L'era Neozoica o Quaternaria deve il nome alla comparsa e diffusione dell'Uomo e deriva dal greco "vita nuova" (ma Dante non c'entra...) Va da 1,8 milioni di anni fa fino ad oggi, e cioè, in termini di Anno della Terra, dalle 20.29.45 alla mezzanotte di San Silvestro.
Le formazioni di quest'era si trovano rappresentate in tutte le terre emerse. Prevalgono i depositi morenici, i sedimenti alluvionali, il travertino e le torbiere. L'attività vulcanica fu notevole in varie zone, specialmente nell'Italia peninsulare (Monte Amiata) ed insulare (Etna). Proseguì il sollevamento delle catene montuose formatesi con il corrugamento alpino, che in effetti dura tuttora.
Il Neozoico è diviso in due epoche:
Il nome Pleistocene, detto anche Glaciale o Diluviale, deriva dal greco "il più recente". Va da 1,8 milioni di anni fa fino a 11.700 anni fa, e quindi, in termini di Anno della Terra, va dalle 20.29.43 alle 23.58.38 del 31 dicembre. La Commissione Internazionale di Stratigrafia (ICS) non riconosce però il Neozoico come era geologica a sé stante e considera il Pleistocene un periodo del Cenozoico, suddividendolo in Pleistocene inferiore o Calabriano (da 1.800.000 a 781.000 anni fa, cioè dalle 20.29.43 alle 22.28.47), Pleistocene medio o Ioniano (da 781.000 a 126.000 anni fa, cioè dalle 22.28.47 alle 23.45.17) e Pleistocene superiore o Tarantiano (da 126.000 a 11.700 anni fa, cioè dalle 23.45.17 alle 23.58.38).
Il löss
Durante il Pleistocene si formarono notevoli depositi morenici dovuti allo spostamento dei ghiacciai, a sedimenti alluvionali e depositi di origine eolica, detti loess o löss, che in alcuni casi raggiungono 400 metri di spessore. Durante le fasi interglaciali infatti il vento trasportava polveri finissime che, in regioni steppose prive di foreste come in Cina, nell'attuale bacino del fiume Giallo, si compattarono. Ai giorni nostri, l'erosione delle acque in quella vallata è all'origine del colore giallo del fiume e del mare in cui esso sfocia. In alcune rocce non soggette all'erosione dell'acqua, la struttura porosa è dovuta agli steli delle erbe sommerse.
Le glaciazioni neozoiche, disegno dell'autore |
Le grandi glaciazioni
Il clima fu caratterizzato dalla diminuzione intermittente della temperatura, che causò notevoli mutamenti soprattutto nell'emisfero settentrionale. I ghiacciai arrivarono a coprire un terzo dei continenti e si spinsero fin quasi al 39° parallelo nell'America Settentrionale (più a Sud di New York) e al 52° in Europa (Berlino e Paesi Bassi), lasciando tracce nelle zone delle Alpi e Prealpi, dove scavarono per esempio il lago Maggiore, il lago di Como, il lago d'Iseo e il lago di Garda, solo per citare i più vasti. In tempi recenti si è scoperto che misurando il rapporto fra due isotopi dell' ossigeno nel ghiaccio si può ottenere una stima del volume dei ghiacci e quindi della temperatura. Il risultato principale è stato quello di poter stabilire una cronologia delle glaciazioni compiendo dei carotaggi nei ghiacci antartici. Più questi carotaggi sono profondi e più si torna indietro nel tempo: oggi si dispone di una storia delle glaciazioni che risale a circa 2 milioni di anni fa. Si è così potuto stabilire che le espansioni glaciali del Neozoico che hanno interessato l'Europa sono state cinque, alternate a quattro lunghi intervalli durante i quali i ghiacciai diminuirono di volume. Esse prendono il nome dal fiume Danubio e dai suoi affluenti:
Le glaciazioni del Neozoico |
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nome |
anni a.C. |
Anno della Terra (ora del 31/12) |
Donau |
1.500.000 - 1.000.000 |
21.00.34 - 22.00.58 |
Günz |
680.000 - 620.000 |
22.40.20 - 22.47.21 |
Mindel |
455.000 - 300.000 |
23.00.37 - 23.24.44 |
Riss |
193.000 - 121.000 |
23.37.13 - 23.45.38 |
Würm |
108.000 - 10.000 |
23.47.09 - 23.58.36 |
Conseguenza delle glaciazioni fu il ripetuto abbassamento del livello medio del mare, che superò anche i 110 metri. Durante le fasi interglaciali, invece, si formarono imponenti fiumane che, trasportando valanghe di detriti, formarono depositi alluvionali in grado di riempire grandi golfi, come quello che un tempo allagava la pianura padana. Nei periodi glaciali questa arrivò a stendersi fino all'attuale città di Ancona.
Lo scioglimento dei ghiacciai del periodo Pleistocenico, sino a raggiungere le dimensioni attuali, ha causato l'innalzamento del livello del mare di circa un metro al secolo, salvo rapidi "salti" in cui si arrivò a 2,5 metri ogni cento anni. Il sollevamento totale fu di oltre 120 metri, ed isolò specie animali su terre dove poterono seguire evoluzioni autonome e specializzate per quell'ambiente. È possibile che tanto la tradizione del diluvio universale quanto il mito, poi ripreso da Platone nel "Timeo", del sommergimento di una grande civiltà agli albori della storia, sia da collegare all'innalzamento dei mari al termine della glaciazione würmiana, che inghiottì le prime civiltà protostoriche. Dalla fine dell'ultima glaciazione il livello del mare è aumentato mediamente di 1 cm all'anno. Più sotto comunque accenneremo ad una spiegazione alternativa.
Quali le cause di questo periodico avanzare e retrocedere dei ghiacci? Esse sono ancora in gran parte misteriose, tuttavia l'ipotesi più accreditata le collega a periodiche variazioni dell'energia solare che riscalda il nostro pianeta, con fasi più acute ogni 100.000 anni. Tale teoria fu formulata a cavallo della prima guerra mondiale dal climatologo serbo Milutin Milankovic (1879-1958) che, studiando l'orbita terrestre con l'ausilio di mezzi di calcolo primitivi, notò come le variazioni nella radiazione solare prodotte dal moto della Terra alle latitudini del circolo polare artico appaiano sincronizzate con le principali glaciazioni. Le catastrofi climatiche infatti sono tali che il ciclo di 100.000 anni non è simmetrico, ma la discesa verso la temperatura minima (e quindi il massimo della glaciazione) è molto più lenta del riscaldamento: in pratica ci vogliono circa 80.000 anni per raffreddare il clima e 20.000 anni per riscaldarlo. Si è potuto inoltre stabilire che, oltre al ciclo principale di 100.000, anni esistono dei cicli secondari con periodi di circa 20.000 anni e 40.000 anni: tali periodi coincidono con quelli caratteristici delle variazioni di alcuni parametri orbitali della Terra.
La teoria di Milankovic tuttavia non resiste ad un'analisi più accurata dei carotaggi nei ghiacci effettuata con il metodo degli isotopi radioattivi. Infatti le glaciazioni si presentano contemporaneamente nei due emisferi terrestri, come se l'insolazione dell'emisfero nord fosse la causa anche delle glaciazioni nell'emisfero sud, e a tutt'oggi manca una spiegazione plausibile di questa strana contemporaneità. Non solo: mentre nell'ultimo milione d'anni i periodi dominanti della glaciazione sono quelli a 20.000 e 40.000 anni, il primo periodo scompare nel milione di anni precedente. In assenza di spiegazioni plausibili gli studi si sono concentrati su altri versanti, come ad esempio il fatto che in fase con le glaciazioni variano le concentrazioni nell'atmosfera di alcuni gas serra, come metano e anidride carbonica. I risultati di un recente studio dovuto ad un gruppo di ricercatori tedeschi dell'Alfred Wegener Institut sembrano però indicare che le variazioni nel volume dei ghiacci osservate in Antartide risentono quasi esclusivamente del clima locale, cioè dei cicli stagionali nelle precipitazioni nevose. Ciò significa che il record di temperatura (o volume dei ghiacci), che veniva prima interpretato come una risposta del Polo sud alle sollecitazioni della radiazione solare ricevute nell'emisfero nord, di fatto è solo un fenomeno locale. In ogni caso, una teoria completa che interpreti con accuratezza il ciclo delle glaciazioni e che ci permetta di prevedere l'arrivo della prossima, purtroppo non esiste ancora.
Ma non è tutto. Già si sapeva che all'origine dei cambiamenti climatici a cui è stato soggetto nel corso del tempo il nostro pianeta ci sono anche cause astronomiche; ma, oltre all'attività solare o alla precessione degli equinozi, già note, un gruppo guidato da Dennis Kent della Rutgers University a New Brunswick, nel New Jersey, ha dimostrato che ad alterare il clima della Terra è anche l'influenza gravitazionale combinata di Giove e Venere. In. particolare l'azione di questi due pianeti ha una periodicità di 405.000 anni (47 minuti e 18 secondi dell'Anno della Terra), ed è in grado di modificare l'eccentricità dell'orbita terrestre. L'ellisse orbitate si allunga, portando il nostro pianeta a distanze solo leggermente maggiori dal Sole, ma tali da creare variazioni del clima. Per arrivare a questo risultato, Kent e gli altri ricercatori hanno analizzato due carotaggi profondi, uno su sedimenti di rocce in un bacino lacustre nel New Jersey, l'altro su sedimenti di detriti vulcanici in Arizona. I due carotaggi, tarati cronologicamente grazie alle inversione di polarità del campo magnetico terrestre risalenti fino a 215 milioni di anni fa (alle 13.28 del 14 dicembre), evidenziano entrambi che il ciclo climatico di 405.000 anni è stato presente per tutto questo periodo.
A quanto pare, fu un rallentamento della circolazione oceanica nelle acque della regione antartica, circa un milione di anni fa (alle 22.00.12 del 31 dicembre), a rendere le ere glaciali molto più rigide e lunghe. A scoprirlo è stato un gruppo internazionale di ricercatori diretti da Adam P. Hasenfratz del Politecnico di Zurigo. Negli ultimi milioni di anni, il ciclo naturale del clima terrestre è stato dominato dal regolare alternarsi di periodi glaciali e interglaciali, legati alle oscillazioni dell'orbita ellittica della Terra attorno al Sole e alle conseguenti variazioni nell'intensità della radiazione solare che raggiunge il pianeta. Tuttavia, fra 1,25 milioni e 700.000 anni fa circa (tra le 21.33.59 e le 22.38.14), i periodi glaciali sono diventati ancora più rigidi e sono più che raddoppiati, passando da una durata media di circa 41.000 anni a quasi 100.000 anni. Per questo drastico cambiamento, noto come transizione del Pleistocene medio, non è stato possibile individuare alcun indizio di una causa astronomica, un enigma complicato dall'assenza di dati paleoclimatici abbastanza dettagliati per caratterizzare con precisione la transizione. Grazie ad alcuni carotaggi dei fondali marini attorno all'Antartide eseguiti nel quadro dell'Ocean Drilling Project, Hasenfratz e colleghi hanno ora colmate in parte questa lacuna ricostruendo le variazioni di temperatura e salinità nell'oceano Australe durante gli ultimi 1,5 milioni di anni. A questo scopo hanno analizzato le concentrazioni di oligoelementi e isotopi dell'ossigeno inglobati all'interno dei microscopici gusci di foraminiferi presenti nei carotaggi dei sedimenti, che permettono di risalire alle dinamiche di trasporto di calore, nutrienti e carbonio delle acque in ciascun periodo. L'analisi dei dati ha suggerito che durante la transizione del Pleistocene medio è avvenuto un progressivo aumento della salinità in profondità e una parallela stabilizzazione degli strati delle acque, con un indebolimento della risalita delle acque profonde ricche di nutrienti e di carbonio, tratti tipici di un indebolimento delle correnti oceaniche. Il mancato rimescolamento delle acque ha ridotto il passaggio della CO2 dall'oceano Australe all'atmosfera, che secondo le stime degli autori sarebbe diminuita di circa 40 parti per milione, con un indebolimento dell'effetto serra di questo gas e un abbassamento delle temperature globali. L'effetto di questi cambiamenti sulla circolazione atmosferica avrebbe poi causato un'ulteriore indebolimento delle correnti marine. Sarebbe dunque questo meccanismo di retroazione positiva ad aver provocato l'eccezionale prolungamento delle ere glaciali.
Tra l'altro, oggi abbiamo la prova che glaciazioni periodiche si sono susseguite anche sul pianeta Marte, a causa di cambiamenti ciclici nell'inclinazione dell'orbita nel corso di centinaia di milioni di anni. Le tracce di queste ere glaciali marziane sono presenti nei depositi di ghiaccio in corrispondenza dei poli, e sono stati osservati grazie ai dati radar registrati dalla missione Mars Reconnaissance Orbiter della NASA. Grazie a tale missione, i planetiologi guidati da Isaac Smith del Southwest Research Institute hanno scoperto un tasso accelerato di accumulo di ghiaccio nello strato più superficiale, tra 100 e 300 metri di profondità, delle calotte polari. Volume e spessore del ghiaccio sono in accordo con le previsioni dei modelli elaborati negli anni 2000: le osservazioni radar della calotta glaciale permettono di ricostruire la storia dettagliata dell'accumulo di ghiaccio e dell'erosione associata al cambiamenti climatici. Le misurazioni dello spessore del ghiaccio fornite dal Mars Reconnaissance Orbiter mostrano che a partire dalla fine dell'ultima era glaciale marziana, databile a circa 370.000 anni fa (alle ore 23.16.47), si sono accumulati sui poli circa 87.000 chilometri cubi di ghiaccio, la maggior parte dei quali sul Polo Nord. Si tratta di una quantità di ghiaccio sufficiente a ricoprire l'intera superficie del pianeta per uno spessore di 60 centimetri. « Studiare il ghiaccio su Marte è importante anche per il futuro delle esplorazioni umane del Pianeta Rosso », ha fatto notare Smith: « l'acqua è una risorsa fondamentale per la colonizzazione. »
Anche la vegetazione migra
La betulla nana, caratteristica delle tundre, riuscì ad impiantarsi nell'Europa centrale. Nell'Europa settentrionale prosperò il Rhododendron ponticum, che attualmente vive anche nelle regioni subtropicali.
