L'Appendice
Deuterocanonica
I due capitoli 13 e 14 ci sono pervenuti solo nella versione greca dei Settanta
(risalente al regno di Tolomeo II Filadelfo, 285-246 a.C.) e in quella di Teodozione,
un colto proselito giudeo di Efeso che sotto il regno di Commodo (e quindi intorno al 180 dopo
Cristo) eseguì una nuova traduzione dell'Antico
Testamento per gli Ebrei di lingua greca, con alcune differenze tra i due testi.
Proprio per questo Riformati ed Ebrei non li considerano canonici, respingendo
tutti i testi dei quali non ci è pervenuto l'originale ebraico o aramaico. I
Cattolici e gli Ortodossi invece li considerano "Deuterocanonici",
perché non fanno parte del Canone Palestinese, cioè l'elenco dei libri considerati ispirati dagli Ebrei, definito nel I secolo d.C.
Questi due capitoli contengono tre gustosi episodi di grande suggestione
narrativa, che hanno attribuito il titolo a questa pagina del mio ipertesto:
la storia di Susanna, lo smascheramento dei sacerdoti di Bel e l'uccisione del
drago di Babilonia. Nella versione dei Settanta tali racconti sono posti in
appendice al Libro di Daniele, e in questa posizione li leggiamo anche
noi oggi, sebbene andassero cronologicamente collocati in altri punti del Libro
(ma anche le visioni profetiche dei capitoli 7-12, come si è visto, non sono
cronologicamente ordinate rispetto ai primi 6 capitoli). Quando Teodozione pose
mano alla sua traduzione, invece, la storia di Susanna era già entrata a far
parte integrante del Libro di Daniele, tanto che egli la collocò all'inizio
di esso, come richiederebbe la logica. Forse esisteva in origine anche uno scritto ebraico dedicato a Susanna,
ma non ci è pervenuto; tecnicamente si tratta di un midrash,
cioè di un apologo morale che rappresenta una "variazione sul tema"
della Sacra Scrittura. Quasi certamente non solo l'Autore non è più quello del
testo ebraico, ma neppure il Redattore finale. I primi 12 capitoli infatti sono
diretti agli Ebrei oppressi dalla persecuzione di Antioco IV Epifane, mentre
questi due sembrano piuttosto indirizzati agli Israeliti di ogni tempo, per il
loro valore universale e per le caratteristiche quasi stereotipate dei loro
personaggi.
Cominciamo con il primo racconto, che innumerevoli volte ha ispirato gli artisti di ogni epoca. Entrano subito in scena i personaggi principali:
« Abitava in Babilonia un uomo chiamato Ioakim, il quale aveva sposato una donna chiamata Susanna, figlia di Chelkia, di rara bellezza e timorata di Dio. I suoi genitori, che erano giusti, avevano educato la figlia secondo la legge di Mosè. Ioakim era molto ricco e possedeva un giardino vicino a casa ed essendo stimato più di ogni altro i Giudei andavano da lui. » (Daniele 13, 1-4)
Siamo già a Babilonia, quindi dopo il 597 a.C., ma più probabilmente dopo la deportazione del 587 a.C. Entra in scena quella che è stata definita "l'Ebrea ideale", "di rara bellezza e timorata di Dio: bella fuori e bella dentro, dunque. Susanna infatti in ebraico significa "giglio", vale a dire il simbolo della purezza per antonomasia. In aggiunta, suo marito Ioakim è pure ricco sfondato, tanto da possedere una casa con giardino. Appare difficile pensare che Ioakim si sia portato tali ricchezze dalla Palestina, quindi deve averle guadagnate in Mesopotamia. Altri libri biblici, come quelli di Tobia e di Ester, ci insegnano che gli Ebrei della diaspora spesso hanno fatto fortuna in Babilonia e in Persia; la situazione non è dunque impossibile. Tuttavia, per aver successo ed accumulare ricchezze occorre tempo; al versetto 45 invece comparirà un Daniele "giovanetto", nelle rappresentazioni artistiche raffigurato addirittura come un bambino. Ma se, come abbiamo ipotizzato alla fine della pagina precedente, Daniele aveva già 14 anni o giù di lì quando fu deportato a Babilonia, anche ammettendo che Ioakim sia andato con lui, è un po' difficile che il nostro profeta fosse ancora un ragazzo quando già il marito di Susanna aveva fatto fortuna a Babilonia. Questo ragionamento dimostra che anche quello di Susanna, come quelli dei Sette Giovani nella Fornace e della Fossa dei Leoni, non è il resoconto di un fatto storicamente avvenuto, ma un altro racconto esemplare, composto per motivi didattici. Vedremo che si tratta della parabola del giusto innocente, accusato ingiustamente ma salvato dal Signore per mezzo di un Giusto, in questo caso il fanciullo Daniele.
"L'iniquità è uscita da Babilonia"
Ecco infatti comparire in scena i "vilain"
della nostra storia:
« In quell'anno erano stati eletti giudici del popolo due anziani: erano di quelli di cui il Signore ha detto: "L'iniquità è uscita da Babilonia per opera di anziani e di giudici, che solo in apparenza sono guide del popolo." Questi frequentavano la casa di Ioakìm, e tutti quelli che avevano qualche lite da risolvere si recavano da loro. » (Daniele 13, 5-6)
Dei due anziani non è riportato il nome, a differenza degli altri protagonisti: ciò indica che si tratta di personaggi esemplari, i "tipi" degli empi che insidiano, ricattano, mentono e piegano addirittura la Legge di Mosè ai loro sporchi scopi. L'Autore pronuncia fin da ora su di loro una netta condanna, attraverso quella che appare come una citazione profetica. Infatti è introdotta dalla formula "di cui il Signore ha detto..." Il problema è che in tutto l'Antico Testamento questa citazione non la si trova. Alcuni vi hanno visto una possibile allusione a un passo di Geremia, in cui vengono disapprovati due falsi profeti:
« Così dice il Signore degli Eserciti, Dio di Israele, riguardo ad Acab figlio di Kolaia, e a Sedecia figlio di Maasia, che vi predicono menzogne in mio nome: "Ecco, li darò in mano a Nabucodonosor re di Babilonia, il quale li ucciderà sotto i vostri occhi. Da essi si trarrà una formula di maledizione in uso presso tutti i deportati di Giuda in Babilonia e si dirà: Il Signore ti tratti come Sedecia e Acab, che il re di Babilonia fece arrostire sul fuoco! Poiché essi hanno operato cose nefande in Gerusalemme, hanno commesso adulterio con le mogli del prossimo, hanno proferito in mio nome parole senza che io avessi dato loro alcun ordine. Io stesso lo so bene e ne sono testimone. Oracolo del Signore." » (Geremia 29, 21-23)
Altri invece hanno pensato a una citazione di un testo ebraico apocrifo perduto. Ad ogni modo il versetto 6 testimonia che la colonia giudaica in Babilonia, oltre ad aver raggiunto una certa agiatezza, godeva anche di una discreta autonomia, con i propri anziani e i propri giudici: difficile che tale privilegio si potesse ottenere già pochi anni dopo la deportazione, e comunque sotto il regno di Nabucodonosor. Più probabilmente tale situazione riflette lo status della diaspora ebraica in Mesopotamia al tempo dell'Impero Persiano e dei Regni Ellenistici, diaspora cui forse apparteneva lo stesso autore della storia di Susanna. Questi poi la avrebbe ambientata all'epoca di Daniele per darle maggior autorevolezza, così come l'"Apocalisse di Mosè" è stata attribuita al massimo profeta d'Israele, pur essendo stata composta secoli e secoli dopo la sua morte.
Ed ecco che i due anziani, proprio loro che erano deputati a risolvere le ingiustizie della comunità, commettono loro stessi una grave ingiustizia, restando ammaliati ed invaghendosi perdutamente di Susanna, una donna già sposata. Non a caso è stato detto che questo è il solo episodio dell'intera Bibbia in cui alla tarda età non viene associata la virtù, ma il vizio!
« Quando il popolo, verso il mezzogiorno, se ne andava, Susanna era solita recarsi a passeggiare nel giardino del marito. I due anziani che ogni giorno la vedevano andare a passeggiare, furono presi da un'ardente passione per lei: persero il lume della ragione, distolsero gli occhi per non vedere il Cielo e non ricordare i giusti giudizi. Eran colpiti tutt'e due dalla passione per lei, ma l'uno nascondeva all'altro la sua pena, perché si vergognavano di rivelare la brama che avevano di unirsi a lei. Ogni giorno con maggior desiderio cercavano di vederla. Un giorno uno disse all'altro: "Andiamo pure a casa: è l'ora di desinare", e usciti se ne andarono. Ma ritornati indietro, si ritrovarono di nuovo insieme e, domandandosi a vicenda il motivo, confessarono la propria passione. Allora studiarono il momento opportuno di poterla sorprendere sola. » (Daniele 13, 7-14)
Questi due "anziani" vanno intesi non come dei libidinosi ottuagenari, ma piuttosto come dei notabili che sedevano nelle assemblee, autorevoli e ascoltati, le vere guide delle comunità ebraiche esiliate. In questo senso li si ritrova più volte nel Libro del profeta Ezechiele e nei Vangeli, ad esempio:
« Vennero a trovarmi alcuni
anziani d'Israele e sedettero dinanzi a me
» (Ezechiele 14, 1)
« Quelli che avevano arrestato Gesù lo condussero dal sommo sacerdote Caifa, presso il quale già si erano riuniti gli scribi e gli
anziani.
