La radiazione agisce sulla materia trasferendole energia: è questo che produce gravi effetti su tutto ciò che essa raggiunge. Tali effetti sono sia strutturali (i materiali si degradano, il cemento si sbriciola...) sia fisiologici (terribili malattie da radiazioni), e non è certo un caso se quasi tutti i fondatori della Fisica Nucleare morirono prematuramente. Marie Curie si spense a 66 anni il 4 luglio 1934 nel sanatorio di Sancellemoz di Passy, in Alta Savoia, a causa di una grave forma di leucemia, ed ancora oggi tutti i suoi appunti di laboratorio successivi al 1890, e persino i suoi ricettari di cucina, sono considerati pericolosi a causa del loro contatto con sostanze radioattive: per questo sono conservati in apposite scatole piombate, e chiunque voglia consultarli deve indossare abiti di protezione. Morirono dello stesso male sua figlia Irène Joliot-Curie, a 58 anni il 17 marzo 1956, e suo genero Frédéric Joliot-Curie, alla stessa età, il 14 agosto 1958. Enrico Fermi fu stroncato ancora più giovane, a 53 anni, da un cancro allo stomaco il 28 novembre 1954; e il grande matematico John Von Neumann volle avvicinarsi troppo al test della prima bomba H americana nel 1952, e così l'esposizione alle radiazioni gli provocò un cancro alle ossa che lo portò alla morte, lui pure a soli 53 anni, l'8 febbraio 1957. Quei pionieri della scienza in realtà conoscevano la pericolosità delle sostanze radioattive, non essendo certo degli sprovveduti; tuttavia, presi dall'entusiasmo, le maneggiarono con troppa leggerezza (Fermi addirittura regolava la criticità della prima pila atomica da lui costruita inserendovi ed estraendovi le barre di cadmio con le mani!), e questo li condusse tutti a prematura morte.
E non è tutto. Sicuramente conoscete tutti John Wayne (nome d'arte di Marion Mitchell Morrison), soprannominato "The Duke", uno fra gli attori più famosi del mondo, celebre soprattutto per i suoi film western e di guerra. Questa vera e propria leggenda del cinema subì nel 1964 una difficile operazione per l'asportazione di un cancro al polmone, ma morì per un nuovo tumore, stavolta allo stomaco, l'11 giugno 1979 a 72 anni. Siccome altri attori, registi, e persino cameraman, scenografi e stuntman che avevano lavorato nell'industria del cinema western quando essa era al suo apice morirono a causa di simili malattie, il sospetto è che essi siano stati esposti alle radiazioni nei deserti del New Mexico e dell'Arizona in cui quei film venivano girati, ma in cui spesso erano stati eseguiti test nucleari segreti.
Comunque, che i rischi della radioattività fossero ampiamente sottovalutati negli anni immediatamente successivi alla sua scoperta lo dimostra una serie di cartoline realizzate nel 1899 dall'artista Jean Marc Côté, per conto della Armand Gervais et C.ie, una ditta di Lione specializzata nella produzione di giocattoli. Esse illustravano una serie di predizioni futurologiche su come sarebbe apparsa la civiltà umana nell'anno 2000. Più che gli esiti di calcolate previsioni, le illustrazioni di Jean Marc Côté riflettono una visione spontanea e fantasiosa del futuro, nutrita di aspettative, aspirazioni e sogni a occhi aperti. La ca, rirtolina che ci interessa è quella che vedete qui sotto, tratta da questo sito: in essa vediamo della gente appartenente all'alta società, vestita con abiti di foggia ottocentesca che ben poco hanno da spartire con le nostre felpe e i nostri jeans, riunita in una stanza riscaldata da un frammento di radio posto al centro di un caminetto. L'illustratore evidentemente non aveva intuito in nessun modo la pericolosità dell'esposizione alle radiazioni (tutti gli astanti sarebbero morti nel giro di breve tempo), anche se ha avuto il merito di regalarci la prima rappresentazione dell'uso pacifico di questa nuova fonte di energia!
Futurologia pericolosa: un caminetto a base di radio! (da questo sito)
Secondo le definizioni oggi comunemente adottate, le radiazioni che trasportano abbastanza energia da liberare elettroni da atomi o molecole, ionizzandoli, prendono il nome di radiazioni ionizzanti. Esse possono interagire con la materia vivente trasferendo energia alle molecole delle strutture cellulari, e sono quindi in grado di danneggiare in maniera temporanea o permanente le funzioni delle cellule stesse. Tra i diversi componenti cellulari, il primo ad essere danneggiato in maniera sensibile è il DNA dei cromosomi, che può subire effetti deleteri direttamente dalle radiazioni incidenti o indirettamente dalle aggressioni chimiche generate dall'interazione delle radiazioni con le molecole di acqua contenute nei tessuti. Il danneggiamento del DNA porta diritto allo sviluppo di tumori, particolarmente al sangue, alle ossa e ai polmoni. A livello di organismo la gravità del danno dipende dal tipo e dalla quantità di radiazione, dal tipo di esposizione (irraggiamento esterno, inalazione, ingestione) e dalla sensibilità del tessuto interessato alle radiazioni. La radiosensibilità di un tessuto, intesa come risposta all'irraggiamento, è direttamente proporzionale all'attività proliferativa delle sue cellule ed è inversamente proporzionale al suo grado di differenziazione. Le popolazioni cellulari più radiosensibili sono perciò quelle con un elevato indice di proliferazione, come quelle della cute, del midollo osseo e delle gonadi; sono invece definiti radioresistenti i tessuti con cellule che hanno scarsa capacità proliferativa, come il sistema nervoso, i muscoli, i reni ed il fegato.
