, da un germoglio delle sue radici sorgerà uno, al posto di costui, e verrà con un esercito e avanzerà contro le fortezze del re del settentrione, le assalirà e se ne impadronirà. » (Daniele 11, 7)
Dalla "radice", cioè da Tolomeo I, ecco fiorire un "germoglio" (immagine evidentemente ispirata dal celeberrimo "germoglio di Iesse" di Isaia 11, 1): si tratta di suo nipote Tolomeo III, che muove guerra al nuovo re del settentrione (di Siria), cioè Seleuco II. Quest'ultimo è pesantemente colpito:
« Condurrà in Egitto i loro dèi con le loro immagini e i loro preziosi oggetti d'oro e d'argento, come preda di guerra, poi per qualche anno si asterrà dal contendere con il re del settentrione. Questi muoverà contro il re del mezzogiorno, ma se ne ritornerà nel suo paese. » (Daniele 11, 8-9)
Moneta di Tolomeo III Evergete (da questo sito)
Secondo la maggior parte degli storici, con Tolomeo III (284–222 a.C.) detto l'Evergete ("il Benefattore") l'Egitto ellenistico raggiunse il culmine della sua potenza. Dopo che Antioco II di Siria ebbe ripudiato sua sorella Berenice, per ritorsione condusse contro di lui la cosiddetta Terza Guerra Siriaca, combattuta dal 246 al 241 a.C., e riportò una splendida vittoria, che gli consentì di controllare gran parte delle coste dell'Asia Minore e delle isole del Mar Egeo. Avendo inoltre sposato Berenice II, figlia di Magas di Cirenaica, quest'ultima gli portò in dote la regione, e l'Egitto tolemaico conobbe l'apice del proprio prestigio. In seguito, come riporta Dan 11, 9, Antioco II di Siria tentò una spedizione punitiva per riprendersi i territori sottrattigli da Tolomeo III, ma il suo tentativo abortì sul nascere. Secondo una nota leggenda, Berenice II aveva una chioma lunghissima e bellissima e, mentre suo marito Tolomeo era impegnato in quest'ultima guerra, promise di tagliarsela in segno di gratitudine verso gli dèi se il marito fosse tornato vittorioso. Quando Tolomeo tornò sano e salvo, Berenice mantenne la promessa, se la tagliò e la depose nel tempio di Afrodite a Zefirio, vicino alla moderna Assuan; la mattina dopo però le chiome erano scomparse. Conone di Samo, astronomo che lavorava ad Alessandria, affermò di aver visto la chioma della regina in cielo, vicino alla coda del Leone, e concluse che essa era stata assunta da Afrodite tra le costellazioni. Nacque così la leggenda della Chioma di Berenice, costellazione tuttora esistente, compresa tra il Leone, la Vergine e la stella Arturo.
Giustamente l'Autore del Libro di Daniele ricorda il grande bottino di guerra riportato in patria da Tolomeo III, simbolo del grande splendore del suo regno; grazie a queste ricchezze, l'Evergete iniziò la costruzione del tempio di Edfu, uno dei maggiori dell'Egitto. Dopo la sua morte però il regno tolemaico si avviò lentamente verso il suo tramonto. Sorgeva infatti l'astro di un altro grande sovrano ellenistico, stavolta di Siria:
« Poi suo figlio si preparerà alla guerra, raccogliendo una moltitudine di grandi eserciti, con i quali avanzerà come una inondazione: attraverserà il paese per attaccare di nuovo battaglia e giungere sino alla sua fortezza. » (Daniele 11, 10)
Antioco
III il Grande
Il "figlio" (di Seleuco II) è Antioco
III, che sarà detto il Grande, e a buon
diritto, perchè con lui la Siria divenne lo stato dominante tra quelli
ellenistici. Quando salì al trono nel 223 a.C., ereditò uno stato in pieno
caos: l'Asia Minore era stata conquistata dagli egiziani, la Partia si era resa
indipendente sotto Arsace I, fondatore della
dinastia degli Arsacidi che darà filo da torcere ai Romani, e in Battriana
(l'odierno Afghanistan) si era formato il Regno
Greco-Battriano per iniziativa del satrapo Diodoto. Quasi tutto il regno
di Antioco III trascorse tra una guerra e l'altra; dopo alcuni successi iniziali
Antioco III tentò la rivincita contro l'Egitto, ma Tolomeo IV gli inflisse una
dura sconfitta nella Battaglia di Raphia. Nel
racconto dell'Uomo Vestito di Lino ritroviamo precisa testimonianza di questo
rovescio militare:
« Il re del mezzogiorno, inasprito, uscirà per combattere con il re del settentrione, che si muoverà con un grande esercito, ma questo cadrà in potere del re del mezzogiorno, il quale dopo aver disfatto quell'esercito si gonfierà d'orgoglio, ma pur avendo abbattuto decine di migliaia, non per questo sarà più forte. » (Daniele 11, 11-12)
Tetradramma di Antioco III il Grande, circa 208 a.C. (da questo sito)
Si noti, nelle parole dell'angelo, il senso di provvisorietà della pur clamorosa vittoria ottenuta da Tolomeo IV. Infatti, riorganizzato il suo esercito dopo questa batosta, nel 216 a.C. Antioco III ottenne migliori risultati in Asia Minore e riuscì a conquistare Sardi; quindi ottenne il vassallaggio della Bitinia, di Pergamo, della Cappadocia e dell'Armenia. Nel 209 a.C. Antioco invase la Partia con successo, occupandone la capitale Ecatompilo, e tentò inutilmente di conquistare il Regno Greco-Battriano. Intanto, nel 204 a.C. il piccolo Tolomeo V Epifane era succeduto a suo padre sul trono egiziano, ed Antioco concluse un patto segreto con il re Filippo V di Macedonia per occupare la Cilicia, la Fenicia e la Palestina, promettendo al re macedone l'egemonia nell'Egeo. Scoppiò così una nuova sanguinosa guerra tra il "paese del settentrione" e quello "del mezzogiorno", durata dal 204 al 197 a.C., e così rievocata nel Libro di Daniele:
« Il re del settentrione di nuovo metterà insieme un grande esercito, più grande di quello di prima, e dopo qualche anno avanzerà con un grande esercito e con grande apparato. In quel tempo molti si alzeranno contro il re del mezzogiorno e uomini violenti del tuo popolo insorgeranno per adempiere la visione, ma cadranno. » (Daniele 11, 13-14)
Il risultato più importante di questa guerra fu l'occupazione seleucide della Palestina, fin qui dominata dagli egiziani: la vittoria di Antioco nella Battaglia di Panion, vicino alle sorgenti del Giordano, segnò la fine del dominio tolemaico in Giudea. A questo evento epocale, e gravido di conseguenze per gli Israeliti, Daniele allude con queste parole:
« Il re del settentrione verrà, costruirà terrapieni e occuperà una città ben fortificata. Le forze del mezzogiorno, con truppe scelte, non potranno resistere, mancherà loro la forza per opporre resistenza. L'invasore farà ciò che vuole e nessuno gli si potrà opporre; si stabilirà in quella magnifica terra e la distruzione sarà nelle sue mani. » (Daniele 11:15-16)
Quasi certamente la "città ben fortificata" è proprio Panion, porta d'accesso alla terra d'Israele. Le "forze del mezzogiorno", cioè quelle egiziane, sono travolte e costrette a ripiegare: una grande rivincita davvero, per i siriani. La "magnifica terra" (alcuni traducono "lo splendido paese" o "il paese glorioso") è naturalmente la Terrasanta, cui l'Autore del nostro libro guarda come alla propria patria prediletta. C'è qui l'eco di innumerevoli espressioni d'amore rivolte dagli Ebrei alla loro cara terra, come la « terra dove scorre latte e miele », espressione usata in ben 20 passi dell'Antico Testamento, di cui 15 nella Torah (tra gli altri, Esodo 3, 8, Levitico 20, 24, Numeri 13, 27, Deuteronomio 11, 9, Giosuè 5, 6 e Geremia 32, 22).
