Il bestiario infernale
Con il capitolo 7, che è anche l'ultimo in aramaico, inizia una nuova sezione
del Libro di Daniele, tipicamente sapienziale, in contrasto con i primi 6
capitoli, per lo più narrativi, se si fa eccezione per il deuterocanonico Cantico
dei tre giovani nella fornace. Tale sezione è caratterizzata da una serie di
visioni, definite "notturne"
perchè avvenute per lo più in sogno; e sono tali visioni ad aver meritato a
Daniele di essere annoverato tra i Profeti Maggiori, anche se, come abbiamo già
detto, il Libro andrebbe più propriamente iscritto nella cosiddetta letteratura apocalittica.
« Nel primo anno di Baldassarre re di Babilonia, Daniele, mentre era a letto, ebbe un sogno e visioni nella sua mente. » (Daniele 7, 1a)
Evidentemente, per quanto detto nella pagina precedente, la datazione dell'inizio delle visioni notturne va riferita al primo anno della reggenza di Baldassarre, si pensa il 550 a.C.
« Egli scrisse il sogno e ne fece la relazione che dice: Io, Daniele, guardavo nella mia visione notturna ed ecco, i quattro venti del cielo si abbattevano impetuosamente sul Mar Mediterraneo, e quattro grandi bestie, differenti l'una dall'altra, salivano dal mare. » (Daniele 7, 1b-3)
Entrano subito in scena quattro mostri, la cui descrizione in seguito influenzerà tutte le successive opere del genere letterario, fino all'Apocalisse di Giovanni (si pensi alla bestia con sette teste e dieci corna di Ap 13, 1). Contrariamente a quanto si può credere, non c'è da stupirsi che compaiano simili fiere nell'immaginario di un profeta deportato a Babilonia, e soprattutto di un autore che ne rievoca le gesta. Quasi certamente infatti si tratta di una reminiscenza di antichi miti babilonesi in cui questi animali rappresentano le forze della natura, ostili a Dio ma da Lui sottomesse; inevitabile il rimando ai segni dello Zodiaco caldeo. Ad esempio, si credeva che il dio nazionale babilonese Marduk avesse sconfitto ed ucciso Tiamat, il grande drago del caos primigenio, e con il suo corpo avesse creato il cielo e la terra; impossibile credere che i Giudei non siano stati quantomeno influenzati da questo corpus mitologico ricchissimo ed estremamente fantasioso. Presso i Sumeri, inoltre, "quattro" esprimeva la totalità, e non è certo un caso se Ciro di Persia si proclamò sovrano "dei quattro angoli del mondo"! I quattro esseri "salgono dal mare" poiché per i Giudei, popolo di terraferma, il mare era una delle ipostasi del Male; essi dunque emergono dal caos e dall'inferno, e da loro non possiamo aspettarci nulla di buono. Leggiamo ora insieme la descrizione delle bestie:
« La prima era simile ad un leone e aveva ali di aquila. Mentre io stavo guardando, le furono tolte le ali e fu sollevata da terra e fatta stare su due piedi come un uomo e le fu dato un cuore d'uomo.
Poi ecco una seconda bestia, simile ad un orso, la quale stava alzata da un lato e aveva tre costole in bocca, fra i denti, e le fu detto:
"Su, divora molta carne."
Mentre stavo guardando, eccone un'altra simile a un leopardo, la quale aveva quattro ali d'uccello sul dorso; quella bestia aveva quattro teste e le fu dato il dominio.
Stavo ancora guardando nelle visioni notturne ed ecco una quarta bestia, spaventosa, terribile, d'una forza eccezionale, con denti di ferro; divorava, stritolava e il rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava: era diversa da tutte le altre bestie precedenti e aveva dieci corna.
» (Daniele 7, 4-7)
Come si vede, gli animali sono delle chimere, cioè degli esseri realizzati assemblando parti di altri animali (il prototipo è la mitologica Chimera descritta nel VI canto dell'Iliade, con corpo di leone, una testa di capra sulla schiena e la coda di serpente). La prima ha l'aspetto di un leone alato, e nello Zodiaco caldeo il leone era simbolo soprattutto di forza; si noti che durante la visione esso subisce una metamorfosi, e si trasforma in un essere umano, camminando eretto ed essendo dotata di un "cuore d'uomo". La seconda è un orso, avido di preda e con delle costole in bocca. La terza è un leopardo alato con ben quattro teste, e nello Zodiaco caldeo è simbolo di snellezza e di agilità. Della quarta non si specifica la specie, essendo "diversa da tutte le altre", ma se ne mette in evidenza la forza spaventosa, tanto che ha "denti di ferro" come il Cinghiale Calidonio del famoso mito greco (Iliade, canto IX), e "dieci corna": un'immagine che ritornerà nell'Apocalisse di Giovanni (le corna sono l'arma di offesa del toro, e "dieci corna" nel linguaggio biblico significa "corna potentissime").
Hans Holbein il Giovane, Le Quattro Bestie di Daniele 7, xilografia, 1538
Quattro
belve, quattro imperi
Quale il significato di queste quattro
bestie? Generalmente, a partire da Filone di Alessandria
(20 a.C.-45 d.C.), esse sono identificate con quattro
imperi, quindi in parallelo al racconto
della statua nel capitolo 2. Là, se vi ricordate, ogni parte della statua,
dall'alto in basso, rappresentava un regno; in questo caso invece la successione
dei grandi imperi mediorientali è incarnata in altrettanti animali mostruosi,
onde indicare che il potere politico rivela un aspetto bestiale. Anche in questo
caso, come si può immaginare, le quattro belve sono state variamente
identificate, soprattutto dai gruppi evangelici più radicali dell'età moderna,
tirando in ballo non solo l'Impero Romano e il Sacro Romano Impero Germanico, ma
anche la Chiesa Cattolica e il Papato. In realtà, come si è già detto
parlando della statua, è evidente che questa è una profezia
post factum: l'autore del Libro vive nel II secolo a.C., non nel sesto, e
ha già potuto assistere al crollare e al nascere di tutta una serie di imperi,
nei quali ha identificato i nemici di JHWH e del popolo eletto, avendo essi
cercato a più riprese di sterminare i Giudei o, peggio, di spegnere la loro
fede, proprio come un mostro assetato di sangue balza addosso alla sua preda e
non si limita a stritolarne le ossa, ma cancella ogni traccia rimanente della
sua esistenza. I Romani, i Bizantini, i Papi e i marziani dunque non c'entrano
proprio nulla con i sogni di Daniele. Le bestie andranno piuttosto così
interpretate:
1) Il leone è senz'altro da identificarsi con Babilonia, effettivamente la potenza dominante nel Medio Oriente all'epoca in cui Daniele visse. Nell'avvertire Giuda dell’imminente invasione babilonese, già il profeta Geremia aveva paragonato il conquistatore mesopotamico a un leone appostato nella boscaglia e pronto a ghermire la sua preda:
« Alzate un segnale verso Sion; fuggite, non indugiate, perché io mando da settentrione una sventura e una grande rovina. Il leone è balzato dalla boscaglia, il distruttore di nazioni si è mosso dalla sua dimora per ridurre la tua terra a una desolazione: le tue città saranno distrutte, non vi rimarranno abitanti. » (Geremia 4, 6-7)
Dopo la caduta di Gerusalemme, inoltre, così i sopravvissuti descrissero la furia degli eserciti babilonesi:
« I nostri inseguitori erano più veloci delle aquile del cielo; sui monti ci hanno inseguiti, nel deserto ci hanno teso agguati. » (Lamentazioni 4, 19)
Certamente l'Autore del nostro libro aveva presenti queste immagini, descrivendo l'impero babilonese come un leone con ali d'aquila. Non si sa perchè a tale leone alato venga dato "un cuore d'uomo"; una spiegazione possibile è che esso perda parte del proprio strapotere nella metamorfosi (un uomo può ben poco di fronte a un grande felino), preparandosi alla sconfitta da parte dei suoi successori Medi e Persiani.
2) L'orso rappresenta la potenza dei Medi di re Ciassare, che avevano spazzato via lo strapotere degli Assiri e ancora al tempo di Daniele si stavano godendo il bottino (le tre costole, simbolo della "pienezza" della vittoria conseguita contro l'impero assiro). L'orso è animale delle montagne, a differenza del leone che vive in pianura, e questa immagine può rendere bene l'idea della conquista della pianeggiante Mesopotamia da parte di un popolo proveniente dalle montagne dell'Iran. Ricordiamo che l'autore del Libro di Daniele ha una conoscenza storica approssimativa dei secoli in cui ambienta le sue narrazioni, e crede che i Medi sconfissero i Babilonesi e si sostituirono ad essi, mentre invece essi convissero in una costante tregua armata, finché Ciro di Persia non sottomise entrambi. È sempre il libro delle Lamentazioni ad usare l'immagine dell'orso per dare l'idea di un castigo terribile che non si ferma davanti a nulla:
« Egli era per me un orso in agguato, un leone in luoghi nascosti. » (Lamentazioni 3, 10)
3) Il leopardo alato simboleggia proprio l'impero persiano fondato da Ciro, il quale, con una rapidità impressionante, sottomise tutte le maggiori potenze della Mezzaluna Fertile, e se non andò oltre fu solo perchè morì in battaglia. Questo impero dimostrò un'avidità di conquista ancora maggiore di quella di Babilonia, estendendo il suo dominio su tutte le terre conosciute, tanto che l'autore del Libro di Ester, pressoché contemporaneo di quello di Daniele, scrive con malcelata ammirazione:
« Quell'Assuero che regnava dall'India fino all'Etiopia sopra centoventisette province... » (Ester 1, 18)
Proprio per questo a tale bestia viene "dato il dominio": i Persiani furono i primi a dominare l'intero Oriente e quindi l'intero mondo conosciuto agli Ebrei. Perchè il leopardo ha "quattro teste"? Abbiamo detto che il numero quattro era simbolo di pienezza per i Sumeri, quindi è presumibile immaginare che le quattro teste guardino verso i quattro punti cardinali, indicando la totalità del mondo sottomesso dai Persiani. Infine, anche l'immagine del leopardo è presa dal Libro di Geremia:
« Mi rivolgerò ai grandi e parlerò loro. Certo, essi conoscono la via del Signore, il diritto del loro Dio. Ahimé, anche questi hanno rotto il giogo, hanno spezzato i legami! Per questo li azzanna il leone della foresta, il lupo delle steppe ne fa scempio, il leopardo sta in agguato vicino alle loro città... » (Geremia 5, 5-6a)
Si noti come San Giovanni nell'Apocalisse sintetizzerà in un unico mostro queste tre creature fantastiche da lui lette nel capitolo 7 di Daniele:
« La bestia che io vidi era simile a un leopardo, con le zampe come quelle di un orso e la bocca come quella di un leone. Il drago le diede la sua forza, il suo trono e la sua potestà grande. » (Ap 13, 2)
4) E il quarto mostro, non meglio identificato se non per il fatto di essere diverso da tutti gli altri, quasi fosse una creatura aliena da film di fantascienza? "Denti di ferro" può averli avuti solo Alessandro il Macedone, il quale effettivamente calpestò tutto il mondo sotto i propri piedi senza lasciare scampo ai propri nemici
« [Alessandro il Macedone] intraprese molte guerre, si impadronì di fortezze e uccise i re della terra; arrivò sino ai confini della terra e raccolse le spoglie di molti popoli. La terra si ridusse al silenzio davanti a lui; il suo cuore si esaltò e si gonfiò di orgoglio. Radunò forze ingenti e conquistò regioni, popoli e principi, che divennero suoi tributari. » (1 Maccabei 1, 2-4)
Le dieci corna rappresentano a questo punto i Diadochi, cioè i successori di Alessandro. Ma c'è una sorpresa:
« Stavo osservando queste corna, quand'ecco spuntare in mezzo a quelle un altro corno più piccolo, davanti al quale tre delle prime corna furono divelte: vidi che quel corno aveva occhi simili a quelli di un uomo e una bocca che parlava con alterigia. » (Daniele 7, 8)
Come sarà detto più avanti, vi sono pochi dubbi circa il fatto che questo corno antropomorfo rappresenti non certo il Papa di Roma o il Presidente degli Stati Uniti d'America, ma il solito Antioco IV Epifane, il persecutore degli Ebrei contro cui si sollevarono i Maccabei proprio mentre veniva composto questo libro.