Un organismo sano è generalmente in grado di rimediare ai danni potenzialmente cancerogeni provocati dalle radiazioni ionizzanti ambientali, sia immediatamente a livello molecolare con la riparazione del DNA danneggiato, sia successivamente attraverso l'eliminazione, da parte del sistema immunitario, di cellule con mutazioni genetiche e potenzialmente cancerose. Questi meccanismi di difesa e sorveglianza funzionano continuamente nel nostro organismo in condizioni normali. L'abbassamento delle difese immunitarie, un cattivo stile di vita e altri fattori possono compromettere queste difese naturali e diminuire il livello di sorveglianza, contribuendo allo sviluppo di effetti clinici rilevabili solo dopo anni: sono i cosiddetti effetti tardivi, che conducono ad un accorciamento dell'aspettativa di vita. La valutazione del rischio di tumori è affidata ad organismi internazionali come l'ICRP (International Commission on Radiological Protection) e l'UNSCEAR (United Nations Scientific Committee on the Effects of Atomic Radiations), e utilizza anche i dati epidemiologici dei sopravvissuti giapponesi alle esplosioni atomiche e utilizzando fattori di correzione, per i vari tipi di radiazione, basati su studi radiobiologici. Se l'esposizione a fonti naturali di radiazioni (che costituisce l'82% del totale) è di fatto non evitabile, l'esposizione dei lavoratori, e in misura minore del pubblico, a bassi livelli di radiazioni provenienti dalla produzione di energia nucleare e dagli usi industriali e medici delle radiazioni ionizzanti sono diventati parte integrante della società industrializzata. Questi usi sono, comunque, soggetti a regolamenti rigorosi, continuamente rivisti e aggiornati.
Naturalmente, per poter valutare la pericolosità delle radiazioni ionizzanti occorre fornire una misura quantitativa ed il più possibile esatta della quantità di energia ceduta da esse alla materia. A questo scopo sono state introdotte nuove grandezze fisiche, dette grandezze dosimetriche. Tanto per cominciare, si dice energia ceduta dalla radiazione in un certo volume la differenza tra l'energia della radiazione incidente sul volume considerato, quella della radiazione uscente e la somma di tutte le energie liberate per creazione di coppie, effetto Compton, eccetera.
Si dice dose assorbita D l'energia ceduta alla materia per unità di massa, cioè il rapporto:
Nel sistema S.I. la dose assorbita si misura in Joule al kg, chiamato anche gray (simbolo Gy) in onore del fisico britannico Louis Harold Gray (1905-1965), che lo introdusse nel 1940. Tuttavia è ancora di uso comune il rad, definito all'alba della fisica nucleare e pari a 100 erg al grammo; 100 rad equivalgono a un gray, per cui un centigray è esattamente uguale a un rad. L'intensità di dose assorbita invece misura la dose assorbita in un dato intervallo di tempo e si misura in Gy/s, anche se l'unità più utilizzata è il gray all'anno (Gy/y).
Tuttavia, la radiazione nel mezzo può dare luogo a radiazione secondaria: elettroni diffusi per effetto Compton, per esempio, di cui si deve certamente tenere conto. Per questo è stato introdotto il kerma ("Kinetic Energy Released in Matter", cioè "energia cinetica rilasciata nella materia), definita come la somma delle energie cinetiche di tutte le particelle cariche generate in un campione da parte di una radiazione indirettamente ionizzante, divisa per la massa del campione. Nel caso della radiazione X, il kerma coincide quasi esattamente con la dose assorbita; per i raggi gamma, ciò non è più vero.
Altra grandezza di uso diffuso in dosimetria è l'esposizione. Essa è la più antica tra le grandezze dosimetriche, introdotta per descrivere la capacità della radiazione elettromagnetica di generare ionizzazione dell'altra. Essa è definita dalla formula:
dove ΔQ è la carica totale degli ioni di un segno prodotti in aria quando tutti gli elettroni liberati nella massa m sono completamente fermati dall'aria. Nel S.I. si misura in Coulomb al chilogrammo (C/Kg), ma è ancora in uso l'unità tradizionale battezzata Röntgen (R) in onore di Wilhelm Conrad Röntgen (1845-1923), e pari a 2,58 x 10–4 C/Kg.