« Il Signore disse: "Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele." » (Esodo 3, 7-8a)
A questo punto Antioco III aveva ristabilito pressoché per intero la grandezza dell'Impero Seleucide, e sognò di restaurare anche l'impero di Alessandro Magno, puntando sull'Egitto, al cui controllo cercò di arrivare con il solito sistema del matrimonio dinastico:
« Quindi si proporrà di occupare tutto il regno del re del mezzogiorno, stipulerà un'alleanza con lui e gli darà sua figlia per rovinarlo, ma ciò non riuscirà e non raggiungerà il suo scopo. » (Daniele 11, 17)
Tetradramma di Tolomeo V Epifane (da questo sito)
Qui si allude alle nozze tra Cleopatra I Tea, figlia di Antioco III, e Tolomeo V d'Egitto, nozze che abbiamo già citato commentando il capitolo 2. Neanche questo progetto ebbe però successo. Allora il sovrano ellenistico rimandò il progetto di occupazione della Valle del Nilo e si volse verso un'altra direzione, come accennato in questo versetto:
« Poi volgerà le mire alle isole e ne prenderà molte, ma un comandante straniero farà cessare la sua arroganza, facendola ricadere sopra di lui. » (Daniele 11, 18)
Cosa sono "le isole"? Tale termine ricorre ben 30 volte nell'Antico Testamento, a partire dalla famosa "Tavola delle Genti" di Genesi 10:
« Da costoro derivarono le nazioni disperse per le isole nei loro territori, ciascuno secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie, nelle loro nazioni. » (Genesi 10, 5)
Nel linguaggio biblico, tale termine generico indica i territori costieri del Mediterraneo, abitati da popoli pagani. In tale senso lo ritroviamo ad esempio in questi quattro passi:
« I re di Tarsis e delle isole porteranno offerte,
i re degli Arabi e di Saba offriranno tributi. » (Salmo 71, 10)
« Voi in oriente, glorificate il Signore,
nelle isole del mare, il nome del Signore, Dio d'Israele. » (Isaia 24, 15)
« Ora le isole
tremano nel giorno della tua caduta,
le isole del mare sono spaventate per la tua fine. » (Ezechiele 26, 18)
« Terribile sarà il Signore con loro,
poiché annienterà tutti gli idoli della terra,
mentre a Lui si prostreranno, ognuno sul proprio suolo,
i popoli di tutte le isole. » (Sofonia 2, 11)
In particolare la promessa contenuta nei seguenti versetti del Secondo Isaia profetizza la conversione dei pagani alla fede in YHWH e, secondo i cristiani, a quella in Cristo:
« Proclamerà il diritto con fermezza; non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, e per la sua dottrina saranno in attesa le isole. » (Isaia 42, 3b-4)
Il versetto 18 del capitolo che stiamo leggendo indica quindi che Antioco III diresse le proprie mire verso la Grecia, altro fondamentale tassello dell'Impero di Alessandro. Ma chi è il "comandante straniero" che fece "cessare la sua arroganza"? L'Autore del nostro libro allude al fatto che il re siriano trovò nella potenza dei Romani un ostacolo insormontabile ai propri disegni di conquista. Infatti Antioco tentò di sottomettere le città greche indipendenti dell'Ellesponto e della Ionia, ma Smirne e Lampsaco chiesero aiuto alla potenza emergente di Roma. Sobillato dal fuggitivo Annibale che nel 196 a.C. si era rifugiato presso la sua corte, nel 192 a.C. Antioco invase la Grecia con 10.000 uomini, alleato con la Lega Etolica, ma nel 191 a.C. i Romani lo sconfissero alle Termopili e lo obbligarono a ripiegare in Asia. Nel dicembre del 190 a.C. infine Lucio Cornelio Scipione Asiatico, il "comandante straniero" cui allude l'Uomo Vestito di Lino, gli inflisse una rovinosa disfatta nella Battaglia di Magnesia, dopo che anche la flotta seleucide guidata da Annibale era stata sbaragliata alle foci dell'Eurimedonte. Con il Trattato di Apamea del 188 a.C. il re seleucide abbandonò tutti i suoi possedimenti a nord dei monti del Tauro, che Roma distribuì tra i suoi alleati, e fu anche costretto a inviare suo figlio, il futuro Antioco IV Epifane, come ostaggio a Roma. Come conseguenza della caduta della potenza seleucide, le province orientali recuperate da Antioco si ribellarono nuovamente; ed ecco cosa aggiunge l'angelo:
« Si volgerà poi verso le fortezze del proprio paese, ma inciamperà, cadrà, scomparirà. » (Daniele 11, 19)
Tetradramma di Seleuco IV Filopatore (da questo sito)
Antioco III tentò di domare le rivolte interne, ma morì il 3 luglio del 187 a.C. durante una spedizione nel Lorestan, e il regno passò nelle mani di suo figlio Seleuco IV Filopatore. È sicuramente a quest'ultimo che allude il versetto seguente:
« Sorgerà quindi al suo posto uno che manderà esattori nella terra perla del suo regno, ma in pochi giorni sarà stroncato, non nel furore di una rivolta né in battaglia. » (Daniele 11:20)
La "perla del suo regno" non può essere che Gerusalemme, considerata dagli Ebrei la più bella città della terra. Infatti Seleuco fu obbligato ad una pesante politica fiscale a causa dei problemi finanziari del suo regno, in buona parte dovuti alle riparazioni di guerra che doveva versare a Roma dopo la pace di Apamea del 188 a.C., e pensò anche di tassare i tesori del Tempio di Gerusalemme. Tale decisione è ricordata nel capitolo 3 del Secondo Libro dei Maccabei, nel quale Seleuco appare inizialmente amico del popolo giudaico, tanto da inviare lui stesso offerte al Tempio; dopo però che un certo Simone di Bilga, entrato in contrasto con il Sommo Sacerdote Onia, ha suggerito ai siriani di impossessarsi del tesoro del Tempio per pagare le riparazioni di guerra a Roma, Seleuco invia il suo incaricato d'affari Eliodoro a prelevare le ricchezze là depositate, infischiandosene dell'opposizione dei soldati e del popolo. Come va a finire lo sappiamo tutti, grazie alla fantasmagorica apparizione di un uomo a cavallo in armatura d'oro e di suoi servitori, che scacciano il funzionario siriano fuori dal Tempio: un episodio celeberrimo, che Raffaello ha ritratto in quella che oggi è appunto nota come Stanza di Eliodoro, nei Musei Vaticani.
L'avvento
del persecutore
La politica fiscale di Seleuco gli attirò
le antipatie di molti membri della corte, e così il sovrano venne assassinato
nel 175 a.C. Suo figlio Demetrio I Sotere era trattenuto a Roma come ostaggio, ed
allora ad impadronirsi del regno fu il fratello minore di Seleuco, il famigerato
Antioco IV Epifane. Tale usurpazione è così
rievocata dal libro di Daniele:
« Gli succederà poi un uomo abbietto, privo di dignità regale: verrà di nascosto e occuperà il regno con la frode. » (Daniele 11, 21)
L'odio dell'Autore verso questo ignobile persecutore dei Giudei, colpevoli solo di voler seguire le tradizioni patrie, è palpabile nei versetti successivi:
« Le forze armate saranno annientate davanti a lui e sarà stroncato anche il capo dell'alleanza. Non appena sarà stata stipulata un'alleanza con lui, egli agirà con la frode, crescerà e si consoliderà con poca gente. Entrerà di nascosto nei luoghi più fertili della provincia e farà cose che né i suoi padri né i padri dei suoi padri osarono fare; distribuirà alla sua gente preda, spoglie e ricchezze e ordirà progetti contro le fortezze, ma ciò fino ad un certo tempo. » (Daniele 11, 22-24)
Antioco IV consolida il suo potere riuscendo ad ottenere l'appoggio di alcuni circoli ebraici, quelli favorevoli ad adottare l'ellenismo (contro cui si scaglierà Mattatia, il patriarca dei Maccabei), ed elimina il "capo dell'alleanza", cioè il sommo sacerdote legittimo, Onia III, citato nel Secondo Libro dei Maccabei:
« Menelao, incontratosi in segreto con Andronìco, lo pregò di sopprimere Onia. Quegli, recatosi da Onia e ottenutane con inganno la fiducia, dandogli la destra con giuramento lo persuase, sebbene ancora guardato con sospetto, ad uscire dall'asilo e subito lo uccise senza alcun riguardo alla giustizia. » (2 Mac 4, 34)
Antioco IV non esita ad impossessarsi dei terreni più fertili della Giudea e di commettere delitti ed abominazioni di ogni genere, descritti in 1 Maccabei 1, 41-64; l'Autore sottolinea però fin da ora che il trionfo del persecutore è solo temporaneo ("ma ciò fino ad un certo tempo"). Inevitabile, di fronte a una politica tanto aggressiva, è il nuovo scontro con l'Egitto (il "mezzogiorno"):
« La sua potenza e il suo ardire lo spingeranno contro il re del mezzogiorno con un grande esercito e il re del mezzogiorno verrà a battaglia con un grande e potente esercito, ma non potrà resistere, perché si ordiranno congiure contro di lui: i suoi stessi commensali saranno causa della sua rovina; il suo esercito sarà travolto e molti cadranno uccisi. I due re non penseranno che a farsi del male a vicenda e seduti alla stessa tavola parleranno con finzione, ma senza riuscire nei reciproci intenti, perché li attenderà la fine, al tempo stabilito. » (Daniele 11:25-27)
Tetradramma di Tolomeo VI d'Egitto, circa 168 a.C. (da questo sito)
Dato che il consiglio di reggenza che governava l'Egitto in nome di Tolomeo VI Filometore, ancora ragazzo, chiedeva a gran voce la restituzione della Celesiria (la pianura della Beqā' nell'attuale Libano), nel 170 a.C. Antioco IV decise di attuare un attacco preventivo invadendo l'Egitto. Mal consigliato dai suoi ministri e reggenti (le "congiure" a cui allude Daniele), il quattordicenne Tolomeo VI fu pesantemente sconfitto e catturato da Antioco IV. Siccome però i Romani, che garantivano l'indipendenza dell'Egitto, minacciavano l'intervento militare, Antioco decise di non annettere il paese del Nilo ma di restaurare Tolomeo VI sul trono di Alessandria, sebbene come suo vassallo. Nelle parole dell'angelo sembra di assistere davvero al banchetto dei due re ellenistici che si guardano in cagnesco e, sotto il velo di parole accondiscendenti, tramano l'uno la rovina dell'altro! Così il Primo Libro dei Maccabei rievoca questa guerra:
« Quando il regno fu consolidato in mano di Antioco, egli volle conquistare l'Egitto per dominare due regni: entrò nell'Egitto con un esercito imponente, con carri ed elefanti, con la cavalleria e una grande flotta e venne a battaglia con Tolomeo re di Egitto. Tolomeo fu travolto davanti a lui e dovette fuggire e molti caddero colpiti a morte. Espugnarono le fortezze dell'Egitto e Antioco saccheggiò il paese di Egitto. Ritornò quindi Antioco dopo aver sconfitto l'Egitto nell'anno centoquarantatré, si diresse contro Israele e mosse contro Gerusalemme con forze ingenti. » (1 Mac 1, 16-20)
L'"anno centoquarantatré" dell'era seleucide è il 169 a.C. A questo punto Antioco fece ritorno in Siria passando per la Giudea, saccheggiò il Tempio di Gerusalemme e compì stragi indicibili:
« Egli ritornerà nel suo paese con grandi ricchezze e con in cuore l'avversione alla Santa Alleanza: agirà secondo i suoi piani e poi ritornerà nel suo paese. » (Daniele 11, 28)
La "Santa Alleanza" qui nominata riprende l'identica espressione usata due volte nell'epopea maccabaica:
« [Alcuni del popolo] si allontanarono dalla
Santa Alleanza; si unirono alle nazioni pagane e si vendettero per fare il male
» (1 Mac 1, 15)
« [Molti] preferirono morire pur di non contaminarsi con quei cibi e non disonorare la
Santa Alleanza; così appunto morirono » (1 Mac 1, 63)
Tale termine indica la comunità dei Giudei che si è mantenuta fedele a YHWH, conservando intatta l'Alleanza stretta da Dio con Mosè sull'Oreb, e non rinunciando al simbolo principale di tale alleanza, la circoncisione (secondo 1 Mac 1, 60 le donne sorprese a circoncidere i propri figli erano passibili della pena capitale). L'ostilità di Antioco IV per le secolari tradizioni e per la religione di Israele è descritta, sia dal Libro di Daniele che dai due Libri dei Maccabei, con connotazioni quasi patologiche, come se tanto accanimento fosse effetto di una sorta di sadismo schizofrenico.