Prima di procedere oltre, vi segnalo il fatto che secondo alcuni le quattro bestie di questa visione sono state ispirate all'autore del Libro di Daniele da altrettante costellazioni. "I quattro venti del cielo si abbattevano impetuosamente sul Mar Mediterraneo", dice l'autore, quindi il punto di vista è la costa mediterranea della Palestina. Muovendo gli occhi nel cielo stellato dall'Equatore verso il Polo Nord Celeste, apparirà evidente la costellazione del Leone; poi, più a nordovest, l'Orsa Maggiore, ed ad est di questa la Lince, per terminare nella costellazione del Dragone. Queste quattro immagini celesti avrebbero condotto l'Autore ad immaginare i quattro mostri in forma di leone, orso, leopardo e (con molta fantasia) di drago. C'è anche chi si è spinto a sostenere che queste quattro specifiche costellazioni siano citate in questo capitolo, e non altre, poiché legate tra di loro dal fenomeno della Precessione degli Equinozi, in base alla quale l'asse terrestre descrive nel cielo un doppio cono ed il Polo Nord si sposta lungo un cerchio che viene interamente percorso in 258 secoli ("Anno Platonico"). Intorno al 2700 a.C. il Polo Nord era segnato da Thuban (α Draconis), ed in seguito si spostò venendo quasi a coincidere con l'attuale Stella Polare, che si trova nell'Orsa Minore ma è indicata chiaramente da due stelle dell'Orsa Maggiore. In tal caso la "bocca che parlava con alterigia" sarebbe quella del Dragone, che "protesta" contro l'Orsa perché le ha "scippato" il Polo Nord Celeste Questa teoria è affascinante, ma difficile da sostenere per la scarsa attinenza con il contesto del Libro di Daniele nel quale la profezia è inscritta: all'autore interessava mettere in guardia i Giudei suoi contemporanei contro Antioco IV, più che fornire oroscopi o suggerire complessi movimenti astrali.
Ricostruzione del Kosmoceratops richardsoni, dinosauro della famiglia dei ceratopsidi vissuto in Utah circa 76 milioni di anni fa. Dotato di più di 15 corna (Kosmoceratops significa "faccia decorata"), sembra il ritratto della quarta bestia che Daniele ha visto salire dal mare! |
L'Antico
di Giorni
Improvvisamente, dopo mostri così
terrificanti, nelle visioni notturne di Daniele fa irruzione un profilo
umano. Si tratta sicuramente della più famosa tra tutte le immagini
proiettate sullo schermo della Bibbia dalla fervida fantasia dell'Autore Sacro, anche in vista della lettura cristologica che ne ha fatto il Nuovo
Testamento. Al centro della visione vi
è un "vegliardo":
« Io continuavo a guardare,
quand'ecco furono collocati troni
e un vegliardo si assise.
La sua veste era candida come la neve
e i capelli del suo capo erano candidi come la lana;
il suo trono era come vampe di fuoco
con le ruote come fuoco ardente.
Un fiume di fuoco scendeva dinanzi a lui, mille migliaia lo servivano
e diecimila miriadi lo assistevano.
La corte sedette e i libri furono aperti. » (Daniele 7. 9-10)
Non c'è alcun dubbio: il "vegliardo" è Dio stesso, rappresentato attraverso i classici simboli che esprimono l'eternità (i capelli candidi), la trascendenza (la veste simile a neve), il controllo sull'universo (il fiume di fuoco) e la suprema maestà (il numero iperbolico dei suoi servitori). I capelli candidi e una spada di fuoco torneranno anche nella descrizione del Primo, l'Ultimo e il Vivente al principio dell'Apocalisse giovannea. La traduzione letterale dall'aramaico "Atick Yomin" è "Antico di Giorni", termine che diverrà molto popolare nella Qabbalah ebraica tradizionale. Commentando questo brano nel corso dell'Udienza Generale del 17 agosto 2022, così si è espresso Papa Francesco, parlando sul tema della vecchiaia:
« In questo intreccio di tanti simboli, c'è un aspetto che ci aiuta a comprendere meglio il legame di questa teofania con il ciclo della vita, con il tempo della storia, la signoria di Dio per il mondo creato. E quest'aspetto ha proprio a che fare con la vecchiaia. La visione comunica un’impressione di vigore e di forza, di nobiltà, di bellezza e di fascino. [...] I capelli del vegliardo però sono candidi: come la lana, come la neve. Come quelli di un vecchio. Il termine biblico più diffuso per indicare l'anziano è “zaqen”, da “zaqan”, che significa “barba”. La chioma candida è il simbolo antico di un tempo lunghissimo, di un passato immemorabile, di una esistenza eterna. [...] L’immagine di un Dio vegliardo con la chioma candida non è un simbolo sciocco, è un’immagine biblica, è un’immagine nobile e anche un’immagine tenera. [...] Dio è vecchio come l’intera umanità, ma anche di più. È antico e nuovo come l’eternità di Dio. Perché l’eternità di Dio è così, antica e nuova, perché Dio ci sorprende sempre con la sua novità, sempre ci viene incontro, ogni giorno in una maniera speciale, per quel momento, per noi. Si rinnova sempre: Dio è eterno, è da sempre, possiamo dire che c’è come una vecchiaia in Dio, che è eterno, ma si rinnova sempre. »
L'Antico di Giorni avvia una sorta di giudizio universale, aprendo i "libri", cioè lo scibile dell'intera storia umana. Chi è processato? Ce lo dicono i versetti seguenti:
« Continuai a guardare a causa delle parole superbe che quel corno proferiva, e vidi che la bestia fu uccisa e il suo corpo distrutto e gettato a bruciare sul fuoco. Alle altre bestie fu tolto il potere e fu loro concesso di prolungare la vita fino a un termine stabilito di tempo. » (Daniele 7, 11-12)
Come si vede, ad essere processate sono proprio le quattro bestie osservate subito prima, ed in particolare il "corno" blasfemo, cioè Antioco IV Epifane. La bestia cui quel corno apparteneva, cioè l'impero dei Seleucidi, viene uccisa e carbonizzata: segno certo del fatto che il Signore ha pronunciato il Suo tremendo giudizio su quel persecutore dei Giudei, i quali perciò non hanno motivo di temerlo. Alle altre bestie invece è tolto ogni potere, perchè tali imperi sono stati già travolti dalla storia e caduti nell'oblio. Ciò ricorda una delle stranezze viste da Astolfo sulla Luna nell'"Orlando Furioso" di Ludovico Ariosto:
« Vide un monte di tumide vesiche,
che dentro parea aver tumulti e grida;
e seppe ch'eran le corone antiche
e degli Assiri e de la terra lida,
e de' Persi e de' Greci, che già furo
incliti, ed or n'è quasi il nome oscuro. » (Canto XXXIV, 76)
Il "Bar Enash"
A questo punto, entra in scena un altro celeberrimo quanto misterioso
personaggio:
« Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a Lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto. » (Daniele 7, 13-14)
"Sulle nubi del cielo" significa dalla dimora stessa della Divinità: dunque è di origine divina questo enigmatico personaggio qualificato come "bar enash" in aramaico, cioè "figlio di uomo", termine equivalente all'ebraico "ben adam" utilizzato ripetutamente da Ezechiele, lui sì vissuto all'epoca dell'esilio a Babilonia. Ad esempio:
« Mi disse: Figlio dell'uomo, alzati, ti voglio parlare. » (Ezechiele 2, 1)
L'espressione è divenuta famosissima perchè Gesù la applicherà a se stesso, perfino nel momento cruciale del processo davanti al Sinedrio la notte tra il Giovedì e il Venerdì Santo:
« Io vi dico: d'ora innanzi vedrete il Figlio dell'Uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo! » (Matteo 26, 64)
Ed anche Stefano, pieno di Spirito Santo, al termine del processo che si conclude con la sua condanna a morte per lapidazione, vede in visione i cieli che si aprono ed esclama:
« Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell'Uomo che sta alla destra di Dio » (Atti 7, 56)
Ecco in particolare come commenta questo titolo Papa Benedetto XVI nel primo volume del suo straordinario "Gesù di Nazaret":
« Figlio dell'uomo: questa misteriosa affermazione è il titolo che Gesù usa più frequentemente quando parla di sé. Solo nel Vangelo di Marco l'espressione "Figlio dell'Uomo" compare sulle labbra di Gesù quattordici volte. Anzi, in tutto il Nuovo Testamento l'espressione "Figlio dell'Uomo" si trova soltanto sulla bocca di Gesù, con l'unica eccezione della visione di Stefano morente [...] La cristologia degli scrittori del Nuovo Testamento, anche degli stessi Evangelisti, non si fonda sul titolo "Figlio dell'Uomo", bensì sui titoli "Messia" ("Cristo"), "Kyrios" ("Signore") e "Figlio di Dio", già in uso inizialmente durante la vita di Gesù. La qualifica "Figlio dell'uomo" è tipica delle parole stesse di Gesù; nel linguaggio apostolico il suo contenuto viene trasferito ad altri titoli. » (cap. 10, pp. 369-370)
Essa ha un duplice significato. Da un lato, esso indica l'umanità e quindi la ragione, in contrapposizione alla cieca e bestiale ferocia delle quattro bestie. In tal caso, come queste ultime rappresentano quattro regni dominati dall'empietà, anche il "figlio d'uomo" può simboleggiare una collettività, e cioè il Popolo dei Santi, i figli di Israele che non si sono piegati alle persecuzioni , siano esse quelle di Nabucodonosor o di Antioco IV, e per questo vengono simbolicamente condotti dinnanzi a Dio per ricevere il premio della loro vittoria, un regno universale ed eterno. A suffragare quest'interpretazione verrà il versetto 27 dello stesso capitolo: « il regno, il potere e la grandezza di tutti i regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei Santi dell'Altissimo ». D'altro canto, il versetto 13 è suscettibile anche di un'interpretazione messianica. Ha scritto infatti l'esegeta Giovanni Canfora: « siccome, secondo la mentalità degli antichi, un regno e inconcepibile senza un re e spesso si passa indifferentemente dall'uno all'altro, cioè dal significato collettivo al significato individuale e viceversa, cosi il "figlio dell'uomo" prefigura anche la persona dei Messia », il quale riceve da Dio stesso un mandato universale e regnerà per sempre su tutte le nazioni. L'eco di queste parole arriva infatti fino a quanto l'Arcangelo Gabriele dirà a Maria al momento dell'Annunciazione:
« Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine. » (Luca 1, 31-33)
Nella visione del "Bar Enash" i cristiani fin dalle origini hanno riconosciuto una profezia della Regalità di Gesù, che si estende all'intera storia ed abbraccia tutti i popoli della Terra; siccome la Regalità di Cristo è eterna, essa si estrinseca nel concedere la Vita Eterna a tutti coloro che la riconoscono. Particolarmente azzeccata appare l'associazione della visione delle quattro bestie con quella del "Figlio dell'Uomo" nel capitolo 7 del nostro Libro, del quale ormai ci è chiaro il senso. La storia ha conosciuto imperi colossali e dominati dalla violenza e dalla sopraffazione, proprio come dei mostri assetati di sangue, ma essi sono spariti, perchè provenivano "dal mare", cioè dall'opera del Maligno. Il Regno Eterno viene solo dal Vegliardo, dall'"Antico di Giorni", cioè da Dio, che lo consegnerà al suo Messia, al "Figlio dell'Uomo". Diamo ancora la parola a Papa Benedetto XVI nell'opera sopra citata:
« Alle bestie venute dal mare si contrappone l'uomo venuto dall'alto. Come quelle bestie personificano i regni del mondo fino ad allora esistiti, l'immagine del "figlio di uomo" che giunge "sulle nubi del cielo"preannuncia un regno del tutto nuovo, un regno di "umanità", di quel vero potere che proviene da Dio stesso. Con questo regno compare la vera universalità, la forma positiva della storia, definitiva e sempre tacitamente desiderata. Il "figlio di uomo" che giunge dall'alto è dunque il contrario delle bestie venute dagli abissi del mare; come tale, non è una figura individuale, bensì la rappresentazione del "Regno" in cui il mondo raggiungerà la sua meta finale. » (cap. 10, pag. 375)
Per comprendere la fortuna di questo titolo anche ai giorni nostri, basta pensare all'opera "Gesù Figlio dell'Uomo" (1928) del grande poeta libanese Gibran Khalil Gibran (1883–1931). Eccone un estratto:
« Simon Pietro venne avanti, e disse: "Maestro, non lasciare che ci inoltriamo da soli nel
buio. Concedici di rimanere con te, anche qui, su questo sentiero. La notte e le ombre della notte
non dureranno a lungo, e presto ci troverà il mattino, se non ci lasci."
