Il Secondo Libro dei Maccabei


Generalità
Il Secondo Libro dei Maccabei non è la continuazione del Primo (mentre il Secondo Libro di Samuele, il Secondo Libro dei Re ed il Secondo Libro delle Cronache continuano cronologicamente i testi ad essi precedenti); riprende invece, basandosi su una documentazione differente e per certi versi più ricca, le vicende già narrate nei capitoli 1-9 del Primo Libro. Mentre quest'ultimo racconta le vicende di tutt'e tre i fratelli Maccabei, interrompendosi bruscamente alla morte del terzo, Simone, il Secondo ruota tutto attorno alla figura di Giuda Maccabeo.
L'opera è presentata come il riassunto di un'opera in cinque libri di un certo Giasone di Cirene, autore del quale al di fuori della Bibbia non si sa nulla. Probabilmente l'autore non si limita a riassumere, ma compie tagli e giustapposizioni, che spiegano le incongruenze cronologiche tra i due Libri dei Maccabei, come vedremo più avanti nel dettaglio. Anche questo libro ci è giunto nella sola versione greca, e quindi non è considerato canonico né dagli Ebrei né dai Riformati.

La Res Publica Romana nel 133 a.C. (disegno dell'autore di questo sito, cliccate per ingrandire)

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Contenuto

Prologo
Il capitolo 1 contiene due lettere indirizzate agli Ebrei della diaspora in Egitto: una tradizione, quella delle lettere riportate integralmente, che accomuna il primo e il secondo libro. Fin dalla fine del VI sec. a.C. esisteva in Egitto una colonia di Giudei, fuggiti in seguito alla distruzione del Tempio. Addirittura a Leontopoli (30 Km circa dal Cairo) era stato eretto un tempio, sul modello di quello di Gerusalemme, fondato da Onia IV, figlio del Sommo Sacerdote Onia III, che comparirà nei capitoli 3 e 4 di questo libro. I versetti 3 e 4 del primo capitolo:

« [Dio] conceda a tutti voi volontà di adorarlo e di compiere i suoi desideri con cuore generoso e animo pronto, e vi dia una mente aperta ad intendere la Sua legge e i Suoi comandi, e volontà di pace »

vanno letti secondo alcuni come una critica alla costruzione di questo Tempio "abusivo", che contraddiceva l'unicità del culto in Gerusalemme affermata già dal Deuteronomio (capitolo 12). La prima lettera è comunque datata al 124 a.C. (il primo libro si era fermato al 135 a.C.), la seconda invece è anteriore di quarant'anni, risale al regno di Tolomeo VI, ed è indirizzata a un certo Aristobulo, Giudeo di Alessandria d'Egitto che aveva fatto carriera fino a diventare precettore del re (ma la notizia non è controllabile). Questa seconda lettera, più lunga della prima, dà notizia della morte del terribile Antioco IV Epifane, morto tragicamente mentre assediava il tempio della dea mesopotamica Nanea nella regione dell'Elimaide. In realtà tale evento va piuttosto riferito al padre di lui, Antioco III il Grande, ucciso in un'imboscata mentre cercava di conquistare il tempio del Dio Bel nella stessa regione; siamo dunque di fronte alla confusione di eventi e personaggi che abbiamo già visto caratterizzare il Libro di Daniele.

Nafta nella Bibbia?
Questa lettera è interessante perchè riporta una leggenda ebraica secondo cui il fuoco sacro del Tempio di Gerusalemme sarebbe sopravvissuto dal 587 a.C. fino all'epoca di Neemia, l'artefice della rinascita di Israele dopo l'esilio: questi lo avrebbe ritrovato sotto forma di « acqua densa », che riprese fuoco appena versato sull'altare. La leggenda vuole testimoniare la continuità del culto postesilico rispetto a quello che si teneva nel Tempio di Salomone, ma cozza contro il contenuto stesso del Libro di Esdra, secondo cui il culto era ripreso con Zorobabele e Giosuè, non con Neemia. Comunque la leggenda ha un suo interessante sfondo storico: altro non si tratta se non di petrolio! I Persiani utilizzavano il petrolio per i loro riti, ed infatti Neemia e soci chiamano il pozzo "Neftar", in lingua persiana "purificazione": il termine da cui deriva l'attuale parola "nafta"!!!

La "Lettera di Geremia"
Tra le fonti cui accenna l'autore nel capitolo 2 del libro vi è certamente la cosiddetta "Lettera di Geremia", un breve scritto contenente un messaggio indirizzato agli Ebrei prigionieri in Babilonia, tutto imperniato su una forte critica all'idolatria, come si accenna anche in 2 Maccabei 2, 2. Tale scritto è pervenuto sino a noi perchè è incluso nel capitolo 6 del Libro di Baruc. In realtà però non è affatto opera del profeta Geremia (VII-VI sec. a.C.), ma è sicuramente un'opera di epoca ellenistica, dunque nata nello stesso ambiente dei Libri dei Maccabei, con i quali ha in comune molti temi.
Il capitolo 2 del libro dei Maccabei riporta però anche un gran numero di tradizioni leggendarie, tratte da documenti oggi perduti, secondo cui Geremia avrebbe nascosto l'Arca dell'Alleanza e "la tenda" sul monte Nebo, il luogo da dove Mosè aveva contemplato la Terra Promessa poco prima di morire, onde sottrarle alla distruzione del Tempio. Tale tradizione è priva di fondamento storico: al momento dell'irruzione in Gerusalemme delle truppe babilonesi, Geremia si trovava in gattabuia; e, soprattutto, la "tenda" non esisteva più fin dalla costruzione del Tempio di Salomone. Sicuramente l'Arca era andata distrutta al momento dell'incendio del Tempio, ma i Giudei non riuscivano ad accettare questo fatto, e ancor oggi molti Ebrei ortodossi sono convinti che l'Arca sia ancora nascosta in qualche cripta sotto la spianata del Tempio (molti contenziosi con gli Arabi derivano appunto dal fatto che essi non accetterebbero mai di trivellare quella che per loro è la spianata delle moschee, il terzo luogo santo dell'Islam, alla ricerca della misteriosa cripta). Le leggende qui riportate servono comunque a dimostrare la continuità fra la riconsacrazione del Tempio voluta da Giuda Maccabeo e l'antico culto salomonico.