Mentre Antioco, raffigurato dall'Uomo Vestito di Lino come una sorta di orco o di Green Goblin, si abbandonava alle persecuzioni in Giudea, assolutamente controproducenti perchè non gli garantivano certo la fedeltà di una provincia chiave nello scacchiere mediorientale, gli eventi in Egitto precipitavano. Infatti, durante l'assenza di Antioco, ad Alessandria gli egiziani rifiutarono di obbedire a Tolomeo VI, considerato un fantoccio dei siriani, ed elessero invece come sovrano suo fratello Tolomeo VIII Fiscone ("il grassone"). Non volendo scatenare una guerra civile, i due fratelli raggiunsero un accordo e decisero di regnare insieme. E così Antioco nel 168 a.C. fu costretto ad invadere nuovamente l'Egitto:
« Al tempo determinato verrà di nuovo contro il paese del mezzogiorno, ma quest'ultima impresa non riuscirà come la prima. Verranno contro lui navi dei Kittìm ed egli si sentirà scoraggiato e tornerà indietro. » (Daniele 11, 29-30a)
Tetradramma di Tolomeo VIII Fiscone (da questo sito)
Perchè la seconda impresa bellica di Antioco IV contro l'Egitto "non riuscì come la prima"? Tanto per cominciare, egli inviò la sua flotta a conquistare Cipro ("Kittim" in ebraico, cfr. Gen 10, 4), ma l'impresa si rivelò faticosa e fin troppo dispendiosa. Inoltre, mentre marciava su Alessandria, poco fuori dalla città Antioco incontrò una delegazione del Senato Romano guidata da Gaio Popilio Lenate, che gli intimò di lasciare immediatamente l'Egitto e Cipro. Quando Antioco cercò di menare il can per l'aia, sostenendo che avrebbe dovuto discuterne con i suoi consiglieri, secondo quanto ci racconta Tito Livio (Storie, XLV, 12), Lenate disegnò un cerchio sulla sabbia intorno al re di Siria e gli ribatté a muso duro: "Se uscirai da questo cerchio senza prima aver ordinato la ritirata, potrai considerarti immediatamente in guerra con Roma!" Memore della batosta incassata da suo padre Antioco III a Magnesia, l'Epifane fu costretto a far buon viso a cattivo gioco e a ritirare le proprie truppe dal Delta del Nilo. A questo punto il Libro di Daniele afferma che egli sfogò la sua terribile ira proprio contro la Giudea:
« Si volgerà infuriato e agirà contro la Santa Alleanza, e nel suo ritorno se la intenderà con coloro che avranno abbandonato la Santa Alleanza. Forze da lui armate si muoveranno a profanare il santuario della cittadella, aboliranno il sacrificio quotidiano e vi metteranno l'abominio della desolazione. » (Daniele 11, 30b-31)
La
persecuzione antiochea
Riecco l'Abominio della Desolazione"
da noi già citato in Daniele 9, 27. Qui
sono riassunti i principali misfatti compiuti dall'Epifane nel corso della sua
tremenda persecuzione: egli profana il Santuario di YHWH, ne sospende il culto
abolendo il sacrificio quotidiano e lo sostituisce con l'adorazione della statua
di Zeus, il peggior insulto che egli avrebbe potuto fare al Dio d'Israele. E non
basta ancora:
« Con lusinghe egli sedurrà coloro che avranno apostatato dall'Alleanza, ma quanti riconoscono il proprio Dio si fortificheranno e agiranno. I più saggi tra il popolo ammaestreranno molti, ma cadranno di spada, saranno dati alle fiamme, condotti in schiavitù e saccheggiati per molti giorni. Mentre così cadranno, riceveranno un po' di aiuto: molti però si uniranno a loro ma senza sincerità. Alcuni saggi cadranno perché fra di loro ve ne siano di quelli purificati, lavati, resi candidi fino al tempo della fine, che dovrà venire al tempo stabilito. » (Daniele 11, 32-35)
Viene qui profetizzato (anche se in realtà post factum) che molti Giudei tradiranno la fede dei loro padri, ma coloro che resteranno fedeli ad essa "agiranno con forza", evidente riferimento (senza mai nominarla) alla ribellione dei Maccabei. In pratica il versetto 32 descrive i due partiti sorti nel giudaismo di fronte alla persecuzione di Antioco IV: i collaborazionisti, che non esiteranno ad apostatare sacrificando agli idoli e mangiando carne di maiale, e gli oppositori, pronti alla lotta armata. I "più saggi del popolo" sono i dottori della Legge, i quali non tradiscono gli insegnamenti di Mosè ed "ammaestrano molti", insegnando al popolo che la persecuzione non è dovuta a un capriccio divino, ma alla punizione dei peccati come mezzo di purificazione e di espiazione. Siccome questo è anche il nocciolo dell'insegnamento dell'opera che stiamo leggendo insieme, non è difficile pensare che proprio uno di questi "saggi tra il popolo" sia l'autore (o perlomeno il redattore finale) del Libro di Daniele. I saggi e i dottori della Legge sono disposti ad affrontare anche il martirio pur di difendere le loro convinzioni; e l'Autore, che probabilmente ha perso molti suoi amici in questa persecuzione, si attarda ad enumerare tristemente i supplizi cui essi sono stati sottoposti: la decapitazione, il rogo, la schiavitù, la confisca dei beni, l'esilio. Torna qui in mente il martirio del vecchio scriba Eleazaro, descritto in 2 Mac 6, 18-31. Si noti come l'Autore del nostro libro si preoccupa moltissimo di spiegare ai suoi lettori perchè il Signore ha permesso che questi innocenti morissero come Eleazaro: il martirio li purificherà e li "renderà candidi fino al tempo della fine" (quest'immagine ritornerà nella moltitudine dei giusti apparsi a San Giovanni in Apocalisse 7, 10-11, tutti « avvolti in vesti candide »). Proprio questo riferimento continuo "al tempo della fine" fa di Daniele il capostipite dei libri apocalittici!
« Il re dunque farà ciò che vuole, s'innalzerà, si magnificherà sopra ogni dio e proferirà cose inaudite contro il Dio degli dèi e avrà successo finché non sarà colma l'ira; poiché ciò che è stato determinato si compirà. Egli non si curerà neppure delle divinità dei suoi padri né del dio amato dalle donne, né di altro dio, poiché egli si esalterà sopra tutti. » (Daniele 11, 36-37)
Si osservi con quanta insistenza l'Autore, per bocca dell'Uomo Vestito di Lino, ritorna sulla politica religiosa di Antioco IV Epifane, della cui persecuzione è stato certamente testimone oculare, e forse anche vittima. La sua blasfemia arriva al punto da arrogarsi titoli divini e da disprezzare persino le deità dei suoi avi: cosa inaudita per il pio ebreo, il cui attaccamento all'antica Alleanza era parte integrante della sua stessa identità nazionale. A quali dei allude l'Autore? I Seleucidi adoravano in particolar modo Apollo, che con un suo vaticinio avrebbe predetto l'ascesa al trono di Seleuco I, loro capostipite. Il "dio amato dalle donne" cui qui si allude è probabilmente Adone, una divinità di origine semitica (il suo nome somiglia moltissimo all'ebraico Adonai, "Signore", nome utilizzato dai Giudei al posto del tetragramma YHWH, impronunciabile dai devoti). Di lui scrive l'antropologo scozzese James Frazer (1854-1941) nella sua monumentale opera "Il ramo d'oro", dedicata alla magia e ai culti misterici:
« Il culto di Adone fu praticato dalle genti semitiche di Babilonia e Siria, e i Greci lo presero da loro agli inizi del settimo secolo avanti Cristo. Il vero nome della divinità era Tammuz. […] Nella letteratura religiosa babilonese egli appare come il giovane amante di Ishtar, la grande dea madre, incarnazione delle energie riproduttive della natura. »
Hendrick Goltzius (1558-1617), "Venere e Adone", 1614, Pinacoteca di Monaco
Si pensa che l'Adone greco sia da identificare, oltre con il mesopotamico Tammuz, anche con il sumerico Dumuzi, con l'egiziano Osiride, con il fenicio Baal, con l'etrusco Atunnis e con il frigio Attis, tutte divinità legate alla rinascita e alla vegetazione. Alla fine dell'estate in tutto il Vicino Oriente veniva celebrato un periodo di lutto di sei giorni, poiché i Babilonesi ritenevano che l'accorciarsi delle giornate e l'attenuarsi della calura estiva coincidesse con la "morte" del dio, e per questo gli celebravano un "funerale" simbolico. In Grecia, la morte del dio veniva attribuita ad un cinghiale aizzatogli contro da Ares, dopo che sua moglie Afrodite si era pazzamente invaghita del bellissimo giovane. Il periodo di lutto per Adone veniva osservato persino dinanzi al Tempio di Gerusalemme, suscitando la reazione scandalizzata del profeta Ezechiele:
« [Iddio] mi condusse all'ingresso del portico della Casa del Signore che guarda a settentrione, e vidi donne sedute che piangevano Tammuz. Mi disse: "Hai visto, figlio dell'uomo? Vedrai abomini peggiori di questi." » (Ezechiele 8, 14-15)
Non è un caso che siano delle donne a piangere Adone/Tammuz: poiché personificava la fecondità, erano soprattutto le donne a venerarlo. Alcuni nel testo di Daniele 11, 37 leggono "l'amata dalle donne", poiché la figura di Adone era a tutti gli effetti androgina. La fortuna di questo mito è tale, che ancora nel 1623 il napoletano Giovambattista Marino (1569-1625), capofila della poesia barocca, gli dedicò un poema in ottave, "L'Adone", che con oltre 40.000 versi è uno dei poemi più lunghi della letteratura italiana:
« Dettami tu [Venere] del giovinetto amato
le venture e le glorie alte e superbe;
qual teco in prima visse, indi qual fato
l'estinse e tinse del suo sangue l'erbe.