E Gesù rispose: "Questa notte le volpi avranno le loro tane, e gli uccelli dell'aria i loro nidi, ma il
Figlio dell'Uomo non ha dove posare il capo. E ora desidero restare solo. Se mi cercherete, sarò
presso il lago dove vi ho trovato."
Ci separammo da lui con un peso nel cuore: a malincuore lo lasciavamo. Molte volte ci volgemmo indietro a guardarlo, e lo vedemmo andare verso occidente, in maestosa
solitudine. »
Nell'Apocalisse giovannea l'Apostolo si rivolgerà ad uno dei ventiquattro vegliardi acciocché gli spieghi ciò cui sta assistendo. La stessa cosa fa ora Daniele:
« Io, Daniele, mi sentii venir meno le forze, tanto le visioni della mia mente mi avevano turbato; mi accostai ad uno dei vicini e gli domandai il vero significato di tutte queste cose, ed egli me ne diede questa spiegazione: "Le quattro grandi bestie rappresentano quattro re, che sorgeranno dalla terra; ma i Santi dell'Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per secoli e secoli. » (Daniele 7, 15-18)
Abbiamo la conferma del fatto che le quattro bestie viste nei versetti 1-8 simboleggiano quattro regni, incarnati nei loro fondatori ("quattro re": Nabucodonosor, Ciassare, Ciro e Alessandro Magno). Se i "Santi dell'Altissimo" sono interpretati come l'insieme dell'Israele giusto e perseguitato, allora il "figlio d'uomo" è proprio l'ipostasi degli uomini retti che non hanno sacrificato agli idoli ed hanno preferito la morte all'apostasia. A sostegno di questa tesi vi è il fatto che la tradizione biblica ama presentare l'intero Israele come un popolo di santi:
« Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. » (Esodo 19, 6a)
« Temete il Signore, Suoi Santi, nulla manca a coloro che Lo temono. » (Salmi 33, 10)
Altrove però il termine "Santi di YHWH" indica gli angeli; e questo, soprattutto nella letteratura apocalittica. Secondo alcuni autori perciò sarebbero gli Arcangeli di Dio a governare sui popoli su mandato divino, come una sorta di angeli custodi (si ricordi che, circa un anno prima delle apparizioni di Maria, ai tre veggenti di Fatima era apparso "l'angelo custode del Portogallo"). Tale identificazione rafforza invece l'interpretazione messianica. Come è avvenuto allora il passaggio dal simbolismo del « popolo dei Santi dell'Altissimo » a quello del Salvatore universale così come lo ritroviamo nei Vangeli? Sfortunatamente conosciamo troppo scarsamente il cosiddetto "Intertestamento", cioè gli scritti composti dai Giudei tra gli ultimi libri del Vecchio Testamento e l'avvento del Cristianesimo, per poter rispondere in modo soddisfacente a questa domanda. Tuttavia almeno due testi apocrifi appartenenti all'apocalittica ebraica ci lasciano intravedere il possibile trait d'union tra le due interpretazioni del "Bar Enash". Nel "Libro dei Segreti di Enoc" è citato un "figlio d'uomo" a cui sono dati anche i titoli di "luce delle nazioni" e "fontana di giustizia", che verrà come giudice escatologico e salvatore dell'Israele rimasto fedele a YHWH. Non è da escludere che in questa figura misteriosa gli Esseni abbiano ravvisato il capo della loro comunità, che infatti era chiamato "Maestro di Giustizia". Anche il Quarto Libro di Esdra, testo apocalittico della fine del I secolo dopo Cristo, parlando del Messia lo descrive come "un uomo che sale dal mare e vola sulle nubi del cielo". Con il soffio della sua bocca sconfigge la moltitudine dei suoi nemici, quindi raccoglie intorno a sé le tribù d'Israele che erano disperse. Gesù si è inserito in questa scuola di pensiero ed ha applicato a sé stesso il titolo di "Figlio dell'Uomo" in sostituzione a quello di "Messia" per sottolineare il carattere paradossale della sua messianicità. Da un lato, Egli sarà il Giudice universale al momento della Sua venuta nella gloria, descritto con le stesse immagini di Daniele:
« In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore, gli astri si metteranno a cadere dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. » (Marco 13, 24-26)
D'altro canto, però, Egli è anche il Servo di YHWH, disprezzato e reietto dagli uomini (cfr. Isaia 53, 3), che offre la propria vita per la salvezza dei fratelli: nulla di più lontano dall'immagine di un supereroe che cala in picchiata sui suoi nemici provenendo dal di là delle nubi, dalla luce del Paradiso. Il bello di queste pagine bibliche sta proprio nel fatto che di esse sono possibili molteplici interpretazioni, e tutte una più suggestiva dell'altra, resistendo ad ogni tentativo di ingabbiarle dentro uno schema mentale precostituito.
Il
corno della bestia
Daniele comunque non si ferma qui, perchè
mentre la visione prosegue egli vuole conoscere il senso della sua inquietante
visione:
« Volli poi sapere la verità intorno alla quarta bestia, che era diversa da tutte le altre e molto terribile, che aveva denti di ferro e artigli di bronzo e che mangiava e stritolava e il rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava; intorno alle dieci corna che aveva sulla testa e intorno a quell'ultimo corno che era spuntato e davanti al quale erano cadute tre corna e del perché quel corno aveva occhi e una bocca che parlava con alterigia e appariva maggiore delle altre corna.
Io intanto stavo guardando e quel corno muoveva guerra ai Santi e li vinceva, finché venne il vegliardo e fu resa giustizia ai
Santi dell'Altissimo e giunse il tempo in cui i santi dovevano possedere il regno.
» (Daniele 7, 19-22)
Il "corno" non è affatto una semplice escrescenza di quella specie di dinosauro che il profeta ha avuto modo di vedere in visione, ma è un individuo a sé stante e molto potente, giacché muove guerra ai "Santi" e sembra in grado di sconfiggerli, anche se la sua vittoria è solo temporanea. Questo simbolismo non è scelto a caso. Nella Bibbia il termine "corno" viene spesso usato come immagine di potenza e di forza militare, essendo lo strumento di offesa del toro. Nel linguaggio biblico, che come ormai sappiamo non conosce termini astratti ma solo immagini figurative, avere il corno alzato significa successo nelle proprie imprese, acquistare corna indica conseguire vittorie e perderne vuol dire andare incontro alla sconfitta. Il corno diventa dunque in modo naturale un attributo regale, proprio dei conquistatori. Ecco ora la spiegazione della visione:
« Egli dunque mi disse: "La quarta bestia significa che ci sarà sulla terra un quarto regno diverso da tutti gli altri e divorerà tutta la terra, la stritolerà e la calpesterà. Le dieci corna significano che dieci re sorgeranno da quel regno e dopo di loro ne seguirà un altro, diverso dai precedenti: abbatterà tre re e proferirà insulti contro l'Altissimo e distruggerà i Santi dell'Altissimo; penserà di mutare i tempi e la legge; i Santi gli saranno dati in mano per un tempo, più tempi e la metà di un tempo. » (Daniele 7, 23-25)
Busto di Antioco IV Epifane, Altes Museum di Berlino
Il "regno diverso da tutti gli altri" è l'impero seleucide, diverso semplicemente perchè al tempo dell'Autore non è ancora caduto, a differenza di tutti i precedenti, e non sembra mostrare segni di cedimento. Le "dieci corna" rappresentano come preannunciato sopra dieci re, dopo i quali verrà un sovrano che "abbatterà tre re e proferirà insulti contro l'Altissimo e distruggerà i Santi dell'Altissimo". Non può che trattarsi di Antioco IV Epifane, la "bestia nera" dei Maccabei, che costrinse gli Ebrei ad adottare usi propri del mondo ellenistico, facendo uccidere chi rifiutava. Appare assai più difficile ipotizzare chi sono le altre "corna", cioè gli altri re nominati in questa profezia, che vennero prima dell'Epifane. I predecessori di quest'ultimo sul trono di Siria furono sette, otto se si considera Antioco Ierace che governò sulla sola Asia Minore. La lista andrebbe perciò completata con gli ultimi due Argeadi, cioè Alessandro Magno e suo figlio con lo stesso nome (che non regnò mai veramente, essendo in balia dei Diadochi):
1) Alessandro III il Grande (336-323 a.C.), re di Macedonia, conquistò l’impero persiano
2) Alessandro IV (323-309 a.C.), figlio minorenne di Alessandro III il Grande
3) Seleuco I Nicatore ("vincitore", 311-281 a.C.), generale di Alessandro
il Grande, conquistò Babilonia
4) Antioco I Sotere ("salvatore", 281-261 a.C.), figlio di Seleuco I
5) Antioco II Teo ("divino", 261-246 a.C.), figlio di Antioco I
6) Seleuco II Callinico ("il grande vincitore", 246-225 a.C.), figlio di Antioco II
7) Antioco Ierace ("lo sparviero", 241-226 a.C.), figlio di Antioco II e fratello di Seleuco II,
regnò in Asia Minore
8) Seleuco III Sotere Cerauno ("il tuono", 225-222 a.C.), figlio di Seleuco II
9) Antioco III il Grande (222-187 a.C.), figlio di Seleuco II e fratello di Seleuco III
10) Seleuco IV Filopatore ("che ama il padre", 187-175 a.C.), figlio di Seleuco III,
gli succedette il fratello Antioco IV Epifane
Alcuni tuttavia non sono d'accordo, poiché i Seleucidi dominarono la Palestina solo a partire da Antioco III il Grande; in precedenza, essa faceva parte del regno dei Tolomei d'Egitto. I Tolomei che governarono su Gerusalemme però sono solo cinque, a cui vanno aggiunti due Seleucidi per arrivare al momento in cui il Libro viene composto. Gli Argeadi da aggiungere sono allora tre, tenendo conto del figlio illegittimo di Filippo II di Macedonia, Filippo III Arrideo, che governò nominalmente l'impero del fratellastro assieme ad Alessandro IV, senza però mai esercitare il potere effettivo, poiché soffriva di epilessia:
1) Alessandro III il Grande (336-323 a.C.), re di Macedonia, conquistò l’impero persiano
2) Filippo III Arrideo (323-317 a.C.), fratellastro di Alessandro il Grande e infermo di mente
3) Alessandro IV (323-309 a.C.), figlio minorenne di Alessandro III il Grande
4) Tolomeo I Sotere ("salvatore", 305-283 a.C.), generale di Alessandro il Grande, conquistò l’Egitto
5) Tolomeo II Filadelfo ("che ama il fratello", 285-246 a.C.), figlio di Tolomeo I
6) Tolomeo III Evergete ("benefattore", 246-221 a.C.), figlio di Tolomeo II
7) Tolomeo IV Filopatore ("che ama il padre", 221-204 a.C.), figlio di Tolomeo III
8) Tolomeo V Epifane ("che si manifesta con
potenza", 204-180 a.C.), figlio di Tolomeo IV
9) Antioco III il Grande (222-187 a.C.), re di Siria, nel 198 a.C. sconfisse Tolomeo V e conquistò la Palestina
10) Seleuco IV Filopatore (187-175 a.C.), figlio di Seleuco III,
gli succedette il fratello Antioco IV Epifane
Ovviamente vi è una terza spiegazione. Come abbiamo visto, spesso e volentieri l'Autore del Libro di Daniele confonde tra loro nomi di sovrani e di popoli, inventandosi re mai esistiti e giustapponendo vicende storiche assai diverse tra di loro. Egli dunque, parlando delle "dieci corna" del dinosauro, potrebbe non avere in mente dieci sovrani realmente esistiti come quelli delle liste che abbiamo testé riportato, ma un numero indefinito di re ellenistici compresi tra la fine dell'Impero degli Achemenidi e l'avvento al trono dell'Epifane; "dieci" sarebbe così un numero simbolico, per indicare un tempo molto lungo che l'Autore è impossibilitato a quantificare.