Anche la flora alpina, in seguito alle glaciazioni, nel corso dei millenni ha avuto un dinamismo movimentato. Spesso si è estinta dalle montagne d'origine per trovare habitat più idonei in regioni vicine al mare, oppure è stata arricchita da nuove specie che erano state costrette a migrare di fronte all'incalzare dei ghiacci, accolte dalle nostre Alpi in particolari microclimi, in oasi distinte dalle restanti regioni boreali.
Un rappresentante della flora circumpolare costretta a migrare è la Linnaea borealis, dedicata al grande naturalista svedese Linneo oltre che alle terre artiche di cui è originaria. Questa delicata caprifogliacea, molto comune nell'estremo Nord, ha raggiunto i suoi limiti più meridionali con piccoli insediamenti in boschi di conifere della Val di Cogne e della Valsavarenche.
Altra testimonianza di migrazioni glaciali, molto meno raro della Linnaea, è il mitico Leontopodium alpinum, la Stella Alpina, spontanea in Mongolia e sull'Himalaya. Per inciso ricorderò che fu il medico naturalista Konrad von Gesner (1516-1565), colui che per primo osservò come la vegetazione viene influenzata dal clima.
Gli uccelli mastodontici
Durante le fasi interglaciali si svilupparono uccelli mastodontici con ali atrofizzate, come il Moa, i cui resti fossili sono stati ritrovati in Nuova Zelanda, e l'Aepyornis maximus, vissuto in Madagascar, entrambe isole rimaste a lungo isolate da ogni altro continente, il che ha permesso loro di sviluppare una fauna loro propria. Gli Aepyornis raggiungevano un'altezza di circa 3 metri, ma i Moa li superavano arrivando ai 4 metri; questi ultimi avevano uno scheletro robusto, gambe potenti, cranio relativamente piccolo, becco corto e piatto di diverse fogge; deponevano uova lunghe 30 cm e pesanti la bellezza di 7 chili!! Alcuni esemplari di questi uccelli giunsero fino al XVII secolo d.C., ma furono sterminati dai primi navigatori europei che aprirono le rotte dell'Oceano Indiano.
Il mammut
È in questo periodo di climi rigidi che comparvero il mammut, il rinoceronte lanoso, il bisonte, l'orso delle caverne, la iena, la renna, il capriolo e lo stambecco. Il Mammut in particolare fu uno dei più tipici esponenti della fauna pleistocenica: era un proboscidato alto oltre quattro metri al garrese e, a differenza dell'elefante attuale, era coperto di folta pelliccia ed era dotato di un cranio breve ed appiattito posteriormente. Le zanne, enormi, potevano essere lunghe oltre quattro metri e mezzo, e la parte terminale era ricurva; alcuni vecchi maschi le avevano addirittura incrociate tra di loro! Erano diffusi in tutti i continenti settentrionali: il Mammuthus columbi ad esempio era comune in Florida, Georgia e Louisiana, terre che di solito noi non associamo ai mammut, avendo oggi un clima assai caldo; e vi era persino una specie di mammut nani in Sardegna (Mammuthus lamarmorae). Il Mammuthus columbi era scarsamente coperto di pelo viste le latitudini cui viveva, ma altrettanto non può dirsi per il Mammuthus trogontherii, abitante delle steppe erbose eurasiatiche. Quest'ultimo era alto fino a quattro metri e mezzo, anche se il più grosso proboscidato di ogni tempo resta il Paleoloxodon antiquus o elefante della foresta, che con oltre cinque metri al garrese era più grosso persino del mammut.
Di questi mammiferi colossali sappiamo molto perché, oltre agli scheletri, in Siberia ne sono stati ritrovati anche degli esemplari congelati, cosicché è stato possibile studiarne la pelle e le parti molli. Tra l'altro, secondo il dizionario etimologico online, Mammut deriva dalla parola parola russa mamout, a sua volta mutuata dal tunguso mamma ("terra"), poiché le mummie di questi animali venivano ritrovate sotto terra, e nell'oriente siberiano questa circostanza ha fatto nascere la leggenda che i mammut un tempo vivessero sotto terra come le talpe. All'epoca la Cina aveva instaurato rapporti commerciali con le popolazioni siberiane degli Yakuti e degli Ostiachi, e così antichi trattati naturalistici cinesi riferivano dell'esistenza, nelle terre a nord del Paese di Mezzo, di un'enorme creatura pelosa grande quanto una balena chiamata "fen-chu", cioè "ratto scavatore", che viveva perennemente nascosta nel sottosuolo scavando gallerie con i suoi enormi denti a forma di piccone. Se accidentalmente la terra franava esponendo il fen-chu all'aria e ai raggi solari, quest'ultimo moriva all'istante e, quando ciò avveniva, le popolazioni locali accorrevano per raccoglierne i denti, dai quali ricavavano utensili e oggetti decorativi. All'inizio del XIX secolo si scoprì che i misteriosi fen-chu altro non erano che corpi perfettamente conservati di mammut, che il permafrost, il peculiare terreno semicongelato delle steppe siberiane, era riuscito a preservare quasi del tutto intatti. Nello stomaco di più di un esemplare ibernato è stato addirittura trovato l'ultimo pasto, che la bestia non aveva fatto in tempo a digerire; esaminandolo si è inferito che quei pachidermi si nutrivano di rami di salici, conifere, betulle, ontani e di varie piante della steppa; ma soltanto in estate le risorse alimentari erano adeguate alle loro notevoli esigenze. Probabilmente migravano a sud in inverno, alla ricerca di pascoli; ad aiutarli veniva anche la riserva di grasso che accumulavano in una gobba sulle spalle.
Un'équipe di scienziati dell'Università di Nagoya e dell'Accademia Russa delle Scienze ha perfino ricostruito al computer in che modo, decine di migliaia di anni fa, i mammut camminavano e quale capacità di movimento avevano. Ne è risultato che, osservando la sola andatura, non si arriverebbe a distinguere gli attuali elefanti dai mammut. Pur tenendo conto della grande mole, i mammut erano una specie molto attiva che si muoveva in vaste aree alla ricerca di cibo. « Vivevano in branco come gli attuali elefanti », ha spiegato Tassos Kotsakis, paleontologo all'Università di Roma Tre; « si cibavano esclusivamente di vegetali ma, a differenza dei nostri pachidermi, lo spessore delle lamine di smalto sui molari indica che erano in grado di triturare arbusti anche piuttosto duri. Le lunghe zanne a spirale servivano sia per smuovere la terra ghiacciata sia per combattere contro gli altri maschi e conquistare i favori delle femmine. Data la loro mole, non avevano nemici pericolosi tra gli animali: solo la tigre con i denti a sciabola attaccava i cuccioli lasciati incustoditi. L'unico vero nemico era l'uomo, che li cacciava spingendo interi piccoli branchi a precipitare nei dirupi. Per poi mangiarli con calma, sfruttando il potere di conservazione di quel gigantesco frigorifero naturale in cui vivevano ». Molte informazioni sulla loro etologia sono state proprio ricavate dai disegni tracciati dai nostri antenati sulle pareti delle loro caverne, ma è quasi certo che furono proprio i nostri antenati a provocarne l'estinzione, dopo la fine dell'era glaciale, con la caccia spietata cui li sottoposero (vi sono prove che Homo erectus consumava carne di mammut già un milione ed ottocentomila anni fa); poco credito trovano altre teorie, come quelle secondo cui stati vittime di una malattia infettiva, oppure (come i dinosauri) della caduta di un meteorite sul Nordamerica. Gli ultimi mammut, appartenenti ad una specie nana (Mammuthus vrangeliensis), erano ancora vivi sulla remotissima isola siberiana di Wrangel, in pieno Oceano Artico, addirittura nel 1500 a.C.!
Un metodo basato su un orologio genetico, cioè un modello previsionale basato sull'analisi di 42 geni che permettono di stabilire in modo accurato la longevità dei vertebrati, moderni ed estinti, ha indicato che la vita media di un mammut era di circa 60 anni (contro ad esempio i 38 di un uomo di Neanderthal). A sostenerlo sono stati i ricercatori australiani dell'Organizzazione per la Ricerca Scientifica e Industriale del Commonwealth (Csiro), dimostrando come questo strumento sia prezioso non solo per soddisfare le curiosità riguardanti il passato, ma soprattutto per prevedere il futuro delle specie in via di estinzione. Per tarare l'orologio genetico, i ricercatori guidati da Benjamin Mayne hanno analizzato il genoma di 252 specie di vertebrati di cui era nota l'aspettativa di vita. In questo modo hanno individuato 42 geni particolarmente significativi, in cui la presenza più o meno frequente di specifiche regioni (chiamate 'siti CpG') risulta correlata all'aspettativa di vita. L'orologio genetico è stato messo alla prova con i grandi pachidermi del passato: usando come riferimento il genoma dell'elefante africano (che vive in media 65 anni), i ricercatori hanno applicato il loro modello previsionale per stimare che il mammut lanoso e l'elefante dalle zanne dritte avevano un'aspettativa di vita di 60 anni. Usando come riferimento il genoma degli umani e degli scimpanzè, hanno invece stimato che l'uomo di Neanderthal viveva circa 38 anni. In ogni caso, molto spesso la vita del mammut durava molto di meno, proprio a cagione della caccia spietata cui i nostri antenati li sottoposero.
Il ritorno dei mammut
Per tacitare la nostra cattiva coscienza e i nostri atavici sensi di rimorso, i mammut potranno tornare? Sarà cioè possibile farli rinascere mediante moderne tecniche di clonazione? Non è certo facile, perchè il DNA è proprio una delle molecole che si deteriora più in fretta. Tuttavia Stephan C. Schuster e Webb Miller del "Center for Comparative Genomics and Bioinformatics" della Pennsylvania State University, in collaborazione con Thomas Gilbert, del "Center for Ancient Genetics" dell'Università di Copenhagen, hanno scoperto che i peli potrebbero costituire una fonte ideale per ricavare il DNA di antiche specie animali estinte, come appunto i mammut. Schuster ha dichiarato che « il DNA presente nelle ossa e nei muscoli si degrada facilmente, e spesso contiene materiale genetico contaminato da altre fonti, come per esempio i batteri, il che limita fortemente la loro utilità negli studi scientifici. Invece la cheratina dei peli è in grado di proteggere il DNA dalle influenze esterne, e quindi da ogni sorta di deterioramento che subisce lo stesso DNA in altri parti del corpo, come per esempio le ossa ». Utilizzando i peli di due esemplari di mammut lanosi vissuti 20 mila e 60 mila anni fa, è stato così sequenziato sinora il 70 % circa del patrimonio genetico dell'antico pachiderma, cioè 3,3 miliardi di basi di DNA sulle oltre 4 miliardi che si ritiene costituiscano il genoma completo dell'animale: si tratta della più estesa descrizione del patrimonio genetico di una specie estinta. Grazie ai risultati dell'analisi, si è compreso che fra l'elefante africano, quello asiatico e il mammut, per primo si è staccato l'elefante africano e poi si sono divisi il mammut e l'elefante asiatico. « Per tracciare uno schematico albero genealogico », ha spiegato ancora Kotsakis, « si deve partire da 45 milioni di anni fa, quando sulla Terra comparve la famiglia dei proboscidati. Lungo milioni di anni, questa specie diede origine a due sottofamiglie di mastodonti: gonfoteride e mammutide. Dai primi, intorno a cinque milioni e mezzo di anni fa, nacque la famiglia elefantide, che si divise in Mammuthus, Elephas e Loxodonta. Questi ultimi sono i progenitori degli attuali elefanti africani e asiatici: la Loxodonta africana e l'Elephas maximus ».
Ma c'è chi si è spinto anche più in là: il giapponese Kazufumi Goto, direttore del Laboratorio di Riproduzione Animale dell'Università di Kagoshima, ha dichiarato di voler tramutare la fantascienza in realtà, prelevando una quantità anche minima di sperma congelato dagli organi riproduttori di uno degli esemplari perfettamente conservati nel permafrost siberiano e iniettandolo negli ovociti di una elefantessa. E non solo: grazie alla decodificazione del genoma, si potrebbe in teoria far rivivere qualsiasi altra specie estinta negli ultimi 60.000 anni, compreso addirittura l'Uomo di Neanderthal, lavorando su cellule dello scimpanzè, i cui geni sono simili per il 98 % a quelli umani. Un sogno o un incubo? Ahimé, nonostante l'entusiasmo del dottor Goto, le cellule seminali sono sempre risultate molto rovinate, anche se si ritrovano mammut con l'apparato riproduttivo integro (fino a oggi ne è stato ritrovato uno solo, nel 1903) ed il loro congelamento è avvenuto in tempi brevi. Purtroppo quello di riportare in vita i mammut è destinato, almeno per il momento, a restare un soggetto da film di fantascienza.
A volte però capitano rinvenimenti così fortunati che il mammut sembra davvero ancora vivo. Un bambino russo ad esempio si è visto regalare dal padre, un pastore di renne nella penisola di Yamal, non un cane o un gatto, ma un cucciolo di mammut femmina. Lungo appena 130 centimetri e pesante una cinquantina di chili, il ritrovamento rappresenta una scoperta sensazionale. secondo Alexei Tikhonov, direttore dell'Istituto di zoologia dell'Accademia Russa delle Scienze: « Salvo la coda smozzicata da qualche predatore, è in uno stato di conservazione pressoché perfetto: è la prima volta che ciò accade ». L'animaletto, ribattezzato Ljuba, "amata", aveva soltanto qualche mese e sembra ancora addormentato: ha il corpo ricoperto da una sottile peluria, gli occhietti chiusi, la proboscide intatta. Probabilmente è morta annegata in seguito alla caduta in un fiume. Cliccando qui, potrete vederne una fotografia. E che dire di quanto successo a Los Angeles? Alcuni operai scavavano per realizzare un grande parcheggio, ed invece hanno trovato un enorme mammut morto 40.000 anni fa! Leggete, se volete, l'articolo relativo, correlato da tanto di immagini.