Nessuna di queste grandezze fin qui introdotte può interpretare da sola i fenomeni di cessione di energia dalla radiazione alla materia, e in particolare alla materia vivente: infatti la stessa dose assorbita D, dovuta a radiazioni diverse, provoca danni biologici diversi, che dipendono in maniera fortissima dalla qualità della radiazione incidente e dalla materia su cui essa incide. Si usa allora l'equivalente di dose H, pari a:
H = D Q N
dove D è la dose assorbita, Q il fattore di qualità della radiazione incidente, ed N sintetizza gli altri fattori correttivi. Ponendo N = 1 si ha H = D Q. Per i raggi X, gamma e per gli elettroni, si pone Q = 1; per protoni e neutroni, Q = 10; per le particelle alfa, Q = 20.
Nel Sistema Internazionale l'unità di misura dell'equivalente di dose è il sievert (simbolo Sv), il cui nome deriva da quello dello scienziato svedese Rolf Maximilian Sievert (1896-1966), e che equivale sempre a 1 J / Kg. Storicamente però la vecchia unità di misura era il rem, equivalente al vecchio rad (1 Sv = 100 rem, e quindi 1 rem = 1 cSv). Anche qui per analogia si introduce l'intensità di dose equivalente, che quantifica la dose equivalente in un dato intervallo di tempo e si misura in Sv / s, anche se l'unità più utilizzata è il sievert all'anno (Sv/a).
Simbolo internazionale del pericolo da radiazioni
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Esempio 1: Un uomo di 80 kg è esposto ad una radiazione alfa che rilascia un’energia pari a 5,0 x 106 GeV. Determinare la dose e l'equivalente di dose assorbita dall'uomo.
Anzitutto si trasforma l'energia della radiazione in Joule: 5,0 x 106 GeV = 5,0 x 106 x 109 x 1,6 x 10–19 J = 8 x 10–4 J
In seguito si trova immediatamente D = 8 x 10–4 J / 80 kg = 8 x 10–5 Gy
Per trovare l'equivalente di dose si pone N = 1 e si usa Q = 20, per cui H = 20 x 8 x 10–5 = 2 x 10–4 Sv = 0,2 mSv
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Lo studio della pericolosità delle radiazioni deve tenere conto dell'esistenza di un fondo di radioattività naturale, nel quale tutti noi siamo immersi fin dalla nostra nascita. Infatti, praticamente tutto contiene tracce di materiali radioattivi: persino il suolo, persino i materiali da costruzione della stanza in cui ci troviamo, persino la materia vivente ed il corpo umano! Il fondo di radioattività è dovuto in parte a cause terrestri e in parte a cause extraterrestri. La radioattività naturale di origine terrestre è dovuta alla radioattività naturale del mondo che ci circonda, e in particolare ai radionuclidi primordiali presenti nella crosta terrestre fin dalla sua formazione, quella di origine extraterrestre è costituita dai raggi cosmici, cui dedicheremo una prossima lezione. I principali radionuclidi responsabili della componente terrestre del fondo di radioattività naturale sono il potassio-40, il rubidio-87 e gli elementi delle serie radioattive dell'uranio-238 e del torio-232, dei quali riparleremo più avanti. La concentrazione dei radionuclidi nel suolo e nelle rocce varia molto da luogo a luogo a seconda della conformazione geologica delle diverse aree. In generale le rocce ignee e i graniti contengono uranio-238 in concentrazioni più elevate delle rocce sedimentarie come il calcare e il gesso, però alcune rocce sedimentarie di origine marina possono contenere uranio-238 in concentrazione assai elevata. L'uranio, come il torio, è più abbondante nelle rocce acide che in quelle basiche.
Nell'aria, invece, il fondo di radioattività naturale è dovuto principalmente alla presenza di radon-222 e di radon-220; quest'ultimo nuclide è chiamato anche "toron" perchè deriva dalla catena del torio. Il radon può essere emanato dalle rocce, dai suoli e da materiali da costruzione di origine naturale o, in percentuale molto minore, dalle acque, perchè è solubile in acqua fredda; poiché la sua solubilità decresce rapidamente con l'aumentare della temperatura, può essere rilasciato quando l'acqua si riscalda. Il radon emanato viene rapidamente disperso all'aperto, dove si trova in concentrazioni generalmente basse. Se inalato, però, alla lunga può provocare cancro ai polmoni. Purtroppo, una volta rilasciato dal suolo o dai materiali da costruzione, tende a concentrarsi in ambienti chiusi, specialmente le cantine e gli appartamenti al pianterreno. Proprio la ridotta ventilazione negli edifici a seguito dei programmi di risparmio energetico iniziati nei primi anni settanta avrebbe favorito la concentrazione di radon negli ambienti chiusi. Sulla base di una campagna nazionale di monitoraggio promossa dall'ANPA e dall'Istituto Superiore di Sanità, il valore medio della concentrazione del radon in aria nelle abitazioni italiane è risultato di 77 Bq/m3. Anche le acque contengono una certa quantità di radioattività, dovuta sia alle piogge che trasportano le sostanze radioattive dell'aria, sia alle acque di drenaggio che convogliano nei bacini idrici sostanze radioattive presenti nelle rocce e nel suolo. Particolarmente radioattive sono le acque calde solfuree negli impianti termali. L'interazione dei raggi cosmici con la materia terrestre dal canto suo produce un gran numero di radionuclidi detti cosmogenici, ma di questi soltanto il tritio, il carbonio-14, il sodio-22 e il sodio-24 contribuiscono a dosi misurabili e possono essere introdotti nel corpo umano attraverso la catena alimentare.