Del "corno Antioco IV" si dice che "abbatterà tre re". Ma di quali re si parla? Anche in questo caso non vi è accordo tra gli esegeti, se non sul fatto che questo numero non è simbolico, in quanto questo tiranno è contemporaneo dell'Autore stesso. Secondo alcuni i "tre re" alludono a tre nipoti di Antioco IV, Demetrio, Antioco e Tolomeo, che tentarono inutilmente di usurpargli il trono. Secondo altri si parla di tre sovrani stranieri sconfitti in altrettante battaglie, e cioè Tolomeo VI Filometore d'Egitto (180-145 a.C.), suo fratello Tolomeo VIII Fiscone ed Artaxias di Armenia (190-160 a.C.). L'empio Antioco "penserà di mutare i tempi e la legge", un'allusione al tentativo da parte del re di Siria di sostituire il calendario rituale ebraico con quello greco. Inoltre la visione preannuncia che "i Santi gli saranno dati in mano per un tempo, più tempi e la metà di un tempo". Che significa questa indicazione cronologica affatto vaga? La spiegazione più semplice è che l'Autore indichi un tempo di tre anni e mezzo, cioè all'incirca la durata della persecuzione antiochea, che infuriò dal 168 al 165 a.C. Vi è però da dire che tre anni e mezzo rappresentano anche la metà esatta di sette anni, considerati il tempo della pienezza nel linguaggio biblico. "Un tempo, più tempi e la metà di un tempo" starebbe quindi a significare un tempo lungo, ma limitato, dopo il quale la persecuzione finirà e verrà fatta giustizia:
« Si terrà poi il giudizio e gli sarà tolto il potere, quindi verrà sterminato e distrutto completamente. Allora il regno, il potere e la grandezza di tutti i regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei Santi dell'Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e obbediranno. » (Daniele 7, 26-27)
Chiarissimo anche in questo caso è il messaggio del nostro Autore. Nonostante la sua superbia e la sua violenza, il "corno" del mostro sarà sconfitto e punito, e il regno e il potere saranno trasferiti ai "Santi dell'Altissimo", cioè all'Israele rimasto fedele a YHWH. Riecco l'intenzione di infondere fiducia nei Giudei perseguitati: la Storia non è in mano al dominio bestiale delle potenze terrene, descritti come mostri che salgono dal mare, cioè dal caos e dall'inferno, ma è ben salda nel pugno del Signore, che compirà il giudizio sui tiranni, annientandoli. È anche possibile, ma non certo, che con questo giudizio terribile l'Autore voglia alludere alla morte di Antioco Epifane, avvenuta nel 164 a.C. mentre marciava contro Artaxias I d'Armenia. Tale morte è descritta nel capitolo 6 del Primo Libro dei Maccabei (6, 1-16), anche se è presentata come una conseguenza del dolore del re alla notizia che i Giudei hanno riconquistato Gerusalemme:
« Il re Antioco intanto percorreva le regioni settentrionali e seppe che c'era in Persia la città di Elimàide, famosa per ricchezza e argento e oro; [...] Allora vi si recò e cercava di impadronirsi della città e di depredarla, ma non vi riuscì, perché il suo piano fu risaputo dagli abitanti della città, che si opposero a lui con le armi; egli fu messo in fuga e dovette partire di là con grande tristezza e tornare in Babilonia. Poi venne un messaggero in Persia ad annunciargli che erano state sconfitte le truppe inviate contro Giuda [...] Il re, sentendo queste novità, rimase sbigottito e scosso terribilmente; si mise a letto e cadde ammalato per la tristezza, perché non era avvenuto secondo i suoi desideri. Rimase così molti giorni, perché si rinnovava in lui una forte depressione e credeva di morire. Allora chiamò tutti i suoi amici e disse loro: "Se ne va il sonno dai miei occhi e ho l'animo oppresso dai dispiaceri; ho pensato: in quale tribolazione sono giunto, in quale terribile agitazione sono caduto io che ero sì fortunato e benvoluto sul mio trono! Ora mi ricordo dei mali che ho fatto in Gerusalemme, portando via tutti gli arredi d'oro e d'argento che vi erano e mandando a sopprimere gli abitanti di Giuda senza ragione. Riconosco che a causa di tali cose mi colpiscono questi mali: ed ecco muoio nella più nera tristezza in paese straniero." [...] Il re Antioco morì in quel luogo nel centoquarantanove. » (1 Maccabei 6, 1.3-5.8-13.16)
Sembra decisamente di leggere un brano del Libro di Daniele: il persecutore dei Giudei muore di crepacuore avendo saputo che la sua persecuzione non è andata a buon fine, in aggiunta alla sconfitta in Elimaide (l'antico Elam). Prima di morire (l'anno 149 dell'"Era dei Greci" corrisponde al 164 a.C., perchè il computo parte dal 312 a.C., primo anno del regno di Seleuco I, fondatore della dinastia) egli riconosce le sue malefatte e la giusta vendetta del Dio d'Israele, proprio come anno fatto Nabucodonosor e Dario il Medo nel racconto che noi stiamo analizzando. Gli autori dei due libri appartengono perciò alla stessa scuola di pensiero. In realtà Antioco IV era già morto prima della vittoria di Giuda Maccabeo, che anzi poté avere successo proprio grazie alle divisioni interne all'esercito siriano in seguito alla morte del suo capo, ma la realtà storica viene piegata ad un'interpretazione di tipo teologico e sapienziale. Il tutto è attribuito allo stesso Daniele, come se il testo fosse opera sua, un procedimento già attuato nel libro dei Proverbi (attribuiti a re Salomone) e in seguito tipico della letteratura apocalittica:
« Qui finisce la relazione. Io, Daniele, rimasi molto turbato nei pensieri, il colore del mio volto si cambiò e conservai tutto questo nel cuore. » (Daniele 7, 28)
Nella provincia
dell'Elam
Con il capitolo 8 riprende il racconto in lingua
ebraica, dopo la sezione in lingua aramaica iniziata nel capitolo
2. Esso è interamente occupato da una nuova, complessa visione, che come le
precedenti verrà alla fine decifrata da un misterioso interlocutore inviato a
Daniele (generalmente si pensa ad un angelo). La datazione è cronologicamente
coerente con quella della visione delle quattro bestie salite dal mare: l'anno
terzo della reggenza di Baldassarre, ovvero il 548 a.C. Per la prima volta,
però, la narrazione non si svolge più a Babilonia:
« Il terzo anno del regno del re Baldassarre, io Daniele ebbi un'altra visione dopo quella che mi era apparsa prima. Quand'ebbi questa visione, mi trovavo nella cittadella di Susa, che è nella provincia dell'Elam, e mi sembrava, in visione, di essere presso il fiume Ulai. » (Daniele 8, 1-2)
Daniele ora si trova a Susa, capitale della regione di Elam, Elimaide o Susiana in lingua greca, oggi nell'Iran occidentale, e precisamente nelle regioni del Khuzistan e del Fars. In tale regione, tra il IV e il I millennio a.C., fiorì un'importante civiltà, uno dei grandi centri della prima urbanizzazione, che fece da tramite tra le civiltà sumeriche e mesopotamiche e le popolazioni dell'altopiano iranico. L'Elam venne colonizzato dalla città di Uruk (quella di cui fu re Gilgamesh), e nel III millennio a.C. la sua capitale era Awan, centro abitato mai localizzato con esattezza. In seguito fu conquistato da Shulgi (2094-2047 a.C.), re di Ur. L'apice della civiltà elamita fu raggiunto nel XII secolo a.C.: nel 1155 a.C. gli Elamiti riuscirono a conquistare Babilonia, ponendo fine al dominio cassita. Proprio a Susa il sovrano elamita Shutruk-Nakhunte portò il bottino tolto a Babilonia, tra cui la famosa pietra di diorite su cui era inciso il codice di Hammurabi, rinvenuta là nel 1901 da una missione archeologica francese. Tuttavia, pochi decenni più tardi Nabucodonosor I di Babilonia lavò l'onta e conquistò il regno elamita; esso piombò allora nell'oblio per più di tre secoli, fino all'VIII secolo a.C. quando si ricostituì il cosiddetto regno neo-elamita. Esso fu conquistato dall'ultimo re degli Assiri, Assurbanipal, che nel 636 a.C. saccheggiò e incendiò la capitale Susa, radendo al suolo la sua ziggurat, che costituiva il simbolo religioso e nazionale più appariscente. Ciro il Persiano si ritenne erede della cultura elamitica, e proprio a Susa stabilì la capitale invernale del suo impero. Susa fu poi conquistata da Alessandro Magno nella sua spedizione contro l'Impero Achemenide ma, a differenza di Persepoli, non fu saccheggiata. Sulle rovine della capitale dell'antico Elam oggi sorge la città iraniana di Shush, che ha 65.000 abitanti. Il fiume Ulai è invece un corso d'acqua che attraversava la città di Susa, oggi noto come Karkheh e da alcuni identificato con il Gihon, uno dei quattro fiumi del Paradiso Terrestre secondo Gen 2, 13.
Le rovine dell'antica Susa
Il nome Elam è ben noto alla Bibbia, essendo quello del primogenito di Sem, figlio di Noè:
« I figli di Sem: Elam, Assur, Arpacsad, Lud e Aram. » (Genesi 10, 22)
Ciò testimonia in quanta considerazione erano tenuti gli elamiti al momento della redazione finale della Genesi; in realtà, però, quasi certamente l'origine della popolazione elamita non era semitica. Gli Elamiti chiamavano la propria terra Haltamti, divenuto Elam nella Bibbia attraverso l'accadico Elamû; l'origine di tale denominazione è però incerta. Ritroviamo l'Elam nella Genesi, quattro capitoli più avanti:
« Al tempo di Amrafel re di Sennaar, di Arioch re di Ellasar, di Chedorlaomer re dell'Elam e di Tideal re di Goim, costoro mossero guerra contro Bera re di Sòdoma, Birsa re di Gomorra, Sinab re di Adma, Semeber re di Zeboim, e contro il re di Bela, cioè Zoar. Tutti questi si concentrarono nella valle di Siddim, cioè il Mar Morto. Per dodici anni essi erano stati sottomessi a Chedorlaomer, ma il tredicesimo anno si erano ribellati. » (Genesi 14, 1-4)
A questo brano abbiamo già accennato commentando il capitolo 2 di Daniele. Assodato che in Amrafel si possa riconoscere il famoso Hammurabi di Babilonia e in Arioch il re di Larsa Eriaku (che era proprio un elamita), la moderna storiografia tende ad escludere che al tempo di Hammurabi l'Elam avesse esteso il proprio predominio sull'intera Mesopotamia e addirittura fino alla Palestina; al massimo, il capo della coalizione avrebbe potuto essere Amrafel/Hammurabi. L'autore ha perciò in mente una situazione politica di un periodo diverso, probabilmente l'VIII secolo a.C., quando il già citato regno neo-elamita riuscì a sottomettere per breve tempo Babilonia e la Mesopotamia. Si noti che il predominio di Chedorlaomer dura "tredici anni", cioè quattordici anni meno uno. Quattordici è il doppio di sette, numero della perfezione; tredici rappresenta dunque un simbolo di imperfezione, di limitatezza, di cosa che è destinata a non durare nel tempo, esattamente come i "tre anni e mezzo" di Dan 7, 25. Infatti il predominio elamita sul Medio Oriente non durò a lungo; l'Autore biblico "sposta" volutamente nel tempo quest'epoca di predominio all'epoca di Abramo, ignorando che a quel tempo era ancora Babilonia ad avere il sopravvento, esattamente come il Libro di Daniele confonde regni, epoche e monarchi. D'altro canto, Chedorlaomer - come Amrafel e Arioch - sembra una figura storica, essendo identificabile con Kudurlagamar, un sovrano elamita che governò la città di Larsa dal 1770 al 1754 a.C., quindi all'epoca di Hammurabi e di Abramo. Certamente elamita è il suo nome, essendo composto da Kudur, "servo", e Lagamar, un'importante divinità del pantheon elamita: un nome degno, dunque, di essere portato da un sovrano (per inciso, in ebraico Goim vuol dire semplicemente "nazioni pagane"; il loro re Tideal è stato identificato con Tudhaliya, re degli Ittiti dal 1430 al 1400 a.C., e quindi le "nazioni" cui allude Gen 14, 1 sarebbero quelle dell'Anatolia).