» (Matteo 26, 57)
L'Autore descrive con molta finezza psicologica il crescere della passione dei due giudici, che acceca le loro menti al punto da trasformarsi in una vera ossessione. Per vergogna, i vecchi tengono nascosta l'uno all'altro la propria morbosa passione, ma si tradiscono banalmente: invece di tornare a casa all'ora di pranzo, ritornano furtivamente verso la casa di Susanna, lì si ritrovano e comprendono che entrambi amano la stessa donna. A questo punto diventano alleati nel loro perverso proposito, e decidono di tendere una trappola alla ragazza:
« Mentre aspettavano l'occasione favorevole, Susanna entrò, come al solito, con due sole ancelle, nel giardino per fare il bagno, poiché faceva caldo. Non c'era nessun altro al di fuori dei due anziani nascosti a spiarla. Susanna disse alle ancelle: "Portatemi l'unguento e i profumi, poi chiudete la porta, perché voglio fare il bagno." Esse fecero come aveva ordinato: chiusero le porte del giardino ed entrarono in casa dalla porta laterale per portare ciò che Susanna chiedeva, senza accorgersi degli anziani poiché si erano nascosti. Appena partite le ancelle, i due anziani uscirono dal nascondiglio, corsero da lei e le dissero: "Ecco, le porte del giardino sono chiuse, nessuno ci vede e noi bruciamo di passione per te; acconsenti e datti a noi. In caso contrario ti accuseremo; diremo che un giovane era con te e perciò hai fatto uscire le ancelle." » (Daniele 13, 15-21)
Artemisia Gentileschi,
"Susanna e i vecchioni", 1610, olio su tela,
Collezione Graf von Schönborn, Pommersfelden (Germania)
Un
processo ingiusto
Le cose per Susanna si mettono davvero
male. Sorpresa dai due anziani durante un bagno nella piscina del suo giardino,
può scegliere solo tra due possibilità entrambe esiziali: o acconsente a
cedere alle loro voglie, violando la fedeltà matrimoniale e rischiando di
essere condannata a morte per adulterio, oppure resistere, con il risulto di
venire falsamente accusata di adulterio dai due in un pubblico processo. Susanna
dimostra molto coraggio scegliendo la seconda strada, e preferendo conservare
intatta la propria fedeltà coniugale:
« Susanna, piangendo, esclamò: "Sono alle strette da ogni parte. Se cedo, è la morte per me; se rifiuto, non potrò scampare dalle vostre mani. Meglio però per me cadere innocente nelle vostre mani che peccare davanti al Signore!" Susanna gridò a gran voce. Anche i due anziani gridarono contro di lei e uno di loro corse alle porte del giardino e le aprì. I servi di casa, all'udire tale rumore in giardino, si precipitarono dalla porta laterale per vedere che cosa stava accadendo. Quando gli anziani ebbero fatto il loro racconto, i servi si sentirono molto confusi, perché mai era stata detta una simile cosa di Susanna. » (Daniele 13, 22-27)
A questo punto gli eventi precipitano. I due anziani respinti la accusano e la trascinano in giudizio, desiderosi di vendicarsi del suo rifiuto. Ecco cosa scrive in proposito Susanna Tamaro, la famosa autrice di "Va' dove ti porta il cuore" che porta lo stesso nome del biblico personaggio:
« Susanna passeggia nel giardino, spiata da due anziani giudici. Il suocorpo e il suo sguardo emanano la purezza dei giusti, degli "affidati". Non c’è seduzione nel suo comportamento, non ci sono ammiccamenti. È forse questo che fa esplodere, con virulenza, il desiderio dei vecchi. Nell’universo perpetuamente instabile delle passioni, ciò che sfugge è sempre più appetibile di ciò che è facilmente raggiungibile. I due uniscono le loro intelligenze perverse per piegarla ai loro desideri, con il ricatto di una calunnia. Ma Susanna non ha tentennamenti, li respinge. Sa così di andare incontro alla morte, tuttavia non contratta, il suo è un "no" che non ammette repliche. Questo rifiuto fa impazzire di rabbia i vecchi, che mettono così in atto la loro vendetta, accusandola pubblicamente di adulterio. Chi si comporta coerentemente alla legge di Mosè, come Susanna, chi osserva con fedeltà i dieci Comandamenti spesso risulta strano e incomprensibile a chi vive fuori dalla legge del Signore. È una stranezza che inquieta, che provoca invidia. E l’invidia trascina con sé inevitabilmente la calunnia. Bisogna sporcare, abbassare, denigrare ciò che non si comprende e, per questo, si usano ad arte le parole. Parole false, intrise di veleno. Parole che uccidono. »
Quello dei due giudici è un comportamento molto simile a quello della moglie di Potifar in Genesi 39, 7-20: prima seduce Giuseppe e, quando questi la respinge e fugge lasciandole in mano la sua veste, lo accusa falsamente con il marito di aver cercato di violentarla. Sia Giuseppe che Susanna scelgono la strada più pericolosa: resistere ai seduttori, esponendosi però al rischio di un pubblico processo. È assai probabile che l'Autore abbia modellato la vicenda di Susanna su quella di Giuseppe figlio di Giacobbe, dandole però un esito diverso, proprio grazie all'intervento di Daniele.
« Il giorno dopo, tutto il popolo si adunò nella casa di Ioakìm, suo marito e andarono là anche i due anziani pieni di perverse intenzioni per condannare a morte Susanna. Rivolti al popolo dissero: "Si faccia venire Susanna figlia di Chelkìa, moglie di Ioakìm." Mandarono a chiamarla ed ella venne con i genitori, i figli e tutti i suoi parenti. Susanna era assai delicata d'aspetto e molto bella di forme; aveva il velo e quei perversi ordinarono che le fosse tolto per godere almeno così della sua bellezza. Tutti i suoi familiari e amici piangevano. » (Daniele 13, 28-33)
L'Autore insiste sulla bellezza della ragazza; aggiunge anche un particolare piuttosto insolito, viste le circostanze. L'uso del velo, caratteristico ad esempio dell'Islam, non è attestato nel Vecchio Testamento, dove le donne appaiono in pubblico a capo e a viso scoperto. Tuttavia probabilmente l'Autore fa riferimento a un altro passo della Torah, in cui si fissano le norme per la donna sospettata di adulterio:
« Il sacerdote farà stare la donna davanti al Signore, le scoprirà il capo e porrà nelle mani di lei l'oblazione commemorativa, che è l'oblazione di gelosia, mentre il sacerdote avrà in mano l'acqua amara che porta maledizione... » (Numeri 5, 18)
Secondo altri, invece, nel Giudaismo posteriore alla nascita di Gesù il velo poteva essere diventato prassi, dato che San Paolo suggerisce alle donne di Corinto di velarsi il capo:
« Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. » (1 Corinzi 11, 5-6)
A ciò si aggiunge il perverso piacere dei due malvagi giudici, che godono al vedere la fanciulla umiliata e messa alla berlina davanti a tutti. Così ha commentato infatti Lina Bolzoni, ordinaria di Letteratura Italiana alla Scuola Normale Superiore di Pisa:
« Durante il processo, a Susanna è tolto il velo affinché tutti potessero constatarne l'avvenenza (Dan 13, 32). Non sfugga il fatto che il velo, in tal caso, è una protezione per la donna, e l'ordine di levarselo è un aspetto dell' autorità maschile. Insomma, il contrario di quel che si dice oggi sull'argomento! »
Il processo contro la povera Susanna si rivela ben presto una vera e propria farsa. I due stimati giudici di Israele si inventano un vero e proprio romanzo ai danni della ragazza, introducendo la figura di un giovane amante, la tresca con il quale sarebbe stata interrotta proprio dall'irruzione dei due. Susanna non ha altro argomento se non la sua conclamata onestà e la sua fede in Dio:
« I due anziani si alzarono in mezzo al popolo e posero le mani sulla sua testa. Essa piangendo alzò gli occhi al cielo, con il cuore pieno di fiducia nel Signore. Gli anziani dissero: "Mentre noi stavamo passeggiando soli nel giardino, è venuta con due ancelle, ha chiuse le porte del giardino e poi ha licenziato le ancelle. Quindi è entrato da lei un giovane che era nascosto, e si è unito a lei. Noi, che eravamo in un angolo del giardino, vedendo una tale nefandezza, ci siamo precipitati su di loro e li abbiamo sorpresi insieme. Non abbiamo potuto prendere il giovane perché, più forte di noi, ha aperto la porta ed è fuggito. Abbiamo preso lei e le abbiamo domandato chi era quel giovane, ma lei non ce l'ha voluto dire. Di questo noi siamo testimoni!" La moltitudine prestò loro fede poiché erano anziani e giudici del popolo e la condannò a morte. Allora Susanna ad alta voce esclamò: "Dio eterno, che conosci i segreti, che conosci le cose prima che accadano, tu lo sai che hanno deposto il falso contro di me! Io muoio innocente di quanto essi iniquamente hanno tramato contro di me!" E il Signore ascoltò la sua voce. » (Daniele 13, 34-44)
Secondo Numeri 35, 30 e Deuteronomio 19, 15, bastavano due testimoni per far condannare qualcuno a morte. I due giudici poi sono persone autorevoli e per Susanna non c'è scampo: secondo la legge di Mosè dovrà subire la lapidazione. Si osservi che l'Autore conosce molto bene la Legge, giacché vigeva l'uso si mettere le mani sulla testa al momento della condanna:
« Conduci quel bestemmiatore fuori dell'accampamento; quanti lo hanno udito posino le mani sul suo capo e tutta la comunità lo lapiderà. » (Levitico 24, 14)
Interviene
Daniele
Di fronte all'ingiusta condanna pronunciata dal tribunale improvvisato (si noti
che non vi è alcun cenno alle autorità civili babilonesi), la casta Susanna
reagisce con una preghiera che è una dichiarazione di innocenza e un atto di
fiducia nel Signore; e Quest'ultimo, come sempre è accaduto nel Libro di
Daniele, non resta indifferente alla sorte della Sua devota:
« Mentre Susanna era condotta a morte, il Signore suscitò il santo spirito di un giovanetto, chiamato Daniele,
il quale si mise a gridare: "Io sono innocente del sangue di lei!"