E tu m'insegna del tuo cor piagato
a dir le pene dolcemente acerbe
e le dolci querele e 'l dolce pianto;
e tu de' cigni tuoi m'impetra il canto. » (Adone I, vv. 15-21)
Antioco invece, al posto di Apollo e di Adone, introduce nel suo regno il culto di una diversa divinità, indicata con un'insolita perifrasi:
« Onorerà invece il dio delle fortezze: onorerà, con oro e argento, con gemme e con cose preziose, un dio che i suoi padri non hanno mai conosciuto. Nel nome di quel dio straniero attaccherà le fortezze e colmerà di onori coloro che lo riconosceranno: darà loro il potere su molti e distribuirà loro terre in ricompensa. » (Daniele 11, 38-39)
Il "dio delle fortezze" probabilmente è da identificarsi con Zeus, al quale come ci dicono gli storici egli riservò onori straordinari, dedicandogli templi e distribuendo favori a quanti lo veneravano ("darà loro il potere su molti e distribuirà loro terre in ricompensa"); pochi dubbi che l'"Abominio della Desolazione" di Daniele 11, 31 fosse proprio la statua di Zeus con cui l'Epifane aveva profanato l'altare del Tempio di Gerusalemme. L'Autore tuttavia si premura di ricordare che l'Epifane « avrà successo finché non sarà colma l'ira », cioè finché la collera di YHWH nei confronti dei peccati del Suo popolo non avrà fine grazie a penitenze e pentimenti da parte dei Giudei perseguitati. Pare qui di risentire la voce dell'Autore del Secondo Libro dei Maccabei:
« Io prego coloro che avranno in mano questo libro di non turbarsi per queste disgrazie e di considerare che i castighi non vengono per la distruzione ma per la correzione del nostro popolo. E veramente il fatto che agli empi è data libertà per poco tempo, e subito incappano nei castighi, è segno di grande benevolenza. Poiché il Signore non si propone di agire con noi come fa con gli altri popoli, attendendo pazientemente il tempo di punirli, quando siano giunti al colmo dei loro peccati; e questo per non dovere alla fine punirci quando fossimo giunti all'estremo delle nostre colpe. Perciò egli non ci toglie mai la sua misericordia, ma, correggendoci con le sventure, non abbandona il suo popolo. » (2 Maccabei 6, 12-16)
Quattro
versetti misteriosi
Quanto segue è sicuramente uno dei passi
più oscuri dell'intero Libro di Daniele, e vale la pena di leggerlo con
continuità:
« Al tempo della fine il re del mezzogiorno si scontrerà con lui e il re del settentrione gli piomberà addosso, come turbine, con carri, con cavalieri e molte navi; entrerà nel suo territorio invadendolo. Entrerà anche in quella magnifica terra e molti paesi soccomberanno. Questi però scamperanno dalla sua mano: Edom, Moab e gran parte degli Ammoniti. Metterà così la mano su molti paesi; neppure l'Egitto scamperà. S'impadronirà di tesori d'oro e d'argento e di tutte le cose preziose d'Egitto: i Libi e gli Etiopi saranno al suo seguito. » (Daniele 11, 40-43)
Fino a questo punto abbiamo sviscerato profezie post factum, che agli occhi del lettore di età maccabaica si erano tutte realizzate, ma a partire dal versetto 40 non è più così. Tanto per cominciare, l'Autore parla di "tempo della fine". Potrebbe trattarsi della fine della persecuzione, dato che il breve ed oscuro brano si concluderà al versetto 45 con la morte di Antioco IV Epifane. Qui si annunciano altre guerre che il Re di Siria dovrà combattere dopo la tremenda persecuzione religiosa in Gerusalemme, cioè dopo il 169 a.C.: il sovrano d'Egitto inizierà una nuova guerra contro la Siria, ma il "re del settentrione" Antioco gli piomberà addosso con una manovra fulminea (noi diremmo un "blitzkrieg", una "guerra lampo"), occuperà anche la Terrasanta, "quella magnifica terra", ma non i paesi vicini, quelli degli Idumei, dei Moabiti e degli Ammoniti (i primi vivevano a sud della Palestina, gli altri ad est oltre il Giordano). "Neppure l'Egitto scamperà", e dal paese del Nilo verrà sottratto un grande bottino, grazie all'alleanza di Antioco con due nemici storici degli Egiziani, i Libici e i Nubiani. Ma nulla di tutto questo può essere correlato a eventi storici attestati dalle fonti coeve: durante il regno dell'Epifane non si ha notizia di un simile conflitto globale dopo l'ultima spedizione di Antioco in Egitto, quella cui pose fine Gaio Popilio Lenate. Del resto, non sarebbe stato facile per l'Egitto iniziare una nuova guerra contro la Siria: nel 164 a.C. tra i due fratelli Tolomeo VI Filometore e Tolomeo VIII Fiscone scoppiò infatti la guerra civile e il primo fu scacciato dal trono, ma tornò l'anno successivo con l'appoggio dei Romani, e cedette al fratello Cirene e la Libia. Anche se alla fine il Filometore ce la fece a consolidare il suo dominio sull'Egitto, in quel periodo non era in grado di minacciare seriamente la Siria. Anche Antioco era nella stessa situazione: aveva le casse vuote e un così grande bisogno di denaro che egli dovette schierare la metà del suo esercito per depredare i ricchi templi dell'Elimaide, mentre l'altra metà, al comando di Lisia, era tenuta in scacco dalla ribellione dei Maccabei, dunque difficilmente avrebbe potuto far sì che "molti paesi soccombessero". San Girolamo (347-420), nel suo Commento a Daniele, cita il filosofo siriano Porfirio (234-305), che riferisce di una spedizione di Antioco IV contro l'Egitto nell'undicesimo anno del suo regno: questo tuttavia è stato anche l'anno della sua spedizione contro l'Elimaide e della sua morte. Gli storici moderni giudicano impossibile che Antioco all'inizio dell'anno 164 a.C. abbia intrapreso una spedizione in Egitto come quella descritta da Porfirio, spedizione che peraltro avrebbe causato la rabbiosa reazione dei Romani ormai egemoni nel Mediterraneo, e che nell'estate successiva abbia avuto anche il tempo di marciare sull'Elimaide e sull'Armenia. E allora?
Sono state proposte, negli anni, diverse soluzioni di questo rebus, una più fantasiosa dell'altra, ma nessuna convincente sino in fondo. Secondo alcuni qui con la locuzione "re del settentrione" si intende non Antioco, ma il suo generale e rappresentante Lisia, del quale il Primo Libro dei Maccabei dice:
« Lasciò Lisia, uomo illustre e di stirpe regia, alla direzione degli affari del re dall'Eufrate fino ai confini dell'Egitto. » (1 Mac 3, 32)
In qualità di comandante in capo dell'armata siriana sul fronte orientale, Lisia avrebbe potuto rintuzzare delle scorrerie in Palestina da parte degli egiziani, desiderosi di riprendersi la loro antica provincia, e muovere al contrattacco al di là del confine; ma il testo di Daniele sembra parlare di un conflitto devastante e totale, non di un paio di scaramucce. Inoltre le nostre fonti coeve, cioè Polibio, Tito Livio, i Libri dei Maccabei e Giuseppe Flavio, non parlano di alcuna spedizione pianificata o tentata contro Antioco Epifane da parte dell'Egitto. È vero che le opere di Polibio e in misura ancora maggiore di Livio ci sono pervenute in maniera frammentaria, ma appare difficile che tanti storiografi così vicini cronologicamente a questa presunta spedizione egiziana contro la Siria, con la conseguente risposta seleucide, possano aver tralasciato di nominarla nei loro scritti.
Arciere a cavallo, arte partica, Palazzo Madama a Torino
Un'altra scuola di pensiero sostiene che tale spedizione non fu condotta contro l'Egitto, ma contro i Parti o contro l'Elimaide. Effettivamente, dopo essere stato costretto a recedere dal proposito di annettere l'Egitto, Antioco IV pensò di espandere il proprio regno in una direzione nella quale i Romani non avrebbero potuto ostacolarlo, e cioè verso la Persia, dove era in ascesa la potenza dei Parti. Questo popolo iranico abitava a sudest del Mar Caspio, e il loro capo Arsace I (238-211 a.C.) approfittò delle guerre dei Seleucidi contro i Tolomei che abbiamo fin qui descritto per rendersi indipendente dalla Siria nel 238 a.C. Come si è detto sopra, Antioco III il Grande lanciò una massiccia campagna per riconquistare la Partia, ma fallì nel suo intento e fu costretto a negoziare un accordo di pace con Arsace II (211-191 a.C.), figlio di Arsace I, cui riconobbe il titolo di re in cambio del giuramento di vassallaggio. In seguito alle conseguenze della sconfitta seleucide a Magnesia nel 190 a.C., il nuovo re dei Parti Fraate I (176–171 a.C.) governò la Partia senza alcuna interferenza da parte seleucide. Ma la più vasta espansione territoriale dell'Impero Partico avvenne durante il regno di suo fratello e successore Mitridate I (171–138 a.C.), che arrivò conquistare la Media nel 147 a.C. e Babilonia nel 141 a.C., riducendo praticamente il regno Seleucide alla sola Siria. Proprio contro Mitridate I, da poco salito al trono di Partia, Antioco IV volse i propri eserciti poco prima di morire, e quindi è possibile che si sia trattato di un errore di un copista, il quale avrebbe sostituito "Egitto" a "Partia". Nel frattempo ad entrare "in quella magnifica terra" che era Israele sarebbe stato Lisia, non Antioco. Un'ipotesi suggestiva, ma contraddetta dal fatto che l'Epifane non ottenne nessuna clamorosa vittoria contro i Parti; inoltre, la menzione di "Libi ed Etiopi" fa pensare che non si è trattato di un lapsus, ma che l'Autore intendesse riferirsi proprio all'Egitto. Resta in piedi la possibilità che l'Autore abbia volontariamente "spostato" l'ultima campagna di guerra di Antioco dall'Oriente partico all'Egitto tolemaico, sostituendo ad esempio popoli come i Medi e gli Ircani con i Libici e i Nubiani, ma questo ci conduce alla terza ipotesi che è stata messa in campo per interpretare Dan 11, 40-45.