Gli Elamiti compaiono anche nel primo Isaia, chiamati con i Medi a distruggere Babilonia:
« Una visione angosciosa mi fu mostrata: il saccheggiatore che saccheggia, il distruttore che distrugge. Salite, o Elamiti, assediate, o Medi! Io faccio cessare ogni gemito. » (Isaia 21, 2)
Geremia tuttavia profetizza anche contro l'Elam:
« Parola che il Signore rivolse al profeta Geremia riguardo all'Elam all'inizio del regno di Sedecìa re di Giuda. Dice il Signore degli Eserciti: "Ecco, io spezzerò l'arco dell'Elam, il nerbo della sua potenza. Manderò contro l'Elam i quattro venti dalle quattro estremità del cielo e li sparpaglierò davanti a questi venti; non ci sarà nazione in cui non giungeranno i profughi dell'Elam. » (Geremia 49, 34-36)
Tale nazione è inclusa fra quelle che scrissero al re Artaserse contro Gerusalemme:
« Recum governatore e Simsai scriba scrissero questa lettera contro Gerusalemme al re Artaserse: Recum governatore e Simsai scriba e gli altri loro colleghi giudici, legati, sovrintendenti e funzionari, uomini di Uruk, di Babilonia e di Susa, cioè di Elam... » (Esdra 4, 8-9)
Inoltre a Gerusalemme, il giorno di Pentecoste, erano presenti anche dei Giudei dell'Elam (At 2, 9): probabilmente vi erano rimasti invece di tornare dall'esilio in Babilonia.
Il
montone e il capro
Ma torniamo ora al capitolo 8 di Daniele.
Entra in scena un altro animale, stavolta un montone:
« Alzai gli occhi e guardai; ecco un montone, in piedi, stava di fronte al fiume. Aveva due corna alte, ma un corno era più alto dell'altro, sebbene fosse spuntato dopo. Io vidi che quel montone cozzava verso l'occidente, il settentrione e il mezzogiorno e nessuna bestia gli poteva resistere, né alcuno era in grado di liberare dal suo potere: faceva quel che gli pareva e divenne grande. » (Daniele 8, 3-4)
Questa bestia ha due corna di lunghezza differente, e si scaglia contro i punti cardinali; il testo ebraico ne indica solo tre, escludendo l'oriente, mentre nella versione greca sono citati tutti e quattro. Ben presto ci accorgiamo che questo montone non è una semplice pecora, ma somiglia piuttosto ai "mostri" di cui abbiamo parlato a proposito di Daniele 3, 79: il Leviatano di Giobbe "lo teme ogni essere più altero", e così questo montone "fa quel che gli pare" e diventa così grande da somigliare più a un dinosauro, che ad un qualunque ariete. Ma non basta:
« Io stavo attento ed ecco un capro venire da occidente, sulla terra, senza toccarne il suolo: aveva fra gli occhi un grosso corno. » (Daniele 8:5)
Ecco che da occidente compare un caprone, che si rivela ben presto una sorta di unicorno; né ci sarebbe da stupirsene, visto che talvolta l'unicorno era rappresentato con una barba caprina!
« Si avvicinò al montone dalle due corna, che avevo visto in piedi di fronte al fiume, e gli si scagliò contro con tutta la forza. Dopo averlo assalito, lo vidi imbizzarrirsi e cozzare contro di lui e spezzargli le due corna, senza che il montone avesse la forza di resistergli; poi lo gettò a terra e lo calpestò e nessuno liberava il montone dal suo potere. Il capro divenne molto potente; ma quando fu diventato grande, quel suo gran corno si spezzò e al posto di quello sorsero altre quattro corna, verso i quattro venti del cielo. Da uno di quelli uscì un piccolo corno, che crebbe molto verso il mezzogiorno, l'oriente e verso la Palestina: s'innalzò fin contro la milizia celeste e gettò a terra una parte di quella schiera e delle stelle e le calpestò. S'innalzò fino al capo della milizia e gli tolse il sacrificio quotidiano e fu profanata la santa dimora. In luogo del sacrificio quotidiano fu posto il peccato e fu gettata a terra la verità; ciò esso fece e vi riuscì. » (Daniele 8, 6-12)
Questo unicorno, che sarà descritto anche nei bestiari medioevali come un animale fortissimo, punta dunque contro il montone e si scatena un duello che vede soccombere quest'ultimo. Il montone perde entrambe le corna, il suo regno finisce ed esso è sostituito da quello del caprone con un corno solo. A questo punto, però, il suo unico, possente corno si spezza, e ne sorgono altre quattro, diretti verso i quattro punti cardinali ("i quattro venti del cielo"); da uno di essi sboccia un altro piccolo corno, che a sua volta cresce a dismisura e si erge contro la "milizia celeste", arrivando a trascinare giù dal cielo persino delle stelle: un'immagine, questa, che verrà ripresa dall'Apocalisse Giovannea:
« Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. » (Apocalisse 12, 3-4)
Come si vede, anche questa visione, come quella delle quattro bestie, è ricca di immagini, forme e colori, sotto le quali è possibile scorgere una rivisitazione della storia dei rivolgimenti politici del Medio Oriente dei quali Israele ha fatto le spese. Il montone rappresenta chiaramente l'Impero Achemenide, ed infatti ha due corna che rappresentano i Medi e i Persiani; il "corno più alto dell'altro, sebbene fosse spuntato dopo", rappresenta i secondi, che hanno conquistato il predominio dopo i primi e sono diventati più potenti, avendo sconfitto tra l'altro i Babilonesi. Il capro incarna invece il mondo ellenistico; l'unico grande corno di cui all'inizio questo animale dispone è Alessandro Magno, che batte i Medi e i Persiani spezzandogli le due corna. Proprio quando sembra al culmine della sua potenza, però, il corno si rompe: Alessandro muore a soli 33 anni, e gli subentrano altre quattro corna, cioè i suoi generali, i Diadochi, di solito identificati con Tolomeo, Seleuco, Antigono e Lisimaco, i quali ottengono rispettivamente l'Egitto, la Babilonia, la Macedonia e l'Asia Minore. Inutile dire che da uno di questi corni, ovviamente da Seleuco, spunta l'onnipresente Antioco IV Epifane, che colpisce gli Ebrei perseguitando i suoi sacerdoti, la "milizia celeste", al punto da gettare a terra una parte di essi, come stelle cadute dal cielo. Voltosi contro il "capo della milizia", cioè contro il Sommo Sacerdote, gli toglie persino "il sacrificio quotidiano". Si tratta del sacrificio perpetuo che ogni giorno, mattina e sera, si offriva nel Tempio di Gerusalemme:
« Ecco ciò che tu offrirai sull'altare: due agnelli di un anno ogni giorno, per sempre. Offrirai uno di questi agnelli al mattino, il secondo al tramonto. » (Esodo 29, 38-39)
Antioco riesce nel nefasto risultato di interrompere questo sacrificio, ma tutto ciò non durerà per sempre:
« Udii un Santo parlare e un altro
Santo dire a quello che parlava: "Fino a quando durerà questa visione: il sacrificio quotidiano abolito, la desolazione dell'iniquità, il santuario e la milizia
calpestati?"
Gli rispose: "Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi il santuario sarà
rivendicato." » (Daniele 8, 13-14)
Anche in questo caso, il Signore attraverso i suoi Santi, cioè probabilmente i Suoi angeli, pone un termine preciso alla persecuzione, come già fatto in Dan 7, 25. Stavolta la durata sembra più precisamente determinata: 2300 sere e mattine, cioè 1150 giorni: circa tre anni e mezzo. Si tratta della metà di sette anni, il "tempo compiuto" nel linguaggio biblico; rappresentano dunque non una cronologia nel senso storiografico del termine, ma il simbolo di un periodo limitato, per quanto assai lungo. Ciò conferma la nostra ipotesi secondo cui il libro di Daniele non intende presentarci un resoconto degli eventi accaduti durante l'esilio a Babilonia e durante la vita del profeta, ma sia tutto intessuto di simboli, immagini e numeri sacri, i quali vogliono comunicarci precisi messaggi, comprensibili solo dopo una corretta interpretazione di ciascuno di essi.
M. Doze, "L'angelo
Gabriele porta l'annuncio a Maria",
Lourdes, Basilica del Rosario (foto dell'autore di questo sito)
L'angelo
Gabriele
Lo stesso Daniele, del resto, si sforza di
andare al di là delle immagini per comprendere il loro vero senso:
« Mentre io, Daniele, consideravo la visione e cercavo di comprenderla, ecco davanti a me uno in piedi, dall'aspetto d'uomo; intesi la voce di un uomo, in mezzo all'Ulai, che gridava e diceva: "Gabriele, spiega a lui la visione." » (Daniele 8, 15-16)
A Daniele si presenta un personaggio, che avrà la funzione di interprete della sua visione. Una voce misteriosa ne specifica il nome: Gabriele ("Dio è forte"), nome che sarà reso celeberrimo dal Vangelo di Luca, perché sarà quest'ultimo a recare prima a Zaccaria l'annuncio della nascita di Giovanni il Battista, e poi a Maria quello della sua Maternità Divina:
« L'angelo gli rispose: «Io sono Gabriele che sto al cospetto di Dio e sono stato mandato a portarti questo lieto annunzio. » (Luca 1, 19)
« Nel sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. » (Luca 1, 26-27)
Gabriele è dunque il primo angelo ad essere chiamato per nome nell'intera Bibbia! In precedenza queste creature avevano sempre rifiutato di rivelare la propria identità, come accaduto al padre di Sansone dopo l'annuncio della nascita di suo figlio:
« Poi Manoach disse all'angelo del Signore: "Come ti chiami, perché quando si saranno avverate le tue parole, noi ti rendiamo onore?" L'angelo del Signore gli rispose: "Perché mi chiedi il nome? Esso è misterioso. » (Giudici 13, 17-18)
Prima dell'esilio a Babilonia, conoscere il nome di qualcosa significava possederlo, ed ecco perchè Adamo impone un nome ad ogni creatura, e poi anche a sua moglie. Dopo l'esilio, invece, a contatto con la teologia mesopotamica, ricca di intermediari tra gli déi e l'umanità i cui nomi sono ben conosciuti, le cose cambiano. In Dan 12, 1 sarà nominato Michele, "il Gran Principe", mentre nel Libro di Tobia, composto più o meno contemporaneamente al Libro di Daniele, comparirà Raffaele. Quanto al nostro angelo, nel Libro di Enoc etiope Gabriele viene definito "la Mano Sinistra di Dio" e il "Dominatore dei Cherubini", oltre ad essere uno dei quattro angeli incaricati da Dio di proteggere le quattro parti del mondo (a lui tocca l'occidente). Nel Talmud, Gabriele compare in alcuni dei momenti chiave della Storia Sacra: è lui a comandare a Noè di far salire gli animali nell'arca prima del diluvio universale, a dirigere la distruzione di Sodoma, a fermare Abramo prima che sacrifichi Isacco, a parlare a Mosè dal roveto ardente, a punire l'empio re Sennacherib e a convincere Assuero a ripudiare la regina Vasti per prendere in sposa Ester. La tradizione cristiana ha fatto di lui anche il protagonista dell'annunciazione a Giuseppe narrata da Matteo 1, 18-25, il confortatore di Cristo nell'orto del Getsemani la notte del Giovedì Santo in Luca 22, 39-43 e l'autore del proclama secondo cui Babilonia è caduta in Apocalisse 18, 1-3. Cattolici e Ortodossi lo festeggiano il 29 settembre e lo considerano patrono dei diplomatici, delle telecomunicazioni e dei lavoratori delle poste. Nell'Islam Gabriele è chiamato Jibrīl, e sarebbe stato lui a rivelare il Corano a Maometto, oltre ad accompagnare il Profeta nell'ascesa al Paradiso, dove avrebbe incontrato i precedenti profeti di Dio. Gabriele è ricordato anche nelle scritture dei Bahá'í. Infine Gabriele compare nel Paradiso dantesco, sotto forma di una ghirlanda che scende ad incoronare Maria, intonando una melodia a cui si uniscono tutti i beati:
« Io sono amore angelico, che giro
l'alta letizia che spira dal ventre
che fu albergo del nostro desiro. » (Par. XXIII, 103-105)
Ricordate come reagì Zaccaria quando vide Gabriele « ritto alla destra dell'altare dell'incenso »? Luca 1, 12 afferma che, quando lo vide, « si turbò e fu preso da timore ». Non poteva essere diversa la reazione del nostro profeta, che anzi stramazza a terra per ben due volte:
« Egli venne dove io ero e quando giunse, io ebbi paura e caddi con la faccia a terra. Egli mi disse: "Figlio dell'uomo, comprendi bene, questa visione riguarda il tempo della fine." Mentre egli parlava con me, caddi svenuto con la faccia a terra; ma egli mi toccò e mi fece alzare. » (Daniele 8, 17-18)
Del tutto analoga sarà la reazione di un altro celebre veggente, l'apostolo Giovanni, di fronte all'apparizione che apre il Libro dell'Apocalisse:
« Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma Egli, posando su di me la destra, mi disse: "Non temere! Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente" » (Ap 1, 17-18a)
Stavolta ad essere definito "figlio dell'uomo" è Daniele stesso, come capita ripetutamente ad Ezechiele. Gabriele mette subito in chiaro che la visione riguarda "il tempo della fine": ma non la fine del mondo, che pure vedremo evocata più avanti. In questa sede tale termine ha il senso di "tempo della persecuzione", e quindi non ha un significato escatologico in senso stretto, ma si riferisce alla profanazione del Tempio di Sion da parte degli ellenisti pagani. La "fine" dunque non della storia, ma del culto nel Tempio, come chiaramente segnalato al versetto 11. L'Autore, per bocca di Gabriele, spiega chiaramente la metafora del montone e del capro:
« Egli disse: "Ecco, io ti rivelo ciò che avverrà al termine dell'ira, perché la visione riguarda il tempo della fine. Il montone con due corna, che tu hai visto, significa il re di Media e di Persia; il capro è il re della Grecia; il gran corno, che era in mezzo ai suoi occhi, è il primo re. Che quello sia stato spezzato e quattro ne siano sorti al posto di uno, significa che quattro regni sorgeranno dalla medesima nazione, ma non con la medesima potenza di lui. Alla fine del loro regno, quando l'empietà avrà raggiunto il colmo, sorgerà un re audace, sfacciato e intrigante. La sua potenza si rafforzerà, ma non per potenza propria; causerà inaudite rovine, avrà successo nelle imprese, distruggerà i potenti e il popolo dei Santi. Per la sua astuzia, la frode prospererà nelle sue mani, si insuperbirà in cuor suo e con inganno farà perire molti: insorgerà contro il Principe dei Prìncipi, ma verrà spezzato senza intervento di mano d'uomo. La visione di sere e mattine, che è stata spiegata, è vera. Ora tu tieni segreta la visione, perché riguarda cose che avverranno fra molti giorni." » (Daniele 8, 19-26)
La spiegazione è coerente con quella da noi data sopra. Il montone, il capro, le quattro corna rappresentano effettivamente i Medi e i Persiani, Alessandro Magno, i quattro Diadochi meno potenti del loro re. Ecco poi apparire questo monarca bollato come astuto, truce, potente e senza scrupoli, che non viene mai chiamato per nome in tutto il libro, ma che sicuramente rappresenta Antioco IV Epifane; egli oserà perseguitare "i Santi" (cioè gli Israeliti) e sfiderà addirittura il Signore stesso, chiamato "il Principe dei Prìncipi", una tipica espressione semitica per indicare "il Principe più potente". Egli tuttavia sarà "spezzato senza intervento di mano d'uomo", evidente allusione alla morte improvvisa del superbo sovrano mentre marciava contro l'Armenia, prima di poter realizzare i propri obiettivi, come abbiamo detto in precedenza. Questa interpretazione è affidata a Daniele, che però è invitato a custodirla nel segreto finché non si compia in un futuro per lui ancora molto lontano. E il profeta come reagisce?