Tutti si voltarono verso di lui dicendo: "Che vuoi dire con le tue parole?"
Allora Daniele, stando in mezzo a loro, disse: "Siete così stolti, Israeliti? Avete condannato a morte una figlia
d'Israele senza indagare la verità! Tornate al tribunale, perché costoro hanno deposto il falso contro di
lei." » (Daniele 13, 45-49)
Fa un po' impressione il fatto che solo un ragazzo abbia intuito la bugiarderia dei due empi giudici, così come appare insolito che tutti gli Israeliti diano retta alla voce di un giovanetto anziché zittirlo con qualche espressione sarcastica o offensiva (ricordiamo gli insulti dei Farisei al cieco nato in Gv 9, 34: « Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi? ») Tuttavia lo scopo sapienziale del racconto è evidente: il futuro profeta, a dispetto della giovane età, rivela più sapienza di tutti i suoi correligionari, accecati dalle menzogne dei due anziani, perchè « più vicino alla purezza dell'infanzia che alla cecità dell'età adulta », come ha scritto Susanna Tamaro. Con poche autorevoli parole egli si oppone all'esecuzione sommaria di Susanna, chiede la riapertura del processo ed ottiene che i due accusatori siano ascoltati separatamente:
« Il popolo tornò subito indietro e gli anziani dissero a Daniele:
"Vieni, siedi in mezzo a noi e facci da maestro, poiché Dio ti ha dato il dono
dell'anzianità." Daniele esclamò: "Separateli bene l'uno dall'altro e io li
giudicherò."
Separati che furono, Daniele disse al primo: "O invecchiato nel male! Ecco, i tuoi peccati commessi in passato vengono alla luce,
quando davi sentenze ingiuste opprimendo gli innocenti e assolvendo i malvagi, mentre il Signore ha detto: Non ucciderai il giusto e
l'innocente. Ora dunque, se tu hai visto costei, dì: sotto quale albero tu li hai visti stare
insieme?" Rispose: "Sotto un lentisco." » (Daniele 13, 50-54)
Jacopo Robusti detto il Tintoretto, "Susanna al bagno", 1560, olio su tela, Louvre
Qui al giovane Daniele viene attribuito "il dono dell'anzianità", cioè l'esperienza e la saggezza che di solito si guadagnano solo con l'età. Egli subito apostrofa il primo dei due presunti testimoni con parole che mettono alla berlina il suo peccato, assai antecedente al desiderio di possedere Susanna e poi di volersi vendicare di lei: egli ha pronunciato sentenze ingiuste, violando i Comandamenti di YHWH, e le parole di Daniele sono state ispirate dall'Onnipotente per attirare su di lui il giusto castigo. Interrogato, egli afferma di aver visto Susanna in compagnia del suo drudo sotto un lentisco. Si tratta di un arbusto sempreverde della famiglia delle Anacardiacee (nome scientifico Pistacia lentiscus, dal persiano "pistáh", "ricco di farina", da cui anche "pistacchio"); può raggiungere i 4 metri di altezza con una chioma di forma globosa e generalmente densa; in teoria sarebbe dunque adatto per un appuntamento galante protetto dall'ombra. Il lentisco è diffuso in tutte le regioni costiere del bacino del Mediterraneo, e dunque anche in Palestina, ma è possibile che un ricco ebreo della diaspora ne avesse importato degli esemplari nel suo giardino in Babilonia. Tuttavia il giovane Daniele risponde subito al mentitore con una frase apparentemente sibillina:
« Disse Daniele: "In verità, la tua menzogna ricadrà sulla tua testa. Già l'angelo di Dio ha ricevuto da Dio la sentenza e ti spaccherà in due!" » (Daniele 13, 55)
Perchè un giudizio così severo, da evocare addirittura lo squartamento del colpevole? In verità, l'Autore ricorre ad un gioco di parole in greco, perfettamente comprensibile ai colti Ebrei grecizzati cui erano destinate le traduzione dei Settanta e di Teodozione. "Lentisco" in greco si dice "schinos", termine simile a "schizein" che significa proprio "dividere in due". Una simile assonanza, tanto cara ai lettori antichi, è utilizzata anche per l'altro malvagio accusatore:
« Allontanato questo, fece venire
l'altro e gli disse: "Razza di Canaan e non di Giuda, la bellezza ti ha sedotto, la passione ti ha pervertito il cuore!
Così facevate con le donne
d'Israele ed esse per paura si univano a voi. Ma una figlia di Giuda non ha potuto sopportare la vostra iniquità.
Dimmi dunque, sotto quale albero li hai trovati insieme?" Rispose: "Sotto un
leccio."
Disse Daniele: «In verità anche la tua menzogna ti ricadrà sulla testa. Ecco
l'angelo di Dio ti aspetta con la spada in mano per spaccarti in due e così farti
morire! » (Daniele 13, 56-59)
Il leccio o elce (Quercus ilex) è un albero sempreverde delle fagacee, diffuso in tutto il Mediterraneo, che può assumere aspetto cespuglioso se cresce in ambienti rupestri, ma può raggiungere l'altezza di 25 metri. Questa specie di quercia ha tronco grigio e rami grigio-verdastri; proietta un'intensa ombra, e il bugiardo deve aver pensato che si trattasse di un albero adatto per celare sotto i propri rami una tresca extraconiugale; così facendo però cade in palese contraddizione con il suo degno compare, facendo sì che l'innocenza di Susanna trionfi. Siccome leccio in greco si dice "prinos", il giovane Daniele usa per condannare la sua iniquità l'immagine dell'angelo che lo spezza in due (come in un luogo comune della saga del pugile Rocky) perchè in greco "prizein" significa "segare a metà". Da notare che il ragazzino apostrofa il libidinoso anziano con quella che risulta una terribile ingiuria agli orecchi di un ebreo osservante: "Stirpe dei Sidonii" secondo la Settanta, e "Razza di Canaan e non di Giuda" nella versione di Teodozione, qui accolta dalla Conferenza Episcopale Italiana, di cui noi usiamo la traduzione. Gli abitanti di Sidone erano disprezzati dagli Ebrei perchè pagani, e più volte nella Bibbia si parla male di loro:
« Tu non continuerai più a far festa,
o figlia di Sidone, vergine disonorata! Isaia 23, 12a)
« Figlio dell'uomo, volgiti verso Sidone e profetizza contro di essa »
(Ezechiele 28, 21)
« Anche voi, Tiro e Sidone, e voi tutte contrade della Filistea, che siete per
Me? Vorreste prendervi la rivincita e vendicarvi di Me? Io ben presto farò ricadere sul vostro capo il male che avete fatto.
» (Gioele 4, 4)
Quanto ai Cananei, essi erano gli abitanti della Terrasanta prima dell'arrivo degli Ebrei, la contesero loro a lungo e più volte indussero in tentazione gli Israeliti con i loro riti pagani, ed è per questo che le maledizioni ebraiche contro i Cananei erano fatte risalire addirittura ai tempi di Noé:
« Quando Noè si fu risvegliato dall'ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: "Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!" Disse poi: "Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo!" » (Genesi 9, 24-26)
Dare del "cananeo" a un giudeo equivaleva a dargli del miscredente e addirittura del disonesto e del corrotto, come attesta il profeta Osea in questo suo passo:
« Canaan tiene in mano bilance false, ama frodare. » (Osea 12, 8)
Da notare che nella Mishnah, la raccolta delle legislazioni orali giudaiche, si legge che Rav Yochanan ben Zakkai, una delle principali figure dell'Ebraismo dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C., si trovò di fronte a un caso analogo, e domandò separatamente ai testimoni di descrivergli i rami della pianta di fico sotto cui avrebbero visto compiere il reato; difficile però dire se l'episodio è ispirato a quello di Susanna, visto che i Giudei consideravano quest'ultimo apocrifo.