L'orientalista Anthony Ashley Bevan (1859-1933) nel suo Commento a Daniele del 1893 pensava infatti che questi versetti contengano non fatti realmente accaduti, come tutto il resto del capitolo, bensì le aspettative dell'Autore, il quale desiderava vedere Antioco vittorioso un'ultima volta contro gli Egiziani, e di conseguenza contro i Romani, allo scopo di mostrare come YHWH avrebbe poi atterrato con grande facilità anche il più grande guerriero del mondo, emulo di Alessandro Magno, vendicando in tal modo con un intervento clamoroso tutte le vittime della persecuzione cui aveva assistito. In questo senso la spedizione in Egitto sarebbe stata "inventata", oppure "spostata" dalla Partia o dall'Elimaide verso occidente, per rendere più completa l'apparente vittoria militare di Antioco su questa terra, e quindi più tremenda la sua punizione da parte del Signore riportata nel versetto 45 ("giungerà alla fine e nessuno verrà in suo aiuto"). Così scrive in proposito don Claudio Doglio, biblista e parroco di Sant'Ambrogio a Varazze (SV), nelle sue Conversazioni Bibliche:
« Il nostro libro fin qui ha descritto la storia, l'ha immaginata come futura, ma è una storia già avvenuta. Gli ultimi versetti del capitolo invece non descrivono più la storia, ma annunciano quello che si aspettano che cambi. Qui finisce la profezia come lettura storica e comincia l'autentica profezia: "Al tempo della fine", perché nel momento in cui viene scritto il libro è il tempo della fine. Che cosa ha descritto? Conquisterà, conquisterà… ma alla fine morirà. »
L'Autore insomma qui avrebbe realizzato un'"ucronia", cioè una "storia alternativa", ben conscio del fatto che le cose erano andate in maniera ben diversa. Se però fosse così, a mio modesto avviso i lettori del libro contemporanei dei fatti narrati avrebbero trovato ingiustificabile una deformazione così sostanziale degli eventi storici a cui avevano assistito di persona, ed avrebbero giudicato menzognera quella che si presentava a tutti gli effetti come una profezia. In altre parole, Daniele avrebbe perso ogni credibilità come profeta, avendo sbagliato in modo così clamoroso a prevedere la fine del regno di Antioco con quasi 400 anni di anticipo, e ben difficilmente avrebbe riscosso l'incredibile successo che effettivamente ha avuto, tanto da venire inserito fra i quattro "Profeti Maggiori".
Altri estremi tentativi di salvare capra e cavoli, cioè la credibilità di Daniele come "profeta" e la precisione storiografica dell'Autore del Libro, chiamano in causa eventi cronologicamente più lontani, e per questo sempre più improbabili per l'esegesi di 11, 40-43. Secondo alcuni tali enigmatici versetti adombrano la Battaglia di Antiochia di Siria, combattuta nel 145 a.C., e quindi 19 anni dopo la morte di Antioco IV. In essa si affrontarono il sovrano seleucide Alessandro I Bala e il re egiziano Tolomeo VI Filometore (quest'ultimo sosteneva la pretesa al trono di Siria di Demetrio II, cui aveva persino dato in moglie la propria figlia Cleopatra Tea); vinse Tolomeo, ma morì per le ferite riportate nello scontro, mentre Alessandro Bala fu assassinato dal sovrano dei Nabatei, popolo presso il quale aveva cercato rifugio. Di questo evento si parla nel capitolo 11 del Primo Libro dei Maccabei:
« Tolomeo entrò in Antiochia e cinse la corona dell'Asia; si pose in capo due corone, quella dell'Egitto e quella dell'Asia. Alessandro in quel frattempo era in Cilicia, perché si erano sollevati gli abitanti di quelle province. Appena seppe la cosa, Alessandro venne contro di lui per combatterlo. Tolomeo condusse l'esercito contro di lui e gli andò incontro con forze ingenti e lo sconfisse. Alessandro fuggì in Arabia per trovarvi scampo e il re Tolomeo trionfò. L'arabo Zabdiel tagliò la testa ad Alessandro e la mandò a Tolomeo. Ma anche il re Tolomeo morì tre giorni dopo e quelli che egli aveva lasciato nelle fortezze furono sopraffatti da altri che si trovavano sulle fortezze stesse. Così Demetrio divenne re nell'anno centosessantasette. » (1Maccabei 11, 13-19)
Tetradramma di Alessandro I Balas, circa 150 a.C. (da questo sito)
Effettivamente si tratta dell'ultimo grande scontro militare tra egiziani e siriani; è vero però che si tratta anche di un evento estremamente posteriore agli altri narrati nel capitolo 11, e in particolare alla persecuzione di Antioco IV. In questo caso si tratterebbe di un'interpolazione da parte di un copista posteriore, che avrebbe inteso comprendere nelle profezie di Daniele anche fatti a lui contemporanei, come appunto le vicende di Gionata Maccabeo al tempo delle complesse lotte dinastiche per il trono di Siria. Bisogna però tenere conto del fatto che la battaglia di Antiochia segnò la fine del regno di entrambi i sovrani, sia quello egiziano che quello siriano, e Alessandro Bala non riportò alcuna preda di guerra, anzi fu costretto alla fuga. L'unica cosa che questo sovrano, usurpatore e sedicente figlio di Antioco IV, avrebbe in comune con il presunto padre sarebbe proprio la morte lontano dalla sua capitale, ma è un po' poco per identificare in lui il "re del settentrione" del versetto 40.
Una
profezia a più mani
Vi è anche chi propone una diversa
lettura di quest'ultimo versetto. Fino a questo punto con "il re
del mezzogiorno" si era inteso il sovrano d'Egitto, e con "il re del
settentrione" lo stesso sovrano di Siria. Quando però leggiamo che "il re del mezzogiorno si scontrerà con lui e il re del settentrione gli piomberà addosso",
quel "lui" potrebbe essere Antioco IV, e quindi "il re del settentrione" non
indicherebbe l'Epifane, bensì il sovrano di un'altra nazione settentrionale.
Secondo quanti propongono questa interpretazione, nei misteriosi versetti che
stiamo esaminando sarebbe descritta una manovra a tenaglia contro il regno di Siria
condotta da un'alleanza composta dai Tolomei d'Egitto e da qualche altro
stato ellenistico sorto a nord della Siria: Pergamo, la
Bitinia, la Cappadocia,
l'Armenia, forse la Partia.
Naturalmente Gerusalemme si sarebbe trovata nel bel mezzo della contesa, ed
avrebbe conosciuto giorni bui. Anche di una simile coalizione però non vi è
traccia nelle fonti extrabibliche, e chi sostiene quest'ipotesi è costretto ad
immaginare che la registrazione di tale conflitto sia andato perduto in tutte le
fonti; come si è già detto, è una possibilità piuttosto difficile da
sostenere, considerando la risonanza di quella che sarebbe potuta essere
l'equivalente di una "guerra mondiale" dell'antichità ellenistica!
Il biblista tedesco Carl Friedrich Keil (1807-1888), nel suo "Biblischer Commentar über den Propheten Daniel" (1869), cambia decisamente prospettiva. Il "tempo della fine" cui allude il versetto 40 non parlerebbe della fine del regno di Antioco, ma della fine dei tempi, come sembreremmo autorizzati a pensare leggendo il successivo capitolo 12, che non è una sezione separata del nostro Libro, ma è la continuazione delle "profezie" dell'Uomo Vestito di Lino, a dispetto del fatto che in epoca antica sia stato stralciato in un capitolo a parte per il suo contenuto non storico bensì escatologico. In tal caso, il " re del settentrione" non sarebbe Antioco IV, bensì l'Anticristo in persona, e l'ingresso nella nuova era del Tempo Messianico coinciderebbe con la caduta di Antioco, portando con sé il sorgere di Michele, "il Gran Principe", la risurrezione della carne e la fine del mondo. Ma, leggendo bene il testo di Daniele 11, Michele a questo punto non si è ancora levato ad annunciare l'Armageddon (mi sia consentito di prendere in prestito questo termine dall'Apocalisse di Giovanni), e la descrizione degli eventi bellici dei versetti 40-43 sembra piuttosto in continuità storica con i fatti storici "profetizzati" nei versetti precedenti. In altre parole, si direbbe che tali versetti abbiano la pretesa di rappresentare il resoconto di una vera e propria spedizione intrapresa dall' Epifane contro Tolomeo (presumibilmente il Filometore), resoconto che vuole essere altrettanto credibile di tutto quanto è stato narrato nel resto del capitolo 11. Qui si parla di battaglie, di carri, di navi, di prede di guerra, non di uno scontro escatologico fra il Cristo e l'Anticristo, e per di più prima che Antioco IV passi fra i più per ricevere il giusto castigo nell'oltretomba, abbandonato da tutti come un cane. Il lettore, sia quello del II secolo a.C. sia quello dei nostri anni duemila, è restio a dare una interpretazione escatologica di questo racconto, preferendo cercare eventi storici realmente accaduti che combacino con tale profezia, così come stiamo facendo noi da diversi paragrafi a questa parte. Neanche tale scappatoia appare dunque convincente. Ciò però non toglie che molti commentatori di Daniele di confessione protestante siano rimasti affascinati da una simile proposta; tra questi va citato il teologo battista inglese John Gill (1697-1771), secondo il quale il "re del mezzogiorno" è il Califfo dell'Islam, il "re del settentrione" è il Sultano degli Ottomani, ed entrambi muovono guerra all'unico vero Anticristo, che naturalmente Gill identifica con il Papa di Roma. Questa ipotesi sottintende ovviamente che tutte le profezie riportate nel Libro di Daniele siano "autentiche" profezie attribuite allo stesso Daniele, che egli vide effettivamente nel futuro prevedendo tutta la successione dei sovrani ellenistici con precisione sorprendente, assai superiore a quella di Nostradamus, e che dal VI secolo a.C. egli abbia spinto il suo sguardo in avanti molto oltre la morte di Antioco IV, prevedendo addirittura la corruzione del papato romano e la Riforma Protestante, oltre all'arrivo degli Arabi da sud e dei Turchi da nord. Una concezione in linea con una lettura letterale del testo biblico, ma che abbiamo visto essere molto lontana dall'esegesi che noi abbiamo tentato del Libro di Daniele. Se tutte, dico tutte le precedenti erano profezie post factum, non si vede perchè non debbano esserlo anche queste; ed allora Papi, Arabi e Turchi c'entrano quanto c'entravano gli Stati Uniti d'America e l'Unione Europea con la famosa statua sognata da Nabucodonosor.