Un altro famoso e tipico animale pleistocenico è il rinoceronte lanoso o Elasmotherium sibiricum ("belva dalle placche siberiana") delle steppe russe meridionali, che si spinse poi fino all'Europa centrale. È il più grosso rinoceronte di cui sia stata mai accertata l'esistenza: il solo corno era lungo un metro e ottanta! Inutile dire che, anche in questo caso, il principale responsabile della sua estinzione fu proprio l'uomo. E lo stesso dicasi per gli orsi delle caverne (Ursus spelaeus), che furono tra gli animali più comuni nel tardo Pleistocene: nelle caverne europee le ossa sono state rinvenute a migliaia. Aveva una testa enormemente grossa rispetto al corpo, zampe corte e robuste ed era grande all'incirca come un orso grigio attuale, anche se nelle montagne tedesche dell'Harz si svilupparono forme nane locali. Viveva prevalentemente nelle caverne alpine (da cui il suo nome) ed era prevalentemente vegetariano. Mammut, rinoceronte lanoso ed orso delle caverne venivano spesso rappresentati dai nostri antenati sulle pareti delle loro grotte, forse come contropartita per averli sterminati.
Un clima instabile favorì il genere Homo?
E veniamo dunque ai nostri antenati. Il complesso di tratti che caratterizzano il genere Homo (gambe lunghe, un periodo di sviluppo dei piccoli molto prolungato, un grande cervello, l'abilità nell'usare e creare strumenti) non si sono evoluti insieme quando, tra 2,4 e 1,8 milioni di anni fa (tra le 19.19.40 e le 20.29.46 di San Silvestro), hanno iniziato ad ampliarsi le praterie africane, il clima della Terra è diventato fresco e asciutto e ha avuto inizio il lignaggio che ha dato infine origine all'uomo moderno. La loro storia è più lunga e articolata e, mentre alcune caratteristiche del genere Homo si sono evolute già negli Australopiteci, tra 4 e 3 milioni di anni fa (tra le 16.12.48 e le 18.00.36), altre sono emerse significativamente dopo. È questo il quadro descritto da tre antropologi della New York University, della Smithsonian Institution e della Wenner-Gren Foundation. Già si è visto che i resti di Australopithecus sediba, risalenti a circa 1,98 milioni di anni fa, mostrano denti e mani tipici di Homo, mentre i piedi e il cranio se ne distinguono nettamente. L'apparente confusione tende a dissolversi, osservano Richard Potts, Susan Antón e Leslie Aiello, se tutti questi reperti sono collocati all'interno di una ricostruzione del clima che ha caratterizzato l'Africa orientale fra 2,5 a 1,5 milioni di anni fa (tra le 19.00.59 e le 21.00.48). Questo lungo periodo è stato caratterizzato da una forte instabilità climatica, con significative variazioni nell'intensità delle stagioni umide e secche annuali.
Combinando le mappe climatologiche e quelle delle scoperte paleoantropologiche, i tre ricercatori hanno ipotizzato che in quell'ambiente fortemente variabile siano emerse più specie di Homo, che coesistettero sovrapponendosi anche geograficamente: quel milione di anni sarebbe stato un intenso periodo di sperimentazione morfologica per il nostro lignaggio, in cui ciascuna specie o sottospecie ha tentato qualche strategia leggermente diversa per sopravvivere. Proprio questo complesso mosaico avrebbe permesso l'evoluzione dell'uomo moderno: « Le condizioni climatiche instabili hanno favorito l'evoluzione delle radici della flessibilità umana nei nostri antenati », ha dichiarato Potts. « Il racconto dell'evoluzione umana che nasce dalle nostre analisi sottolinea l'importanza per il successo iniziale del genere Homo della capacità di adattamento ai cambiamenti ambientali, piuttosto che l'adattamento a un qualsiasi ambiente ».
Invece, secondo Mauricio González-Forero e Andy Gardner dell'Università di Saint Andrews, in Scozia, gli esseri umani hanno un cervello così grande in risposta a una serie di fattori di tipo ambientale, mentre i fattori correlati alla cooperazione sociale avrebbero influito in misura minore e ancora di meno quelli legati alla competizione tra gruppi diversi. È un dato di fatto che, dagli australopiteci a Homo sapiens, le dimensioni del cervello sono triplicate, e oggi sono sei volte maggiori di quelle previste per un mammifero placentato di dimensioni corporee come le nostre. Il punto fondamentale per chi studia questo problema è che il cervello ha un elevato fabbisogno metabolico, proporzionale al suo volume: mantenere un cervello di grandi dimensioni costa molto. Deve esserci stato quindi un vantaggio in termini di migliore adattamento all'ambiente, in grado di controbilanciare gli svantaggi. Le ipotesi principali individuano questo vantaggio in una maggiore capacità cognitiva per superare le sfide ecologiche, sociali o culturali. Tuttavia, in genere queste ipotesi sono state verificate con studi che valutavano le correlazioni tra le tappe evolutive dei nostri antenati e l'aumento delle dimensioni craniche dei fossili della stessa epoca. Ma le correlazioni non indicano quale siano le cause e quali gli effetti, e stabilire le cause dell'evoluzione delle dimensioni del cervello rimane un obiettivo estremamente arduo.
González-Forero e Gardner hanno introdotto un approccio che produce previsioni quantitative per la dimensione del cervello e del corpo partendo da ipotesi sociali formalizzate e da stime empiriche dei costi metabolici del cervello. In questo quadro teorico, via via che l'età di un individuo avanza, c'è un preciso investimento nell'aumento dei tessuti degli apparati cerebrale e riproduttivo e dell'organismo nel suo complesso. E anche il miglioramento delle capacità e delle competenze influenza il successo riproduttivo. Il modello quindi genera scenari di vita che sono correlati a specifiche previsioni delle dimensioni cerebrali e corporee. Con questo strumento, gli autori hanno esplorato quattro tipi di sfide: ecologica (individuo contro natura), ecologica cooperativa (gruppo contro natura), competitiva individuale (individuo contro individuo) e competitiva di gruppo (gruppo contro gruppo). Il risultato è stato inequivocabile: l'evoluzione porta a un cervello e a un corpo adulti delle dimensioni tipiche di Homo sapiens quando gli individui affrontano una combinazione di sfide diverse: per il 60 % di tipo ecologico, per il 30 % legate alla cooperazione e infine per il 10 % di competizione tra gruppi. Il contributo della competizione tra individui è risultato invece trascurabile. In particolare, il modello indica che l'espansione del cervello nel genere Homo è stata determinata più dalle sfide ecologiche che dalle sfide sociali, e probabilmente è stata promossa dalla cultura (anche se manca un preciso risultato in merito a questo fattore). L'approccio metabolico degli autori permette una valutazione causale delle sfide affrontate dai nostri antenati rispetto alle dimensioni cerebrali, riuscendo così a unificare e contemporaneamente a confutare le ipotesi avanzate finora.
L'Homo habilis
Dopo i primi ominidi, comparsi circa 4 milioni d'anni fa nelle regioni orientali dell'Africa equatoriale (Etiopia, Kenya), due milioni di anni fa (alle 20.00.24) comparve l'Homo habilis ("uomo che sa usare le mani"). I primi resti di Homo habilis sono stati ritrovati nel 1960 dal britannico Louis Leakey (1903-1972) nella gola di Olduvai, vicino al lago Vittoria (Tanzania); seguirono successive scoperte sulle rive del lago Turkana (Kenya) e su un suo immissario, il fiume Omo (Etiopia). Il nome della specie fu però introdotto dal sudafricano Phillip Vallentine Tobias (1925-2012), uno dei maggiori paleontologi di tutti i tempi, scomparso ad 86 anni il 7 giugno 2012.
L'Homo habilis aveva un cervello di 700-800 cm3 (il cranio ritrovato sul lago Turkana, noto come cranio 1470, ha una capacità di 775 cm3), raggiungeva un'altezza di 125-135 cm ed il peso di 40 chili; i maschi erano più massicci delle femmine. Le arcate sopraccigliari erano piuttosto sporgenti, ma il mento era meno prominente di quello dell'Australopiteco (vedi il Pliocene). Dalla dentatura si ricava la tendenza ad un'alimentazione onnivora, con propensione per la dieta a base di carne derivante dalla caccia e dalla raccolta delle carogne di animali morti che avvenivano in gruppo, con spartizione finale. Sicuramente determinante per l'accrescimento delle relazioni sociali è stata proprio la dieta a base di carne che, a differenza della raccolta di semi, frutta, foglie o radici, consumate individualmente sul posto, richiedeva una cooperazione sia per il reperimento sia per il trasporto in luogo sicuro, dove avvenivano la divisione ed il consumo. La gestione del cibo deve aver avuto un ruolo importante anche per l'accrescimento e l'evoluzione del gruppo che, da singola famiglia, si trasformava in clan, tale da assicurare una maggiore protezione e da garantire la trasmissione delle nuove conoscenze acquisite.
Probabilmente il primo essere vivente a fabbricare utensili fu proprio l'Homo habilis, perché abbiamo le prove che egli raccoglieva pietre e che successivamente, a distanza di chilometri, le modificava battendole contro altre pietre. Presso la Gola di Olduvai (Tanzania), infatti, sono stati ritrovati ciottoli percussori recanti segni d'usura dovuta all'impiego continuo, ciottoli scheggiati da un lato solo detti chopper, ciottoli scheggiati da due parti detti bifacciali, raschiatoi per staccare la carne dalle ossa o il grasso dalle pelli ed asce a mano di selce con bordo tagliente che venivano impugnate. Questa fu chiamata da Leakey la "cultura olduvaniana" (dal nome di Olduvai).
Come ha stabilito uno studio del 2012 basato sui suoi denti, Homo habilis si è evoluto oltre le sue origini vegetariane ed è diventato carnivoro almeno 2,5 milioni di anni fa (alle 19.01 del 31/12). Nel 1999 alcuni ricercatori hanno trovato segni di tagli su ossa di animali vecchie di circa 2,5 milioni di anni, ma non potevano essere sicuri che fossero stati fatti da ominidi carnivori, perché nessuno sembrava possedere denti adatti. In seguito un'analisi di Peter Ungar dell'Università dell'Arkansas ha rivelato che i primi membri del genere Homo possedevano denti molto più affilati dei loro più immediati antenati, come Autralopithecus afarensis. Mangiare carne richiede denti più adatti a tagliare che a masticare, e la capacità di tagliare è determinata dalla forma delle cuspidi dei denti. « Cuspidi più alte», ha spiegato Ungar, « indica la capacità di consumare cibi più duri ». Il paleontologo ha scoperto che le cuspidi dei denti degli scheletri dei primi Homo sono più alte di quelle dei gorilla, che consumano cibi duri come foglie e rami, ma non carne. Le cuspidi dei denti di Australopithecus afarensis, invece, non solo sono più basse di quelle dei primi Homo, ma anche di quelle degli scimpanzè, che si nutrono soprattutto di cibi morbidi come la frutta.
Tra l'altro, nel 2018 in un sito in prossimità della località di Shangchen, nella Cina centrale, sono stati ritrovati manufatti litici risalenti a circa 2,1 milioni di anni fa (alle 19.55 del 31/12); la loro scoperta retrodata di circa 270.000 anni la più antica testimonianza della presenza di rappresentanti del genere Homo al di fuori dell'Africa. A identificarli e datarli è stato un gruppo di ricercatori dell'Accademia Cinese delle Scienze e della britannica Università di Exeter. Il sito si trova sul cosiddetto altopiano cinese del Loess, una vasta distesa di circa 270.000 chilometri quadrati, su cui nel corso degli ultimi 2,6 milioni di anni (dalle 18.56 a mezzanotte) sono stati depositati tra i 100 e i 300 metri di polvere portata dal vento, nota come loess, a cui si alternano strati di altri tipi di suolo. I primi sono indicativi di un periodo dal clima fresco e asciutto, i secondi di un clima più caldo e umido. Finora le prime testimonianze di ominidi al di fuori dell'Africa provenivano da Dmanisi, in Georgia, dove sono stati ritrovati strumenti e ossa di Homo erectus databili a 1,85 milioni di anni fa (alle 20.24). In assoluto, il più antico reperto fossile attribuito a un ominide del genere Homo finora noto è un mascella rinvenuta nel 2013 nel sito di Ledi-Geraru, nella regione dell'Afar in Etiopia, che risale a circa 2,8 milioni di anni fa (ore 18.33). Finora quindi sembrava che ci fosse un enorme lasso di tempo fa la separazione di Homo da Australopithecus e la sua comparsa al di fuori del continente africano, ma ora questo intervallo inizia a ridursi: i primi ominidi migrarono dall'Africa almeno qualche decina di migliaia di anni prima di 2,1 milioni di anni fa. Accanto alle pietre scheggiate tra cui nuclei, schegge, raschietti, punte e percussori, Zhaoya Zhu e colleghi hanno trovato anche resti animali, che fanno ipotizzare che alcuni di quegli strumenti possano essere stati usati per macellarli e disossarli, anche se per una dimostrazione conclusiva di questo uso saranno necessarie ulteriori analisi sui manufatti. Gran parte dei 96 manufatti identificati sono stati trovati prevalentemente in 11 diversi strati di suoli fossili formatisi nei periodi più caldi, che coprono un periodo compreso fra 2,12 e 1,2 milioni di anni fa (tra le 19.52.23 e le 21.39.50). La maggior parte dei reperti sono stati ottenuti usando quarziti e altre rocce simili che probabilmente provenivano dai piedi delle montagne Qinling, a una decina di chilometri di distanza dal sito, dai corsi d'acqua che scendono da essi. La scoperta implica che è necessario riconsiderare il momento in cui i primi esseri umani hanno lasciato per la prima volta l'Africa.
L'Homo rudolfensis e il Kenyanthropus platyops
Nel 1962, sulla riva orientale del lago Turkana, nel nord del Kenya, un team guidato da Richard Leakey (1944-vivente), figlio di Louis Leakey, e dalla sua seconda moglie Meave Epps (1942-vivente), scoprì un enigmatico teschio fossile, conosciuto come KNM-ER 1470, caratterizzato da una cavità cranica in grado di ospitare un grande cervello e da una lunga faccia piatta. La scoperta rinfocolò il dibattito sulla possibilità che altre specie di Homo vivessero a stretto contatto con Homo habilis, contraddicendo l'ipotesi secondo cui ogni specie Homo sarebbe apparsa per evoluzione della precedente, e quindi dopo la sua scomparsa. Secondo alcuni, l'insolita morfologia di KNM-ER 1470, differente da quella di Homo abilis, andava attribuita alle differenze sessuali e alle naturali variazioni presenti all'interno di una singola specie, mentre altri la riteneva la prova di una nuova specie, per la quale fu proposto il nome di Homo rudolfensis, dal vecchio nome coloniale del lago (Lago Rodolfo). La diatriba è durata decenni, perché i resti di KNM-ER 1470 non includevano due elementi essenziali per una corretta classificazione: i denti e la mandibola. Inoltre, nonostante le intense ricerche, non era stato rinvenuto alcun altro cranio fossile dalle caratteristiche analoghe.