« Io, Daniele, rimasi sfinito e mi sentii male per vari giorni: poi mi alzai e sbrigai gli affari del re: ma ero stupefatto della visione perché non la potevo comprendere. » (Daniele 8, 27)
Spesse volte, nell'Antico Testamento, la visione è accompagnata da uno smarrimento, uno svenimento o addirittura una vera e propria malattia. Anche Isaia prova veri e propri dolori di fronte agli oracoli del Signore:
« Una visione terribile mi è stata data:
il perfido agisce con perfidia, il devastatore devasta.
Sali, Elam! Metti l'assedio, Media!
Io faccio cessare ogni gemito.
Perciò i miei fianchi sono pieni di dolori;
delle doglie mi hanno colto,
come le doglie di una partoriente;
io mi contorco, per quello che sento;
sono spaventato da ciò che vedo.
Il mio cuore si smarrisce,
il terrore s'impossessa di me;
la sera, alla quale anelavo, è diventata per me uno spavento.
» (Isaia 21, 2-4)
Nel caso della visione di Daniele da noi testé descritta, è probabilmente il suo contenuto doloroso per il popolo ebraico a provocare il malessere del profeta. Da notare che, nonostante la spiegazione di Gabriele, Daniele non riesce a comprendere il senso della visione: probabilmente l'Autore vuole comunicarci il fatto che il profeta vissuto nel VI secolo a.C. non riesce ad immaginare il futuro avvento di un sovrano crudele come Antioco IV, benché lui abbia conosciuto la violenza di Nabucodonosor, in quanto l'Epifane lo supererà di gran lunga in nequizia!
Il
Serse "ucronico" e quello storico
Il capitolo 8 di Daniele è da ascriversi
tipicamente nella letteratura apocalittica, con le sue immagini possenti, i suoi
complicati simboli, la sua sfiducia nel potere politico, e soprattutto la sua
attesa di un orizzonte diverso riservato ai giusti, sui quali risplenderà la
luce del Signore. Con il capitolo 9 si apre invece una sezione del Libro da
ascriversi piuttosto nel genere dell'interpretazione della Sacra Scrittura, che
va sotto il nome di Midrash (dall'ebraico darash, "studiare"), e più
specificamente di Haggadah (da higghîd, "raccontare"). Esso consiste
nello sviluppo di racconti, storici o leggendari, a carattere edificante e di
commento della Sacra Scrittura. Per la precisione, l'Haggadah è un compendio di omelie rabbiniche che incorporano il folclore, gli aneddoti storici, le esortazioni
morali e i consigli pratici in vari campi; di solito tale termine si applica
all'ebraismo posteriore alla distruzione di Gerusalemme del 70 d.C., ma tale
genere letterario ha inizio proprio con la rielaborazione della Storia d'Israele
effettuata dal giudaismo tardobiblico del II-I secolo a.C. (l'Haggadah si trova
anche in Filone di Alessandria e di Giuseppe Flavio). Che non si tratti di un
racconto di eventi storici precisamente delineati, come molti fino a un passato
recente hanno creduto, ce lo dice l'incipit stesso di questo capitolo:
« Nell'anno primo di Dario figlio di Serse, della progenie dei Medi, il quale era stato costituito re sopra il regno dei Caldei, il primo anno del suo regno... » (Daniele 9, 1-2a)
Il vero re Serse in un bassorilievo persiano (a sinistra) confrontato con l'improbabile personaggio del famoso film "300" (2007) di Zack Snyder, interpretato dall'attore brasiliano Rodrigo Santoro (a destra) |
Come si vede, il famoso quanto enigmatico "Dario il Medo" già introdotto nel capitolo 6 è presentato come "figlio di Serse". Ma, a parte il fatto che Dario figlio di Istaspe (il personaggio storico cui verosimilmente l'Autore si ispira per coniare questo nome) e Serse erano Persiani e non Medi, in realtà Serse era figlio di Dario, non suo padre! Le fonti storiche ci dicono che Serse (in greco Xerxes, in persiano Khshayarsha, "Signore degli Eroi"), il cui regno durò dal 485 al 465 a.C., anche se Eusebio di Cesarea parla di una durata di 36 anni, era il figlio primogenito che Dario I ebbe da Atossa, a sua volta figlia di Ciro il Grande. Salì al trono a 34 anni, dopo la morte del padre, e gli storici greci lo descrivono come un tiranno assetato di sangue. È però probabile che tale giudizio sia da ascriversi al fatto che Serse, nell'intento di vendicare la sconfitta di Maratona subita nel 490 a.C. da suo padre Dario I, organizzò una grande spedizione per sottomettere la Grecia, che però si risolse in un disastro dopo le battaglie di Salamina (settembre 480 a.C.) e di Platea (20 agosto 479 a.C.). Serse cercò anche di organizzare una spedizione per circumnavigare l'Africa, ma senza successo; consolidò la struttura dell'impero persiano e abbellì la capitale Persepoli. Di solito il re Assuero, protagonista del Libro di Ester, è identificato proprio con Serse attraverso l'ebraico "Ahašwērôš"; non si ha notizia di una sua moglie di nazionalità ebraica, ma è noto che Serse ebbe molte concubine di cui non ci è stato tramandato il nome. Oscure restano le circostanze della sua morte; secondo Aristotele egli fu assassinato insieme a suo figlio Dario da Artabano, satrapo dell'Ircania, che usurpò il trono per alcuni mesi; secondo Giustino invece Artabano eliminò Serse e fece accusare di parricidio Dario, che fu così giustiziato; Artabano mise sul trono Artaserse I, secondogenito del re defunto, sperando di farne un proprio fantoccio, ma Artaserse I (passato alla storia come Longimano) lo tolse di mezzo, dando inizio a un regno durato quarant'anni. Secondo alcuni il "Dario figlio di Serse" non è Dario il Grande, ma proprio questo suo sfortunato nipote soppresso da Artabano. Il fatto poi che egli sia stato nominato "re dei Caldei" è una conferma di quanto abbiamo proposto a suo tempo: l'Autore del libro è convinto che i tre imperi Caldeo, Medo e Persiano avessero la stessa dimensione, e che all'uno sia succeduto l'altro, mentre in realtà l'Impero Persiano era la somma di quelli dei Medi e dei Caldei, oltre ad altre conquiste (es. il Regno di Lidia). Probabilmente dunque il "Serse" nominato da Daniele è "ucronico" (se mi si passa il termine) quanto il colossale, androgino e zeppo di piercing "imperatore Serse" che compare nel famoso film "300" di Zack Snyder, a sua volta tratto dall'omonimo graphic novel di Frank Mller; lo potete vedere nel fotogramma soprastante, confrontato con una rappresentazione del "vero" Serse della storia, realizzata da un ignoto artista a lui contemporaneo.
In questa cornice storica apertamente fittizia, o se si preferisce (tanto per usare un termine caro alla moderna fantascienza) in questo "universo alternativo" in cui Dario è un medo ed è figlio di un certo Serse, si colloca il Midrash, cioè l'interpretazione di un passo della Scrittura sul quale il nostro profeta sta meditando:
« Nell'anno primo di Dario figlio di Serse [...] io, Daniele, tentavo di comprendere nei libri il numero degli anni di cui il Signore aveva parlato al profeta Geremia e nei quali si dovevano compiere le desolazioni di Gerusalemme, cioè settant'anni. » (Daniele 9, 1a.2)
Il
Midrash dei Settant'Anni
Il brano in questione è un oracolo di
Geremia, il quale computava la durata dell'esilio babilonese in una cifra
rotonda ed emblematica: settant'anni.