E allora? Come dobbiamo interpretare quei benedetti versetti? Un suggerimento ce lo può dare l'esegeta tedesco Ferdinand Hitzig (1807-1875) nel suo "Das buch Daniel" (1850). Egli sostiene che questi strani versetti rappresentano una sintesi di tutta l'opera di Antioco IV: la spedizione in Egitto dopo essere stato provocato da quest'ultimo, la schiacciante vittoria contro Tolomeo VI, l'attacco a Israele ma non ai paesi confinanti, la riconquista di molti paesi in oriente, l'accumulazione di un grande bottino, fino alla conclusione della sua vita solo e abbandonato da tutti. Molti commentatori moderni battono questa strada; ma che bisogno c'era di ripetere daccapo il contenuto dei versetti 21-39? Tanto più che la dichiarazione cronologica del versetto 40, "al tempo della fine", sembra contraddire tale proposta, essendo la "fine" posta al termine di tutto il racconto precedente. La proposta all'apparenza più sensata è quella di considerare tutto questo capitolo come la giustapposizione dell'opera di più mani, che operarono in tempi diversi. Un redattore finale avrebbe poi cercato di mettere ordine nella lunga prosapia dei sovrani ellenistici, eliminando le ripetizioni e le contraddizioni. Evidentemente però l'ultima sezione del brano era un'interpolazione ad opera di una mano particolarmente prestigiosa, della quale oggi nulla possiamo precisare, ma che a quei tempi contava molto tra i colti Giudei. Per questo entrambe le versioni della vicenda di Antioco Epifane furono inserite nella narrazione ad opera del redattore finale, ottenendo il testo che ci è pervenuto. Del resto, anche testi ben più noti e prestigiosi di questo presentano interpolazioni e ripetizioni: in questa pagina del mio sito ho già cercato di dimostrare che il racconto del diluvio universale di Genesi 6-9 è in realtà il risultato della sovrapposizione di due racconti inizialmente indipendenti fra di loro, uno di Tradizione Jahvista ed uno di Tradizione Sacerdotale! Ad ogni modo, questa seconda versione "più corta" è importante perchè è quella che contiene la "profezia" della morte del persecutore:
« Ma notizie dall'oriente e dal settentrione lo turberanno: egli partirà con grande ira per distruggere e disperdere molti. Pianterà le tende del suo palazzo fra il mare e il bel Monte Santo: poi giungerà alla fine e nessuno verrà in suo aiuto. » (Daniele 11, 44-45)
Tetradramma di Antioco IV Epifane, circa 170 a.C. (da questo sito)
Qui l'Autore sembra tornare a darci notizie storiche verificabili anche da altre fonti. Infatti sappiamo che negli ultimi anni della sua vita Antioco IV mosse verso il nascente Impero dei Parti, ottenendo fortune alterne, e che poco prima di morire partì per una campagna contro Artaxias I, re di Armania; effettivamente la Partia è a oriente e l'Armenia a settentrione della Giudea. Nel corso di questa campagna egli "pianterà le tende del suo palazzo fra il mare e il bel Monte Santo", cioè tra il Mar Mediterraneo e il Monte Sion su cui sorgeva il Tempio di Gerusalemme; in realtà a comandare le operazioni in Giudea era il già nominato generale Lisia, ma il testo può riferirsi genericamente all'esercito siriano. Altri invece interpretano il testo supponendo che l'Autore collochi la morte del persecutore in Palestina; essa però avvenne a Tabas, una città della Persia. Anche in questo caso i contemporanei non avrebbero certo perdonato a Daniele una profezia sbagliata, per cui il senso del testo non può essere questo: si cita piuttosto una campagna di Lisia in Giudea contemporanea all'ultima spedizione di Antioco. Il nemico numero uno della Giudea è atteso da una morte solitaria, senza nessuno che giunga in suo soccorso. Come spesso accade nella Bibbia e nell'Apologetica giudeo-cristiana, secondo il Primo Libro dei Maccabei la morte del re è dovuta alla depressione per essere stato sconfitto da un pugno di Giudei, ed egli, in punto di morte, riconosce di essere stato punito per aver perseguitato i seguaci di YHWH:
« Il re Antioco intanto percorreva le regioni settentrionali e seppe che c'era in Persia la città di Elimàide, famosa per ricchezza e argento e oro; [...] vi si recò e cercava di impadronirsi della città e di depredarla, ma non vi riuscì, perché il suo piano fu risaputo dagli abitanti della città, che si opposero a lui con le armi; egli fu messo in fuga e dovette partire di là con grande tristezza e tornare in Babilonia. Poi venne un messaggero in Persia ad annunciargli che erano state sconfitte le truppe inviate contro Giuda, che Lisia si era mosso con un esercito tra i più agguerriti ma era rimasto sconfitto davanti a loro e che quelli si erano rinforzati con armi e truppe e bottino ingente, riportato dagli accampamenti che avevano distrutti; che inoltre avevano demolito l'idolo da lui innalzato sull'altare in Gerusalemme, che avevano circondato con mura alte come prima il santuario e anche Bet-Zur, che era una sua città. Il re, sentendo queste novità, rimase sbigottito e scosso terribilmente; si mise a letto e cadde ammalato per la tristezza, perché non era avvenuto secondo i suoi desideri. [...] Allora chiamò tutti i suoi amici e disse loro: "Se ne va il sonno dai miei occhi e ho l'animo oppresso dai dispiaceri; ho pensato: in quale tribolazione sono giunto, in quale terribile agitazione sono caduto, io che ero sì fortunato e benvoluto sul mio trono! Ora mi ricordo dei mali che ho fatto in Gerusalemme, portando via tutti gli arredi d'oro e d'argento che vi erano e mandando a sopprimere gli abitanti di Giuda senza ragione. Riconosco che a causa di tali cose mi colpiscono questi mali: ed ecco muoio nella più nera tristezza in paese straniero." Il re Antioco morì in quel luogo nel centoquarantanove. » (1 Mac 6, 1.3-8.10-13.16)
La
visione della fine dei tempi
Si chiude così la vicenda personale di
Antioco IV, la sua carriera di persecutore dei Giudei ed anche il lungo capitolo
11, nel quale abbiamo ripercorso praticamente tutta la storia del Medio Oriente
in età ellenistica. La "profezia", e quindi la narrazione dei fatti,
si chiude qui, poiché a questa epoca risale la composizione del Libro di
Daniele così come lo conosciamo oggi, se escludiamo possibili interpolazioni
successive e possibili riferimenti alla Battaglia di Antiochia di Siria tra
Tolomeo VI e Alessandro Bala. Però... l'autore vuole spingere il suo sguardo
più in là di così, ed immagina che subito dopo la fine dell'Epifane
inizieranno i tempi escatologici. Questo brano, fra
i più famosi perchè ispirerà apocalittici e millenaristi di ogni tempo,
compresa buona parte delle nostre raffigurazioni del Giudizio
Universale, è stato stralciato dal resto del racconto, pur non essendovi
reale soluzione di continuità, e costituisce il capitolo 12, che è il più
breve del nostro Libro.