« Per 40 anni abbiamo setacciato faticosamente la vasta distesa di sedimenti intorno al lago Turkana alla ricerca di fossili che confermassero le caratteristiche uniche del volto di KNM-ER 1470 e ci mostrassero come dovevano essere i suoi denti e la mascella inferiore », ha raccontato Meave Epps Leakey. « Finalmente abbiamo le risposte. » Questo, grazie alla scoperta di una serie di fossili venuti alla luce fra il 2007 e il 2009 nell'area di Koobi Fora, sulle sponde del lago Turkana. « Insieme, i tre nuovi reperti offrono un quadro molto più chiaro di come appariva KNM-ER 1470 », ha aggiunto Fred Spoor, responsabile delle analisi scientifiche condotte sui nuovi fossili. « È ormai chiaro che una nuova specie Homo ha vissuto fianco a fianco con Homo habilis, e poi con Homo erectus. » Datati tra 1,95 milioni e 1,78 milioni di anni fa (tra le 20.12.14 e le 20.32.06), i tre nuovi fossili sono stati ritrovati a poco più di dieci chilometri di distanza dal sito di scoperta di KNM-ER 1470, e ne ricordano moltissimo i tratti. KNM-ER 62000, scoperto nel 2008, ha la mascella superiore molto ben conservata e con quasi tutti i molari ancora al loro posto, mentre la mandibola di KNM-ER 60000, trovata nel 2009, è la mascella inferiore più completa di uno dei primi Homo mai scoperta. Ne risulta che tra l'Homo rudolfensis e l'Homo habilis, come pure tra di esso e gli Australopithecus, c'erano moltissime differenze: le arcate sopraorbitarie erano più piccole e meno prominenti, la faccia era meno larga e meno prognata, i denti anteriori erano più grandi, mentre il volume cerebrale era leggermente maggiore di quello dell'Homo habilis. Secondo alcuni, l'Homo rudolfensis altro non era che un ramo evolutivo senza discendenti conosciuti; secondo altri invece era l'antenato dell'Homo heidelbergensis, di cui diremo più sotto.
Di sicuro Homo rudolfensis presenta grandi somiglianze con il Kenyanthropus platyops, un altro ominide di recente scoperta, non catalogato tra gli Homo e la cui collocazione nella linea evolutiva ominide è ancora difficoltosa. Ritrovato nel marzo 2001, è stato datato a 3,5 milioni di anni fa e presenta un cranio alquanto arcaico, non molto diverso da quello di uno scimpanzè, ma una faccia piatta e "moderna" rispetto agli Australopithecus suoi contemporanei. La particolare conformazione del cranio di questo ominide dimostrerebbe, secondo i suoi scopritori, che una faccia piatta (in termine tecnico "ortognata", contrario di prognata) sarebbe emersa nel corso dell'evoluzione prima di quanto si pensasse, perchè le mutate esigenze alimentari delle varie specie adattatesi a vivere nella savana avrebbero fatto sì che sia gli antenati delle scimmie che quelli dell'uomo sviluppassero caratteristiche analoghe. Le somiglianze tra le due specie suddette spingono ad ipotizzare un collegamento diretto tra Kenyanthropus platyops ed Homo rudolfensis: è possibile che il primo abbia dato origine al secondo, o che entrambi costituiscano un vicolo cieco dell'evoluzione.
Nel 2010 ha fatto la sua comparsa nel genere Homo anche l'Homo gautengensis, identificato grazie alle analisi di diversi frammenti fossili scoperti nelle grotte di Sterkfontein, nella provincia sudafricana di Gauteng (da cui il nome), da parte di Darren Curnoe e Phillip Tobias, dell'Università del New South Wales in Australia. Secondo i suoi scopritori esso sarebbe il più antico del genere Homo, avendo abitato l'Africa meridionale tra i 2 milioni e gli 800.000 anni fa; utilizzava strumenti di pietra e forse anche il fuoco, era onnivoro, era alto un metro e pesava circa 50 kg: rispetto agli uomini moderni aveva braccia lunghe, un viso prognato, denti molari e premolari relativamente grandi, il che suggerisce che la sua dieta includesse piante che richiedevano una certa masticazione. Inizialmente Curnoe e Tobias ritenevano che i sei teschi ritrovati appartenessero a un Homo habilis, ma dopo 14 anni di esami e confronti con altri fossili hanno ritenuto che siano sufficientemente diversi dagli altri per giustificare la sua classificazione come specie a sé stante e più antica dell'Homo habilis. Tra l'altro, i segni da taglio trovati su uno dei crani suggeriscono che l'individuo venne scarnificato, ma non si sa se per un rituale funebre o semplicemente per antropofagia. L'Uomo di Gauteng fu davvero il primo cannibale? Anche in questo caso, solo le ricerche future potranno dircelo.
Contemporaneamente all'Homo habilis vissero altri ominidi dai nomi curiosi: Paranthropus robustus, Paranthropus boisei, Paranthropus gracilis.
Il Paranthropus robustus viveva piuttosto solitario ed era poco sociale. Il primo ritrovamento avvenne nel 1938 a Kromdraai, vicino a Città del Capo, e si deve al paleontologo sudafricano Robert Broom (1866-1951), che lo chiamò Paranthropus ("quasi uomo"), ritenendolo erroneamente un nostro antenato diretto; più tardi fu catalogato nel genere Australopithecus, ma oggi si è riportato in vita l'antico nome del genere perché le differenze con l'Australopithecus africanus sono abbastanza marcate da giustificare l'introduzione di un nuovo genere (a questi ominidi è stato dato anche il nome più generico di Zinjanthropus o uomo di Zinj, una leggendaria regione africana). Sembra infatti che, mentre l'Australopithecus africanus conservava un'alimentazione tendenzialmente onnivora e una struttura fisica piuttosto gracile, alcuni ominidi imparentati con esso siano tornati per varie ragioni ad alimentarsi quasi esclusivamente di vegetali duri, il che implicava la necessità di mascelle particolarmente forti e di una muscolatura in generale più sviluppata di quella dell'africanus. Alti circa 135-155 centimetri, questi parantropi pesavano dai 40 a 55 Kg; erano bipedi, anche se probabilmente non camminavano completamente eretti; possedevano una struttura massiccia, una grossa mandibola, un cranio massiccio ed una spessa arcata ossea sulla quale si innestavano i muscoli della masticazione, necessari per le ragioni sopra ricordate. Il tipo di dieta alimentare dei Robusti si ricava dalla dentizione, formata da incisivi e canini molto piccoli, mentre i molari ed i muscoli per la masticazione erano era piuttosto sviluppati. Quasi certamente preferivano vivere nelle foreste dove trovavano il cibo di cui si nutrivano, costituito essenzialmente da vegetali con aggiunta di insetti e piccoli vertebrati. Più o meno delle stesse dimensioni, ma con struttura meno robusta e poco differenziato dagli altri rappresentanti del genere, era il Paranthropus gracilis. Molto simile al Paranthropus robustus era invece il Paranthropus boisei, tanto che le due specie vengono comunemente chiamate "robusti" e basta.
Il Paranthropus boisei è noto familiarmente anche come "Uomo schiaccianoci", essendo dotato di potenti mascelle con grandi denti molari e potenti muscoli mandibolari, che hanno fatto pensare a un'alimentazione basata su noci, semi e frutti. Tuttavia, come hanno scoperto nel 2012 Matt Sponheimer e colleghi dell'Università del Colorado a Boulder, il boisei non mangiava affatto tutto ciò, ma si nutriva di frutti molli e di erba: la struttura larga e piatta dei denti era adatta alla masticazione di grandi quantità di vegetali teneri. I ricercatori hanno rimosso piccoli campioni di smalto da 22 denti di Paranthropus boisei raccolti nel Kenya centrale e settentrionale, ciascuno dei quali contiene isotopi del carbonio assorbiti dai diversi tipi di cibi consumati dai diversi individui. Negli ambienti tropicali, virtualmente tutti gli alberi e i cespugli, compresi frutti e foglie, usano usano il cosiddetto "cammino fotosintentico C3" per convertire la radiazione solare in energia, mentre la vegetazione bassa della savana usa il "cammino C4". L'analisi isotopica indica che il Paranthropus boisei preferiva di gran lunga la vegetazione bassa rispetto a cespugli ed alberi: complessivamente: la dieta dei 22 individui su un periodo di 500.000 anni era costituita in media dal 77 % di erba.
Aggiungo che nell'estate 2023 un gruppo guidato da Enrico Cappellini, Claire Koenig e Ioannis Pastramanis, chimici delle proteine all'Università di Copenaghen, e dalla biologa molecolare Palesa Madupe dell'Università di Città del Capo, ha ricavato informazioni genetiche da quattro denti di Paranthropus robustus scoperti nella grotta di Swartkrans, 40 chilometri a nordovest di Johannesburg. Essi sono vecchi di due milioni di anni, il che ne fa i dati genetici più antichi finora mai recuperati: un risultato davvero stupefacente perchè, dopo tutto questo tempo, i fossili si sono quasi trasformati in pietra! Nel 2022 erano già state ottenute sequenze genetiche da campioni di permafrost della Groenlandia risalenti a due milioni di anni fa, ma il DNA si degrada più rapidamente nei climi più caldi. Le proteine tendono a essere più resistenti del DNA, consentendo ai ricercatori di spingere la documentazione molecolare più indietro nel tempo: Cappellini aveva già sequenziato proteine dei denti da resti di circa 800.000 anni fa appartenenti a un Homo antecessor scoperto in Spagna e sequenze più limitate da fossili di Homo erectus di 1,8 milioni di anni fa provenienti dalla Georgia. Per riuscire nell'impresa descritta nello studio del 2023, i ricercatori hanno analizzato centinaia di aminoacidi nello smalto di ciascun campione, cioè nello strato minerale esterno dei denti, utilizzando la spettrometria di massa. Una delle proteine individuate, l’amelogenina-Y, è prodotta da un gene sul cromosoma Y, e così la sua presenza in due campioni ha permesso ai ricercatori di concludere che i denti appartenevano a maschi, mentre uno di questi era stato precedentemente attribuito a una femmina sulla base delle sue piccole dimensioni. Gli altri due denti non presentavano tracce di amelogenina-Y e contenevano la versione del cromosoma X della proteina, il che ha portato gli autori a dedurre che gli esemplari erano probabilmente di sesso femminile. Tutto ciò ha permesso ai ricercatori di costruire un albero evolutivo che conferma che Homo sapiens, Neanderthal e i Denisoviani sono tutti più strettamente imparentati tra loro di quanto non lo siano con il Paranthropus di due milioni di anni fa. Inoltre in una proteina dello smalto i ricercatori hanno rilevato differenze di sequenza tra i resti di Paranthropus, che potrebbero riflettere la variabilità all'interno della specie. La variabilità delle proteine dello smalto è limitata, quindi i 425 aminoacidi usati dal gruppo di Cappellini per costruire l'albero genealogico sembrano meno informativi delle prime sequenze di Neanderthal sequenziate dai ricercatori nel 1997, che includevano circa 360 paia di basi del DNA mitocondriale, il quale presenta molte variazioni. La forma delle ossa è per ora un modo più affidabile delle proteine antiche per districare le relazioni genealogiche, e c'è ancora molta strada da fare nella proteomica evolutiva antica, ma le potenzialità di questa tecnica sono sotto gli occhi di tutti, come dimostra la possibilità di determinare il sesso di fossili frammentari.
L'andatura e l'estinzione dei Parantropi
Nessun parantropo, pur potendo assumere la posizione eretta, fu in grado di muoversi camminando come l'uomo moderno. Infatti la lamina dell'osso pelvico, che nel genere Homo è situata di lato, negli australopiteci era posteriore, così come la forma del collo del femore, arrotondata nell'Homo, era piatta nei parantropi. Queste differenze della struttura ossea tra l'uomo ed i parantropi ci dicono che questi ultimi non furono mai in grado di assumere, nella camminata, la stessa posizione ed andatura degli uomini.
Nonostante il cervello, in proporzione alle modeste dimensioni del corpo, fosse piuttosto sviluppato e non molto inferiore a quello dell'Homo habilis (la capacità del cranio si aggirava intorno ai 550 cm3), non si hanno prove della costruzione o dell'utilizzo di utensili da parte dei robusti. O meglio, non se ne avevano fino al 2022, quando il sito di Nyayanga, nella penisola di Homa, che si affaccia sul lago Vittoria nel Kenya sud-occidentale, ha restituito agli archeologi un centinaio di ciottoli, raschiatoi e schegge, molti dei quali con segni di usura ben conservati, capaci di aprire uno scorcio su una stagione cruciale dell’evoluzione. Le analisi hanno consentito di retrodatare di centinaia di migliaia di anni la nascita della cosiddetta industria litica “olduvaiana” e di allargarne notevolmente il raggio di diffusione. Non solo: i reperti litici e i resti animali a essi associati forniscono elementi preziosi per provare a ricostruire le abitudini alimentari delle comunità vissute durante il paleolitico inferiore nella savana africana. A rendere la scoperta ancora più stimolante è il ritrovamento nello stesso sito di due molari, che rappresentano i resti fossili più antichi mai rinvenuti di Paranthropus. Questa coincidenza autorizza gli studiosi a ipotizzare, tra molte cautele, un possibile nesso tra gli strumenti litici e questo ominide. Fra i numerosi resti animali spiccano quelli di due ippopotami e un’antilope con segni di macellazione: tagli o colpi, inferti al fine di staccare la carne oppure per estrarre il midollo. Dalle analisi degli strumenti litici sono emerse prove del loro uso sia su materie animali che vegetali, con azioni che indicano un’apprezzabile complessità nella lavorazione del cibo, almeno per quei tempi remoti. Bisognerà aspettare ancora parecchio prima che arrivi l’impiego controllato del fuoco per cuocere gli alimenti, perciò l’unico modo per rendere carne e tuberi più facili da masticare e da digerire era ridurli in poltiglia. Nel menù paleolitico, probabilmente, figurava qualcosa di simile a una tartare di ippopotamo e un pesto di tuberi. Queste scoperte consentirebbero di retrodatare dei comportamenti cognitivi, e potremmo anche dire culturali, che sono serviti a colonizzare nuovi habitat.