La
fortuna di Susanna
A questo punto, il lieto fine è
d'obbligo: i due giudici corrotti sono giustiziati, Susanna è riabilitata e
Daniele praticamente è portato in trionfo:
« Allora tutta l'assemblea diede in grida di gioia e benedisse Dio che salva coloro che sperano in Lui. Poi insorgendo contro i due anziani, ai quali Daniele aveva fatto confessare con la loro bocca di aver deposto il falso, fece loro subire la medesima pena alla quale volevano assoggettare il prossimo, e applicando la legge di Mosè li fece morire. In quel giorno fu salvato il sangue innocente. Chelkìa e sua moglie resero grazie a Dio per la figlia Susanna insieme con il marito Ioakim e tutti i suoi parenti, per non aver trovato in lei nulla di men che onesto. Da quel giorno in poi Daniele divenne grande di fronte al popolo. » (Daniele 13, 60-64)
"Applicando la Legge di Mosé" fa riferimento a questo passo del Deuteronomio:
« Qualora un testimonio iniquo si alzi contro qualcuno per accusarlo di ribellione, i due uomini fra i quali ha luogo la causa compariranno davanti al Signore, davanti ai sacerdoti e ai giudici in carica in quei giorni. I giudici indagheranno con diligenza e, se quel testimonio risulta falso perché ha deposto il falso contro il suo fratello, farete a lui quello che egli aveva pensato di fare al suo fratello. Così estirperai il male di mezzo a te. » (Deuteronomio 19, 16-19)
Come è facile intuire, il racconto del capitolo 13 di Daniele non appartiene certo al genere storiografico: è piuttosto un racconto esemplare che esalta la fedeltà coniugale, condanna la facilità con cui gli uomini (anche ed anzi specialmente i benpensanti) cedono alle loro basse voglie, e soprattutto celebra la fedeltà di Dio che, come ribadisce il versetto 60, "salva coloro che sperano in Lui". Il carmelitano scalzo Antonio Sicari, autore dell'"Atlante storico dei grandi santi e dei fondatori", scrive in proposito:
« Susanna ha scelto la condanna (provvisoria) degli uomini tenendo fede a Dio. È un' innocente vittima della burocrazia, alla quale il popolo crede; ma la voce del giovane profeta Daniele risolve il caso. Tale racconto edificante voleva insegnare ai perseguitati a non temere la calunnia e i processi ingiusti. »
Baldassarre Croce, "Il processo a Susanna", 1595, Roma, chiesa di Santa Susanna
Siccome i processi ingiusti sono tuttora all'ordine del giorno, non è difficile comprendere l'allergia dell'Autore nei loro confronti, e di conseguenza i motivi per cui ha composto questo breve ma commovente apologo. Né c'è da stupirsi se esso ha avuto tanta fortuna nella storia dell'arte, tanto che, come ha affermato un critico, « da modello di purezza, la tradizione ne ha fatto un esempio di sensualità, rappresentando un fiorire di sguardi, di nudità, di ammiccamenti, di voglie, di visi bavosi ». E, di conseguenza, ha avuto un'enorme fortuna anche il nome Susanna insieme a tutte le sue varianti (Susan, Sue, Susy, Suzanne...) Tra le più famose donne che hanno portato e portano questo nome possiamo ricordare l'imprenditrice torinese Susanna Agnelli (1922-2009), la danzatrice e coreografa veronese Susanna Beltrami (1959-), l'attrice francese Suzanne Bianchetti (1889-1936), la nota sindacalista milanese Susanna Camusso (1955-), Suzanne Curchod (1739-1794), moglie del finanziere Jacques Necker e madre di Madame de Staël, l'attrice statunitense Susie Essman (1955-), Susanna Fontanarossa (XV secolo), madre di Cristoforo Colombo, la giornalista spagnola Susana Fortes (1959-), la pallanuotista australiana Suzannah Fraser (1983-), la giallista statunitense Sue Grafton (1940-), la canoista svedese Susanne Gunnarsson (1963-), l'attrice americana Susan Hayward (1917-1975, vero nome Edythe Marrenner), l'astronoma ungherese Zsuzsanna Heiner (1979-), la schermitrice tedesca Susanne König (1974), la nuotatrice danese Susanne Nielsson (1960), la sciatrice tedesca Susanne Riesch (1987-), l'attrice americana Susan Sarandon (1946-, vero nome Susan Abigail Tomalin), la scrittrice triestina Susanna Tamaro (1957-), la triatleta statunitense Susan Williams (1969-) e la cestista slovacca Zuzana Žirková (1980-). A loro bisogna aggiungere Santa Susanna di Roma, martire nel 295 e ricordata dalla Chiesa l'11 agosto (onomastico di tutte le Susanne), e Santa Susanna di Georgia, madre di Santa Nino e ricordata il 2 giugno assieme al marito San Zebulone.
E, se questo elenco ancora non basta, ecco alcuni degli innumerevoli esempi dell'uso del nome della casta Susanna nelle lettere e nelle arti: Susan Calvin, la "robopsicologa" creata da Isaac Asimov (1920-1992), comparsa in molti racconti della raccolta "Io, Robot"; Susan Ivanova, uno dei protagonisti della serie di fantascienza "Babylon 5", interpretata dall'attrice Claudia Christian (1955-); Susan Nicoletti, personaggio minore di "Star Trek Voyager" interpretata da Christine Delgado, nota perchè suona molto bene l'oboe; Susan Pevensie, protagonista della saga "Le cronache di Narnia" di Clive Staples Lewis (1898-1963); Susan Storm Richards, alias la Donna Invisibile, uno dei "Fantastici Quattro" creati da Stan Lee e Jack Kirby nel 1961; Susan Bones, personaggio minore della saga di Harry Potter, scritta da Joanne Rowling (1955-); Susan Vance, interpretata da Katharine Hepburn (1907-2003), protagonista del film "Susanna!" ("Bringing Up Baby") diretto nel 1938 da Howard Hawks (1896-1977); Shosanna Dreyfus, personaggio del già citato film "Bastardi senza gloria" di Quentin Tarantino (1953-), interpretata da Mélanie Laurent (1983-); e Osusanna Ailoviù, storica spasimante di Cocco Bill creata dal fumettista Benito Jacovitti (1923-1997). Susanna Tuttapanna era uno dei personaggi più popolari di "Carosello" negli anni sessanta, testimonial della pubblicità di un noto formaggino. Il "Quesito con la Susi" è uno dei giochi a premi più famosi della "Settimana Enigmistica". Infine, "Oh Susannah" è il titolo di una delle più celebri canzoni di tutti i tempi, attribuita a Stephen Foster (1826-1864), il padre della musica americana, che ha colpito il cuore e la fantasia di milioni di ascoltatori:
« I come from Alabama with my banjo on my knee,
I'm going to Louisiana, my true love for to see.
It rained all night the day I left, the weather it was dry
The sun so hot I froze to death, Susanna, don't you cry.
Oh! Susannah, Oh don't you cry for me,
For I come from Alabama with my banjo on my knee! »
Come ha scritto il giornalista Armando Torno sul "Corriere della Sera", « della vicenda biblica queste semplici parole conservano un riflesso. Una lacrima, una gioia che si intravede, una promessa, forse quella redenzione terrena che accostiamo alla bellezza. Ma sovente non ci accorgiamo che dai frammenti di una storia perduta nel tempo rubiamo odissee per consegnarle alla nostra fantasia. È un gesto che facciamo per lenire il dolore di vivere. Chiamatele come vi pare, di certo sono autoconsolazioni. Non è un caso che siano sempre aiutate dall'immagine di una nostra Susanna ».
Dalla
profezia di Abacuc
Passiamo all'ultimo capitolo del libro, il
quattordicesimo, nel quale Daniele appare di nuovo anziano come doveva esserlo
nei capitoli 10-12, e compie due grandi imprese sotto il regno di
Ciro. Anche in
questo caso il testo greco che ci è stato tramandato dai Settanta differisce
dalla versione di Teodozione. Il primo infatti inizia con queste parole:
La cui traduzione può essere:
« Dalla Profezia di Abacuc, figlio di
Giosuè, della Tribù di Levi.
Un uomo di nome Daniele, sacerdote, figlio di Abal, viveva in compagnia del Re
di Babilonia. » (Daniele 14, 1-2 LXX)
Come si vede, qui non compare alcun riferimento a Ciro o a qualunque altro sovrano storicamente ben circostanziato. L'idea è che si tratti del solito Nabucodonosor, che già in passato aveva platealmente reso onore al Dio d'Israele; ma il nome è volutamente lasciato nel vago. Viene detto anche che il testo è tratto dalla "profezia di Abacuc", personaggio che sarà citato di nuovo al versetto 33, ed il cui nome è reso dalla Settanta proprio come Αμβακουμ (Ambakoum); il perchè si faccia riferimento al breve libro di quel profeta lo capiremo più avanti. Il testo della LXX è l'unico a trasmetterci anche il nome del padre di Daniele, un certo Abal. Il fatto che Daniele venga presentato come sacerdote della Tribù di Levi (in nessun altro punto del nostro libro lo si diceva) e come uno dei cortigiani di un sovrano babilonese ci fa capire che questo testo inizialmente non aveva nulla a che fare con il resto del Libro di Daniele, e forse era considerato una sezione "apocrifa" o, se si preferisce, "deuterocanonica", del libretto di Abacuc. Perchè altrimenti Daniele verrebbe presentato come se lo si incontrasse qui per la prima volta? Nel Libro di Abacuc infatti Daniele non è mai citato. Si pensa che questa sia stata la versione più antica del capitolo 14. Teodozione trovò dissonante questo incipit con il resto del testo di Daniele, e pensò di adattarlo meglio al contesto: il capitolo 13 con Daniele giovanetto finì all'inizio, e siccome questo racconto si adattava bene con la figura di un Daniele anziano, saggio e ricco di esperienza, pensò di lasciarlo in appendice e di ambientarlo nella stessa collocazione cronologica dei capitoli 10-12:
« Il re Astiage si riunì ai suoi padri e gli succedette nel regno Ciro il Persiano.