Per primo rientra in scena Michele, qui chiamato "il Gran Principe", cioè la maggiore tra tutte le intelligenze angeliche:
« Or in quel tempo sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del tuo popolo. Vi sarà un tempo di angoscia, come non c'era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo; in quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. » (Daniele 12, 1)
L'angelo custode del popolo ebraico, che ha protetto Israele in questo duro periodo di prova, sorge al di sopra dei meschini eventi di questo mondo, ed annuncia la venuta di un tempo di angoscia e di persecuzione ancora peggiore di quello subito per colpa dei Seleucidi. Sembra di sentire le parole di Cristo nel suo famoso Discorso Escatologico, che è evidentemente ispirato a questo passo di Daniele:
« Questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine. Quando dunque vedrete l'abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele, stare nel luogo santo - chi legge comprenda -, allora quelli che sono in Giudea fuggano ai monti. [...] Pregate perché la vostra fuga non accada d'inverno o di sabato. Poiché vi sarà allora una tribolazione grande, quale mai avvenne dall'inizio del mondo fino a ora, né mai più ci sarà. E se quei giorni non fossero abbreviati, nessun vivente si salverebbe; ma a causa degli eletti quei giorni saranno abbreviati. » (Matteo 24, 14-16.20-22)
Anche in questo caso troviamo una "tribolazione grande", mai vista fino ad allora, che annuncerà il Giorno del Giudizio. Tale persecuzione sarà la prova finale prima della fine della storia, e coloro che la supereranno erediteranno la Vita Eterna. Subito dopo infatti viene annunciata per la prima volta nella Bibbia la Resurrezione della Carne al termine dei secoli:
« Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno insegnato la giustizia risplenderanno come le stelle per l'eternità. » (Daniele 12, 2-3)
Prima dell'avvento della cultura ellenistica e dell'influenza della religione Zoroastriana, l'Ebraismo non conosceva alcuna risurrezione. La stessa sopravvivenza dopo la morte era considerata dubbia, e l'unica vera forma di immortalità era considerata il fatto di avere una discendenza. Per questo Abramo si preoccupa tanto di avere un erede che sia suo figlio carnale, e non un suo servo; la visione terribilmente pessimistica dell'Aldilà che avevano le civiltà mesopotamiche ha influito in maniera molto negativa sul Giudaismo, forse anche per un rifiuto della fede egiziana nell'immortalità dell'anima, dato che gli Egiziani avevano oppresso gli Ebrei. Così ad esempio leggiamo nel celeberrimo "Poema di Gilgamesh" circa la terrificante visione dell'Oltretomba che Enkidu ha in sogno:
« Quella è la casa i cui abitanti giacciono nelle tenebre. Polvere è il loro cibo, argilla la loro carne. Sono vestiti come uccelli, ali hanno come abiti, non vedono luce alcuna e siedono nell'ombra. Entrai nella casa di polvere e vidi i re della terra, le loro corone accantonate per sempre. »
Proprio in epoca ellenistica si fa strada l'idea di una rinascita della vita umana in un mondo escatologico fatto di luce per i buoni e di tormenti per i malvagi. La registrazione di questa nuova fede, predicata dai Farisei all'epoca di Gesù Cristo ma negata dai Sadducei, la troviamo nel Secondo Libro dei Maccabei, e precisamente nelle coraggiose risposte che i Sette Fratelli danno al loro persecutore prima di essere martirizzati:
« Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il
Re del mondo, dopo che saremo morti per le Sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna.
» (2Mac 7, 9)
« Da Dio ho ricevuto queste membra e, per le Sue leggi, le disprezzo, ma da
Lui spero di riaverle di nuovo. » (2 Mac 7, 11 )
« È bello morire a causa degli uomini, per attendere da Dio l'adempimento delle speranze di essere da
Lui di nuovo risuscitati; ma per te la risurrezione non sarà per la vita. » (2
Mac 7, 14)
Come si vede, in epoca maccabaica è già radicata la fede in una doppia risurrezione, quella dei buoni per la vita, quella dei malvagi per un tormento senza fine. La prospettiva per cui "i saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento" ha sicuramente ha ispirato questi versi del "Paradiso" di Dante:
« Quale ne' plenilunïi sereni
Trivïa [la Luna] ride tra le ninfe etterne [le stelle]
che dipingon lo ciel per tutti i seni,
vid'io sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l'accendea,
come fa 'l nostro le viste superne;
e per la viva luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
nel viso mio, che non la sostenea. » (Par. XXIII, 25-33)
"Coloro che avranno insegnato la giustizia risplenderanno come le stelle per l'eternità", è la consolante promessa che fa l'Autore ai suoi correligionari, chiamati spesso, come i Sette Fratelli, a scegliere tra la fedeltà alle tradizioni patrie e la morte. L'Uomo Vestito di Lino infatti aggiunge:
« Ora tu, Daniele, chiudi queste parole e sigilla questo libro, fino al tempo della fine: allora molti lo scorreranno e la loro conoscenza sarà accresciuta. » (Daniele 12, 4)
Le promesse celesti dovranno essere messe per iscritto e "sigillate" (il rotolo veniva chiuso con cera colata) fino al "tempo della fine"; e non c'è dubbio che questo "tempo della fine" sia quello delle tribolazioni patite da Israele per colpa dei Re di Siria. Gli Ebrei del II secolo a.C., non il profeta Daniele, sono i veri destinatari di questa che, a differenza delle precedenti, è una vera profezia, destinata ad avverarsi alla fine della storia.
Luca Signorelli (1445-1523), "La Risurrezione dei Morti" (1500), Cappella di San Brizio, Duomo di Orvieto
Il
mistero dei 1290 e dei 1335 giorni
La visione, però, a sorpresa continua.
Due misteriosi personaggi, la cui identificazione certa è probabilmente
impossibile, pongono una domanda ben circostanziate:
« Io, Daniele, stavo guardando ed ecco altri due che stavano in piedi, uno di qua sulla sponda del fiume, l'altro di là sull'altra sponda. Uno disse all'Uomo Vestito di Lino, che era sulle acque del fiume: "Quando si compiranno queste cose meravigliose?" Udii l'Uomo Vestito di Lino, che era sulle acque del fiume, il quale, alzate la destra e la sinistra al cielo, giurò per colui che vive in eterno che tutte queste cose si sarebbero compiute fra un tempo, fra tempi e fra la metà di un tempo, quando sarebbe finito colui che dissipa le forze del Popolo Santo. » (Daniele 12, 5-7)
Tutti infatti desidererebbero sapere quando verrà il Giorno del Giudizio e quando le promesse della risurrezione finale si compiranno. Ci sono cascati anche i discepoli di Gesù, dopo che questi ha annunciato la prossima distruzione del Tempio di Erode:
« Sedutosi poi sul monte degli Ulivi, i suoi discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli chiesero: "Dicci quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo". » (Matteo 24, 3)
Gesù se ne guarda bene dal fissare date certe per la fine (come ancor oggi pretendono i movimenti millenaristi ed i Testimoni di Geova), e preferisce insistere sulla necessità di non lasciarsi prendere dal panico, di farsi trovare preparati e di non credere ai falsi cristi che annunceranno la Parusia spacciandosi per il Signore redivivo:
« Sentirete parlare di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi; è necessario che tutto questo avvenga, ma non è ancora la fine. [...] Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell'iniquità, l'amore di molti si raffredderà, ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato. » (Matteo 24, 6.11-13)
La stessa cosa fa l'Uomo Vestito di Lino, ritto in piedi sulle acque del fiume Tigri, il quale apparentemente fissa un chiaro termine cronologico: un tempo, due tempi e la metà di un tempo. In pratica, tre anni e mezzo, dopo i quali avrà fine la tribolazione che "dissipa le forze del Popolo Santo" di Israele. Ma, come si è già detto, questa durata non va presa alla lettera, e significa piuttosto un tempo limitato, lungo ma destinato a finire, trattandosi della metà del numero sette, che è simbolo di pienezza. Daniele a quanto pare non si accontenta della risposta fornita ai due curiosi, poiché chiede maggiori spiegazioni, incarnando le domande poste da tutti i lettori del Libro da ventidue secoli a questa parte:
« Io udii bene, ma non compresi, e dissi: "Mio Signore, quale sarà la fine di queste cose?" Egli mi rispose: "Va', Daniele, queste parole sono nascoste e sigillate fino al tempo della fine. Molti saranno purificati, resi candidi, integri, ma gli empi agiranno empiamente: nessuno degli empi intenderà queste cose, ma i saggi le intenderanno. Ora, dal tempo in cui sarà abolito il sacrificio quotidiano e sarà eretto l'abominio della desolazione, ci saranno milleduecentonovanta giorni. Beato chi aspetterà con pazienza e giungerà a milletrecentotrentacinque giorni. » (Daniele 12, 8-12)
"Molti saranno purificati, ma gli empi agiranno empiamente" è quasi un'affermazione tautologica, ma appare la risposta più logica alla curiosità di Daniele. Ciò che conta non è quando e come avverrà la fine dei tempi, ma come noi dobbiamo gestire il tempo intermedio che intercorre tra il presente e il futuro escatologico. I malvagi perseguiteranno sempre i buoni, ma proprio tale persecuzione renderà questi ultimi "candidi" agli occhi del Signore, tanto che anche l'Apocalisse di Giovanni potrà dire dei buoni:
« Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. » (Ap 7, 14-15)
Tuttavia, il testo sembra dare delle indicazioni cronologiche, anche se (come sempre) piuttosto misteriose. "Dal tempo in cui sarà abolito il sacrificio quotidiano e sarà eretto l'abominio della desolazione, ci saranno milleduecentonovanta giorni": questo versetto sembra affermare che questa è la durata della persecuzione antiochea, iniziata proprio con l'abolizione del culto di YHWH e con l'erezione della statua di Zeus Olimpio sull'altare del santuario; si tratta di 43 mesi, cioè tre anni e mezzo più un mese. Ritroviamo in tal modo ancora una volta "un tempo, tempi e la metà di un tempo" di Dan 12, 7, già indicata come durata del tempo di tribolazione, aumenta però di un mese. Perchè? Secondo alcuni si tratta di un errore dei copisti, che intendevano 1260 giorni; secondo altri la durata della persecuzione è stata prolungata di un mese per sottolinearne la durezza e per accrescere l'attesa escatologica degli ultimi giorni. Subito dopo però però si aggiunge: "Beato chi aspetterà con pazienza e giungerà a milletrecentotrentacinque giorni". Ma allora quanto devono resistere i giusti? 1290 o 1335 giorni? C'è chi dice che la prima è la durata (simbolica, come si è visto) della persecuzione ellenistica, la seconda il tempo che intercorre fra la durata di essa e la fine dei tempi; tra i due numeri vi sono 45 giorni di differenza, cioè un mese e mezzo. In effetti 45 giorni sono la metà di tre mesi, altro numero perfetto e quindi compiuto, e dunque al tempo di persecuzione ne viene aggiunto un altro, anch'esso limitato e per giunta più breve, corrispondente al "tempo di angoscia, come non c'era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo" di Dan 12, 1. I cristiani interpreteranno poi questi 45 giorni come il tempo loro concesso per "fuggire sui monti" secondo l'ammonimento di Gesù in Mt 24, 16, e così mettersi al riparo da quella "tribolazione grande". Se le cose stessero così, sembrerebbe tutto chiaro.