Raffaello Sanzio, La Cacciata di Eliodoro dal Tempio, Stanze Vaticane, 1512

Raffaello Sanzio, La Cacciata di Eliodoro dal Tempio, Stanze Vaticane, 1512

La cacciata di Eliodoro dal Tempio
I versetti 2, 17-32 rappresentano a tutti gli effetti il proemio del libro; quanto viene prima va considerato solo come un'aggiunta, forse posteriore. Come tutte le opere dei grandi storiografi greci, anche questa è preceduta da un articolato proemio in cui di descrive la materia che verrà trattata e si spiegano i motivi che hanno spinto lo storiografo a trattarla; l'autore dichiara fin da subito che tralascerà l'esposizione minuziosa dei fatti, perchè la sua opera è solo un riassunto. Subito dopo i fatti entrano nel vivo con il capitolo 3, che narra uno degli eventi più famosi della Bibbia intera: la cacciata di Eliodoro dal tempio. Siamo sotto il regno di Seleuco IV, figlio di Antioco III il Grande, e sotto il sommo sacerdozio di Onia III. Purtroppo un certo Simone, in attrito con Onia III, per colpire quest'ultimo decide di svelare al re l'entità degli immensi tesori contenuti nel Tempio; Seleuco purtroppo è in difficoltà finanziarie a causa delle immense riparazioni di guerra che suo padre doveva pagare ai Romani in seguito alla pace di Apamea (188 a.C.), e così invia Eliodoro, suo ministro, a confiscare il tesoro. Onia III tenta di barare, dichiarando che il tesoro è composto "solo" da 400 talenti d'argento e 200 d'oro, ma Eliodoro si mostra irremovibile. In seguito alle preghiere del popolo, tuttavia, ecco quanto accade:

« Appena [Eliodoro] fu arrivato sul posto con gli armati, presso il tesoro, il Signore degli spiriti e di ogni potere compì un'apparizione straordinaria, così che tutti i temerari che avevano osato entrare, colpiti dalla potenza di Dio, si trovarono fiaccati e atterriti.
Infatti apparve loro un cavallo, montato da un cavaliere terribile e rivestito di splendida bardatura, il quale si spinse con impeto contro Eliodoro e lo percosse con gli zoccoli anteriori, mentre il cavaliere appariva rivestito di armatura d'oro. Gli apparvero inoltre altri due giovani dotati di gran forza, splendidi di bellezza e con vesti meravigliose, i quali, postisi ai due lati, lo flagellavano senza posa, infliggendogli numerose percosse.
In un attimo fu atterrato e si trovò immerso in una fitta oscurità. Allora i suoi lo afferrarono e lo misero in una barella. Egli, che era entrato poco prima nella suddetta camera del tesoro con numeroso seguito e con tutta la guardia, fu portato via impotente ad aiutarsi, riconoscendo tutti nel modo più evidente la potenza di Dio » (2 Mac 3, 24-28)

In seguito alle preghiere di Onia, tuttavia, i due angeli riappaiono ad Eliodoro e gli comunicano che il Signore gli ha fatto salva la vita e può tornare a casa sua. E quando il re gli chiede chi può mai riuscire nell'impresa al posto suo, Eliodoro gli suggerisce di inviare laggiù un suo nemico giurato, perchè ben difficilmente potrebbe uscirne vivo una seconda volta.

Le malefatte di Giasone
Simone però (capitolo 4) non si rassegna alla sconfitta, e con l'appoggio di Apollonio, governatore della Celesiria (la regione siropalestinese), semina il disordine nella comunità giudaica, ricorrendo anche a delazioni ed attentati. Allora Onia decide di ricorrere direttamente al re Seleuco, ma questi muore proprio in quei giorni, e proprio per mano del suo ministro Eliodoro; suo fratello Antioco IV regna al posto suo. La situazione precipita perchè Giasone, fratello di Onia, compra dal nuovo re il sommo sacerdozio, e subito si dà ad un'opera di profonda ellenizzazione del popolo ebraico: egli stesso si chiamava Gesù, ma ha cambiato il suo nome in quello greco di Giasone. A Gerusalemme vengono erette palestre e luoghi di ritrovo, viene adottato l'abbigliamento greco e le usanze patrie a poco a poco cadono in disuso. Si forma anche un partito filoellenico, quello degli Antiocheni, che sarà fieramente avverso ai Maccabei. Ma chi la fa l'aspetti: Menelao, fratello di quel Simone che aveva fatto la spia a Seleuco IV, compra a sua volta il sommo sacerdozio a più alto prezzo, e costringe Giasone a fuggire da Gerusalemme nell'Ammanitide, il nome greco dell'antico regno di Ammon, più volte combattuto dagli Ebrei al tempo dei Re. Ma Menelao non paga al re la somma pattuita ed è convocato a corte.
Intanto Antioco è in guerra con la città di Tarso in Cilicia (futura patria dell'apostolo Paolo), e ha lasciato la capitale al suo ministro Andronico. Questi si lascia corrompere da Menelao con l'offerta di oggetti d'oro del Tempio. Onia III, sommo sacerdote legittimo in esilio a Dafne, presso Antiochia, protesta duramente per questo sacrilegio, ma Menelao convince Andronico ad eliminarlo.
I Giudei sono indignati per questo delitto e lo denunciano al re, rientrato dalla spedizione, che fa subito giustiziare Andronico. Intanto Menelao aveva lasciato a Gerusalemme il fratello Lisimaco, che si rende colpevole di molti altri sacrilegi e per questo viene odiato dal popolo, che gli si ribella. Egli scatena i suoi partigiani ma viene infine trucidato. Menelao intanto viene processato, ma riesce a corrompere un altro ministro del re, Tolomeo, che lo difende presso Antioco IV. Così non solo Menelao è assolto, ma i testimoni giudei che avevano deposto contro Menelao vengono giustiziati. Interessante un'annotazione dell'autore:

« Così il re prosciolse dalle accuse Menelao, causa di tutto il male, e decretò la pena di morte per quegli infelici, che sarebbero stati prosciolti come innocenti se avessero discusso la causa anche presso gli Sciti. » (4, 47)

Gli Sciti erano popoli barbari che abitavano la pianura Turanica e la steppa russa compresa tra il Mar Nero e gli Urali nel I millennio a.C., prima dell'arrivo degli Slavi. I regni ellenistici li consideravano i barbari per antonomasia, nemico di tutto ciò che era civile e conforme alla tradizione greca; rappresentavano dunque l'equivalente dei Germani per i Romani, degli Unni per i Cinesi e dei Toltechi per i Maya. Con questa similitudine si vuole dunque paragonare il comportamento di Antioco IV a quello di un barbaro senza altra legge che la propria. E, purtroppo, è solo l'inizio.

Antioco IV occupa la Città Santa
Il capitolo 5 offre un'indicazione cronologica molto chiara per datare gli eventi, come si conviene ad un vero libro di storiografia: « mentre Antioco si preparava alla seconda spedizione contro l'Egitto ». Siamo dunque nel 168 a.C. Invece il Primo Libro dei Maccabei datava l'inizio della persecuzione di Antioco alla prima spedizione in Egitto, cioè al 169 a.C. Come accadrà in altri momenti tragici della storia d'Israele (Giuseppe Flavio parlerà di analoghe visioni di eserciti in cielo prima del tragico 70 d.C.), così ora la catastrofe è anticipata da apparizioni di guerrieri fra le nuvole. Gli eventi precipitano subito: diffusasi in città la falsa notizia della morte di Antioco IV, Giasone tenta con un colpo di mano di prendere Gerusalemme scalzando Menelao dalla carica di Sommo Sacerdote. Il tentativo fallisce e si risolve in un bagno di sangue; Giasone è costretto a fuggire in Transgiordania, e da qui in Egitto, inseguito da Areta, re dei Nabatei. Alla fine trova rifugio presso gli Spartani, un popolo tradizionalmente alleato di quello Giudeo come ci racconta i Maccabei 12, 21, presso i quali muore in esilio.
Purtroppo Antioco IV trae pretesto da questi disordini per occupare a sua volta Gerusalemme, accusata di essersi ribellata al suo potere. In un sol giorno egli fa fuori 80.000 persone (numero probabilmente iperbolico) e si impadronisce del tesoro del Tempio con la complicità di Menelao. La spiegazione di questa profanazione permessa dal cielo, a dispetto dello stile storiografico quasi "moderno" del libro, è la stessa invocata dall'autore Deuteronomista per interpretare i rovesci storici del popolo d'Israele:

« Antioco si inorgoglì, non comprendendo che il Signore si era sdegnato per breve tempo a causa dei peccati degli abitanti della città e per questo c'era stato l'abbandono di quel luogo. Se il popolo non si fosse trovato implicato in molti peccati, come era avvenuto per Eliodòro, mandato dal re Seleuco a ispezionare la camera del tesoro, anche costui al suo ingresso sarebbe stato colpito da flagelli e sarebbe stato distolto dalla sua audacia.
Ma il Signore aveva eletto non già il popolo a causa di quel luogo, ma quel luogo a causa del popolo.
Perciò anche il luogo, dopo essere stato coinvolto nelle sventure piombate sul popolo, da ultimo ne condivise i benefici; esso, che per l'ira dell'Onnipotente aveva sperimentato l'abbandono, per la riconciliazione del grande Sovrano fu ripristinato in tutta la sua gloria. » (5, 17-20)

Antioco poi rientra nella sua capitale, lasciando il "misarca" Apollonio (capo dei mercenari provenienti dalla regione della Misia, in Asia Minore) a capo di una guarnigione di 22.000 uomini, con il compito di mantenere l'ordine con il terrore. È a questo punto che il Secondo Libro dei Maccabei colloca la fuga di Giuda Maccabeo in clandestinità, senza fare alcun cenno a suo padre Mattatia.

F. Monzio Compagnoni, Giuda Maccabeo, da "La Bibbia per la Famiglia", edizioni San Paolo

F. Monzio Compagnoni, Giuda Maccabeo, da
"La Bibbia per la Famiglia", edizioni San Paolo

I primi "Atti dei Martiri"
I capitoli 6 e 7 del Secondo Libro sono dedicati alla durissima persecuzione antigiudaica di Antioco Epifane, mentre il Primo Libro dedicava ad essa solo i versetti 41-64 del primo capitolo. Il testo che stiamo prendendo in considerazione, invece, dopo aver descritto minuziosamente gli ordini tassativi del re, dietro minaccia di morte, di infrangere sistematicamente la legge mosaica, ci tramanda alcuni "fioretti", contenenti prove di valore di singoli giudei che resistono alle imposizioni ellenistiche a prezzo della vita. Il capitolo 6 descrive il martirio del vecchio Eleazaro, un vegliardo intrepido che si rifiuta di mangiare carne di maiale, proibitissima dalla legge di Mosè °(Levitico 11, 7 e Deuteronomio 14, 8), e per questo è messo a morte. Gli amici gli propongono di fingere di mangiare carne di maiale, nutrendosi in realtà di carni permesse, ma questo è l'esemplare ragionamento con cui egli sceglie risolutamente l'esecuzione:

« Non è affatto degno della nostra età fingere con il pericolo che molti giovani, pensando che a novant'anni Eleazaro sia passato agli usi stranieri, a loro volta, per colpa della mia finzione, durante pochi e brevissimi giorni di vita, si perdano per causa mia e io procuri così disonore e macchia alla mia vecchiaia.
Infatti, anche se ora mi sottraessi al castigo degli uomini, non potrei sfuggire né da vivo né da morto alle mani dell'Onnipotente. Perciò, abbandonando ora da forte questa vita, mi mostrerò degno della mia età e lascerò ai giovani nobile esempio, perché sappiano affrontare la morte prontamente e generosamente per le sante e venerande leggi » (6, 24-28)