Mappa della pericolosità del radon in Italia (da questo sito)
Anche nell'organismo umano sono presenti numerosi radionuclidi naturali come il tritio, il berillio-7, il carbonio-14, introdotti nell'organismo degli individui in quantità variabile in relazione al luogo di residenza ed alla dieta. In media nel corpo di un uomo adulto che pesa 70 kg è contenuta una quantità di tritio corrispondente ad un'attività compresa tra 0,1 e 0,5 Bq per cm3 di sangue, per un totale di circa 4000 Bq; il carbonio-14 contenuto nell'organismo ne ha una di circa 3000 Bq (ed infatti questo radioisotopo è uno dei più utilizzati per la radiodatazione), il potassio-40 di 4000 Bq, e persino 40 Bq di radio-226. Anche se forse non ci crederete, nell'organismo da noi considerato possono essere contenuti fino a 90 mg di uranio naturale! Varie attività umane che comportano l'utilizzo di risorse naturali (acqua, minerali, gas, carbone, materiali da costruzione, ecc.) determinano poi la diffusione nell'ambiente di elementi radioattivi naturali in quantità maggiori rispetto ai livelli naturali; tra tali attività figurano le tecnologie di estrazione mineraria sotterranea e di movimento terra, l'impiego di fertilizzanti potassici e fosfatici, l'impiego di pigmenti minerali per vernici, e anche la combustione di carbone e gas naturale, i cui fumi rilasciano in ambiente molta più radioattività di qualunque centrale nucleare.
Il fondo di radioattività naturale varia da luogo a luogo, ed ha un'intensità di dose equivalente di 2 millisievert per anno. Tale fondo naturale ci fornisce un criterio per valutare la pericolosità di una certa sorgente radioattiva: di solito si considera trascurabile una quantità di radiazione che non aumenta in modo significativo quella che ciascuno di noi riceve dal fondo naturale. La medicina nucleare, di cui parleremo più sotto, comporta l'esposizione ad alti livelli di equivalente di dose, ma anche altre attività umane molto più comuni espongono a un assorbimento di radiazioni ionizzanti. Per esempio, un viaggio aereo comporta un equivalente di dose di 0,05 mSv all'ora; la permanenza ad alte quote comporta un aumento di esposizione ai raggi cosmici di 1 mSv per anno; e così via. Inoltre, secondo alcuni persino il tabacco comporta un rischio ai polmoni di natura non chimica, bensì radioattiva. Infatti nelle foglie di Nicotiana tabacum tendono tipicamente ad accumularsi metalli pesanti assorbiti dal suolo, fra cui il piombo. Ma al piombo è sempre associato polonio-210, che decade alfa con un tempo di dimezzamento di 138,4 giorni, e le radiazioni possono danneggiare irrimediabilmente gli alveoli polmonari. Gli esperti hanno stimato che chi fuma venti sigarette al giorno è esposto in media a un'intensità di equivalente di dose di 10 mSv per anno, e quindi pari quanto a pericolosità a parecchie decine di radiografie al torace.
Naturalmente le particelle subatomiche vanno rivelate, se si vuole misurarne la pericolosità. Per questo negli anni sono stati messi a punto dei rivelatori di particelle, che possiamo classificare come segue:
1) visualizzatori. Sono detti anche camere a tracce, perchè la radiazione che li attraversa lascia una traccia al proprio passaggio. Tale traccia è opportunamente amplificata da alcuni particolari accorgimenti visivi, e può essere osservata direttamente oppure fotografata.
2) contatori. Sono i rivelatori in cui il passaggio della radiazione produce un impulso di corrente elettrica oppure di luce, che mette in azione un dispositivo di conteggio.