La causa dell'estinzione dei parantropi si deve forse ricercare nella differenza sostanziale tra questi ultimi e l'Homo habilis, che non sta tanto nella struttura fisica, quanto nell'uso e nella fabbricazione di oggetti da parte di quest'ultimo. Probabilmente a seguito di modificazioni climatiche, nel cercare nuovi habitat, i parantropi non furono in grado di imporsi nei territori conquistati dagli Homo e si estinsero. Comparso almeno 5 milioni e 500 mila anni fa, cioè alle 13.17.36 di San Silvestro, il Paranthropus robustus si estinse circa un milione e 500 mila anni fa, cioè alle 21.04.48. A tre ore dai tappi di champagne!
Per i reperti ritrovati, il Paranthropus boisei visse invece almeno fino ad un milione d'anni fa, cioè ancora più tardi: alle 22.03.12!
L'Homo ergaster
Circa un milione e 600 mila anni fa (ore 20.53.07), nella regione africana del lago Turkana (Kenya) comparve un Homo più evoluto, in grado di costruire oggetti più rifiniti di quelli dell'Homo habilis; per questo fu chiamato Homo ergaster (n greco "lavoratore"). Alto 130-145 cm, poteva raggiungere un peso di circa 60 chili; il volume cerebrale è aumentato a 850 cm3. Significativo è a questo proposito lo scheletro assai completo conosciuto come "ragazzo di Nariokotome" dal nome del sito kenyota di ritrovamento.
Ancora con le arcate sopraccigliari sporgenti, aveva una dentatura che ricorda quella dell'uomo moderno, con il il secondo molare più grande del terzo. Tratti molto "umani" erano anche la postura eretta, la pelle scura e probabilmente la carenza di peli sul corpo, mentre australopiteci e parantropi ne erano ricchi. I piedi lunghi ed il cervello più voluminoso hanno certamente permesso all'Homo ergaster un'espansione al di fuori dell'Africa: i fossili suggeriscono che si è diffuso dal nordovest africano all'Asia centrale ed orientale e forse anche nell' Europa del sud. Produceva molti manufatti, oggi catalogati con il nome di "cultura Acheuliana" (dal sito di Saint Acheul in Francia) e databile intorno ad 1,4 milioni di anni fa (ore 21.16.29). Un gruppo di paleoantropologi della Rutgers University e del Columbia University Lamont-Doherty Earth Observatory ha però attribuito a questo ominide anche il sito di sito di Kokiselei, presso il lago Turkana in Kenya, risalente a 1,76 milioni di anni fa (ore 20.34.26). All'Homo ergaster inoltre si attribuiscono per la prima volta molte delle caratteristiche sociali e comportamentali dei cacciatori-raccoglitori che sopravvivono ancor oggi presso alcune popolazioni umane, come lo sfruttamento delle risorse di zone geografiche molto grandi e la stabilità di lunga durata nelle procedure di lavorazione della pietra; tutto ciò potrebbe implicare lo sviluppo di un complesso linguaggio vocale e gestuale, ma ovviamente ci troviamo nel campo delle ipotesi.
Che il nome di "Homo lavoratore" sia azzeccato lo dimostra una distesa disseminata di centinaia di pietre bifacciali scheggiate da quei nostri remoti antenati, risalenti a oltre un milione di anni fa e denominate amigdale dagli archeologi. Tale sensazionale scoperta è stata effettuata nel sito di Mulhuli-Amo, in Dancalia (Eritrea), da una missione internazionale guidata dal professore italiano Alfredo Coppa dell'Università La Sapienza di Roma. « In un'area di 400 metri quadrati abbiamo rinvenuto centinaia di pietre scheggiate », ha spiegato Coppa in un'intervista al Corriere della Sera. « Con il paleomagnetismo, l'area del ritrovamento è stata datata con precisione tra 1.030.000 e 980.000 anni fa. » (fra le 21.59.42 e le 22.00.32) « I manufatti litici di tipo acheuleano sono stati lasciati nel corso di una permanenza prolungata da parte di una forma tarda di Homo ergaster » (alcuni però parlano di Homo erectus). « Poi, a causa del dilavamento e dell'erosione differenziata fluviale ed eolica, sono stati raccolti sul terreno, forse l'antico fondo di un canale, da noi esaminato ». Le campagne di scavo italiane in quella zona della Dancalia sono iniziate nel 1994-1995 e poi interrotte a causa della guerra scoppiata con l'Etiopia, per poi riprendere dopo il 2000. Si tratta di una zona tra le più torride di tutto il pianeta, dove le campagne archeologiche sono per forza limitate, con grandi disagi, ai mesi invernali. « L'eccezionalità di questi ritrovamenti è dovuta anche all'età dei reperti », ha continuato Coppa. « È una fase in cui in tutta l'Africa si rinvengono pochi reperti, a causa di una contrazione delle popolazioni prima di una successiva speciazione ». Una scoperta tutta italiana, della quale andare davvero fieri. Oltre alle amigdale, visibili qui sotto, la spedizione ha rinvenuto alcuni frammenti di ossa craniche e un dente. La ricostruzione paleoclimatica ha riscontrato che la zona un milione di anni fa era situata in un'area con alternanza di zone umide, fluviali e palustri in cui vivevano coccodrilli, ippopotami e bufali d'acqua: un aspetto completamente diverso da quello desertico attuale.
E non è tutto: rispetto all'Africa Orientale, dove i primi esponenti del genere Homo apparvero due milioni e mezzo di anni fa, finora si riteneva che la parte occidentale del continente fosse rimasta quasi disabitata fino a 12.000 anni or sono. Invece i reperti emersi nel giacimento di Ounjougou, nel Mali, rivelano una ricca preistoria, iniziata almeno un milione di anni fa. La scoperta è stata annunciata da Sylvain Soriano, ricercatore al Laboratoire ArScAn (Archéologies et Sciences de l'Antiquité) dell'Université de Paris X Nanterre, e da Eric Huysecom, maître d'enseignement et de recherches all'Université de Genève, i quali hanno riportato alla luce non ossa (il terreno dell'Africa Occidentale è quasi sempre troppo acido per permetterne la conservazione), bensì gli scarti di lavorazione di blocchi di arenaria quarzosa, dalle quali antichi tagliatori di pietre, fermatisi a lavorare lungo le rive del fiume Yamè, staccarono delle lame bifacciali tipicamente acheuliane, poi portate via per utilizzarle, lasciando sul posto proprio gli scarti, oggi preziosi per ricostruire la storia antropologica della regione. In assenza di resti organici, la datazione al radiocarbonio non è possibile, ma Chantal Tribolo, collega dei due suddetti ricercatori, ha ugualmente datato i reperti utilizzando la datazione per luminescenza, che ha fatto risalire i "rifiuti" di Ounjougou a circa 65.000 anni fa (alle 23.52.24 del 31 dicembre). Le ricerche sul Paleolitico dell'Africa Occidentale continuano.
Del resto, alcuni reperti sembrano mettere in crisi le datazioni finora accettate come sacrosante anche per quanto riguarda l'epoca in cui i primi Homo raggiunsero l'Europa. Un team di paleontologi inglesi guidati da Chris Stringer, del Natural History Museum di Londra, ha scavato alla base della scogliera di Pakefield, nel Suffolk, riportando alla luce trentadue schegge di selce nera, che rappresentano secondo loro scarti di lavorazione della selce, manifestando in modo inequivocabile l'operato dell'uomo. Il fatto è che esse risalirebbero a 700.000 anni fa (ore 22.38.14), oltre 200.000 anni prima del presunto approdo di ominidi in Europa. Unitamente al "teschio di Dmanisi" (Georgia), datato 1 milione e 750 mila anni fa (ore 20.35.36), e ai resti fossili (una mandibola con alcuni denti) trovati nel giugno 2007 ad Atapuerca, in Spagna, da Josè Maria Bermudez de Castro ed Eudald Carbonell del Centro Nacional de Investigación sobre la Evolución Humana di Burgos, i reperti di Pakefield hanno convinto vari specialisti che i nostri lontani antenati siano giunti nel nostro continente già due milioni e seicentomila anni fa, quando diverse specie di ominidi africani cominciarono a produrre utensili di pietra scheggiata; ma qualcuno parla addirittura di Australopiteci giunti in Europa oltre 3 milioni di anni fa (prima delle ore 18). Alcuni si spingono addirittura ad ipotizzare che l'Homo ergaster sia nato in Europa, discendendo da questi antichi pionieri, e poi si sia diffuso in Africa, compiendo esattamente il percorso inverso. Un'ipotesi che potrebbe davvero riscrivere interi capitoli dell'alba della nostra specie.
Il ruolo del sudore nell'evoluzione umana
Come detto parlando del Pliocene, l'uomo è l'unico primate ad avere quasi tutta la pelle priva di peli; presumibilmente tale nudità cominciò a manifestarsi proprio con l'Homo ergaster, il primo ominide veramente simile a noi. Per giustificare questa situazione sono state avanzate varie teorie, alcune delle quali strampalate, come quella della scimmia acquatica; ma solo in tempi recenti Nina Jablonski, direttrice del Dipartimento di Antropologia alla Pennsylvania State University, ha fatto luce su questo mistero, collegando la nostra carenza di peli al cambiamento di condizioni climatiche, che costrinse gli ergaster a coprire lunghe distanze per cercare acqua e cibo. Per sintetizzare le sue scoperte, i mammiferi usano diversi metodi per evitare di surriscaldare il proprio corpo: ad esempio i cani ansimano, molte specie feline sono più attive durante le ore fresche della sera, e così via. Nei primati la strategia principale e il sudore. Sudare raffredda il corpo producendo sulla superficie della pelle un liquido che poi, evaporando, estrae energia termica dal corpo: questo meccanismo di raffreddamento è molto efficace nel prevenire il pericoloso surriscaldamento dal cervello che ci condurrebbe rapidamente a morte. Ma in gran parte delle specie di mammiferi le ghiandole sudoripare sono poste alla base dei follicoli piliferi e ungono i peli con una miscela oleosa, a volte addirittura schiumosa come avviene per un cavallo al galoppo: è il cosiddetto sudore apocrino. Questo tipo di sudore aiuta a raffreddare gli animali coperti di pelliccia, ma ha un alto tasso di inefficienza e li costringe a bere grandi quantità di acqua, non sempre immediatamente disponibile. Invece gli esseri umani producono un sudore assai acquoso non lungo i peli, ma attraverso i minuscoli pori della pelle (sudore eccrino). Ciò rende il nostro sistema di sudorazione assai più efficace.
Orbene, come detto sopra, all'inizio del Quaternario la Terra entrò in una fase di raffreddamento globale che inaridì l'Africa orientale dove vivevano i nostri progenitori: gli ambienti boscosi lasciarono rapidamente spazio a praterie, e i frutti e i tuberi di cui si nutrivano divennero più scarsi, mentre le riserve d'acqua dolce erano legate alla disponibilità stagionale. Gli ergaster dovettero dunque abbandonare le loro abitudini di facile approvvigionamento per passare a uno stile di vita molto più attivo, percorrendo distanze maggiori in cerca di acqua e piante commestibili. Inoltre intorno a quell'epoca gli ominidi iniziarono a introdurre nella loro dieta la carne, come indicano gli utensili di pietra e le ossa di animali macellati nei ritrovamenti archeologici. I cibi animali sono molto più ricchi di calorie rispetto a quelli vegetali, ma sono molto più difficili da conquistare, e gli animali carnivori devono coprire un'area più ampia e sfacchinare molto di più rispetto agli erbivori per procurarsi una quantità sufficiente di cibo. Proprio per questo secondo Nina Jablonski la selezione naturale ha trasformato le proporzioni corporee decisamente scimmiesche degli australopiteci, che ancora passavano buona parte del loro tempo sugli alberi, in un corpo delle gambe lunghe, costruito per camminare e correre a lungo, com'è quello degli ergaster. I maggiori livelli di attività avevano pero un costo, a partire da un rischio più alto di surriscaldamento, per combattere il quale gli ominidi evolsero la sudorazione eccrina e la scomparsa dei peli corporei.
Un altro indizio sull'evoluzione della pelle nuda è venuto dalle ricerche sulla genetica del colore della pelle compiute nel 2004 da Alan Rogers e dai suoi colleghi dell'Università dello Utah. Esse hanno esaminato le sequenze del gene umano MC1R, uno dei geni responsabili della pigmentazione della pelle, dimostrando che circa 1,2 milioni di anni fa ha avuto luogo una particolare variazione genetica in tutti gli africani con la pelle scura. Probabilmente i nostri progenitori avevano la pelle chiara coperta da pelo scuro, simile a quella degli scimpanzè, perciò l'evoluzione di una pelle scura è stata probabilmente una necessaria conseguenza evolutiva della perdita dei peli che proteggevano dalla radiazione solare.
Incredibilmente, per datare quando l'uomo ha perso il pelo (ma non il vizio, purtroppo), è utile anche un originale studio sui... pidocchi! Nel 2003 Mark Pagel, dell'Università di Reading in Inghifterra, e Walter Bodmer, del John Radcliffe Hospital di Oxford, hanno analizzato i pidocchi del corpo e della testa per capire quando i nostri antenati hanno iniziato a coprirsi con pelli e vestiti. Benché si cibino di sangue, i pidocchi del corpo vivono nei vestiti, e di conseguenza la loco origine fornisce una stima minima per l'apparizione dell'abbigliamento nel genere Homo. Confrontando la sequenze di geni si può risalire all'origine della specie; ebbene, queste analisi hanno mostrato che i pidocchi dei capelli hanno infestato gli uomini sin dall'inizio, mentre i pidocchi del corpo si sono evoluti motto dopo. Il momento della loro apparizione sembra suggerire che gli esseri umani siano rimasti nudi per più di un milione di anni.