Il capitolo 7 invece descrive un episodio ancor più famoso e più volte ritratto nella storia dell'arte: il sacrificio dei sette fratelli e della loro madre, che la tradizione cristiana chiamerà i "Sette Fratelli Maccabei" anche se non hanno nessuna relazione di parentela con Giuda, Gionata e soci (la denominazione si riferisce all'epoca del loro cruento martirio). Tradizionalmente questo racconto inaugura i cosiddetti "Atti dei Martiri", un genere letterario che sarà molto in voga nei primi secoli dell'era cristiana, durante le feroci persecuzioni scatenate contro la Chiesa dagli imperatori romani, ma sopravvissuto fino al XIX secolo (si pensi al romanzo "Quo Vadis?") Quest'episodio è particolarmente importante perchè testimonia la fede del tardo giudaismo nella creazione dal nulla e nella risurrezione dalla morte, come diremo più avanti.

La sfida di Giuda Maccabeo
Con il capitolo 8 invece, dopo il racconto di tutte queste crudeltà, ha inizio il racconto della vera e propria insurrezione di Giuda Maccabeo. Gerusalemme ha accettato, per amore o per forza, le imposizioni ellenistiche di re Antioco, ma i villaggi, meno controllabili dalla capitale, hanno conservato l'ortodossia della fede mosaica, e così Giuda comincia da questi la propria attività di rivolta, arruolando giovani valorosi e compiendo sanguinosi atti di guerriglia contro gli occupanti siriani. Filippo, il governatore di Gerusalemme per conto dei Seleucidi, vedendo che non viene a capo della rivolta, sollecita l'intervento di Tolomeo, governatore militare della Celesiria; questi invia Nicanore e Gorgia, scelti fra i più stretti collaboratori del re, a reprimere nel sangue la rivolta: sono due personaggi citati anche nel Primo Libro dei Maccabei. I due pensano addirittura di vendere come schiavi l'intero popolo dei Giudei, così da estinguere le riparazioni di guerra che Antioco IV doveva ai Romani in seguito alla disastrosa sconfitta di suo padre a Magnesia. Il Maccabeo non si spaventa per l'arrivo dei rinforzi ed esorta i suoi con un'argomentazione più volte riutilizzata nella storia:

« Costoro  confidano nelle armi e insieme nel loro ardire; noi confidiamo nel Dio onnipotente, capace di abbattere quanti vengono contro di Lui e il mondo intero con un sol cenno » (8, 18)

La guerra contro i generali greci viene presentata dall'autore come un evento religioso, più che militare: Giuda prima della battaglia fa leggere il Libro Sacro (probabilmente la Torah) e dà come parola d'ordine ai suoi "aiuto di Dio". « L'Onnipotente fu loro alleato », dice testualmente 2 Mac 8, 24; i soldati ebrei, dopo aver conseguito una strepitosa vittoria, rinunciano all'inseguimento per rispettare il Sabato; e la spartizione del bottino privilegia i diseredati, le vedove e gli orfani, secondo i precetti di Mosè. Subito dopo si elencano altre vittorie del Maccabeo contro nuovi nemici, tra cui Bacchide che già conosciamo dal Primo Libro, come se questa guerra fosse una specie di liturgia, costellata da preghiere, sacrifici e continue vittorie militari.

De mortibus persecutorum
Si torna poi a Nicanore, costretto ad ammettere, dopo essersi messo in salvo a stento dopo una fuga in mezzo ai campi, che il popolo d'Israele godeva in battaglia di un aiuto soprannaturale. Nel capitolo 9 lo stesso Antioco IV viene a conoscenza della sconfitta di Nicanore durante la sua campagna in Persia, che si è risolta in un clamoroso insuccesso (vedi anche 1 Mac 6, 1-8). Mentre però nel primo libro la notizia della disfatta getta il re nel più completo sconforto, nel secondo libro al contrario essa lo accende di rabbia contro il popolo dei Giudei, tanto da desiderare di fare di Gerusalemme « il cimitero dei Giudei ». Ma il secondo libro dei Maccabei fa notare come il suo destino sia già segnato, e proprio in conseguenza della sua sfida blasfema contro il Signore degli Eserciti. Egli è infatti colpito da una malattia misteriosa, ed ordina di accelerare la corsa per fare in tempo a vendicarsi dei detestati Ebrei; ma uno scossone del carro lo butta a terra, ed egli è condotto in lettiga nella città di Tabe, dove la sua carne comincia addirittura a imputridire mentre egli ancora vive. Siamo in pieno clima agiografico, non storiografico; dopo gli "Atti dei Martiri", qui troviamo il modello di un altro genere letterario cari ai primi cristiani, "De mortibus persecutorum", dal titolo di un'opera dell'apologeta della tarda latinità Firmiano Lattanzio (250-325 d.C.), che vuole appunto mostrare come tutti i persecutori della fede abbiano fatto una fine orribile. Altri esempi di questo genere si trovano nella Bibbia, come per esempio in Giuditta 16, 17 e in Isaia 14, 11.
A questo punto, una sorpresa: Antioco IV si converte in punto di morte, promette di riparare alle proprie malefatte e scrive una lettera indirizzata « ai nobili cittadini giudei ». Si tratta di un vero e proprio testamento spirituale, in cui il re esprime timori sulla stabilità del regno e nomina suo erede il figlio Antioco V. Probabilmente si tratta di un documento autentico, inviato dal sovrano poco prima di morire a tutte le province del suo vasto impero, e quindi anche alla Giudea. Nonostante l'amichevole saluto del re uscente, tuttavia, il giudizio dell'autore su di lui è severissimo:

« E così quest'omicida e bestemmiatore, soffrendo crudeli tormenti, come li aveva fatti subire agli altri, finì la sua vita in terra straniera, in una zona montuosa, con una misera sorte » (9, 28)

Il suo ministro Filippo ne riporta la salma ad Antiochia, ma, essendo sgradito all'erede, è costretto a fuggire in Egitto presso Tolomeo VI Filometore. Questa notizia fa evidente contrasto con quanto affermato dal Primo Libro dei Maccabei, secondo cui Filippo fu il tutore di Lisia, e solo in un secondo momento essi vennero in contrasto, a causa dell'opera del generale Lisia (1 Mac 6, 55-63).