In genere questi rivelatori non indicano solo la presenza o il passaggio di una radiazione, ma attraverso una successiva elaborazione delle misure forniscono anche un certo numero di informazioni sull'istante in cui si è verificata l'interazione tra la radiazione e il rivelatore, il percorso della particella, l'energia dei processi di interazione, la velocità, la massa e la quantità di moto delle particelle. Ecco ad esempio come appaiono le tracce delle particelle cariche in un visualizzatore:
Uno dei primi metodi per osservare i moti delle particelle è consistito nell'uso delle emulsioni fotografiche. Infatti, quando una radiazione ionizzante le attraversava lungo il proprio percorso, ionizzava i cristalli di bromuro d'argento che costituivano l'emulsione: proprio questa osservazione permise ad Henri Becquerel di scoprire la radioattività. Dopo lo sviluppo della lastra, tale ionizzazione appariva come una serie di granuli neri; era possibile così studiare mediante un microscopio le tracce lasciate dalle particelle nella lastra. Le emulsioni destinate a questo scopo si differenziavano dalle comuni lastre fotografiche per lo spessore della gelatina, per l'elevato contenuto e per le ridotte dimensioni dei granuli di AgBr. Ovviamente oggi questo metodo è del tutto obsoleto.
Venendo ai veri rivelatori di particelle, il primato di longevità spetta alla cosiddetta camera a nebbia o camera di Wilson, ideata nel 1911 dallo scozzese Charles Thomson Wilson (1869-1959), che è stata il primo rivelatore a tracce in grado di visualizzare e fotografare il percorso delle particelle ionizzanti. Si tratta di un contenitore con fondo di vetro dotato di stantuffo e di alcune finestrelle sempre di vetro per permetterne l'illuminazione. L'ambiente chiuso dallo stantuffo è pieno di aria satura di vapore acqueo; se lo stantuffo improvvisamente si abbassa, il vapore subisce un'espansione adiabatica, durante la quale la temperatura cala (come conseguenza del Primo Principio della Termodinamica) e il vapore diventa sovrassaturo; può cioè condensare sotto forma di nebbia su qualunque oggetto materiale presente nella camera. Se una particella ionizzante attraversa il vapore sovrassaturo racchiuso dallo stantuffo, gli ioni da essa prodotti diventano nuclei di condensazione; il percorso delle particelle viene così rivelato da una successione di goccioline di nebbia la cui traccia, visibile per un certo periodo di tempo prima che la turbolenza la distrugga, può venire fotografata agevolmente.
Questo tipo di rivelatore funziona ad intermittenza: il percorso di una particella infatti può essere rivelato solo immediatamente dopo l'espansione adiabatica operata dallo stantuffo. L'intermittenza è causa del problema del cosiddetto tempo morto. Questo problema è stato eliminato solo nel 1941 con l'invenzione della camera a nebbia a diffusione continua, realizzata con un cilindro di vetro il cui fondo è portato a una temperatura intorno ai – 40°C, mentre la faccia soprastante si trova a temperatura ambiente, sui 20°C. Tra le due basi si stabilisce così un gradiente termico di circa 60°C. Introducendo con continuità dall'alto una miscela di vapori di alcool, quando essa per diffusione arriva in prossimità della base inferiore, il vapore diventa sovrassaturo, e quindi può condensare sugli ioni prodotti dalle radiazioni ionizzanti che attraversano quella particolare zona della camera. Nonostante il vantaggio di lavorare con continuità, questo dispositivo ha il difetto di produrre distorsioni nel cammino delle tracce a causa dei moti convettivi generati dal gradiente termico verticale. Qui sotto potete vedere una camera a nebbia messa in funzione nel mio Liceo nel marzo 2016; il gradiente termico è ottenuto grazie all'utilizzo di ghiaccio secco (cioè CO2 allo stato solido), che è responsabile della sublimazione dell'umidità atmosferica alla base della camera, visibile nella figura sottostante. I due grossi pesi servono per mantenere la tenuta stagna tra le due metà del dispositivo.