L'evoluzione ha comunque lasciato coperte alcune parti del corpo. I peli sotto le ascelle e sull'inguine servono probabilmente sia per propagare i feromoni (molecole chimiche che servono a suscitare una risposta comportamentale da parte di altri individui), sia per mantenere lubrificate queste aree durante la locomozione. Invece secondo la Jablonski i capelli si sono conservati per proteggersi contro il surriscaldamento della testa, visto che avere una densa copertura di peli sul capo crea uno strato protettivo d'aria tra la pelle che suda e la superficie calda dei capelli. Da questo punto di vista i capelli ricci sono i più efficienti, aumentando lo spessore dell'aria tra la superficie dei capelli e la pelle. La Jablonski ha addirittura ipotizzato che i capelli ricci siano stati la condizione originale negli esseri umani moderni, e che gli altri tipi di capelli si siano evoluti con la dispersione della specie fuori dall'Africa! Per quanto riguarda gli altri peli sul corpo, le popolazioni umane sono quasi completamente glabre tendono ad abitare la fascia tropicale, mentre le più irsute vivono fuori da quell'area; l'ipotesi tradizionale che le femmine preferiscano i maschi con barbe folte e più peli sul corpo perché questi caratteri si accompagnano a forza e virilità è quasi certamente una leggenda, e la spiegazione della variabilità dei peli umani e ancora oggetto di dibattito tra gli antropologi.
In ogni caso, se la Jablonski ha ragione, liberarsi della pelliccia non è stato solo un modo per combattere il surriscaldamento corporeo, ma ha avuto importanti conseguenze sull'evoluzione umana successiva. La perdita di gran parte dei nostri peli e l'acquisizione della capacita di dissipare il calore in eccesso per mezzo del sudore eccrino hanno reso possibile la grande espansione del nostro organo più sensibile alla temperatura, cioè il cervello. Mentre gli australopiteci avevano cervelli con una capacita di circa 400 cm3, simile a quello di uno scimpanzé, Homo ergaster aveva un cervello di capacita doppia, e nel giro di un milione di anni si è gonfiato di altri 400 cm3, arrivando alle dimensioni attuali. Non c'e dubbio che i fattori che hanno influenzato l'espansione della nostra materia grigia sono tanti, come 1'adozione di una dieta sufficientemente calorica da alimentare questo tessuto così energivoro, ma perdere il pelo e stato sicuramente un passo cruciale per diventare dei "cervelloni".
L'assenza di peli ha anche avuto conseguenze sociali. I mammiferi infatti "rizzano il pelo" sul collo e sulla schiena per invitare i loro antagonisti a stare alla larga, come fanno cani, gatti o anche i nostri cugini scimpanzè; l'Homo ergaster ha giocoforza perso questa possibilità. Ed ha perduto anche la visibilità o il mimetismo delle strisce della zebra e delle macchie del leopardo, utilizzate anche per riconoscersi fra membri diversi della stessa specie. Ed allora, il genere Homo ha compensato l'assenza di pelliccia con varie strategie come il rossore, le complesse espressioni facciali, e soprattutto la capacità di veicolare informazioni ed emozioni attraverso la complessità del linguaggio. A ciò si sono aggiunti i tatuaggi, le pitture sul corpo, il trucco, il piercing, presenti in diverse combinazioni in tutte le culture umane. Se tutto ciò è vero, come ha scritto la Jablonski, « la pelle nuda non ci ha solo raffreddato: ci ha reso esseri umani ».
L'Homo erectus
Circa un milione e 250 mila anni fa (ore 21.34.00), forse per la prima volta ancora nella regione del Turkana, comparve l'Homo erectus, strettamente imparentato con l'Homo habilis che, almeno nel caso del cranio denominato cranio 3733 ritrovato dal già citato Richard Leakey, figlio di Louis Leakey, aveva capacità cranica di 850 cm3. Il primo esemplare di Homo erectus era però stato rinvenuto a Giava nel 1891 dall'olandese Eugene Dubois (1858-1940), che lo aveva battezzato Pithecanthropus erectus ("uomo scimmia eretto"). Normalmente ritenuto un discendente di habilis, la scoperta di due crani fossili ritrovati in Kenya nei pressi del lago Turkana nel luglio 2007 può modificare questa convinzione: i resti, infatti, appartengono a un homo erectus e ad un homo habilis, e sono coevi; il che farebbe pensare che le due siano specie sorelle, che hanno convissuto a lungo nello stesso habitat. Gli studi su questi crani sono tuttora in corso.
Nelle numerose testimonianze rinvenute sono evidenziate alcune differenze che fanno distinguere nell'Homo erectus almeno 6 o 7 sottospecie. L'Homo erectus si diffuse infatti non solo in Africa, ma anche in Europa ed in Asia Settentrionale: fu insomma il primo a compiere lunghe migrazioni. L'ampia diffusione in territori così vasti e distanti produsse individui con diversa evoluzione che portò, in alcuni esemplari ritrovati da Dubois a Ngandong nell'isola di Giava (da cui il nome di "Uomo di Giava"), una capacità cranica di 1300 cm3 con un'altezza di poco inferiore a 170 cm. Aveva grandi arcate sopraorbitali, fronte assai rientrante, naso piccolo e largo, mascelle prominenti e mento praticamente assente. Dalla forma del femore, lungo e simile a quello dell'uomo moderno, si deduce che l'Homo erectus avesse un'andatura eretta, molto simile a quella dell'uomo attuale.
Era già in grado di costruire più avanzati utensili di pietra, che furono trovati a Giava negli stessi siti che contenevano le ossa, ed erano tagliati solo ad un'estremità; ma non è tutto. Circa 500 mila anni fa (ore 23.01.36) l'Homo erectus cominciò ad utilizzare il fuoco per uso domestico e per difesa, fissando una tappa fondamentale nell'evoluzione della specie umana. Infatti a partire dal 1927 presso Choukoutien, vicino alla città di Pechino, il grande archeologo e teologo gesuita Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955) ritrovò tracce di cenere, carbone ed ossa bruciate insieme a resti di Homo erectus che non lasciavano dubbi sul fatto che questi abbia usato il fuoco coscientemente, inizialmente conservando quello prodotto dai fulmini, e poi ottenendolo con pratiche rudimentali. Questa sottospecie è stata denominata Homo erectus pekinensis, più conosciuta come sinantropo o Uomo di Pechino.
Presso la località francese detta Terra Amata, vicino alla città francese di Nizza, l'archeologo Henry de Lumley (1934-vivente) ha scoperto tracce di un insediamento di circa 350 mila anni fa (ore 23.19.07) dove l'Homo erectus aveva costruito una grossa capanna facendo uso anche di pietre per rinforzare le pareti. Il sito di ritrovamento era ricco anche di utensili di pietra e schegge, il che fece ipotizzare che il luogo venisse usato anche come una piccola officina per la loro fabbricazione. Sempre nella località di Terra Amata sono stati trovati molti resti di rinoceronte Lanoso, che sicuramente egli cacciava ed abbatteva.
Un gruppo di studiosi dell'Università di Toronto e dell'Università ebraica di Gerusalemme, al quale ha partecipato anche l'archeologo italiano Francesco Berna, che lavora negli Stati Uniti presso la Boston University, ha dimostrato nel 2012 che Homo erectus cominciò ad utilizzare il fuoco già un milione di anni fa (ore 22.00.12), ben 300 mila anni prima di quanto finora ipotizzato. Nella caverna di Wonderwerk, in Sudafrica, ai bordi del deserto del Kalahari, già teatro in passato di straordinarie scoperte archeologiche, sono stati rinvenuti resti microscopici di legno bruciato insieme a frammenti di ossa carbonizzate e strumenti in pietra. Le analisi mostrano che questi materiali sono stati bruciati sul posto, e non possono essere stati trasportati nella caverna dal vento o dall'acqua. Il fuoco, acceso con erbe, ramoscelli e foglie, potrebbe essere stato usato per cuocere il cibo, probabilmente carne, come suggeriscono i resti delle ossa. Secondo gli autori dello studio si tratta della prima prova inconfutabile di combustione intenzionale, ed è coerente con l'ipotesi secondo cui l'Homo erectus fu il primo ominide ad adottare una dieta a base di cibi cotti.
La recente scoperta del bacino femminile meglio conservato di Homo erectus ha gettato una luce nuova su un passaggio fondamentale dell'evoluzione del genere Homo, e precisamente in che modo è avvenuto l'adattamento a partorire neonati con un cranio di maggiori dimensioni. La ricostruzione del bacino, scoperto nel 2001 nel sito di Afar in Etiopia e risalente a 1,2 milioni di anni fa, ha infatti portato i paleoantropologi dell'Indiana University di Bloomington, guidati da Sileshi Semaw (1960-vivente), a stabilire che il canale del parto di questo nostro antenato fosse del 30 % più ampio di quello attribuito a un reperto risalente a 1,5 milioni di anni fa, appartenuto a un giovane individuo di sesso femminile scoperto in Kenya. Altre caratteristiche anatomiche, come la bassa statura associata a una corporatura robusta, fanno pensare che questi ominidi fossero adattati ai climi temperati, a differenza di quelli più alti e snelli che si evolsero successivamente. Tale struttura fisica rappresentava senz'altro un vantaggio nella corsa sulle lunghe distanze, grazie alla possibilità di mantenere costante la temperatura del corpo. Tuttavia un bacino più stretto sarebbe stato meno adatto a dare origine a una progenie con dimensioni craniche maggiori. La nuova scoperta ci aiuta a comprendere come probabilmente i piccoli di Homo erectus avessero già sviluppato un cranio di dimensioni ragguardevoli, tale da giustificare la complessità degli atti che l'Homo erectus compiva. Questi ultimi dovevano essere sicuramente insegnati e tramandati con azioni e gesti esemplificativi, per cui proprio allora nacquero le basi del linguaggio, probabilmente imitando per primi i suoni della natura.
Le incisioni geometriche sono considerate da sempre un segno di capacità cognitive evolute, tipiche cioè di Homo sapiens. Ma i primi a incidere questo genere di decorazioni non sarebbero stati i nostri antenati più diretti, bensì proprio gli Homo erectus. Così si inferisce dalla scoperta sull'isola di Giava di conchiglie fossili decorate con uno schema a zig zag già in un'epoca compresa tra 540.000 e 430.000 anni fa (dalle 22.56.56 alle 23.00.47). La scoperta la dobbiamo a Josephine Joordens, dell'Università di Leida, nei Paesi Bassi; essa dimostrerebbe la presenza di una capacità cognitiva di alto livello già nell'uomo di Giava, la popolazione di Homo erectus che all'epoca abitava nella regione. Dal sito di Trinil, il già citato Eugène Dubois aveva riportato in Europa anche un gran numero di fossili di conchiglie d'acqua dolce appartenenti a 11 specie diverse, che oggi sono conservate presso il Museo di Storia Naturale dell'Università di Leida. Proprio su queste conchiglie si è concentrata l'analisi di Joordens e colleghi, i quali hanno scoperto la presenza su di una conchiglia di uno schema di scanalature a zig zag, che secondo gli autori è stato prodotto con un oggetto appuntito, come un dente di squalo. Joordens e colleghi sottolineano che finora non erano note incisioni geometriche precedenti a 300.000 anni fa (delle 23.24.58): spetterebbe dunque all'uomo di Giava la paternità del primo schema geometrico inciso volontariamente, che implicherebbe la presenza già in questa specie delle capacità cognitive e di controllo neuromotorio necessarie per quella attività. Un'altra traccia di modifica intenzionale è stata inoltre trovata su un'altra conchiglia, che mostra un bordo molto liscio e consumato, il che indica che potrebbe essere stato utilizzata come strumento per tagliare o scorticare animali.
A Ngangong (isola di Giava), inoltre, l'Homo erectus ha lasciato tracce inequivocabili di cannibalismo praticato non solo per nutrirsi (cadaveri o nemici uccisi), ma per impossessarsi delle facoltà del morto. I resti ritrovati a Ngangong, infatti, sono quelli di crani senza altre parti del corpo e con il foro occipitale allargato, segno evidente del fatto che si trattava di nemici di cui, probabilmente, mangiavano il cervello, ponendo le basi di riti magici e religiosi, mentre, se avessero voluto semplicemente nutrirsi, si sarebbero limitati a fracassare i crani.
L'Homo erectus diede vita tra l'altro alla cosiddetta cultura abbevilliana, il cui nome deriva da Abbeville, città della Francia meridionale presso cui sono state trovate per la prima volta testimonianze abbondanti di questo momento della preistoria dell'uomo. È detta anche amigdaliana, essendo caratterizzata dalla lavorazione di selci in forma di amigdala, cioè di mandorla. In Italia la presenza dell'Homo erectus è testimoniata dal sito di Isernia La Pineta, in Molise, scoperto nel 1978 e risalente a circa 700.000 anni fa. La superficie del giacimento è letteralmente ricoperta di ossa di animali (crani di rinoceronte, zanne di elefante, corna di bisonte...) la cui disposizione è ritenuta intenzionale, ed avrebbe costituito il primo tentativo di bonificare un suolo fangoso, più volte invaso dalle alluvioni di un vicino corso d'acqua.
All'Homo erectus e a tutte le altre forme di Homo precedenti viene attribuito anche il termine di arcantropi, per distinguerli dalle specie evolutesi successivamente: paleantropi per indicare l'Homo neanderthalensis e neantropi riferito all'uomo moderno.
L'Homo antecessor
L'Homo antecessor ("predecessore" o "pioniere") fu il primo abitatore conosciuto dell' Europa occidentale, come testimoniano le ossa ritrovate nel sito spagnolo di Gran Dolina e datati a 780.000 anni fa (alle 22.28.54). Tuttavia sulla sua stessa esistenza come specie autonoma sono in corso accesi dibattiti: alcuni paleontologi inseriscono Homo antecessor all'interno della specie Homo heidelbergensis, che visse nelle stesse zone 300.000 anni più tardi, considerandolo una forma più arcaica. Fisicamente Homo antecesor mostra una mescolanza tra tratti arcaici nelle orbite, nel naso e nella dentizione, e tratti più moderni con un cranio che ha caratteristiche intermedie tra Homo heidelbergensis, erectus ed ergaster. Taluni ipotizzano che si tratti di popolazioni provenienti dal Nordafrica, spostatesi via mare e sviluppatesi autonomamente nell'Europa meridionale. Secondo altri invece sarebbe nato da Homo ergaster in Africa, e poi sarebbe migrato in Europa attraverso il Medio Oriente: qui avrebbe dato origine a Homo heidelbergensis, che poi a sua volta avrebbe generato Homo neanderthalensis. Nel frattempo, l'antecessor rimasto in Africa si sarebbe evoluto nel moderno Homo sapiens; saremmo quindi di fronte all'ultimo antenato comune tra l'uomo di Neanderthal e l'Homo sapiens. Ma è ancora impossibile ricostruire con certezza un albero genealogico esatto del genere Homo, e le polemiche tra gli scopritori dei vari fossili non aiutano certo a gettare luce sulla questione.