Ora Daniele viveva accanto al re, ed era il più onorato di tutti gli amici del re.
» (Daniele 14, 1-2 TH)
Questa traduzione è poi stata usata dalle Bibbie moderne ed anche dalla Conferenza Episcopale Italiana. Come si vede, Teodozione è assai meglio informato dell'Autore del resto del Libro di Daniele circa la storia del Medio Oriente antico, e probabilmente ha accanto a sé le "Storie" di Erodoto. Il Re dei Medi infatti non è più l'immaginario Dario, figlio di Serse, bensì Astiage, da noi già citato commentando il capitolo 6 di Daniele, un personaggio con tutti i crismi della storia. Egli "si riunì ai suoi padri", cioè morì, e gli successe Ciro II di Persia. In realtà non vi è certezza che Ciro abbia fatto uccidere suo nonno per succedergli, ma di certo una simile condotta sarebbe stata in linea con quella di tanti sovrani della sua epoca. Teodozione non cita Daniele come se egli spuntasse fuori nel testo per la prima volta: il versetto 2 sembra in diretta continuità con il resto della sua traduzione di questo libro, e ciò spiega la fortuna fino al giorno d'oggi di questo rimaneggiamento.
Nonostante questo quadro storico incoraggiante, si comprende ben presto che nel racconto c'è qualcosa che non va. Così infatti esordisce l'Autore:
« I Babilonesi avevano un idolo chiamato Bel, al quale offrivano ogni giorno dodici sacchi di fior di farina, quaranta pecore e sei barili di vino. Anche il re venerava questo idolo e andava ogni giorno ad adorarlo. » (Daniele 14, 3-4a)
L'ultima avventura di Daniele è ambientata a Babilonia, così come nei capitoli 1-6. Ma Ciro il Persiano teneva la sua corte a Pasargade, capitale dell'Impero Persiano prima che Dario I la spostasse a Persepoli, oggi nella provincia iraniana di Fars. Ci scontriamo di nuovo con il qui pro quo, già comune nella sezione in aramaico del libro, per cui l'Impero Neobabilonese, l'Impero dei Medi e l'Impero Persiano erano creduti avere tutti la stessa estensione e tutti la stessa capitale, cioè Babilonia. Ciro è presentato inoltre come adoratore del dio Bel, il cui nome deriva dalla pronuncia babilonese della parola semitica "Baal", "signore", la principale divinità dei Fenici e dei Cananei, corrispondente a Crono nella mitologia greca e a Saturno in quella romana. Baal è citato più volte nella Bibbia come idolo fasullo che distrae gli Ebrei dal culto monoteistico di JHWH. Lo testimonia ad esempio questo passo del Libro dei Giudici:
« Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal; abbandonarono il Signore, Dio dei loro padri, che li aveva fatti uscire dal paese d`Egitto, e seguirono altri dei di quei popoli che avevano intorno: si prostrarono davanti a loro e provocarono il Signore, abbandonarono il Signore e servirono Baal e Astarte. » (Giudici 2, 11-13)
A sinistra: statuetta in
bronzo del dio Baal. A destra: Baal
così come appare nel telefilm di fantascienza "Stargate
SG1"
Gedeone cominciò la sua carriera come Giudice d'Israele proprio demolendo l'altare di Baal, e perciò ricevette l'epiteto di Ierub-Baal, cioè "Baal difenda" (« Baal difenda la sua causa contro di lui, perché egli ha demolito il suo altare »: Giudici 6, 32). In seguito Gezabele, figlia del Re di Sidone e moglie del re d'Israele Acab, suscitò lo sdegno del profeta Elia innalzando templi a Baal in Samaria (1 Re 16, 31-33). In 1 Re 18, 20-40 si narra come, grazie al miracolo del fuoco sceso dal cielo a consumare il suo olocausto sul Monte Carmelo, Elia sterminò tutti i 450 sacerdoti di Baal al servizio di Gezabele, e per questo Gezabele cercò di ucciderlo. In 2 Re 17, 16 la rovina del Regno settentrionale di Israele è attribuita fra l'altro alla diffusione in esso del culto di Baal, mentre la riforma religiosa di re Giosia comincia in 2 Re 23, 4 proprio bruciando tutti gli idoli di Baal. Dato che il dio Bel adorato dai babilonesi non era altro che il Baal venerato nella regione siropalestinese, non c'è da stupirsi che l'Autore disapprovi il suo culto, e Daniele non solo se ne guardi bene dall'imitare gli altri cortigiani del re, continuando a venerare solo YHWH, ma derida addirittura il sovrano per la sua creduloneria:
« Daniele però adorava il suo Dio e perciò il re gli disse: "Perché non adori Bel?" Daniele rispose: "Io non adoro idoli fatti da mani d'uomo, ma soltanto il Dio vivo che ha fatto il cielo e la terra e che è signore di ogni essere vivente." "Non credi tu - aggiunse il re - che Bel sia un dio vivo? Non vedi quanto beve e mangia ogni giorno?" Rispose Daniele ridendo: "Non t'ingannare, o re: quell'idolo di dentro è d'argilla e di fuori è di bronzo e non ha mai mangiato né bevuto." » (Daniele 14, 4b-7)
L'inganno
dei sacerdoti di Bel
Il fatto che Ciro, un persiano
zoroastriano, sia presentato qui come devoto a Bel è stato interpretato da
alcuni esegeti per via del desiderio del fondatore dell'Impero Persiano di
presentarsi ai babilonesi come rispettoso dei loro culti e delle loro antiche
tradizioni: un colpo da maestro per Ciro, considerando che Nabonide si era fatto
malvolere dal popolo proprio cercando di imporre ad esso il culto lunare di Sin. Il valore esemplare di questo
racconto di origine midrashica è tuttavia evidente. Così come l'episodio della casta
Susanna ha lo scopo di dimostrare che Dio non abbandona mai gli innocenti che si
affidano a Lui, questo nuovo capitolo è invece destinato alla
polemica giudaica contro l'idolatria, tentazione costante (come si è
visto negli esempi sopra riportati relativi al dio Baal) per gli Israeliti,
circondati da ogni parte da popoli pagani. A Bel i Babilonesi offrono una
quantità esorbitante di cibo: "dodici sacchi di fior di farina, quaranta pecore e sei barili di
vino", e sono ingenuamente convinti che egli li divori davvero. Daniele irride tale
convinzione con un ragionamento semplicissimo: se Bel è una statua di
argilla e di bronzo, come può mangiare?