« Tutta questa regione sarà abbandonata alla distruzione e alla desolazione e queste genti resteranno schiave del re di Babilonia per settanta anni. Quando saranno compiuti i settanta anni, io punirò il re di Babilonia e quel popolo - dice il Signore - per i loro delitti, punirò il paese dei Caldei e lo ridurrò a una desolazione perenne. » (Geremia 25, 11-12)
« Così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: "Non vi traggano in errore i profeti che sono in mezzo a voi e i vostri indovini; non date retta ai sogni, che essi sognano. Poiché con inganno parlano come profeti a voi in mio nome; io non li ho inviati". Oracolo del Signore. Pertanto dice il Signore: "Solamente quando saranno compiuti, riguardo a Babilonia, settanta anni, vi visiterò e realizzerò per voi la mia buona promessa di ricondurvi in questo luogo." » (Geremia 29, 8-10)
In realtà si tratta di una cifra meramente simbolica: la deportazione durò 49 anni se la si conta dal 587 al 539 a.C., 59 anni se la si computa dal 597 al 539 a.C. La soluzione dell'enigma rappresentato dall'oracolo di Geremia si sviluppa prima attraverso una lunga preghiera penitenziale, e poi attraverso l'interpretazione per bocca di nuovo dell'angelo Gabriele. Cominciamo con la prima, che viene accompagnata da atti di contrizione tipici dell'ebraismo, quali il vestirsi di sacco e il coprirsi il capo di cenere, ed ha lo scopo di preparare la successiva spiegazione:
« Mi rivolsi al Signore Dio per pregarlo e supplicarlo con il digiuno, veste di sacco e cenere e feci la mia preghiera e la mia confessione al Signore mio Dio: "Signore Dio, grande e tremendo, che osservi l'alleanza e la benevolenza verso coloro che Ti amano e osservano i Tuoi comandamenti, abbiamo peccato e abbiamo operato da malvagi e da empi, siamo stati ribelli, ci siamo allontanati dai tuoi comandamenti e dalle tue leggi! Non abbiamo obbedito ai tuoi servi, i profeti, i quali hanno in tuo nome parlato ai nostri re, ai nostri prìncipi, ai nostri padri e a tutto il popolo del paese. A te conviene la giustizia, o Signore, a noi la vergogna sul volto, come avviene ancor oggi per gli uomini di Giuda, per gli abitanti di Gerusalemme e per tutto Israele, vicini e lontani, in tutti i paesi dove tu li hai dispersi per i misfatti che hanno commesso contro di te. Signore, la vergogna sul volto a noi, ai nostri re, ai nostri prìncipi, ai nostri padri, perché abbiamo peccato contro di te; al Signore Dio nostro la misericordia e il perdono, perché ci siamo ribellati contro di lui, non abbiamo ascoltato la voce del Signore Dio nostro, né seguito quelle leggi che Egli ci aveva date per mezzo dei Suoi servi, i profeti. Tutto Israele ha trasgredito la Tua Legge, s'è allontanato per non ascoltare la Tua voce; così si è riversata su di noi l'esecrazione scritta nella legge di Mosè, servo di Dio, perché abbiamo peccato contro di lui. Egli ha messo in atto quelle parole che aveva pronunziate contro di noi e i nostri governanti, mandando su di noi un male così grande quale mai, sotto il cielo, era venuto a Gerusalemme. Tutto questo male è venuto su di noi, proprio come sta scritto nella legge di Mosè. Tuttavia noi non abbiamo supplicato il Signore Dio nostro, convertendoci dalle nostre iniquità e seguendo la Tua verità. Il Signore ha vegliato sopra questo male, l'ha mandato su di noi, poiché il Signore Dio nostro è giusto in tutte le cose che fa, mentre noi non abbiamo ascoltato la sua voce." » (Daniele 9, 3-14)
Ritroviamo qui tutti i temi caratteristici di questo tipo di suppliche: confessare i peccati, riconoscere di aver perseverato in essi nonostante gli avvertimenti dei profeti e ammettere che Dio ha giustamente inviato un castigo contro il proprio popolo, colpevole di averLo abbandonato. La distruzione di Gerusalemme e del Tempio da parte dei Babilonesi fu senz'altro vissuta come la peggior tragedia nazionale dai tempi della schiavitù in Egitto, soprattutto perché YHWH aveva predetto alla dinastia davidica un regno eterno, e si pensava che essa sarebbe rimasta sul trono per sempre (a quei tempi non si guardava all'avvento del Messia come al compimento effettivo di tale promessa). Se il Signore aveva cambiato idea circa il Regno di Giuda, ciò poteva essere avvenuto solo come punizione di una terribile colpa commessa non solo dai "governanti", ma da tutto il popolo, e tale colpa veniva individuata nel non essersi "convertiti dalle nostre iniquità" per "seguire la verità del Signore", perseguitando piuttosto i profeti che li ammonivano circa i loro errori. L'"esecrazione scritta nella Legge di Mosè" fa riferimento probabilmente a questo passo del Deuteronomio:
« Ma se non obbedirai alla voce del Signore tuo Dio, se non cercherai di eseguire tutti i suoi comandi e tutte le sue leggi che oggi io ti prescrivo, verranno su di te e ti raggiungeranno tutte queste maledizioni: [...] Il Signore ti farà sconfiggere dai tuoi nemici: per una sola via andrai contro di loro e per sette vie fuggirai davanti a loro; diventerai oggetto di orrore per tutti i regni della terra. [...] Il Signore deporterà te e il re, che ti sarai costituito, in una nazione che né tu né i padri tuoi avete conosciuto; là servirai dei stranieri, dei di legno e di pietra » (Deuteronomio 28,15.25.36)
Siccome la Torah nella sua versione definitiva fu messa per iscritto proprio durante l'Esilio a Babilonia (e quindi al tempo di Daniele), è quasi certo che i compilatori pensassero proprio alla deportazione operata da Nabucodonosor, quando misero in bocca a Mosè queste parole; e il senso dell'esilio come punizione per essersene infischiati della Legge consegnata a Mosè sull'Oreb è lo stesso che sta alla base della preghiera di Daniele che stiamo leggendo. Ben presto però al classico binomio peccato-castigo subentra la speranza della misericordia di Dio e, quindi, della liberazione dalla schiavitù:
« Signore Dio nostro, che hai fatto uscire il Tuo popolo dall'Egitto con mano forte e Ti sei fatto un nome, come è oggi, noi abbiamo peccato, abbiamo agito da empi. Signore, secondo la Tua misericordia, si plachi la Tua ira e il Tuo sdegno verso Gerusalemme, Tua città, verso il Tuo Monte Santo, poiché per i nostri peccati e per l'iniquità dei nostri padri Gerusalemme e il Tuo popolo sono oggetto di vituperio presso quanti ci stanno intorno. Ora ascolta, Dio nostro, la preghiera del Tuo servo e le sue suppliche e per amor Tuo, o Signore, fai risplendere il Tuo volto sopra il Tuo santuario, che è desolato. Porgi l'orecchio, mio Dio, e ascolta: apri gli occhi e guarda le nostre desolazioni e la città sulla quale è stato invocato il Tuo Nome! Non presentiamo le nostre suppliche davanti a Te, basate sulla nostra giustizia, ma sulla Tua grande misericordia. Signore, ascolta; Signore, perdona; Signore, guarda e agisci senza indugio, per amore di te stesso, mio Dio, poiché il Tuo nome è stato invocato sulla Tua città e sul Tuo popolo. » (Daniele 9, 15-19)
Il pentimento comunitario nasce dalla consapevolezza del fatto che le sciagure di Israele sono sorte dall'aver violato la Legge di Mosè e dal non aver prestato orecchio alle parole dei profeti, però vi è un'indiscutibile certezza: di fronte alla confessione sincera dei peccati, Dio torna ad essere il Liberatore, così come era stato per il popolo schiavo in Egitto, o per le tribù oppresse dai Filistei e dai Cananei al tempo dei Giudici. Si osservi che l'invocazione affinché il volto del Signore risplenda "sopra il Suo santuario, che è desolato", è probabilmente parola non di Daniele il profeta, ma dell'Autore Sacro, il quale non sta pensando alla distruzione operata da Nabucodonosor nel VI secolo a.C., bensì alla profanazione operata dal solito Antioco Epifane. Questa preghiera perciò risulta valida per i Giudei deportati a Babilonia, per quelli oppressi dagli ellenisti ed ovviamente anche per noi, che leggiamo e recitiamo questa bellissima preghiera nel pieno dell'Era Tecnologica. Non è certo un caso se queste parole di Daniele hanno ispirato una celebre canzone liturgica del 1966 che tuttora risuona durante le nostre Messe:
« Signore, ascolta: Padre, perdona!
Fa' che vediamo il tuo amore.
Ti confessiamo ogni nostra colpa,
riconosciamo ogni nostro errore
e Ti preghiamo: dona il Tuo perdono.
Signore, ascolta... »
Simone da Firenze, "Il Profeta
Daniele", secolo XVI,
Angri (SA), Collegiata di San Giovanni Battista
Prima ancora che la preghiera di Daniele sia conclusa, ecco rientrare in scena l'angelo Gabriele in un momento preciso della giornata, ben noto ai Giudei osservanti:
« Mentre io stavo ancora parlando e pregavo e confessavo il mio peccato e quello del mio popolo Israele e presentavo la supplica al Signore Dio mio per il monte santo del mio Dio, mentre dunque parlavo e pregavo, Gabriele, che io avevo visto prima in visione, volò veloce verso di me: era l'ora dell'offerta della sera. » (Daniele 9, 20-21)
Ogni sera, verso il tramonto, l'Israelita osservante deve compiere il terzo e più importante dei vari momenti di preghiera elencati nel Salmo 55:
« Di sera, al mattino, a mezzogiorno mi lamento e sospiro, ed Egli ascolta la mia voce » (Salmo 55, 18)
Esso avveniva contemporaneamente all'offerta di uno dei sacrifici quotidiani nel Tempio di Gerusalemme. Nella spiritualità ebraica la sera è vista come il tempo tipico della supplica penitenziale, mentre il mattino è piuttosto il momento in cui Dio concede i Suoi favori a chi Lo prega.
Le
Settanta Settimane
Gabriele inizia dunque la propria
spiegazione, sottolineando il fatto che essa è stata rivolta a Daniele e non ad
uno qualunque, perché egli è un prescelto, un uomo eletto per portare la
Parola di Dio ai suoi fratelli:
« Egli mi rivolse questo discorso: "Daniele, sono venuto per istruirti e farti comprendere. Fin dall'inizio delle tue suppliche è uscita una parola e io sono venuto per annunziartela, poiché tu sei un uomo prediletto. Ora stai attento alla parola e comprendi la visione: Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all'empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l'iniquità, portare una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei Santi. » (Daniele 9, 22-24)
La locuzione "mettere i sigilli ai peccati" ha il significato evidente di mettere sotto chiave le colpe commesse dal Popolo Ebraico, in modo che non possano più uscire allo scoperto e nuocere a nessuno, nell'impossibilità di eliminarle del tutto, perché nessuno può tornare indietro nel tempo ed impedire che vengano commesse (chissà quanti Ebrei hanno sognato di poterlo fare). Un'immagine molto simile la ritroviamo nel Libro di Giobbe:
« Mentre ora tu conti i miei passi,
non spieresti più il mio peccato:
in un sacchetto chiuso sigilleresti il mio misfatto e tu cancelleresti la mia colpa.
» (Giobbe 14, 16-17)
Invece "suggellare visione e profezia" è la formula usata per indicare il pieno e totale compimento delle visioni profetiche. Così infatti leggiamo nella raccolta profetica di Abacuc, un personaggio che ritroveremo nell'Appendice Deuterocanonica di Daniele:
« «Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente. » (Abacuc 2, 2)
Leggiamo ora insieme come viene interpretata la profezia di Geremia per bocca dell'angelo Gabriele. Le 70 settimane sono divise in tre sottoperiodi, rispettivamente di 7, 62 e 1 settimana. Cominciamo con il primo di essi:
« Sappi e intendi bene, da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme fino a un principe consacrato, vi saranno sette settimane. » (Daniele 9, 25a)
Gabriele non lo dirà mai esplicitamente, ma alla luce della profezia di Geremia dei 70 anni è evidente che le settimane sono composte da anni, e non da giorni, per un totale di 490 anni; in tal modo si ha la possibilità di coprire tutto l'arco cronologico che separa Geremia dall'Autore del Libro di Daniele, cioè dall'Esilio fino al periodo maccabaico. Ne consegue che le tre suddivisioni suddette riguarderanno a loro volta altrettanti periodi storici. Il primo di essi, cui si allude in 25a, durerà 7 x 7 = 49 anni, e al termine di esso comparirà un "principe consacrato", in ebraico "Mesîah Nagid". Di solito si pensa che tale principe sia Ciro il Persiano, personaggio sul quale ritorneremo commentando il capitolo 14, al quale unanimemente la tradizione giudaica attribuirà il merito del rientro degli Ebrei nella madrepatria. Ecco ad esempio l'incipit del Libro di Esdra:
« Nell'anno primo del regno di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola che il Signore aveva detto per bocca di Geremia, il Signore destò lo spirito di Ciro re di Persia, il quale fece passare quest'ordine in tutto il suo regno, anche con lettera: "Così dice Ciro re di Persia: Il Signore, Dio del Cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra; egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio in Gerusalemme, che è in Giudea. Chi di voi proviene dal suo popolo? Sia con lui il suo Dio; torni a Gerusalemme, che è in Giudea, e ricostruisca il tempio del Signore Dio d'Israele: egli è il Dio che dimora a Gerusalemme." » (Esdra 1, 1-3)
Ricordate? Abbiamo già detto che la deportazione a Babilonia durò proprio 49 anni, se la si conta dal 587 al 539 a.C.! Il computo è perciò più che preciso, sino a questo punto. E poi?