Nuovi prodigi celesti
Il capitolo 10 del Secondo Libro è parallelo al capitolo 4 del Primo Libro, trattando fino al versetto 8 della riconsacrazione del Tempio. Anche il capitolo 9 del Secondo Libro era parallelo al capitolo 6 del Primo Libro, ma bisogna notare l'inversione degli eventi: là infatti la riconsacrazione era avvenuta vivente Antioco. Dal versetto 9 in avanti, il capitolo 10 tratta invece di Antioco V Eupatore, come anticipa lo stesso autore con un breve proemio. A questo punto entra in campo il famigerato Lisia, dopo che un altro ministro, Tolomeo, favorevole alla pace con i Giudei, si era suicidato in seguito alle calunnie degli altri cortigiani, che lo avevano accusato di tradimento per aver abbandonato l'isola di Cipro. Un altro personaggio già noto dal primo libro è il generale Gorgia, "stratega" e fieramente avverso ai Giudei. A tutto ciò si aggiungono le scorrerie degli Idumei, nome greco degli Edomiti. Giuda Maccabeo comincia a muovere contro di loro; venuto a sapere che alcuni Idumei sono sfuggiti al suo assedio perchè alcuni Giudei si sono lasciati corrompere da loro con denaro, li fa mettere a morte come traditori ed occupa le fortezze idumee facendo 20.000 morti. Qui l'autore inserisce l'avanzata del generale Timoteo, già letta in 1 Mac 5, che va collocata però in un altro momento. Durante la battaglia accade un altro prodigio: in cielo compaiono ai nemici cinque cavalieri dalle briglie d'oro che si mettono alla testa dei Giudei, ed anzi proteggono Giuda rendendolo invulnerabile. Questo episodio richiama certi racconti dell'Iliade e di altri poemi greci, e rientra nel gusto del meraviglioso tipico dell'epoca ellenistica.
Alla fine comunque Timoteo si rifugia a Ghezer, ma Giuda riesce ad espugnarla grazie all'aiuto dei suoi soldati, e lo passa per le armi. La caduta di Ghezer si trova anche nel Primo Libro dei Maccabei, capitolo 13, ma è attribuita a Simone Maccabeo. Quale dei due ha ragione? Probabilmente il Primo. L'autore del Secondo infatti si interessa al solo Giuda, e tende ad attribuirgli anche i successi riportati dai suoi fratelli. Non è improprio dire che il Secondo Libro è una versione maggiormente "romanzata" dell'epopea maccabaica, intendendo con questo aggettivo l'inserimento di storie edificanti (Eleazaro, i sette fratelli), interventi miracolosi (Eliodoro, i cinque cavalieri celesti) e la libera ricostruzione degli eventi storici.

Gloriose imprese di Giuda Maccabeo
Il capitolo 11 descrive la prima campagna di Lisia contro i Giudei: con ottantamila uomini egli muove contro Gerusalemme, per restaurarvi la preminenza del partito ellenistico. L'assedio di Bet Zur narrato subito dopo è però avvenuto, come ci assicura il Primo Libro, verso la fine del regno di Antioco IV, non durante quello di suo figlio. Anche stavolta Giuda si precipita, ed anche stavolta Bet Zur è liberata grazie all'apparizione di un cavaliere celeste, sconosciuta invece al Primo Libro. Lisia si piega allora alla trattativa; il Maccabeo acconsente, ma pone delle condizioni per iscritto. Il libro riporta (vv. 16-21) la risposta di Lisia, che annuncia di aver fatto pressioni sul re affinché le proposte del Maccabeo venissero accolte; tali pressioni appaiono ragionevoli solo se il "re" qui citato è il minorenne Antioco V che, come sappiamo dal Primo Libro, fu a lungo sotto l'influenza del potente generale. La lettera è datata al 24 del mese di Dioscorinzio (il mese di "Zeus Corinzio", secondo il computo cretese, tra marzo e aprile) del 164 a.C. Subito dopo sono riportate due lettere del re, una a Lisia (vv. 22-26) ed una al popolo dei Giudei (vv. 27-33). Le lettere chiamano in causa come mediatore il sommo sacerdote Menelao, sgradito ai Maccabei perchè collaborazionista: un modo per non riconoscere l'autorità di Giuda Maccabeo, anche se la lettera accoglie in sostanza le sue richieste. I vv. 34-38 contengono anche una lettera inviata ai Giudei dai Romani, firmata però da due personaggi oggi non più identificabili (Quinto Memmio e Tito Manlio). Questa lettera rappresenta un evidente tentativo romano di inserirsi nello scacchiere orientale, ingerendosi negli affari interni degli stati ellenistici: un tipo di politica che appare tutt'altro che irrealistico. Le ultime due lettere sono datate entrambe al 15 del mese di Xantico, forse l'equivalente macedone del mese cretese di Dioscorinzio.
Purtroppo la pace non è assicurata: il capitolo 12 racconta di provocazioni di vari capi militari ellenistici contro gli Ebrei. Addirittura a Giaffa alcuni Giudei sono convinti a salire su barche che però vengono affondate in alto mare. Subito Giuda marcia su Giaffa e ne incendia il porto, facendo poi lo stesso servizio anche al vicino porto di Iamnia: l'incendio della città, secondo 2 Mac 12, 9, divampa con fiamme così alte, da essere visibili addirittura a Gerusalemme, distante "240 stadi", cioè oltre 44 chilometri. A questo punto, a soli nove stadi da Iamnia, cioè meno di due chilometri, l'autore colloca un assalto di Arabi (probabilmente Nabatei) contro Giuda, ma è impossibile che essi si siano spinti così addentro in Palestina: sicuramente anche in questo caso l'autore sposta qui un evento avvenuto altrove e in un altro momento. In ogni caso lo scontro con gli Arabi si risolve in una pace di compromesso.
Tutto il capitolo trascorre nella descrizione di varie campagne eroiche di Giuda contro le fortezze del paese, che trovano il loro corrispettivo nel capitolo 5 del Primo Libro. La fortezza di Casfin conosce un tale bagno di sangue, che l'acqua del vicino lago sembra tramutata in sangue. Poi Giuda passa il Giordano e bracca il generale siro Timoteo presso la fortezza di Caraca, ma non riesce a snidarlo. Il contatto con l'esercito siro avviene a Carnion, ritenuta inespugnabile; Giuda ha però la meglio grazie a una nuova teofania e cattura Timoteo, che però convince i Giudei a liberarlo in cambio della salvezza degli ostaggi. La città di Carnion coincide con la Karnain citata in 1 Mac 5, 26 (e probabilmente anche in Gen 14, 5), ed il suo nome, che significa "due corna", deriva probabilmente dal fatto che nel suo tempio principale vi era una statua della dea della fecondità Astarte rappresentata con due grosse corna.
Dopo aver preso Efron e Beisian, città di non facile identificazione, Giuda si volge contro Gorgia che si trova in Idumea. Un valoroso soldato giudeo durante la battaglia lo afferra per la clamide (il corto mantello dei cavalieri) e tenta di disarcionarlo, ma un mercenario trace gli taglia il braccio, e così Gorgia può mettersi in salvo.