Eppure, noi sappiamo benissimo che il mondo NON è finito poco tempo dopo la liberazione di Gerusalemme da parte di Giuda Maccabeo. E così, come si può immaginare, è partita una corsa ad una nuova interpretazione della "cronologia del Giorno del Giudizio"; falsi messia, millenaristi e profeti di sventure di ogni epoca si sono accaniti su quei due numeri con la pazienza e la pervicacia di Sherlock Holmes, spandendo nei secoli fiumi di inchiostro. C'è chi dice che Daniele ha sbagliato i calcoli, e che i 1290 giorni sono in realtà 1190, numero ottenibile da 700 + 490: entrambi numeri altamente simbolici, poiché 700 = 7 x 10 x 10 e 490 = 7 x 7 x 10. Inoltre 490 giorni rappresentano anche le famose "Settanta Settimane" di anni di Daniele 9, 24. Anche 1335 sarebbe frutto di un errore di calcolo, dovendosi sostituire con 1332, ottenibile da 666 x 2, dove 666 è il famoso "Numero della Bestia" di Apocalisse 13, 18; ma non si tiene conto che l'Apocalisse fu scritta più di 250 anni dopo il Libro di Daniele! Altri hanno pensato ad ingegnose interpretazioni numerologiche, facendo notare ad esempio che:
1 + 2 + 9 + 0 = 12
1 + 3 + 3 + 5 = 12
Tuttavia questo calcolo ha senso solo in notazione decimale, che gli antichi Ebrei certo non adottavano. Si è fatto ricorso anche alla gematria, la scienza numerologica che assegna ad ogni lettera ebraica (e quindi ad ogni parola) un valore numerico, investigando quali "parole chiave" possono avere come valore numerico 1290 o 1335; ad esempio "la Casa di Dio" (Thrpim) in ebraico avrebbe significato numerico 1290, mentre "le Sacre Scritture" (Thvre Shbkthb) restituirebbe 1335, ma non si vede in che modo tali significati potrebbero essere collegati alla persecuzione antiochea ed agli ultimi giorni. Si è speculato perfino sul fatto che i 1335 giorni sono contenuti nel versetto 12, 12 del nostro Libro (numero doppiamente simbolico), come se il suo Autore potesse prevedere la sua ripartizione in capitoli e versetti, che fu eseguita solo intorno al 1225 dal vescovo inglese Stephen Langton (1150-1228)! Vi è poi chi ha pensato di applicare a questi due strani numeri lo stesso procedimento delle "Settanta Settimane", affermando che essi non esprimono giorni, ma anni. Così la pensava ad esempio il famoso scienziato Sir Isaac Newton (1642-1727), noto per le sue idee eterodosse in fatto di religione. Se dal 169 a.C. si contano 1290 anni si arriva al 1120 d.C., e contandone 1335 si giunge al 1165 d.C., anni in cui non sembra avvenuto nulla di particolare. I soliti millenaristi incalliti affermano però che i 1335 anni vadano contati dopo i 1290, non di pari passo con essi, ed allora arrivano a fissare la fine del mondo al 2454 d.C., l'epoca intorno alla quale sono ambientati i telefilm della serie "Star Trek, the Next Generation" (un profeta appassionato di fantascienza?!) Altri fanno partire tale computo da date che non c'entrano nulla come l'epoca maccabaica, quali la distruzione del Tempio da parte di Tito nel 70 d.C. o addirittura dalla presunta Donazione di Costantino, fraintendendo completamente il senso del testo biblico, il cui interesse è concentrato solo sulla persecuzione ellenistica e sulla risurrezione finale, non sulla nascita del moderno Stato d'Israele o sull'attentato dell'11 settembre 2001.
Newton invece aveva fissato la restaurazione dell’Impero romano all’anno 800 d.C., quando Carlo Magno si fece incoronare sovrano del Sacro Romano Impero, considerato da Newton come il regno dell'Anticristo in terra. E sommando 1260 anni all'800 d.C., si arriva al 2060 d.C., anno in cui il Sacro Romano Impero avrebbe dovuto crollare, e al regno dell’Anticristo sarebbe seguito il Giudizio universale. Naturalmente Newton non poteva sapere che nel 1806 Napoleone avrebbe decretato lo scioglimento del Sacro Romano Impero, per cui l’intera tesi perde di consistenza, se mai ne avesse avuto una. Ma non è finita. Un certo David Flynn (1947-2012), nome noto nel mondo del cospirazionismo e del catastrofismo americano, ricorda che Roma venne fondata, secondo la leggenda, nel 753 a.C.; non si sa bene perché, ma secondo Flynn la sua rifondazione spirituale dovrebbe essere fissata al 753 d.C. Sommando a questa data 1260, viene fuori il 2013. Vi suona familiare? Eccome, dato che secondo i soliti profeti di sventura i Maya avrebbero predetto la fine del tredicesimo Baktun per il 21 dicembre 2012, data fatta coincidere dai millenaristi con la fine del mondo! Ma noi sappiamo benissimo che in tale data non è accaduto nulla di nulla. Tutto questo ci insegna l’importanza di essere cauti quando si fanno previsioni e calcoli numerologici; eppure, David Flynn e i suoi emuli continuano a dare i numeri, e presumibilmente continueranno a farlo fino alla fine del mondo (quella vera).
La
conclusione del ministero profetico di Daniele
Non c'è dubbio che, smanacciando con i
numeri per un tempo abbastanza lungo, sia possibile far dire ad essi tutto ciò
che si vuole, come ad esempio affermare che la 313, la celeberrima auto di
Paperino nei fumetti di Walt Disney, sia stata così battezzata in onore di Manio Papirio Crasso e Gaio Furio Pacilo Fuso,
i quali furono Consoli nell'anno 441 a.C., corrispondente al 313 ab Urbe
condita! Io perciò preferisco lasciar cadere nel dimenticatoio dei perdigiorno
tutti questi tentativi di far combaciare i numeri di Daniele con le proprie
ideologie e teosofie, e concludere questo capitolo (e questa pagina) con
l'ultima esortazione lasciata a Daniele dall'Uomo Vestito di Lino:
« Tu, va' pure alla tua fine e riposa: ti alzerai per la tua sorte alla fine dei giorni. » (Daniele 12, 13)
Evidente è il significato di questo versetto. Il compito di Daniele come profeta è finito: ora egli potrà godersi gli ultimi anni e morire in pace, poiché le terribili profezie di sventura che è stato costretto ad annunciare, egli non le vedrà realizzate. Nulla ci dice il testo su quando il nostro Daniele chiuse gli occhi, ma una cosa è certa: anch'egli risorgerà alla fine del mondo per ricevere la sua mercede nella vita eterna. Un concetto che certamente non faceva ancora parte della religione ebraica al tempo del ritorno dall'Esilio a Babilonia, ma che era già ben radicato in essa nel II secolo avanti Cristo, all'epoca della redazione finale del nostro libro.
Ora che l'epopea del nostro profeta è terminata, possiamo tracciare dei termini cronologici per la vita del "personaggio" Daniele, così come l'Autore ce la racconta, tralasciando tutte le indicazioni storiche errate che riguardano la successione dei re babilonesi, medi e persiani da noi puntualmente analizzate. Siccome possiamo ipotizzare che Daniele avesse 14-15 anni al momento della sua deportazione a Babilonia nel 597 a.C., egli potrebbe essere nato intorno al 611 a.C. Il versetto 12, 13 ci autorizza a pensare che egli sia morto dopo il "terzo anno di Ciro (Dan 10, 1), quindi dopo il 537 a.C., all'età di 75 anni, attraversando tutta la parabola dell'esilio a Babilonia.
Come si è visto, secondo la tradizione musulmana egli fu sepolto nella città di Susa, nell'Iran sudoccidentale, città dove lo abbiamo visto all'opera nel capitolo 8. La prima attestazione in Occidente di questa Tomba di Daniele a Susa la dobbiamo a Beniamino di Tudela (1130-1173), ebreo navarrino che nel XII secolo visitò tutto il Medio Oriente lasciandoci un libro di viaggi, e nel 1163 fu anche a Susa. Ma sono molte le città che si contendono l'onore di ospitare la tomba del nostro profeta. Gli Ebrei iraniani affermano che egli fu sepolto a Mala Amir, oggi nella provincia iraniana del Khuzestan. Il Martirologio Romano cita Babilonia, la città dove egli trascorse praticamente l'intera vita, come suo luogo di sepoltura, senza indicare un'ubicazione precisa. Un'altra Tomba di Daniele si trova in una moschea a Kirkuk, nel nord dell'Iraq, ed un'altra pare si trovasse nel villaggio iracheno di Al Wajihiya, nel governatorato di Diyala, ma fu distrutta dai fondamentalisti islamici nel 2007. Infine a Samarcanda, l'antica capitale della Sogdiana, oggi nel moderno Uzbekistan, esiste il Mausoleo del Profeta Daniele, un edificio sormontato da cinque cupole che contiene un sarcofago lungo addirittura 18 metri! Infatti, secondo la leggenda, il corpo del nostro profeta, portato a Samarcanda da Tamerlano che ne aveva fatto la sua capitale, crescerebbe ogni anno di mezzo pollice, ed il sarcofago dovrebbe essere continuamente ingrandito. Inoltre si dice che il giorno in cui le ossa di Daniele furono traslate a Samarcanda, nelle vicinanze sgorgò una fonte le cui acque avrebbero poteri taumaturgici.
Con queste indicazioni finisce il capitolo 12, il più "apocalittico" di tutto il Libro, trattando della risurrezione finale e degli ultimi tempi: un testo destinato a dare speranza ai confratelli, in un'epoca di fiera persecuzione. Termina anche il testo in ebraico di Daniele, ma la versione greca ci offre altri due capitoli, che costituiscono la cosiddetta "Appendice Deuterocanonica", considerati ispirati dalla Chiesa Cattolica ma non da Ebrei e Riformati. Se volete saperne di più, e se fin qui non vi ho annoiato, cliccate qui e accompagnatemi nell'ultimo tratto di strada della nostra esegesi!