Questo atteggiamento di Daniele ricorda un altro celebre Midrash, relativo questa volta ad Abramo e contenuto nella raccolta "Bereshit Rabbah", composta in Palestina nel terzo secolo. In tale racconto, Terach, padre del patriarca ancora bambino, è un famoso costruttore e venditore di idoli nella città di Harran. Durante l'assenza del padre, Abramo afferra un bastone e fa a pezzi tutti gli idoli del padre, tranne il più grande, al quale mette in mano il bastone. Quando il padre torna, va su tutte le furie e domanda ad Abramo cosa è accaduto. "L'idolo più grande era invidioso degli altri", risponde il figlio, "e ha distrutto tutti gli altri idoli: come vedi, ha ancora il bastone in mano." "Ma cosa dici?" urla Terach: "è una statua di terracotta, e non può distruggere nulla!" E Abramo, pronto: "E allora, se è solo di terracotta, perché lo adori e lo spacci per un essere vivente?" (Bereshit Rabbah 38, 19)
Ecco comunque la reazione del re:
« Il re s'indignò e convocati i sacerdoti di Bel, disse loro: «Se voi non mi dite chi è che mangia tutto questo cibo, morirete; se invece mi proverete che è Bel che lo mangia, morirà Daniele, perché ha insultato Bel." Daniele disse al re: "Sia fatto come tu hai detto." I sacerdoti di Bel erano settanta, senza contare le mogli e i figli. Il re si recò insieme con Daniele al tempio di Bel e i sacerdoti di Bel gli dissero: "Ecco, noi usciamo di qui e tu, re, disponi le vivande e mesci il vino temperato; poi chiudi la porta e sigillala con il tuo anello. Se domani mattina, venendo, tu riscontrerai che tutto non è stato mangiato da Bel, moriremo noi, altrimenti morirà Daniele che ci ha calunniati." Essi però non se ne preoccuparono perché avevano praticato un passaggio segreto sotto la tavola, per il quale passavano abitualmente e consumavano tutto. » (Daniele 14, 8-12)
I sacerdoti di Bel sono settanta, solito numero simbolico. Da notare che settanta (per essere precisi 72, sei da ogni Tribù d'Israele) è il numero dei sacerdoti che, secondo la Lettera di Aristea, per incarico di re Tolomeo II Filadelfo furono incaricati dal Sommo Sacerdote Eleazaro di tradurre l'Antico Testamento in greco: l'Autore, che certo conosceva i LXX, sembra intenzionato a contrapporre quei 70 sacerdoti del dio di bronzo e argilla ai 70 sacerdoti del Dio vivente. In questo testo i LXX sono rappresentati da Daniele. Infatti Ciro convoca i sacerdoti di Bel e ordina loro di dimostrare che le offerte condotte all'idolo sono consumate da quest'ultimo; chi perderà questa sfida sarà condannato a morte. Si osservi che, in caso di vittoria dei pagani, Ciro farà mettere a morte Daniele "perchè ha insultato Bel"; invece i 70 sacerdoti di Bel chiedono che il profeta giudeo sia ucciso "perchè li ha calunniati". In questo caso il re pagano, sulla scia di Nabucodonosor e di Dario il Medo, si dimostra più devoto a Bel dei sacerdoti, ai quali sembra importare solo il loro buon nome, non le bestemmie contro il loro dio. L'Autore li dipinge perciò con voluto sarcasmo. Ma il sarcasmo diventa vero e proprio disprezzo, non appena si scopre che i sacerdoti pagani mentono sapendo di mentire: hanno scavato un passaggio sotterraneo per mezzo del quale possono accedere al tempio e sottrarre tutte le cibarie offerte a Bel. Per questo accettano la sfida a cuor leggero. Quello che segue fa però pensare che Daniele già sospettasse la natura del loro inganno:
« Dopo che essi se ne furono andati, il re fece porre i cibi davanti a Bel: Daniele ordinò ai servi del re di portare un po' di cenere e la sparsero su tutto il pavimento del tempio alla presenza soltanto del re; poi uscirono, chiusero la porta, la sigillarono con l'anello del re e se ne andarono. » (Daniele 14, 13-14)
Il profeta ha escogitato un piano per smascherare la bugiarderia dei sacerdoti A loro insaputa, Daniele fa cospargere di cenere il pavimento del tempio, con l'evidente scopo di individuare ogni movimento notturno in esso. Cala il buio e, attraverso il passaggio segreto, i sacerdoti penetrano nel tempio, lasciando intatti i sigilli posti dal re all'area sacra. Ecco però cosa accade:
« I sacerdoti vennero di notte, secondo il loro consueto, con le mogli, i figli, e mangiarono e bevvero tutto. Di buon mattino il re si alzò, come anche Daniele. Il re domandò: "Sono intatti i sigilli, Daniele?" "Intatti, o re" rispose. Aperta la porta, il re guardò la tavola ed esclamò: "Tu sei grande, Bel, e nessun inganno è in te!" Daniele sorrise e, trattenendo il re perché non entrasse, disse: "Guarda il pavimento ed esamina di chi sono quelle orme." Il re disse: "Vedo orme di uomini, di donne e di ragazzi!" Acceso d'ira, fece arrestare i sacerdoti con le mogli e i figli; gli furono mostrate le porte segrete per le quali entravano a consumare quanto si trovava sulla tavola. Quindi il re li fece mettere a morte, consegnò Bel in potere di Daniele che lo distrusse insieme con il tempio. » (Daniele 14, 15-22)
La verifica sui sigilli non rivela segni di effrazione, ma la mensa è stata accuratamente ripulita. Ciro, il "Signore dei Quattro Angoli del Mondo" come egli stesso si è autodefinito, ci fa una figura piuttosto magra: vista la tavola priva delle offerte, prorompe in una esultante professione di fede nel dio pagano, cadendo come un pollo nell'inganno dei suoi sacerdoti. Daniele però lo trattiene e gli fa notare le innumerevoli orme "di uomini, di donne e di ragazzi" che nottetempo sono penetrati nel tempio di soppiatto, senza accorgersi della cenere sparsa da Daniele: un trucco semplice, ma quanto mai efficace. In precedenza, come abbiamo visto, la verità dell'Unico Dio di Israele era dimostrata da un intervento prodigioso di YHWH stesso, come nel caso dei tre giovani nella fornace o del banchetto di Baldassarre; stavolta, invece, è bastata la genialità di Daniele attraverso una dimostrazione per così dire "scientifica", in quanto sperimentale e razionale, per fargli vincere la partita, così come nell'interrogatorio ai due anziani nell'episodio di Susanna. Conclusione: il tempio di Bel cessa di esistere, insieme ai suoi sacerdoti. Chissà quanti pii giudei, dopo la deportazione a Babilonia, avrebbero voluto cancellare quel culto pagano e sostituirlo con quello dell'Unico Vero Dio, smascherando in modo plateale la venerazione degli idoli così come ha fatto Daniele; basti pensare a questa citazione di Geremia:
« Proclamatelo fra i popoli e fatelo sapere, non nascondetelo, dite: Babilonia è presa, Bel è coperto di confusione, è infranto Marduk; sono confusi i suoi idoli, sono sgomenti i suoi feticci. » (Geremia 50, 2)
L'Autore ha finalmente realizzato questo desiderio, almeno sulla carta! E non è finita. Daniele infatti deve ora lottare con un secondo idolo, stavolta in carne ed ossa, non una semplice statua di terracotta:
« Vi era un gran drago e i Babilonesi lo veneravano. Il re disse a Daniele: "Non potrai dire che questo non è un dio vivente; adoralo, dunque." » (Daniele 14, 23-24)
Il
drago di Babilonia
Come poteva esserci un drago, a Babilonia?
Questo fatto da solo sembrerebbe far capire che si tratta di un racconto
sapienziale, di una favola insomma, non certo del resoconto di fatti
storicamente avvenuti. Eppure... nel racconto del drago di Babilonia forse è
confluito qualcosa che è veramente di origine storica. Infatti il tradizionale
dio babilonese Marduk, a volte identificato con
Bel, era spesso raffigurato con un drago ai suoi piedi, e l'iconografia del
drago ritorna più e più volte nella celebre "Porta
di Ishtar", un tempo a Babilonia. Infatti, quando grazie ad Hammurabi
Marduk divenne la principale divinità mesopotamica, strappando il primato al
dio sumerico Enlil, ne assunse anche l'animale simbolico, il Mushrussu,
descritto come un drago squamoso e cornuto, con lingua bifida, zampe anteriori di leone, posteriori
d'aquila e pungiglione di scorpione. Con il suo grasso sacro per tradizione erano unti i
re babilonesi. Si pensi che il termine semitico Mushrussu è imparentato con il verbo ebraico
Mashiach, che significa appunto "ungere", da cui deriva il termine
"Messia" che designava gli "Unti" dal Signore, cioè i re della dinastia davidica prima, Gesù Cristo poi: Kristos in greco significa proprio
"Unto". Pochi sono i dubbi che, immaginando un grande dragone vivo a
Babilonia al tempo di Ciro, Daniele pensasse proprio al famoso Mushrussu, come
se esso fosse un animale reale! Rifiutando di venerarlo, quindi, il nostro
profeta rifiuta in blocco il culto idolatrico di stato del dio Marduk.
Il Mushrussu, il mitico drago che custodiva le porte di Babilonia
Alcuni commentatori pensano però che un Mushrussu in carne ed ossa a Babilonia esistesse davvero: forse un grosso serpente, o un coccodrillo di dimensioni mostruose (in tal modo sarebbe spiegata la provenienza del "grasso sacro"). Se è così, ora Daniele deve trovare un'altra maniera per giustificare il suo rifiuto di venerarlo, e quindi di venerare il pantheon babilonese. Senza bisogno di miracoli, egli ricorre di nuovo all'astuzia:
« Daniele rispose: «Io adoro il Signore mio Dio, perché egli è il Dio vivente; se tu me lo permetti, o re, io, senza spada e senza bastone, ucciderò il drago." Soggiunse il re: "Te lo permetto." Daniele prese allora pece, grasso e peli e li fece cuocere insieme, poi ne preparò focacce e le gettò in bocca al drago che le inghiottì e scoppiò; quindi soggiunse: "Ecco che cosa adoravate!" » (Daniele 14, 25-27)
È stato fatto notare un parallelo con il mito di Marduk che usa tutta la sua forza per uccidere Tiamat, il drago del caos; invece Daniele rivendica la superiorità di YHWH su Marduk, promettendo di uccidere quel mostro senza armi di sorta. "Pece, grasso e peli" di per sé non sono velenosi per il drago ma, appena egli li ha ingoiati, si gonfiano nel suo stomaco fino a farlo scoppiare. Altri, più razionalisti, pensano che questo strano intruglio abbia provocato al supercoccodrillo adorato in Babilonia un'occlusione intestinale, tale da condurlo a rapida morte. Il popolo di babilonia, però, è tutt'altro che felice di questa morte, nonostante l'evidente dimostrazione dell'inconsistenza della divinità del Mushrussu; ed è facile capire il perchè, alla luce di quanto vi ho detto sopra. Venerare il drago voleva dire venerare Marduk e riconoscere l'investitura divina sui sovrani babilonesi; uccidendolo, Daniele ha demolito la superiorità del dio nazionale di Babilonia su tutti gli altri déi, e così ha inficiato il prestigio della città, a quei tempi non più capitale ma comunque ancora importantissima. Possiamo perciò spiegarci la rivolta dei babilonesi contro Ciro:
« Quando i Babilonesi lo seppero, ne furono molto indignati e insorsero contro il re, dicendo: "Il re è diventato Giudeo: ha distrutto Bel, ha ucciso il drago, ha messo a morte i sacerdoti." Andarono da lui dicendo: "Consegnaci Daniele, altrimenti uccidiamo te e la tua famiglia!" Quando il re vide che lo assalivano con violenza, costretto dalla necessità consegnò loro Daniele. Ed essi lo gettarono nella fossa dei leoni, dove rimase sei giorni. Nella fossa vi erano sette leoni, ai quali venivano dati ogni giorno due cadaveri e due pecore: ma quella volta non fu dato loro niente perché divorassero Daniele. » (Daniele 14, 28-32)
La Vulgata, la traduzione della Bibbia effettuata da San Girolamo, traduce il versetto 27 in questo modo:
« Quod cum audissent Babylonii, indignati sunt vehementer: et congregati adversum regem, dixerunt: "Iudaeus factus est rex" » (Dan 14, 27)
Le parole dei babilonesi in rivolta diventano qui "Un giudeo la fa da re!" La Conferenza Episcopale Italiana ha però preferito tradurre "Il re è diventato Giudeo", perchè subito dopo i sudditi non attaccano lo stesso Daniele, ma vanno a lagnarsi proprio dal loro re. Appare dunque più credibile che sia Ciro ad essere stato accusato di aver rinnegato i culti babilonesi per quello giudaico, piuttosto che Daniele abbia preteso di assumere la dignità regale. Il risultato è comunque lo stesso: il "sacrilego" finisce diritto nella Fossa dei Leoni, come già era successo nel capitolo 6.