Il rivelatore di particelle più famoso è però il contatore Geiger, inventato nel 1913 dal tedesco Hans Wilhelm Geiger (1882-1945), assistente di Ernest Rutherford. Esso è costituito da un cilindro conduttore e da un filo metallico, isolato dal cilindro e disposto lungo il suo asse. Il cilindro contiene una miscela gassosa, la cui natura e pressione dipende dagli scopi per il quale il contatore viene utilizzato. Tra il cilindro (che funge da catodo) e il filo (che funge da anodo) si stabilisce una differenza di potenziale costante, compresa tra i 500 e i 1200 Volt, leggermente più bassa di quella necessaria a produrre una scarica attraverso il gas. Supponiamo che, ad un dato istante, una particella penetri all'interno del tubo attraverso un'opportuna finestrella di vetro e produca almeno una coppia di particelle cariche (cioè un elettrone e uno ione positivo). Sotto l'azione del campo elettrico, l'elettrone è accelerato verso il filo, mentre lo ione si muove verso la parete del cilindro. Queste cariche in moto accelerato, a causa delle collisioni contro gli atomi del riempimento gassoso, producono nuovi ioni; in breve si origina un impulso che provoca lo scatto di un contatore, emettendo tra l'altro un rumore caratteristico. A seconda del numero di conteggi eseguiti nell'unità di tempo si riesce a comprendere se si è in presenza di una sorgente radioattiva e la sua pericolosità. Proprio grazie ad un contatore Geiger costruito da loro stessi, Enrico Fermi e i ragazzi di via Panisperna studiarono la radioattività artificiale e provocarono la prima fissione dell'uranio. Oggi il contatore Geiger è considerato il rivelatore di particelle per antonomasia; qui sotto ne vedete un esemplare utilizzato nel nostro Liceo per misurare l'attività dei nuclidi radioattivi contenuti in una normale mattonella da costruzione:
Un altro importante rivelatore è la cosiddetta camera a bolle, ideata nel 1952 dallo statunitense Donald Arthur Glaser (1926-2013). Come la camera a nebbia, viene usata per visualizzare le tracce delle particelle ionizzanti che la attraversano. L'elemento sensibile in questo caso è costituto da un liquido formato da nuclei piuttosto semplici (idrogeno, deuterio, elio...) in modo da semplificare lo studio dinamico dell'interazione particella-nucleo. Se portiamo il liquido, contenuto in uno speciale recipiente isolato, vicino al suo punto di ebollizione (nel caso dell'idrogeno, attorno ai 25 K), e facciamo diminuire opportunamente la pressione, il liquido si porta in condizioni metastabili, cioè permane in fase liquida finché non si innesca un processo di ebollizione. Se una particella ionizzante attraversa il volume sensibile della camera, si provoca nel liquido un'ebollizione localizzata lungo il percorso delle particelle. La traccia della particella è così rappresentata da una successione di bollicine gassose, le quali possono venire fotografate prima di dissolversi. Se le particelle si muovono all'interno di un campo magnetico uniforme, nel quale la camera viene opportunamente immersa, dalla curvatura delle traiettorie dovuta alla Forza di Lorentz è possibile risalire alla loro carica, alla loro energia e alla loro quantità di moto.
Una delle più grandi camere a bolle esistenti al mondo si trova a Ginevra presso il CERN, e per le sue notevoli dimensioni è stata ribattezzata Gargamelle, dal nome della madre del gigante Gargantua, personaggio creato dallo scrittore francese François Rabelais (1495-1553)! Essa ha un diametro di 2 metri e una lunghezza di 4,8 m, ed era riempita con 12 metri cubi di freon (CF3Br), anziché con idrogeno liquido, per aumentare la probabilità di rivelare interazioni con i neutrini, tra le particelle più difficili da osservare. Gargamelle operò dal 1970 al 1978, bombardando nuclei di freon con un fascio di neutrini muonici prodotto dal Proton Synchrotron del CERN, e portò ad una delle scoperte più importanti realizzate al CERN: la prima osservazione sperimentale delle correnti deboli neutre, per la quale i fisici Abdus Salam, Sheldon Glashow e Steven Weinberg vinsero il Premio Nobel per la Fisica nel 1979. Qui sotto vedete una foto di Gargamelle, oggi esposta nei giardini del CERN, scattata dall'autore di questo sito il 14 ottobre 2014.
Esistono poi le cosiddette camere a scintillazione o camere a flash, formate da diversi tubi di vetro lunghi e sottili, riempiti con una miscela di gas, di solito al 10 % elio e al 90 % neon, ed allineati tra due elettrodi piani tra i quali è applicata un'alta tensione, leggermente inferiore però a quella necessaria per innescare un processo di scarica. Se una particella ionizzante attraversa gli elettrodi, il suo passaggio viene segnalato da una scintilla. Un'altra versione prevede una serie di lastre metalliche mantenute a tensioni di segno alterno (negativa, positiva, negativa, positiva...) Aumentando il numero dei tubi o delle coppie di lastre, si può osservare la traiettoria di una particella ionizzante sotto forma di una successione di segmenti luminosi, ognuno dei quali è realizzato da una sottile scintilla.
Tra i rivelatori più moderni invece ci sono quelli a cristallo isolante o a cristallo semiconduttore, a seconda del mezzo sensibile che essi adoperano. Consideriamo una radiazione che penetra all'interno di un cristallo posto tra due elettrodi piani, fra i quali è applicata una differenza di potenziale. A seguito dell'interazione della radiazione ionizzante con gli atomi del reticolo cristallino, gli elettroni vengono espulsi; se invece il cristallo è a semiconduttore, vengono innalzati dalla banda di valenza a quella di conduzione. Regolando opportunamente il campo elettrico fra gli elettrodi, le cariche prodotte nei processi di ionizzazione e raccolte dalle armature provocano nel circuito esterno la formazione di un impulso di corrente che, successivamente amplificato, viene registrato come nel contatore Geiger.