Associati ai fossili di Homo antecessor sono state trovate ossa di orsi, cavalli, bisonti, linci, cinghiali, roditori e cervi di cui probabilmente, oltre a primitivi manufatti in pietra come punte di lancia e raschiatoi di selce. In particolare, uno strato ha rilasciato strumenti litici molto primitivi costituiti da semplici frammenti scheggiati fabbricati in loco. A volte questi strumenti sono mescolati con ossa umane, il che potrebbe indicare delle forme di cannibalismo.
Nick Ashton, del British Museum, ha compiuto a questo proposito una scoperta eccezionale, rinvenendo circa 50 orme presumibilmente lasciate da una famiglia umana su di una spiaggia di Happisburgh, presso Norfolk, sulla costa orientale inglese, forse in cerca di molluschi, alghe e granchi. Ashton pensa che si trattasse di due maschi adulti di una taglia non tanto diversa da quella di un uomo del nostro tempo, di due donne, di cui una molto giovane, e di tre o quattro ragazzi; le orme risalgono a un periodo compreso tra 950 mila e 850 mila anni fa (tra le 22.00.02 e le 22.20.43), e risultano le orme umane più antiche del continente europeo. « Il sito di Happisburgh continua a riscrivere le nostre conoscenze a proposito delle prime tracce umane in Gran Bretagna e in Europa », ha dichiarato un entusiasta Ashton, visto che nel 2010 Happisburgh era già diventato famoso per aver restituito i resti di utensili di pietra e fossili di mammut, che testimoniavano la presenza umana intorno a 800 mila anni fa (ore 22.26.34). E infatti « dovremo ripensare le nostre conoscenze e rivedere le nostre sicurezze », ha aggiunto il professor Chris Stringer, antropologo britannico esperto di evoluzione umana umana della Queen Mary University di Londra. In quell'epoca, per un insieme di ragioni, nelle isole britanniche vi era un clima favorevole per la vita umana. Le impronte sono state rilevate su un terreno lasciato scoperto dalla bassa marea; l'orma meglio preservata apparteneva sicuramente a un individuo con una taglia di piede corrispondente a un'altezza di un metro e settanta circa. È probabile che quei solchi sulla spiaggia siano da attribuire proprio alla specie Homo antecessor. Fino al 2001 gli archeologi facevano risalire la presenza umana in questa zona a 500 mila anni fa (alle 23..00.36); il limite poi si spostò nel 2005, grazie ai ritrovamenti di Suffolk che suggerivano una presenza dell'uomo già 700 mila anni fa (alle 22.38.14). Ora il limite temporale si sposta ulteriormente, e le orme di Happisburgh diventano, in ordine cronologico, le terze impronte più vecchie mai scoperte, dopo la famosa "camminata di Laetoli", che raggiunge i 3,5 milioni di anni fa (le 17.11.12).
La dieta degli ominidi
Che cosa mangiavano i nostri più antichi antenati? Australopithecus aveva gusti più variegati di Homo, che a sua volta aveva una dieta più varia di Paranthropus. La scoperta l'ha compiuta un gruppo di ricercatori dell'Università di Witwatersrand a Johannesburg, dell'Ecole Normale Supérieure di Lione e dell'Università Paul Sabatier di Tolosa. Per arrivare alle loro conclusioni, gli scienziati hanno condotto un'analisi dei denti fossili, andando alla ricerca delle firme isotopiche di elementi chiave rilevabili in tracce nello smalto, in particolare stronzio e bario, che dopo essere stati ingeriti si accumulano nei tessuti animali, denti compresi. Infatti i livelli di questi elementi diminuiscono via via che si sale nella catena alimentare. Grazie a un dispositivo di ablazione laser, che ha permesso di testare piccolissime quantità di materiale fossile, seguendo i prismi di accrescimento dello smalto dentale, è stato possibile ricostruire i cambiamenti dietetici per ogni singolo ominide.
Ebbene, dai dati raccolti risulta che Paranthropus avrebbe avuto la dieta più specializzata, basata esclusivamente su vegetali, mentre Homo sarebbe già stato ai vertici della catena alimentare con indici isotopici quasi indistinguibili da quelli dei carnivori: un fatto che, secondo i paleontologi, potrebbe aver contribuito all'aumento delle dimensioni del cervello. Sia pur consumandone meno, neanche Australopithecus disdegnava la carne, a integrazione di una dieta che comprendeva sia frutti di piante legnose, sia foglie, secondo una composizione che sembra variasse stagionalmente. Naturalmente occorre mettersi d'accordo su ciò che si intende per "carne", o meglio per "proteine di origine animale". Non è infatti da escludere che la fonte di queste proteine fosse molto diversa da quella cui pensiamo oggi, e fosse in realtà costituita in misura non indifferente da insetti!
L'Homo heidelbergensis
Nel distretto di Heidelberg, in Germania, nel 1907 è stata scoperta una mascella sul modello di quella dell'Homo erectus, e risalente alla fine del periodo durante il quale l'erectus visse sulla Terra; oggi è stata catalogata come Homo heidelbergensis. A questo gruppo apparterrebbe anche l'Homo rhodesiensis, descritto a partire da un cranio ritrovato nel 1921 dal minatore svizzero Tom Zwiglaar in una miniera di ferro e zinco a Kabwe, allora in Rhodesia ed oggi nello Zambia. Il paleontologo Tim White ritiene che l'Homo rhodesiensis sia l'antenato il più diretto antenato dell'Homo sapiens idaltu, a sua volta all'origine dell'Homo sapiens moderno. Questi iniziò a diffondersi circa 450 mila anni fa (ore 23.07.26), quando ancora viveva l'Homo erectus. La calotta cranica ritrovata nel 1965 a Vertesszollos, vicino Budapest, con una capacità di 1400 cm3, evidenzia l'appartenenza ad una specie più evoluta rispetto agli arcantropi precedenti.
Anche i successivi ritrovamenti dello stesso tipo, databili da 250 mila a 200 mila anni fa (ore 23.30.48 - 23.36.38) a Murr vicino Stoccarda ed a Swanscombe sul fiume Tamigi, nella regione del Kent in Inghilterra, sono caratterizzati da un'ampia calotta e da zigomi ed orbite meno prominenti di quelli dell'Homo erectus.
I paleoantropologi Fabio di Vincenzo, dell'Istituto Italiano di Paleontologia Umana, e Giorgio Manzi, del Dipartimento di Biologia Ambientale dell'Università La Sapienza di Roma, hanno di recente avanzato un'ipotesi che assegna un ruolo importante a questo ominide, nell'albero genealogico dell'evoluzione umana. La storia naturale del genere Homo sarebbe infatti caratterizzata da almeno due radiazioni abitative, cioè da due distinte distribuzioni geografiche alla conquista del mondo. La prima di queste radiazioni, nota anche come OOA1 (Out Of Africa 1), avvenuta nel Paleolitico Inferiore, potrebbe essere stata all'origine del primo popolamento dell'Europa da parte di Homo antecessor, dell'evoluzione in Africa di Homo ergaster e di quella in Asia di Homo erectus (con il possibile caso particolare dell'Homo floresiensis, di cui parleremo sotto). Questa prima ondata sarebbe avvenuta 900.000 anni fa. Ad essa sarebbe seguita una nuova espansione da parte di ominidi più evoluti, verso i 400.000 anni fa (23.13.17: OOA2, Out Of Africa 2), e sarebbe da ascrivere proprio all'Homo heidelbergensis, comparso forse in Africa 600.000 anni fa (22.49.55). Nel tempo questa seconda ondata si sarebbe differenziata in diverse popolazioni: in Africa sarebbe comparso il suddetto Homo rhodesiensis, che perciò andrebbe rinominato Homo heidelbergensis rhodesiensis, attestato anche in forme recenti come nel sito marocchino di Inhoud; in Europa l'Homo heidelbergensis steinheimensis, attestato nei siti spagnoli di Atapuerca e Sima de los Huesos; e in Asia l'Homo heidelbergensis daliensis, attestato in Cina a Dali e Jinniushan, cui potrebbe appartenere anche l'enigmatico Uomo di Denisova (vedi sotto). La morfologia di tutti questi fossili sembra suggerire il mantenimento di un legame genetico fra le popolazioni delle diverse aree; questa « Umanità di Mezzo » può essere dunque vista come un'unica grande specie frazionata in sottospecie, mantenuta coesa da fenomeni di flusso genetico, ma differenziata al suo interno in varietà geografiche e cronologiche, in concomitanza con bruschi cambiamenti climatici (i periodi glaciali ed interglaciali). Questa visione dell'evoluzione umana spodesta Homo erectus dal suo ruolo di antenato comune di tutti gli Homo successivi, facendone una strada senza uscita dell'evoluzione, che si sarebbe mantenuta nel Sudest asiatico quando già gli heidelbergensis avevano occupato quasi tutto il continente antico. Qui sopra è visibile un'animazione della possibile evoluzione umana secondo di Vincenzo e Manzi.
Prototipo dell'Homo heidelbergensis è il cranio di Ceprano, ritrovato il 13 narzo 1994 in località Campogrande, nel Lazio meridionale, lungo le rive di un lago fossile il cui immissario era l'attuale fiume Sacco. Si pensa che esso risalga ad un periodo compreso fra 430.000 e 385.000 anni fa (tra le 23.00.47 e le 23.15.02), un periodo di clima temperato, durante il quale il grande lago che occupava il bacino di Ceprano si stava ritirando e lasciava il posto a zone paludose. « La morfologia del fossile di Ceprano non sembra avere corrispettivi ad esso contemporanei in nessuna parte del continente europeo », ha dichiarato Manzi. « Alcuni dei suoi tratti sono arcaici e simili a quelli di Homo erectus in Asia e di Homo ergaster in Africa, ma al tempo stesso parecchi caratteri discreti avvicinano il cranio italiano alla variabilità degli esseri umani del Pleistocene Medio, cioè a Homo heidelbergensis. Infine l'Uomo di Ceprano non mostra alcun carattere derivato in senso neanderthaliano, e appare più simile ai fossili contemporanei africani che a quelli europei ». Si tratta dunque di un mosaico di caratteristiche arcaiche ed evolute, africane ed eurasiatiche, che sembra documentare un popolamento ancestrale di Homo heidelbergensis, dando forza all'ipotesi di una duplice ondata di popolamento del Continente Antico.
Tra l'altro, già migliaia di anni prima della comparsa dell'uomo di Neanderthal i nostri antenati cacciavano in gruppo, così ben organizzati da riuscire ad abbattere animali grandi come l'elefante preistorico. A scoprirlo sono stati gli archeologi dell'Università di Southampton, grazie a uno studio portato avanti nel sito di Ebbsfleet, nel Kent (Regno Unito). Il ritrovamento più affascinante nelle profonde stratificazioni di depositi, datati 420.000 anni fa (ore 23.10.57), è stato lo scheletro di un elefante dalle zanne dritte (Paleoloxodon antiquus), una specie ormai estinta e grande il doppio dei suoi parenti africani. Non si tratta certo della prima carcassa di elefante rinvenuta in Europa, ma per la prima volta i ricercatori hanno trovato anche le prove che l'animale era stato cacciato e poi macellato. I resti erano infatti circondati da 80 artefatti in selce, semplici lame affilate del tipo conosciuto come Clactoniano, particolarmente adatte al taglio della carne, talvolta dotate anche di dentelli utili a perforare la spessa pelle degli animali. Questi manufatti, affermano i ricercatori, sono stati utilizzati per macellare l'elefante da un gruppo di almeno quattro uomini, e l'esemplare è decisamente troppo giovane per pensare che sia morto per cause naturali.
L'Homo heidelbergensis, dunque, basava parte della propria alimentazione sulla carne dei grandi erbivori e si era specializzato nella produzione di strumenti per poterli cacciare. Potrebbe sembrare impossibile che un piccolo gruppo di uomini armati di lancia riuscisse ad uccidere un pachiderma che pesa quanto quattro moderne automobili; eppure, già nel 1948 nel sito di Lehringen in Germania era stato rinvenuto lo scheletro di un giovane esemplare con una lancia infilata tra le costole. Nel sito di Ebbsfleet i ricercatori hanno trovato anche i resti di numerose altre specie come bovini, rinoceronti, leoni, bertucce, castori, conigli, lumache, arvicole e toporagni: una ricchezza in biodiversità che ha confermato quanto differente fosse la valle nel periodo interglaciale al quale sono stati datati i resti. Il clima in quell'area, infatti, era molto più caldo di quello attuale, e la zona era estremamente rigogliosa, ricca di vegetazione boschiva e acquitrini. La scoperta e la datazione dei reperti di Ebbsfleet hanno fornito chiarimenti anche sulle migrazioni dell'Homo heidelbergensis. La capacità di cacciare grandi mammiferi, suggeriscono gli autori dello studio, spiegherebbe come siano riusciti a sostentarsi durante quel lungo periodo di transizione climatica.
I baby cacciatori
Sono rimaste impresse nel fango di uno stagno, accanto ai resti di un ippopotamo, le impronte di un gruppo di bambini che 700.000 anni fa (alle ore 22.38.14) avevano accompagnato i genitori in una battuta di caccia. È questo il primo fotogramma dell'infanzia nella preistoria. La scoperta, avvenuta nel 2017, la dobbiamo ai nostri ricercatori dell'Università La Sapienza di Roma, coordinati da Margherita Mussi. I bambini di due e tre anni si muovevano intorno ai genitori, impegnati nel macellare la carcassa dell'ippopotamo, con schegge in pietra. Le loro tracce, scoperte in Etiopia, sono come una « foto di vita preistorica », ha dichiarato Flavio Altamura. L'istantanea mostra come i bambini dell'Homo heidelbergensis si addestrassero alla sopravvivenza. Per la prima volta ci sono impronte di bambini molto piccoli, che indicano la loro presenza costante anche quando gli adulti scheggiavano e macellavano.