Di
nuovo nella fossa
Evidentemente il racconto di Daniele
gettato in pasto alle fiere era molto diffuso nel giudaismo postesilico, tanto
da far pensare che esso abbia una vera base storica, tramandata oralmente di
generazione in generazione. Che la Bibbia sia abituata a raccontare la stessa
cosa due o tre volte da prospettive diverse, già lo sappiamo; ma la presenza di
due racconti simili ma indipendenti su questo tema significa che più
comunità giudaiche lo hanno rielaborato in diverso modo, riflettendo
quindi sulla sua importanza didattica per il Popolo Eletto. Nel capitolo 6, se
ricordate, Daniele finiva nella fossa al tempo di Dario
il Medo, a causa dell'invidia dei satrapi, senza fare nulla di più che
venerare il proprio Dio. Nel capitolo 14, invece, è condannato sotto il regno
di Ciro per aver attivamente combattuto l'idolatria,
dimostrando che il culto di Bel e del
Mushrussu sono fallaci e inducono gli uomini in errore. Ciò dimostra il diverso
intento delle due comunità che hanno rielaborato lo stesso racconto. A scrivere
il capitolo 6 è stato un Giudeo al tempo della persecuzione
ellenistica, che aveva visto i suoi correligionari comportarsi da buoni
sudditi dei Siriani, eppure (come Daniele) venire perseguitati ugualmente e
duramente. Il capitolo 14 riflette piuttosto una situazione della diaspora,
in cui il Tempio è stato distrutto e gli Ebrei sono costretti a vivere tra i
mille popoli pagani sudditi dell'Impero Romano: non è più il momento di
cercare di convivere con le autorità civili per salvare capra e cavoli (la pace
in Terrasanta, l'obbedienza al Cesare di turno e l'integrità del Tempio), ma di
contrattaccare i polemisti pagani che accusano i Giudei di ogni nefandezza,
germe di quello che sarà l'antisemitismo medioevale e moderno. In quest'ottica
dobbiamo leggere questa seconda versione di Daniele nella fossa dei leoni.
Non è difficile immaginare che l'epilogo della storia sarà lo stesso, stavolta con un intervento di natura soprannaturale (i felini in sciopero della fame). Tuttavia occorre segnalare, in questa seconda versione, l'aggiunta di un interessante episodio secondario, che a miracolo aggiunge miracolo, e che - debbo confessarlo - ha solleticato il mio interesse e la mia fantasia fin da quando ero bambino. Entra in scena infatti un personaggio già ben noto ai lettori della Bibbia:
« Si trovava allora in Giudea il profeta Abacuc, il quale aveva fatto una minestra e spezzettato il pane in un recipiente e andava a portarlo nel campo ai mietitori. L'angelo del Signore gli disse: "Porta questo cibo a Daniele in Babilonia nella fossa dei leoni." Ma Abacuc rispose: "Signore, Babilonia non l'ho mai vista e la fossa non la conosco." Allora l'angelo del Signore lo prese per i capelli e con la velocità del vento lo trasportò in Babilonia e lo posò sull'orlo della fossa dei leoni. Gridò Abacuc: "Daniele, Daniele, prendi il cibo che Dio ti ha mandato." Daniele esclamò: "Dio, ti sei ricordato di me e non hai abbandonato coloro che ti amano." Alzatosi, Daniele si mise a mangiare, mentre l'angelo di Dio riportava subito Abacuc nel luogo di prima.» (Daniele 14, 33-39)
Del profeta Abacuc ci è pervenuto un breve libro biblico composto da tre capitoli per un totale di 56 versetti. Il suo nome secondo alcuni significa "Colui che combatte", secondo altri deriva dal nome assiro di un arbusto, la Cassia angustifolia. Non si sa esattamente quando visse. Nel versetto 1, 6 del suo libro Iddio dice: « Ecco, io faccio sorgere i Caldei, popolo feroce e impetuoso, che percorre ampie regioni per occupare sedi non sue », ma è incerto se l'Autore intenda dire che l'invasione della Palestina è imminente o che è già avvenuta. Di solito Abacuc viene posto alla fine del VII secolo a.C., contemporaneamente a Geremia. Il libro di Abacuc affronta problemi eterni come il silenzio di Dio di fronte al dolore innocente (« Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: "Violenza!" e non soccorri? », Ab 1, 2) e la prepotenza dei tiranni, e si chiude con un magnifico salmo, forse più antico del resto del libro. Pur così breve, il Libro di Abacuc è considerato uno degli scritti più profondi di tutto l'Antico Testamento, ed ha conosciuto un grande successo nella successiva letteratura giudaica e cristiana. Secondo una leggenda ebraica egli morì a Tuyserkan, oggi nella regione iraniana di Hamadan, mentre la tradizione medievale dice che le spoglie del profeta Abacuc sono conservate nella cattedrale di Nocera Inferiore. Nel Nuovo Testamento il suo insegnamento « il giusto vivrà per la sua fede » (2, 4) verrà usato da San Paolo come supporto scritturale per la sua riflessione teologica sulla fede e sulla grazia (Romani 1, 17; Galati 3, 11; Ebrei 10, 38) A Qumran fu ritrovato il cosiddetto "Pesher Habakuk" (Commento ad Abacuc), un rotolo essenico contenente un commento ai primi due capitoli del suo libro, il cui originale oggi è conservato nell'Università Ebraica di Gerusalemme. Siccome Abacuc nell'iconografia è sempre rappresentato come un uomo molto anziano, da "Abacucco" (antica italianizzazione di Abacuc) deriva la nota espressione italiana "vecchio bacucco", a testimonianza della fortuna di questo profeta.
Donatello, il profeta Abacuc, scultura in marmo dal campanile del Duomo di Firenze
Non vi sono dubbi che a questo personaggio pensava l'autore del capitolo 14 di Daniele, anche se solo Teodozione lo chiama "profeta", ed anche se probabilmente egli è vissuto molto prima di Ciro. Come già sappiamo, i vari autori delle singole parti del nostro libro non hanno preoccupazioni storiografiche, ma solo didattiche, e quindi questi spostamenti di personaggi ed epoche non devono certo suonare strane. Proprio ad Abacuc è affidata la missione di rifocillare Daniele; se infatti nel capitolo 6 egli era rimasto nella fossa per una notte, ora vi rimane per ben sette giorni, e dunque ha bisogno di cibo. Probabilmente l'Autore ha scelto proprio Abacuc come personaggio del suo racconto proprio per via del salmo contenuto nel capitolo 3 del suo libro, nel quale si esalta la potenza del Signore che giudica e salva. Abacuc sembra combattere la stessa battaglia di Daniele contro idoli e animali sacri allorché insegna al suo popolo:
« A che giova un idolo perché l'artista si dia pena di scolpirlo? O una statua fusa o un oracolo falso, perché l'artista confidi in essi, scolpendo idoli muti? » (Abacuc 2, 18)
Inoltre il soccorso divino a Daniele gettato nella fossa sembra riecheggiare in quest'altro versetto:
« Il Signore Dio è la mia forza, egli rende i miei piedi come quelli delle cerve e sulle alture mi fa camminare. » (Abacuc 3, 19)
Teletrasporto...
biblico
C'è però un problema: Abacuc vive in Giudea, molto lontano da
Babilonia, che ha appena sentito nominare. Per questo, l'angelo del Signore (che
qui non è chiamato per nome, anzi è ancora considerato quasi una
"appendice" del Signore stesso) ricorre ad un vero e proprio... teletrasporto!
Abacuc si ritrova prodigiosamente sul limitare della fossa, dopo essere stato
afferrato "per la cima dei capelli".
Questa strana modalità è stata probabilmente suggerita da un passo di
Ezechiele:
« Stese come una mano e mi afferrò per i capelli: uno spirito mi sollevò fra terra e cielo e mi portò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso del cortile interno... » (Ezechiele 8, 3a)
Da notare che, nella tradizione musulmana, Abacuc viene sostituito dal più noto profeta Geremia. Non è questa l'unica volta che un personaggio biblico viene "teletrasportato" stile Capitan Kirk da un posto all'altro "con la velocità del vento" (allora non si aveva idea di quanto fosse veloce la luce). Capita tra l'altro ad Abdia (sovrintendente del palazzo del re Acab), ad Elia e al diacono Filippo:
« Appena sarò partito da te, lo spirito del Signore ti porterà in un luogo a me
ignoto. » (1 Re 18, 12)
« Ecco, fra i tuoi servi ci sono cinquanta uomini di valore; vadano a cercare il tuo padrone
[Elia] nel caso che lo spirito del Signore l'avesse preso e gettato su qualche monte o in qualche valle.