Concludiamo questa trattazione con i cosiddetti rivelatori Čerenkov. Essi si avvalgono per rivelare particelle del cosiddetto Effetto Čerenkov, che prende il nome dal fisico sovietico Pavel Alekseevič Čerenkov (1904-1990). Secondo la Teoria della Relatività Ristretta, nessuna particella può viaggiare a una velocità superiore a quella della luce nel vuoto c, pari a 299.792,458 km/s. In un mezzo trasparente, però, la velocità della luce più bassa di quella nel vuoto, e in un mezzo con indice di rifrazione assoluto n essa sarà c / n. È dunque possibile che una particella superi la velocità di propagazione della luce nel mezzo, pur rimanendo al di sotto di c. Se tale particella è carica, essa emette una radiazione gamma, proprio come un aereo che supera il muro del suono emette un'onda d'urto di forma conica che provoca il famoso "Bang supersonico". Tale emissione prende il nome di Effetto Čerenkov. Un rivelatore Čerenkov è costituito di un contenitore riempito di acqua pura che funge da dielettrico polarizzabile. La luce provocata dal passaggio di una particella carica con sufficiente velocità viene raccolta da uno o più fotomoltiplicatori, che quindi segnalano la presenza della particella nel rivelatore. Due importanti rivelatori di neutrini utilizzano l'Effetto Čerenkov: il Kamiokande e il SuperKamiokande, realizzati nelle miniere di Kamioka in Giappone. I neutrini interagiscono debolmente con la materia, tuttavia è possibile che qualche neutrino altamente energetico ionizzi un atomo e trasferisca buona parte della sua energia ad un elettrone; in tal caso l'elettrone può emettere luce Čerenkov. I rivelatori giapponesi sono enormi recipienti alti 40 metri, contenenti acqua ultrapura, e le loro superfici sono disseminate di migliaia di fotomoltiplicatori. Le collisioni con neutrini sono rarissime, ma il volume d'acqua è così grande, che prima o poi qualche atomo viene effettivamente ionizzato. Nel 1987 con il Kamiokande fu rivelato per la prima volta un flusso di neutrini proveniente dall'esplosione di una supernova, mentre nel 1988 vennero osservati neutrini provenienti dal Sole. I rivelatori Kamiokande sono costruiti in grandi cavità sotterranee per schermarli da altre forme di raggi cosmici, facendo così in modo che siano raggiungibili dai soli neutrini; altrimenti sarebbe come cercare di udire il cinguettio di un passerotto in mezzo al frastuono di una discoteca!
Il SuperKamiokande con i suoi fotomoltiplicatori (da questo sito)
Dato che in questa lezione abbiamo discusso della pericolosità delle radiazioni, è giusto chiuderla con alcuni effetti positivi che esse possono avere sulla nostra vita. Sto ovviamente accennando alla cosiddetta medicina nucleare. Si tratta della branca della medicina che utilizza sostanze radioattive (dette radiofarmaci) in diagnostica e in terapia. Tra i radiofarmaci più importanti ci sono i traccianti radioattivi, isotopi che servono per segnalare la presenza e la posizione di una determinata sostanza in un organismo vivente. Ad esempio lo iodio-131, un isotopo artificiale dello iodio che decade beta meno con un tempo di dimezzamento di 8 giorni, è utilizzato per gli esami della tiroide, visto che tale organo è preposto proprio alla diffusione dello iodio nell'organismo. Basta che il paziente ingerisca una soluzione a base di iodio, in cui una certa percentuale di atomi di questo elemento è costituita da iodio-131, e dopo alcune ore si localizza in quali punti del corpo si è distribuito lo iodio, misurando la quantità di fotoni gamma emessi dal radioisotopo con un contatore apposito.
Si noti che oggi i traccianti radioattivi vengono utilizzati anche in campi che nulla hanno a che fare con la medicina. Ad esempio in campo agricolo vengono usati per testare l'azione di un fertilizzante: ad esso si aggiunge una piccola quantità di radioisotopo e lo si spruzza su alcune piante; in seguito con un contatore si misura la quantità di fertilizzante radioattivo assunto dai vegetali, in modo da testarne l'effettiva efficacia.
Un'altra tecnica molto usata in medicina nucleare è la cosiddetta PET o tomografia a emissione di positoni. In essa al paziente viene somministrato un radio farmaco consistente in uno zucchero che contiene un radioisotopo del fluoro, il fluoro-18. Lo zucchero si concentra nei tessuti ad alto metabolismo, come quelli cancerosi. I nuclei radioattivi decadono beta più all'interno del corpo, emettendo positroni che, scontrandosi con gli elettroni, generano due fotoni gamma molto energetici. Essi emergono dal corpo in direzioni opposte e vengono rilevati da opportuni contatori che circondano il paziente. Misurando la radiazione prodotta si ottiene un'immagine computerizzata della parte del corpo in esame. Qui sotto vedete un insieme di immagini PET scattate alla madre dell'autore di questo sito.