Compare il suffragio per i defunti
A Odollam accade un fatto importante. Giuda si accorge che i corpi di alcuni caduti celavano oggetti sacri agli idoli di Iamnia, e così ritiene che la loro morte sia una punizione per questo peccato. A questo punto, a sorpresa, i Giudei iniziano un ciclo di preghiere di suffragio, per cancellare la loro colpa. Si tratta di una pratica assolutamente nuova, passata poi al Cristianesimo che, a poco a poco, ha sviluppato la dottrina del Purgatorio.
Nel capitolo 13 la situazione più aggrava perchè lo stesso Antioco V rompe i patti e si avvicina alla Giudea con un esercito sterminato guidato da Lisia. Anche Menelao si è unito loro nella speranza di riottenere il potere, ma Lisia sospetta di lui e convince Antioco V a metterlo a morte facendolo seppellire vivo dalla cenere, un supplizio in voga presso i Persiani. Il Libro presenta questo fatto come una specie di contrappasso:

« Fu un giusto castigo poiché, dopo aver commesso molti delitti attorno all'altare dov'erano il fuoco sacro e la cenere, nella cenere trovò la sua morte » (13, 8)

Dopo aver compiuto molti atti penitenziali, come se la guerra fosse un fatto rituale, Giuda muove incontro a Lisia accampandosi a Modin, la sua patria. Un'incursione notturna dei Giudei nell'accampamento seleucide è coronato da pieno successo. Allora si sposta a Bet Zur, nel sud, evidentemente aggirando da est il Mar Morto, ma è nuovamente battuto. A questo punto è costretto a levare il campo, perchè il reggente Filippo gli si è ribellato, e deve stipulare in fretta e furia un trattato di pace.

Alcimo, il traditore
E siamo al capitolo 14. Tre anni dopo, nel 161 a.C., il pretendente al trono Demetrio I, cugino di Antioco V, rientra in patria e conquista il trono uccidendo sia Antioco V sia Lisia, come narrato già nel capitolo 7 del Primo Libro. Ed ecco entrare in campo Alcimo, che attacca violentemente Giuda Maccabeo e gli Asidei (Chassidim) di fronte al nuovo re. Demetrio I si lascia convincere e invia in Giudea un nuovo corpo di spedizione, guidato da Nicanore, per battere Giuda e costituire Alcimo sommo sacerdote. Giuda risponde non preghiere a Dio, ma anche muovendo in forze contro il nuovo nemico. Il Secondo Libro colloca lo scontro a Dessau, mentre il Primo lo collocava ad Adasa (forse due diverse denominazioni dello stesso luogo); esso finisce in un sostanziale pareggio, così per evitare inutili spargimenti di sangue si ricorre nuovamente alla trattativa; Giuda e Nicanore fanno addirittura amicizia. Ma Alcimo torna da Demetrio ed accusa Nicanore di tradimento. Il re ordina al suo generale di infrangere i patti e di inviargli Giuda Maccabeo in catene. Nicanore non sa come fare e pensa di ricorrere a uno stratagemma, ma Giuda si accorge che qualcosa non va e, subodorando una trama di Alcimo, decide di diventare uccel di bosco. Vedendosi giocato, Nicanore sale al Tempio e gira che lo raderà al suolo ed innalzerà in quel luogo un tempio a Dioniso, se Giuda non gli verrà consegnato. A questo punto il Secondo Libro innesta un nuovo atto di eroismo, simile a quello di Eleazaro e, come quello, sconosciuto al Primo Libro, che non indulge a racconti esemplari di questo tipo. In Gerusalemme vi è un certo Razis, famoso per la sua pietà, già più volte perseguitato e completamente dedito alla causa dei Maccabei; Nicanore pensa di infliggergli una punizione esemplare, per mostrare a tutti che fa sul serio, e manda ben 500 uomini ad arrestarlo; questi però si suicida, strappandosi addirittura gli intestini con le sue stesse mani: un episodio dai toni forti, che mostra come il suicidio non è condannato dall'Antico Testamento, se compiuto per sottrarsi a un nemico o a un peccato più grave.