» (2 Re 2, 16)
« Quando furono usciti dall'acqua, lo Spirito del Signore rapì Filippo e l'eunuco non lo vide più e proseguì pieno di gioia il suo cammino. Quanto a Filippo, si trovò ad Azoto e, proseguendo, predicava il vangelo a tutte le città, finché giunse a Cesarea.
» (Atti 8, 39-40)
Il finale è lo stesso del capitolo 6. Là però Dario si alzava di buon mattino e correva alla fossa per verificare se Daniele era stato salvato dal suo Dio. Qui invece Ciro arriva senza alcuna speranza di ritrovarlo vivo, con l'intenzione di piangerlo:
« Il settimo giorno il re andò per piangere Daniele e giunto alla fossa guardò e vide Daniele seduto. Allora esclamò ad alta voce: "Grande tu sei, Signore Dio di Daniele, e non c'è altro dio all'infuori di te!" Poi fece uscire Daniele dalla fossa e vi fece gettare coloro che volevano la sua rovina ed essi furono subito divorati sotto i suoi occhi. » (Daniele 14, 40-42)
Ciro, come già Dario, esplode in una professione di fede nel Dio di Israele (il sogno di ogni pio Giudeo), fa uscire Daniele dalla fossa e vi fa gettare tutti coloro che lo avevano voluto perdere; naturalmente tutti costoro sono divorati in un battibaleno. A questo punto, però... ci accorgiamo che manca qualcosa. Infatti, dopo aver punito i malvagi, in Dan 6, 26-28 il re dei Medi scriveva una lettera a tutti i suoi sudditi per esortarli a temere e a onorare YHWH. Siccome questo fatto sembrava mancare nel capitolo 14, in alcuni manoscritti un ignoto copista aggiunse un versetto 43, normalmente escluso dalle traduzioni moderne inclusa quella della CEI, che così recita:
« Allora il re disse: "Tutti gli abitanti di tutta quanta la terra temano il Dio di Daniele, poiché è Salvatore e fa miracoli e prodigi!" » (Daniele 14, 43)
Questo è il commento in merito di Don Pier Luigi Galli Stampino nel suo "Leggere il Libro di Daniele oggi" (2020):
« La fede può essere
tenuta prigioniera da mille "draghi" ed adorare tanti "Bel" al posto del Dio
vivo: potere, denaro, paura, omologazione ai modelli più diffusi, "incensi
bruciati" ai miti più effimeri. Il cammino di fede è un cammino verso la
libertà.
Dicono che la fede si sia affievolita; forse ciò è avvenuto e avviene per la
fede sana e matura, non certamente per quella malata. Penso che questo
affievolimento non sia dovuto all'immoralità (che certo non aiuta e che esiste
da sempre, perché legata alla finitezza della nostra libertà che rifiuta la
Grazia). La fede sana e matura si affievolisce quando non è testimoniata
seriamente, quando, cioè, non diventa missione.
Se io penso che la mia fede serva a me e solo a me, la vivo per conto mio e a
modo mio e ritengo giusto che ognuno viva la sua. Ma in questo modo si introduce
la sottile idolatria che crea un dio a propria immagine e che impedisce di
crescere a immagine di Dio, Padre di tutti e buono verso tutti. Questa è la
sfida della fede nel mondo contemporaneo. Ogni tempo ha i suoi "Bel" e i suoi
"draghi": per noi sono la mancanza di coraggio e di speranza che sia possibile
vivere di fede. Sono i surrogati della fede che la stanno distruggendo. Questo è
il tempo "beato" in cui combattere per una fede autentica e libera.
Daniele ce lo dice "rientrando" nella fossa dei leoni: non bisogna mai perdere
la speranza, perché senza speranza la fede rimane un soprammobile da museo: un
triste ambiente vuoto. Molti credenti sembrano "imbalsamati", impegnati solo a
ricordarsi "come eravamo". In realtà la fede libera fa vedere al mondo come
saremo. È quello che ci dice ogni apocalisse. Anche quella che è il libro di
Daniele. »
Si chiude così anche l'Appendice Deuterocanonica al Libro di Daniele. Possiamo concludere che i racconti in essa contenuti rappresentano una sorta di fioretti edificanti aggiunti in un secondo tempo al testo profetico, il cui compito è quello di indicare che la ricompensa e l'aiuto di Dio non possono che arridere al giusto. Già mi sembra di udire la vostra obiezione: ma allora il Libro di Daniele, da noi analizzato versetto dopo versetto, non contiene alcun episodio storicamente accertabile? L'errata successione dei re persiani, il contesto storico e geografico approssimativo, le profezie "post factum" indicano che l'Autore si è limitato a lavorare di fantasia, anziché raccontarci la vita e gli oracoli del nostro profeta, come fanno i libri di Isaia, Geremia, Ezechiele o Zaccaria?
Sicuramente possiamo dire che, a differenza per esempio del Libro di Geremia che è in gran parte opera dello stesso Geremia (anche se la compilazione definitiva è opera dei suoi discepoli), il Libro di Daniele non è stato scritto dallo stesso Daniele, ma da uno o più autori vissuti diversi secoli dopo di lui, i quali hanno raccolto diversi racconti di vario genere circolanti su di lui, creandone quasi un'antologia, e gli hanno messo in bocca "profezie" volte a rincuorare Israele perseguitato. Ma questo non inficia di certo il significato religioso di questo Libro, il quale resta uno dei più belli di tutta la Bibbia ed ha avuto un influsso enorme su tutta la successiva cultura ebraica e cristiana. Mi piace chiudere questa nostra escursione nel Libro di Daniele con le parole di un grandissimo scrittore, l'istriano Fulvio Tomizza (1935-1999):
« Daniele è uno straordinario fabbricatore e interprete di sogni suoi e altrui, e un accostamento alle arti moderne, intrise di onirismo, non mi pare irriverente né azzardato. Ma anche qui noto una sostanziale differenza. Noi artisti del giorno d’oggi tendiamo sempre di più a schivare la squallida, piatta o impenetrabile realtà quotidiana, per attingere al serbatoio del subcosciente, nel quale il reale si riflette avviluppandosi, sovrapponendosi, scambiandosi dati e ruoli, e che finisce per sembrarci il nostro personale oracolo, fonte di un'originale visione del mondo. E le proiezioni che ne ricaviamo hanno un che di visionario e di allucinatorio. La migliore letteratura del Novecento (basti pensare a Kafka) nasce dal processo onirico, e non a caso il poeta portoghese Pessoa commisurava la grandezza di uno scrittore alla sua facoltà di sognare. I sogni di Daniele si rivelano invece delle compiute parabole, non trasparenti come quelle di Gesù che parlava alle masse, ma talmente infuocate dallo spirito profetico, o se preferiamo dall’intensità poetica, da innalzarsi a vertici che ci lasciano come accecati per troppa luce. Le sue "visioni notturne" (è lui stesso a definirle tali) appaiono suscitate dalle associazioni animalesche degli idoli adorati in quei Paesi, il cui culto, quando penetrava tra il popolo d’Israele, portava il dolore e lo sdegno di JHWH al livello massimo, causando rovine e stragi a non finire. Nella descrizione di uno di questi mostri rielaborati dal sogno ("quel corno aveva occhi simili a quelli di un uomo e una bocca che parlava con alterigia"), l'immaginazione del profeta si proietta fino ai tempi nostri, entrando in comunicazione con la più ardita arte di oggi. »
Bibliografia
AA.VV., "La Bibbia per la famiglia, Antico Testamento", volume 8, edizioni San Paolo, Alba
AA.VV., "La Bibbia di Gerusalemme", edizioni Dehoniane, Bologna
AA.VV. "La Bibbia, prima lettura", Principato, Milano
a cura di Giovanni Canfora, "La Bibbia Illustrata", edizioni San Paolo, Alba
S.Canelles, C.Caricato, L.Piscaglia, S.Simonelli, "Introduzione alla Bibbia", ed. Newton, Roma
Benito Marconcini, "Daniele", Queriniana Editrice, Brescia
Alexander A. di Lella, "Il Libro di Daniele" (due volumi), Città Nuova Editrice, Roma
Paul L. Redditt, "Introduction to the Prophets", Wm. B. Eerdmans Publishing, Grand Rapids, MI
"Il libro di Daniele: Conversazioni Bibliche di don Claudio Doglio", vedi questo link
Antonio Sicari, "Atlante storico dei grandi santi e dei fondatori", Jaca Book, Milano
a cura di Israel Zwi Kanner, "Fiabe Ebraiche", Arnoldo Mondadori Editore, Milano
a cura di Pier Luigi Galli Stampino, "Leggere il Libro di Daniele oggi", Parola & parole, ABSI, Lugano
Vittorio Messori, "Pensare la Storia", Sugarco edizioni, Milano
Per contattare l'autore, scrivetegli a questo indirizzo.