Un altro esame di questo tipo è la cosiddetta scintigrafia ossea. In essa si inietta in una vena periferica un radiofarmaco contenente tecnezio-99, che emette radiazioni gamma con energia di 140 KeV ed ha un'emivita di circa 6 ore, compatibile con la durata degli esami ma abbastanza breve da consentire una limitata irradiazione del paziente e del personale medico. L'acquisizione delle immagini di solito viene eseguita tre ore dopo la somministrazione del radiofarmaco, per dare tempo a quest'ultimo di fissarsi alle zone bersaglio. Il tecnezio-99 per via delle sue proprietà chimiche tende a legarsi al tessuto osseo; in condizioni normali è il midollo osseo ad assorbire più tecnezio del tessuto compatto, le aree di necrosi senza vene invece non lo assorbono mai e l'esame visualizza in questo modo le aree patologiche; in tal modo è possibile individuare infiammazioni e fratture non visibili nella radiografie, e soprattutto tumori e metastasi ossee, ma anche i sintomi del morbo di Paget e di altre patologie molto complesse. L'attività somministrata ad un soggetto adulto di solito si aggira intorno ai 740 MBq.
La medicina nucleare però non si limita alla diagnostica: è fondamentale soprattutto nella terapia dei tumori, la cosiddetta radioterapia. Le radiazioni ionizzanti bombardano le aree del corpo colpite da tumore, danneggiando il patrimonio genetico delle cellule malate e impedendo loro di proliferare: le cellule tumorali sono in genere scarsamente capaci di riparare i propri danni, e quindi vanno incontro a morte cellulare. Lo statunitense Emil Grubbe (1875-1960) dell'Hahnemann Medical College di Chicago fu il primo a cercare di distruggere le neoplasie bombardandole con raggi X fin dal lontano 1896. Già nel 1906 a Milano si tenne il primo congresso di elettrologia e radiologia medica; a partire dagli anni cinquanta del Novecento si cominciò ad usare il cobalto-60 che, nel decadimento radioattivo, emette fotoni gamma di energia elevata, dell'ordine di 1 MeV, in grado di penetrare nel corpo del paziente. Oggi si usano invece acceleratori lineari di elettroni per produrre fotoni gamma più energetici, fino a 20 MeV, e quindi più penetranti di quelli del cobalto.
Per risparmiare i tessuti sani, ad esempio pelle o organi che la radiazione deve superare per arrivare al tumore, i fasci di radiazioni vengono sagomati e rivolti da diverse angolazioni, intersecandosi nel centro della zona da trattare, dove perciò vi sarà un quantitativo di dose assorbita totale superiore che nelle parti adiacenti. Oltre al tumore stesso, i campi di radiazione possono comprendere anche i linfonodi drenanti se sono clinicamente o radiologicamente coinvolti con il tumore, o se si ritiene che possa esserci un rischio di diffusione maligna. È necessario includere un margine di tessuto sano circostante il tumore per consentire le incertezze dovute al posizionamento e al movimento interno degli organi. Purtroppo la radioterapia funziona se il cancro è confinato in una zona ristretta del corpo, e va sempre associata alla chemioterapia. Invece l'irradiazione corporea totale o TBI è una tecnica radioterapica utilizzata per preparare il corpo a ricevere un trapianto di midollo osseo. Un'altra forma di radioterapia è la curieterapia, in cui una sorgente di radiazione è posizionata all'interno o vicino alla zona da trattare, è che minimizza l'esposizione al tessuto sano durante le procedure per curare i tumori della mammella, della prostata e di altri organi. Questa tecnica risale addirittura al 1901, quando Pierre Curie stesso suggerì al dermatologo francese Henri-Alexandre Danlos (1844-1912) che una sorgente radioattiva poteva essere inserita in un tumore allo scopo di ridurne la massa
Negli ultimi anni è nato un nuovo tipo di medicina nucleare, la radiomica, una nuovissima e raffinata tecnica di tipizzazione dei tessuti basata sull'elaborazione di immagini radiologiche mediante algoritmi che, associata alle conoscenze del medico nucleare, punta a parametrare i biomarcatori tumorali fra loro per meglio integrare le notizie forniteci, come il volume della neoplasia, la neo-angiogenesi, la cellularità, eccetera. È importante che tutti voi doniate il vostro 5 per mille agli istituti di ricerca che studiano come combattere queste terribili malattie, in modo da migliorare la qualità della vita di chi ne è colpito e da allungarne la speranza di vita.
L'apparecchiatura per la PET dell'Ospedale di Padova, costata 7,7 milioni di euro
Ecco l'equivalente di dose di alcuni tipi di medicina nucleare:
tecnologia | eq. di dose |
radiografia dentale | 0,1 mSv |
radiografia comune | < 1 mSv |
mammografia | 1 mSv |
TAC | 10 mSv |
scintigrafia | 10 mSv |
PET | 15 mSv |
radioterapia | > 50 mSv |
Quindi la dose equivalente di una mammografia corrisponde a un anno di esposizione alla radioattività naturale, una TAC equivale a 10 anni di esposizione e a bari cicli di radioterapia corrisponde un equivalente di dose ancora maggiore. Per questo è sempre necessario soppesare la necessità di questi tipi di esami e terapie, in modo da valutarne il rapporto tra rischi e benefici.