Il profeta Geremia, mosaico nella Basilica di San Vitale a Ravenna (VI secolo)

Il profeta Geremia, mosaico nella Basilica di San Vitale a Ravenna (VI secolo)

La visione di Geremia
Ed eccoci al capitolo 15 ed ultimo. Nicanore è ormai esasperato e decide di dare la caccia a Giuda nella regione della Samaria. È giorno di Sabato ed egli ordina di assalire le truppe del Maccabeo; i Giudei che sono stati costretti a seguirlo lo pregano di rispettare quel giorno sacro, ma Nicanore non vuole saperne, certo che i suoi nemici non si difenderanno per non infrangere il precetto mosaico. Ma Giuda gli sfugge, ed esorta i suoi uomini alla resistenza narrando loro una visione da lui avuta. Essa ha al centro due figure care al giudaismo del tempo, Geremia e il sommo sacerdote Onia III. Onia presenta a Giuda il profeta Geremia, che gli appare come un vegliardo circondato da un'aureola di luce, e gli consegna una spada, dono di Dio per combattere i suoi nemici. Probabilmente questo sogno è modellato su Geremia 50, 35-46, in cui il celebre profeta annunciava che la spada di Dio si sarebbe abbattuta su Babilonia: ciò dimostra quanto erano popolari le profezie di Geremia durante l'epoca maccabaica. In ogni caso gli uomini si sentono rinfrancati a tal punto che il loro coraggio sfiora la temerarietà: si gettano in forze contro il nemico, certi di combattere ormai una "guerra santa", e riescono a prevalere. Lo stesso Nicanore cade ucciso; gli vengono mozzate la testa e il braccio, che sono portate da Giuda a Gerusalemme come macabro trofeo ed appese davanti all'acropoli, ancora occupata dalla guarnigione sira, come monito per i suoi difensori. Viene istituita la "festa di Nicanore", di cui si è già parlato nel capitolo 7 del Primo Libro. Il racconto termina qui, senza accennare alla morte di Giuda Maccabeo né alla successione dei suoi due fratelli, con un epilogo degno di quello di un grande scrittore della grecità:

« Così andarono le cose riguardo a Nicanore e, poiché da quel tempo la città è rimasta in mano agli Ebrei, anch'io chiudo qui la mia narrazione. Se la disposizione dei fatti è riuscita scritta bene e ben composta, era quello che volevo; se invece è riuscita di poco valore e mediocre, questo solo ho potuto fare.
Come il bere solo vino e anche il bere solo acqua è dannoso, e viceversa come il vino mescolato con acqua è amabile e procura un delizioso piacere, così l'arte di ben disporre l'argomento delizia gli orecchi di coloro a cui capita di leggere la composizione. E qui concludo. » (15, 37-39)

Sinossi tra il Primo ed il Secondo Libro
Con questo schema cercheremo ora, per quanto possibile, di mettere in parallelo gli eventi dei due Libri dei Maccabei.

1  MACCABEI

2  MACCABEI

  Lettere ai Giudei della diaspora e riconsacrazione del Tempio ad opera di Neemia (1, 1-36)
  Geremia nasconde l'Arca (2, 1-16)
  Proemio all'opera maccabaica (2, 17-32)
Alessandro e i Diàdochi (1, 1-9)  
  Seleuco IV re di Siria, Eliodoro a Gerusalemme (3, 1-40)
Antioco IV Epifane (1, 10-40) Antioco IV Epifane (5, 11-26)
Ellenizzazione di Israele (1, 41-64) Ellenizzazione di Israele: Onia, Giasone e Menelao (4, 1-26)
  Menelao uccide Onia (4, 27-50)
  Fine di Giasone (5, 1-10)
  Episodio di Eleazaro (6, 1-31)
  Episodio dei sette fratelli (7, 1-42)
Mattatia (2, 1-70)  
Giuda Maccabeo capo dei Giudei
(3, 1-9)
Giuda Maccabeo capo dei Giudei
(5, 27)
La vittoria di Bet Oron (3, 1-26) La vittoria su Nicanore (8, 1-36)
Antioco IV parte per la Persia e invia Gorgia in Palestina (3, 27-60)  
La vittoria di Emmaus su Gorgia
(4, 1-35)
 
Riconsacrazione del Tempio (4, 36-61) Riconsacrazione del Tempio (10, 1-8)
Imprese di Giuda (5, 1-68) Imprese di Giuda (12, 1-45)
Morte di Antioco IV (6, 1-17) Morte di Antioco IV (9, 1-29)
Antioco V Eupatore contro Giuda
(6, 18-63)
Antioco V Eupatore invia Timoteo contro Giuda (10, 9-38)
  Prima campagna di Lisia contro Giuda
(11, 1-33)
  Seconda campagna di Lisia contro Giuda (13, 1-26)
Demetrio I diventa re e invia Bacchide e Alcimo contro Giuda (7, 1-25) Demetrio I diventa re ed è aizzato da Alcimo contro Giuda (14, 1-11)
Spedizione di Nicanore e sua morte
(7, 26-50)
Spedizione di Nicanore e sua morte
(14, 12-36; 15, 1-36)
  Episodio di Razis (14, 37-46)
Alleanza con i Romani (8, 1-32) Alleanza con i Romani (11, 34-38)
Morte di Giuda Maccabeo (9, 1-22)  
Gionata Maccabeo (9, 21 - 12, 53)  
Simone Maccabeo (13, 1 - 16, 17)  
Giovanni Ircano (16, 18-24)  
  Epilogo (15, 37-39)

"Novità" teologiche
Il Secondo Libro dei Maccabei ha una grande importanza sul piano teologico. In esso infatti si trova la giustificazione di molti temi cari al tardo Giudaismo, che "per osmosi" passeranno poi in blocco nella teologia cattolica. Fra l'altro esso:

Il regno degli Asmonei (disegno dell'autore di questo sito)

Il regno degli Asmonei (disegno dell'autore di questo sito)