« Durante sessantadue settimane saranno restaurati, riedificati piazze e fossati, e ciò in tempi angosciosi. » (Daniele 9, 25b)
Questo lungo periodo, considerato buio e luttuoso, durerà ben 62 x 7 = 434 anni. In esso si annunciano opere pubbliche, come l'allestimento di piazze e lo scavo di fossati per le mura, in mezzo a grandi difficoltà. Sicuramente si tratta di un riferimento all'opera di ricostruzione della città di Gerusalemme operata da Neemia, in mezzo all'ostilità dei popoli circostanti, fiancheggiati dai governatori persiani, come attesta questo brano:
« Quando Sanballàt seppe che noi edificavamo le mura, si adirò, si indignò molto, si fece beffe dei Giudei e disse in presenza dei suoi fratelli e dei soldati di Samaria: "Che vogliono fare questi miserabili Giudei? Rifarsi le mura e farvi subito sacrifici? Vogliono finire in un giorno? Vogliono far rivivere pietre sepolte sotto mucchi di polvere e consumate dal fuoco?" Tobia l`Ammonita, che gli stava accanto, disse: "Edifichino pure! Se una volpe vi salta su, farà crollare il loro muro di pietra!" » (Neemia 3, 33-35)
Dal 539 a.C., aggiungendo 434 anni, si arriva al 106 a.C.; è evidente che la cifra è soltanto approssimata, poiché siamo finiti 60 anni dopo l'epopea dei Maccabei. Infatti, a questo secondo periodo pone termine un evento luttuoso che si configurerà come una tragedia nazionale:
« Dopo sessantadue settimane, un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui; il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine sarà un'inondazione e, fino alla fine, guerra e desolazioni decretate. » (Daniele 9, 26)
Questo consacrato innocente viene di solito identificato con Onia III, ultimo sommo sacerdote legittimo prima della sconsacrazione operata dai Seleucidi, episodio narrato nel Secondo Libro dei Maccabei:
« Menelao sottrasse alcuni arredi d`oro del tempio e ne fece omaggio ad Andronìco [...] Ma Onia lo biasimò, dopo essersi accertato della cosa ed essersi rifugiato in località inviolabile a Dafne situata presso Antiochia. Per questo Menelao, incontratosi in segreto con Andronìco, lo pregò di sopprimere Onia. Quegli, recatosi da Onia e ottenutane con inganno la fiducia, dandogli la destra con giuramento lo persuase, sebbene ancora guardato con sospetto, ad uscire dall'asilo e subito lo uccise senza alcun riguardo alla giustizia. Per questo fatto non solo i Giudei, ma anche molti altri popoli si mossero a sdegno e tristezza per l'empia uccisione di tanto uomo. » (2 Mac 4, 32b-35)
Deposto da una congiura di israeliti e costretto a fuggire a Dafne, presso Antiochia, Onia III fu ucciso da un certo Menelao, che intendeva usurparne la carica con l'appoggio degli ellenisti; anche Dan 11, 22 sarà da interpretare alla luce della morte di Onia III. Tale assassinio avvenne nel 171 a.C., cioè 369 anni dopo il ritorno dall'Esilio (poco meno di 53 settimane); ciò conferma che la cronologia delle 62 settimane è solo simbolica, e che l'Autore non è in grado di ricostruire con precisione storiografica gli eventi del Popolo Eletto compresi tra l'Editto di Ciro e la rivolta dei Maccabei. Il suo intento insomma è sapienziale, non storico, come andiamo ripetendo fin dall'inizio di questo nostro studio. Ovviamente il principe che "distruggerà la città e il Santuario" è il solito Antioco IV Epifane, che non poteva certo mancare in questa carrellata storica. Si osservi anche quanto dice il nostro Autore a proposito dell'uccisione di Onia: "la sua fine sarà un'inondazione". Il termine ebraico shetef, "inondazione", ricorrerà nel Libro che stiamo esaminando anche in Dan 11, 10.40, e viene utilizzata dall'Autore per esprimere il terribile disastro rappresentato da quel "principe", così esecrato da non venire mai chiamato per nome. Non possiamo infatti dimenticare che per gli Ebrei, popolo del deserto e delle montagne, le acque, soprattutto se in grandi quantità come quelle di un fiume che straripa e inonda le campagne, sono simbolo del Male con la M maiuscola, del dolore e della morte.
Vi è, infine, un ultimo periodo di sette anni ("una settimana"), così descritto dal versetto 27:
« Egli stringerà una forte alleanza con molti per una settimana e, nello spazio di metà settimana, farà cessare il sacrificio e l'offerta; sull'ala del Tempio porrà l'abominio della desolazione e ciò sarà sino alla fine, fino al termine segnato sul devastatore » (Daniele 9, 27)
Questo momento storico vede il "principe", cioè il tristemente noto Antioco IV, stringere alleanza con "molti", a sostegno della sua politica di ellenizzazione: verosimilmente, questi "molti" sono i Giudei che accettano di rinunciare alle tradizioni patrie per accogliere le usanze greche. Un esempio di tali apostati, evidentemente assai disprezzati dagli Ebrei osservanti, è mostrato nel Primo Libro dei Maccabei, nel quale tra l'altro fa una brutta fine per mano del sacerdote Mattatia, il "patriarca" dei Maccabei:
« Ora vennero nella città di Modin i messaggeri del re, incaricati di costringere all'apostasia e a far sacrificare. Molti Israeliti andarono da loro; [...] si avvicinò un Giudeo alla vista di tutti per sacrificare sull'altare in Modin secondo il decreto del re. Ciò vedendo Mattatia arse di zelo; fremettero le sue viscere ed egli ribollì di giusto sdegno. Fattosi avanti di corsa, lo uccise sull'altare. » (1 Mac 2, 15-16a.23-24)
La "settimana di anni" in questo caso dovrebbe essere quella compresa fra il 170 e il 164 a.C. Per "metà settimana", cioè per tre anni e mezzo, il solito "tempo imperfetto" nel linguaggio biblico, cesserà il culto nel Tempio, e nel Santuario di YHWH sarà posto "l'abominio della desolazione", cioè l'idolo abominevole di Zeus Olimpio (2 Mac 6, 2), simbolo della desolazione nel quale è caduto il culto del Signore. Ma ciò sarà "fino al termine segnato sul devastatore", cioè fino alla morte di Antioco IV, avvenuta appunto nel 164 a.C. Una morte che in tal modo l'Autore del Libro di Daniele dice annunciata già dalla profezia di Geremia.
Ecco il commento in proposito di don Claudio Doglio:
« Ritorna l'idea ostinata della statua, perché stava proprio sullo stomaco quella statua che Antioco IV Epifane aveva fatto mettere nel
Tempio. Piuttosto che "abominio della desolazione" io preferisco tradurre
"schifezza che svuota", perché il termine originale usato è proprio quello che indica una cosa sporca, repellente, che uno non osa assolutamente toccare; è un termine volgare che deve essere reso con un altro termine
volgare.
"Desolazione" è termine dotto, ma de-solare vuol dire lasciare solo, è quindi svuotare; svuotare di cosa? Della presenza di Dio. Quella statua è una schifezza che offende Dio allontanandolo dal tempio, quindi lo sconsacra.
L'abominio della desolazione è una cosa brutta che rende vuoto il tempio: non c'è più la presenza di
Dio. »
Fernando Monzio Compagnoni, Giuda Maccabeo
La Profezia delle Settanta Settimane è ritenuta la più celebre da tutte quelle contenute nel Libro di Daniele, e a buon diritto. Vi è un chiaro riferimento ad essa nel Discorso Escatologico del capitolo 24 di Matteo:
« Quando dunque vedrete l'abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele, stare nel luogo santo - chi legge comprenda -, allora quelli che sono in Giudea fuggano ai monti... » (Matteo 24, 15-16)
In questo caso "l'abominio della desolazione" è un chiaro riferimento alla distruzione del Tempio da parte dei Romani di Tito nel 70 d.C. Siccome tale evento rappresenterà per i Giudei un disastro paragonabile solo alla distruzione operata da Nabucodonosor e alla profanazione da parte di Antioco IV, Gesù adopera proprio l'immagine coniata da Daniele per alludere ad esso. Inoltre le 70 settimane di anni hanno colpito anche la prolifica fantasia di Alessandro Manzoni, che nel suo Inno Sacro intitolato "La Passione" scriverà:
« Quando, assorto in suo pensiero,
lesse i giorni numerati,
e degli anni ancor non nati
Danïel si ricordò. »
Una
profezia sconvolgente?
Vi è però anche oggi chi pensa che le
Settanta Settimane non siano solo una "profezia post factum", e
rappresentino invece una vera e propria preconizzazione non della persecuzione
ellenistica, ma dell'avvento dell'unico e vero Messia: Gesù Cristo. In questa
chiave possono essere letti anche i tre personaggi
che chiudono i tre sottoperiodi annunciati da Gabriele: Ciro, liberatore dei Giudei,
diventa figura di Cristo, liberatore dell'umanità
dal peccato; l'ingiusta uccisione di Onia III
è prefigurazione della morte in croce di Gesù, Re e Sacerdote; ed Antioco IV Epifane,
il persecutore, è considerato modello dell'Anticristo.
Sotto questa luce, come andrebbero interpretate le 70 settimane, cioè i 490 anni fissati da Dio a partire dal ritorno in patria degli Ebrei dopo la cattività babilonese, durante le quali il popolo ebraico avrebbe dovuto espiare le proprie colpe in attesa del Messia? Troviamo una possibile risposta nel celebre best-seller ''Ipotesi su Gesù" di Vittorio Messori. Come si è visto, secondo Dan 9, 25 le settanta settimane vanno computate "da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme", cioè da quando terminò la cattività babilonese. Essa terminò con l'Editto di Ciro del 539 a.C.; sommando a tale data i 490 anni di attesa, l'avvento del Messia è fissato al 49 a.C. E proprio in questa data cominciò a formarsi la setta degli Esseni, il cui obiettivo principe era proprio l'attesa del sospirato Messia, e con la quale molto probabilmente Giovanni il Battista e Gesù erano in strette relazioni! (forse lo stesso Cenacolo dove il Giovedì Santo fu istituita l'Eucaristia era un luogo di riunione degli Esseni in Gerusalemme)
Ma non è tutto. Secondo il biblista americano Harold Walter Hoehner (1935-2009), professore di Nuovo Testamento al Seminario Teologico di Dallas, il computo dei 490 anni dovrebbe essere fatto partire invece dal momento in cui l'imperatore di Persia Artaserse I, (464-425 a.C.) già citato in quel che precede, concesse al suo coppiere Neemia di ritornare a Gerusalemme in qualità di governatore nell'anno ventesimo del suo regno, cioè nel 445 a.C., come riferisce il capitolo 2 del Libro di Neemia: secondo molti fu questo evento a segnare il vero ritorno dei Giudei a Gerusalemme. Inoltre dovrebbero essere calcolate solo 69 settimane di anni, non 70, essendo l'ultima riservata all'Anticristo. Calcolando l'anno non di 365 ma di 360 giorni, come facevano gli antichi Ebrei, 69 settimane di anni equivalgono a 173.880 giorni; tenendo conto poi che un anno solare dura esattamente 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 45,8 secondi (quindi 365,2421968 giorni), tali giorni rappresentano poco più di 476 anni. E aggiungendo 476 anni al 445 a.C. si arriva... al 31 d.C., che secondo molti è proprio la data della morte di Gesù in croce, e quindi del compimento delle promesse messianiche!
Una profezia sconvolgente? Oppure un tentativo di "far quadrare i conti" ad ogni costo, per far convergere la profezia di Daniele su Gesù Cristo? Una cosa è certa: al di là di ogni interpretazione circa la persona del Messia come noi oggi Lo intendiamo, il capitolo 9 di Daniele fa sicuramente luce sulla tormentata storia dell'Israele perseguitato, e come tale prefigura le sofferenze che il credente di ogni tempo è e sarà costretto a sopportare nel suo travagliato cammino in questa valle di lacrime, sempre sorretto però dalla certezza che Iddio non lo abbandonerà mai in preda al Nemico, e lo guiderà con mano forte e passo deciso verso la vera patria, rappresentata dal Suo Regno eterno.
Ma le profezie contenute nel Libro di Daniele non finiscono certo qui; anzi, dobbiamo ancora analizzare la sua sezione più propriamente "apocalittica". Per farlo insieme a me, cliccate qui e passate alla pagina succnssiva.