Gli Asmonei
Vale la pena, prima di chiudere, di vedere come andarono le cose dopo la fine della gloriosa epopea maccabaica e la restaurazione pressoché formale dell'indipendenza di Israele. Certamente la lotta dei tre fratelli e del figlio di Simone, Giovanni Ircano, si conclude con uno splendido successo, se si vuole superiore a quello conseguito a suo tempo da Davide e Salomone, perchè i nuovi regnanti accentrano nelle loro mani sia il potere temporale (la dignità regale) che quello spirituale (il sommo sacerdozio). Ma proprio la piena vittoria della loro battaglia provoca gravi ripercussioni sul piano interno, perchè
i successori dei Maccabei cadono negli stessi errori che avevano voluto combattere: accecati dal potere, cedono al lusso ed agli intrighi e diventano dei sovrani ellenistici come tutti gli altri, aventi relazioni amichevoli con le corti orientali, proprio come Salomone era caduto nell'idolatria a furia di circondarsi di mogli straniere e pagane. Il risultato è un'inversione di tendenza: gli Asidei, che avevano sostenuto a spada tratta Giuda Maccabeo contro Menelao e contro Alcimo, si spaccano in due partiti. Una parte di essi si allontanano dai capi diventati empi e paganeggianti, continuano la tradizione dei pii Chassidìm, dediti allo studio della Legge e fautori di un messianesimo rivestito di rivendicazioni sociali: saranno questi  i Farisei citati dal Vangelo, dall'ebraico Perizim, "i separati". Altri invece, aristocratici e conservatori, rimangono fedeli alla dinastia regnante e propugnano un'interpretazione meno rigorosa della religione mosaica, e si viene a formare il partito dei Sadducei, ritenuti figli spirituali di Zadok, sommo sacerdote ai tempi di Davide, da cui il loro nome. Questi ultimi considerano sacra solo la Torah, rifiutano tutta la tradizione successiva e non credono nella risurrezione dei morti; questa loro convinzione verrà confutata da Gesù.
Questo problema si presenta in maniera particolarmente acuta sotto il governo di Giovanni Ircano, figlio di Simone Maccabeo, del quale abbiamo già parlato. Nonostante il pericolo siriano sia ancora incombente, egli rafforza l'indipendenza e inizia una politica di espansionismo, tanto che in breve tempo il suo regno e quello dei suoi successori supererà quello di Davide, come mostra la cartina soprastante.
Ecco l'elenco dei
dinasti asmonei:

Sotto gli Asmonei i Giudei godono di un periodo di relativo benessere: approfittando dell'inarrestabile decadenza del regno seleucide, il regno si allarga ben oltre i confini della Giudea, ma viene turbato da conflitti interni tra la classe sacerdotale aristocratica dei Sadducei e il partito dei rigorosi Farisei. Nell’88 a.C. una rivolta di Farisei induce Alessandro Ianneo alla fuga; il suo rientro viene seguito da un massacro con oltre 50.000 morti e varie migliaia di esiliati. In conseguenza di questa decadenza spirituale e morale, i più rigoristi tra gli Ebrei decidono di dare vita ad una vera e propria comunità monastica con sede a Qumran, presso il Mar Morto, che vive in solitudine, predica il celibato e si dedica a rigide pratiche ascetiche e all'attesa dell'imminente arrivo del Messia, sulla base del calcolo delle "settanta settimane" di anni dopo il rientro da Babilonia (vedi il Libro di Daniele): sono questi gli Esseni, con cui quasi certamente ebbero contatti anche Giovanni il Battista e Gesù.
La debole monarchia degli Asmonei, funestata da intrighi familiari e turbolenze civili, non riuscì a fare del paese un vero stato ebraico teocratico, com'era quello di Salomone; il loro, come detto, scimmiottava piuttosto i regni ellenistici, che peraltro nel I secolo a.C. erano ormai in decadenza in tutto l'oriente, progressivamente assorbiti dall'inarrestabile avanzata dei Romani.
Infatti la Giudea, nata con una richiesta di aiuto al Senato di Roma (1 Maccabei 8), viene ridotta ben presto, come la Siria, l'Egitto e gli stati dell'Anatolia, ad un semplice  stato vassallo di Roma. La situazione precipita con la guerra di successione tra gli eredi asmonei Aristobulo II e Ircano II, che sollecitano l’intervento di Pompeo, già in Oriente nell’ambito della terza guerra mitridatica. Questi ha già invaso la Siria riducendola a provincia romana e ponendo fine alla monarchia seleucide; nel 63 a.C. il celebre condottiero marcia su Gerusalemme, la occupa e fa irruzione nel Tempio alla ricerca del suo leggendario tesoro. Penetrato nel Santo dei Santi, il sacrilego generale vi trova però solo il rotolo della Torah.
Pompeo non riduce la Giudea a provincia romana, a differenza della Siria, ma la affida ad Antipatro. Dopo la sconfitta di Pompeo a Farsalo (49 a.C.), Antipatro passa dalla parte di Cesare e conserva il potere, associandosi al trono i due figli: a Fasael affida l'amministrazione della Giudea, e ad Erode ("discendente di eroi") quella della Galilea. Nel 42 a.C. Antigono, figlio di Aristobulo II, che si era rifugiato presso i Parti quando il padre era stato ucciso dal fratello Ircano II, cerca di riprendere il potere in Giudea con l'appoggio del re dei Parti; penetrato in Palestina, egli cattura Fasael che si suicida. Rimasto solo, Erode chiede di essere protetto da Roma e si accattiva le simpatie di Marco Antonio, che elimina Antigono ed attribuisce ad Erode il titolo di re dei Giudei. Il
regno di Erode, che sarà detto il Grande, durerà dal 37 al 4 a.C. Egli fa ricostruire splendidamente il Tempio, essendo ormai fatiscente la ricostruzione effettuata da Zorobabele, ma ordina anche l'assassinio di tre dei suoi figli, tra cui Aristobulo (il padre del futuro Erode Agrippa I), di sua moglie e di molti tra i suoi oppositori. Nel 30 a.C. Erode riesce a farsi amico anche Ottaviano Augusto, che ha vinto Antonio e Cleopatra ad Azio restando unico padrone di tutto l'impero, ed il nuovo sovrano lo riconferma al potere. E con la nascita di Gesù verso il 7 a.C. finisce l'era veterotestamentaria ed iniziano i fatti narrati dai Vangeli.