Il ritrovamento eccezionale ha pochissimi precedenti. Si tratta di un livello perfettamente datato, perché direttamente coperto da un tufo vulcanico di 700.000 anni fa, denominato Gombore II-2, che è parte di Melka Kunture, una località dell'alto bacino del fiume Awash, a 2000 metri di altezza. Qui da anni si svolgono le campagne di ricerca finanziate dalla Sapienza e dal Ministero degli Affari Esteri. La zona scavata corrisponde a un'area intensamente frequentata, ai margini di una piccola pozza d'acqua in cui probabilmente si abbeveravano, oltre agli ominidi, anche gnu e gazzelle, nonché uccellini, equidi e suini; anche gli ippopotami hanno lasciato tracce dei loro passaggi. Le impronte delle varie specie si intersecano tra di loro e si sovrappongono a tratti a quelle degli esseri umani, individui in parte adulti e in parte di uno, due e tre anni. In particolare uno di questi bambini in tenera età propriamente non camminava, ma era in piedi e si dondolava: sua è l'impronta di un piede che calpesta ripetutamente il suolo, rimanendo appoggiato sui talloni. Ha quindi lasciato impressa una serie di piccole dita (più di cinque) in parte sovrapposte dalla ripetizione del movimento. Il sito conserva traccia di una serie completa di attività: scheggiatura della pietra (ossidiana e altre rocce vulcaniche) con la produzione di strumenti litici, e macellazione della carne di più ippopotami. C'erano dei carnivori, ma sono venuti solo dopo a cibarsi dei resti lasciati dagli ominidi. Infatti, i morsi dei carnivori sulle ossa si sovrappongono alle tracce lasciate precedentemente dagli strumenti di pietra che avevano tagliato la carne. Quindi il gruppo umano era in pieno controllo dell'ambiente.
« Gombore II-2 è importante non solo perché sono rari i siti con impronte umane, ma perché per la prima volta non abbiamo una semplice passeggiata come a Laetoli, ma invece un sito archeologico in cui sono documentate le attività quotidiane nel loro insieme », ha spiegato Margherita Mussi, coordinatrice dello scavo. « Inoltre, per la prima volta ci sono impronte di bambini molto piccoli, che indicano la loro presenza costante anche quando gli adulti scheggiavano e macellavano. Sappiamo anche di che specie di ominide si tratta, perché resti fossili di Homo heidelbergensis, l'antenato comune nostro e dei Neandertaliani, sono stati trovati a breve distanza, ma in un livello archeologico più antico, risalente a 850.000 anni fa. » Una scoperta veramente importante, di cui qui non potevamo fare a meno di parlare.
Il primo omicidio?
Due colpi secchi sulla fronte, il cranio spaccato, morte istantanea. Il fattaccio è avvenuto nel nord della Spagna, ma l'assassino è sconosciuto e non sarà mai consegnato alla giustizia, perché l'omicidio è avvenuto 430 mila anni fa (ore 23.00.47). Lo ha scoperto alla metà del 2015 un gruppo di ricercatori analizzando i resti di 28 individui rinvenuti negli ultimi vent'anni nella grotta di Sima de los Huesos. In particolare i paleontologi sono stati attirati dal Cranio 17, composto da 52 frammenti di ossa craniali: il teschio presenta due evidenti lesioni nell'osso frontale proprio sopra l'arcata sopraciliare. Utilizzando le moderne tecniche di analisi utilizzate dai criminologi, si è stati in grado di stabilire che le fratture sono state prodotte da due colpi distinti provocati dallo stesso oggetto.
Secondo gli autori dello studio non è possibile che le ferite possano essere state causate da una caduta accidentale nella grotta: Sima de los Huesos è accessibile solo attraverso un pozzo verticale alto 13 metri, e come siano arrivati laggiù i 28 corpi rimane tuttora un mistero. Tutto lascia quindi pensare che le ferite siano state volute e che il Cranio 17 rappresenti la prova del più antico omicidio della storia, avvenuto nel Pleistocene medio. Qualcuno ha poi buttato il suo corpo nel pozzo; Sima de los Huesos perciò potrebbe essere il sito di uno dei più antichi cimiteri della storia umana, dove vennero sepolti i corpi di diversi individui della specie Homo heidelbergensis. Un "cold case" della preistoria che non sfigurerebbe certo tra le indagini del programma « Chi l'ha visto? », anche se certamente non lo ha mai visto alcun Homo sapiens.
Le prime punte di lancia?
Forse i nostri antenati erano in grado di produrre punte di lancia in pietra già mezzo milione di anni fa (alle undici di sera di San Silvestro), quindi quasi 250.000 anni prima di quanto si credeva finora. Le più antiche punte di lancia sono state scoperte in un sito frequentato da Homo heidelbergensis: finora non c'era nessuna prova che esso padroneggiasse la tecnologia per mettere insieme questi strumenti. « È un po' come se avessimo trovato un iPod in un sito archeologico dell'Impero Romano », ha commentato il paleoantropologo John Shea. Un cacciatore preistorico, per poter fissare una lama ad un manico con una tecnica definita immanicatura, doveva riuscire a fissare una lama di pietra su un'asta di legno con dei tessuti vegetali o animali, come dei tendini, e sigillare il tutto con resine naturali. Inoltre, la lavorazione della resina presuppone una certa padronanza del fuoco necessario a scioglierla, ha spiegato Shea. La lancia poi doveva essere dotata di una certa robustezza, « per non morire la prima volta che la si usava, magari contro un grande bufalo africano ».
Una lama tagliente fissata ad un manico « riesce a causare un danno maggiore, aumentando il sanguinamento e quindi una morte più rapida della preda », ha aggiunto Jayne Wilkins, antropologa della Toronto University e autrice della nuova ricerca. Rendendo la caccia più efficiente le lance « determinano un accesso più regolare e affidabile alla carne ». E gli scienziati sono concordi che un apporto maggiore di carne significò un aumento nelle dimensioni del cervello umano: « non si è trattato solo di un aumento dei tessuti cerebrali, ma anche di una vera e propria espansione intellettuale ». Infatti il processo di immanicatura richiede, prima fra tutte, una certa capacità di previsione, e poi per poter spiegare ai propri simili come immanicare, quasi sicuramente si deve saper comunicare, o meglio parlare. Secondo Shea, « non c'è dubbio che il processo di immanicatura necessiti del linguaggio. Non è un'operazione che può venire insegnata solo tramite imitazione ». L'idea che Homo heidelbergensis possedesse un linguaggio non è rivoluzionaria, visto che è l'ultimo antenato che abbiamo in comune con l'Uomo di Neanderthal.
Gli strumenti in pietra, che recano segni e fratture d'impatto sulle punte e altre tracce alla base, furono rinvenute nel 1980 a Kathu Pan, un sito nel deserto del Kalahari. Fino al 2010 però gli studiosi non erano ancora stati in grado di datare i sedimenti che contenevano i reperti. Ma anche allora « non eravamo certi della loro funzione », ha dichiarato la Wilkins, « visto che, anche se potevano sembrare delle punte di lancia, in realtà potevano essere state utilizzate come raschiatoi o come coltelli ». Per farlo, gli studiosi hanno prodotto delle repliche degli strumenti ritrovati a Kathu Pan e poi le hanno conficcate nelle carcasse di alcune piccole antilopi. Le analisi al computer hanno successivamente confermato le fratture subite dalle repliche in seguito all'impatto con le carcasse erano identiche a quelle riscontrate sugli strumenti originali.
L'età delle punte rimane però una questione dibattuta: infatti, se fossero veramente così antiche, perché non ne sono mai state ritrovate altre in siti più recenti? Il periodo compreso tra i 500.000 e i 250.000 anni fa è sufficientemente ricco di testimonianze archeologiche. Tuttavia, come ha illustrato Shea, non sono mai stati trovati strumenti simili in nessun altro sito. Forse, la tecnologia andò perduta, per poi venire riscoperta qualche migliaio di anni dopo. « Certo è che questa è una tecnica così complessa che difficilmente può svanire completamente ». Inoltre, secondo Shea, negli altri siti di Homo heidelbergensis a questo punto non mancherebbero solo punte di lancia, ma anche altri oggetti. « Infatti, se erano in grado di ottenere delle colle naturali, allora dovevano essere in grado di produrre sostanze e oggetti più complessi, magari anche ceramici ». Oltre alle lance, per esempio si dovrebbero trovare altri strumenti come asce, con punte di pietra e manici.
Datare Kathu Pan non è affatto facile. Come ha spiegato Michael Chazan della Toronto University e coautore dello studio, « non ci sono molti metodi affidabili per datare questo sito ». Il metodo del radiocarbonio, per esempio, non è applicabile su manufatti così antichi, e anche il metodo del potassio-argo non è efficace, visto che può datare solo rocce vulcaniche, totalmente assenti a Kathu Pan. I ricercatori hanno allora usato la risonanza di spin elettronico per datare dei resti di zebra trovati vicini ai manufatti e risalenti a circa 500.000 anni fa. I sedimenti in cui erano conservati gli strumenti sono invece stati analizzati con la termoluminescenza, una tecnica che consente di determinare quanto tempo è passato dall'ultima volta che l'oggetto o i sedimenti hanno assorbito energia solare. Tuttavia, come ammettono gli stessi autori, questa metodologia può comportare vari errori soprattutto sulla base delle conoscenze geologiche dell'area. Si attendono conferme da studi ulteriori.
La "collezione" di fossili di Atapuerca
Del resto anche l'analisi comparativa di 17 crani risalenti al medio Pleisticene rinvenuti nel sito di Sima de los Huesos, nella Sierra di Atapuerca, in Spagna, ha rivelato che il quadro delle prime popolazioni europee era molto complesso. « Ciò che rende unico il sito di Sima de los Huesos è l'accumulo straordinario e senza precedenti di fossili di ominidi; niente di paragonabile è mai stato scoperto per qualsiasi specie estinta di ominidi », ha detto Juan-Luis Arsuaga dell'Universidad Complutense di Madrid. Dal 1984 da questo sito sono stati infatti estratti quasi 7000 fossili umani corrispondenti a tutte le parti dello scheletro di almeno 28 individui. La straordinaria collezione comprende 17 crani, molti quasi completi, sei dei quali sono stati descritti per la prima volta nel corso di questo studio. Questi crani eccezionalmente conservati appartengono tutti a un'unica popolazione, vissuta circa 430.000 anni fa (alle ore 23 del 31 dicembre), che mostra alcune caratteristiche tipiche degli Uomini di Neanderthal, mentre altre sono associate a ominidi più primitivi.
« Il Medio Pleistocene fu un periodo lungo circa mezzo milione di anni durante il quale l'evoluzione degli ominidi non seguì un lento processo di cambiamento, con un solo tipo di ominide che si è evoluto tranquillamente verso l'Uomo di Neanderthal », ha spiegato Arsuaga. Il processo che ha portato ai Neanderthal, che avrebbero dominato l'Europa fino all'arrivo dell'uomo anatomicamente moderno, sarebbe stato cioè "a mosaico", con modificazioni delle varie strutture anatomiche, come l'apparato mandibolare e la teca cranica, in momenti successivi ben distinti e in misura diversa a seconda dei gruppi. In particolare, mentre la teca cranica sembrerebbe avvicinare gli ominidi di Sima all'Homo heidelbergensis, le caratteristiche decisamente neanderthaliane di tutto l'apparato masticatorio portano in un'altra direzione, dato che nessun fossile di Homo heidelbergensis dei diversi siti in cui sono stati rinvenuti presenta nulla di simile. A rendere più complesso lo scenario, l'analisi del DNA mitocondriale recentemente recuperato da uno dei fossili di Sima mostra differenze genetiche da quello neanderthaliano, avvicinandolo piuttosto all'Uomo di Denisova, che ha popolato parte delle regioni euroasiatiche e di cui parleremo in seguito.
Secondo gli autori, questi risultati inducono a pensare che quella di Sima de los Huesos sia stata una popolazione vissuta in un momento molto prossimo alla scissione di queste due linee eurasiatiche. I fossili di Sima non devono necessariamente essere alcuni dei "primissimi Neanderthal": pur essendo sicuramente molto vicini a essi, potrebbero essere uno degli svariati gruppi che, isolati e dispersi, si sono diversificati a partire dagli ominidi più antichi, per rimanere poi vittime di uno dei numerosi "incidenti" demografici, probabilmente legati alle crisi climatiche, che hanno caratterizzato il medio Pleistocene europeo (viene in mente il racconto del Diluvio Universale). Anche in questo caso si attendono ulteriori sviluppi da nuove analisi della sorprendente "collezione" di Atapuerca.
L'enigma del Paleolitico indiano
Alcuni ritrovamenti nel sito paleolitico di Attirampakkam, non lontano da Chennai (nota in età coloniale come Madras) nello stato indiano del Tamil Nadu, compiuti da archeologi dello Sharma Centre for Heritage Education a Mylapore insieme a ricercatori dell'Università del Gujarat ad Ahmedabad, suggeriscono che in India si sia sviluppata una cultura paleolitica evoluta ben 385.000 anni fa (alle 23.15.02), molto prima di quanto finora ritenuto. Tuttavia non ci sono reperti umani in prossimità dei manufatti scoperti, e quindi non è ancora chiaro se quella cultura sia da attribuire a popolazioni di ominidi arcaici giunti nel subcontinente indiano oltre un milione e mezzo di anni fa, oppure sia stata acquisita da gruppi di umani moderni arrivati anch'essi in quella regione. In quest'ultimo caso, la cronologia delle migrazioni umane moderne al di fuori dell'Africa andrebbe radicalmente rivista. Secondo il classico modello della diffusione umana, infatti, le prime migrazioni dell'uomo moderno al di fuori del continente sarebbero avvenute tra 120.000 e 90.000 anni fa (tra le 23.45.59 e le 23.49.29), anche se di recente alcune ricerche hanno suggerito che vadano retrodatate almeno a quasi 200.000 anni fa (alle 23.36.38).
L'India è ricca di siti archeologici paleolitici, ma in tutti questi siti sono stati trovati solo manufatti litici e nessun reperto fossile di ossa umane, a eccezione del cosiddetto cranio di Narmada risalente ad almeno 235.000 anni fa (alle 23.32.33). Vari di questi reperti sono databili al Paleolitico inferiore, fra cui alcuni strumenti litici venuti alla luce proprio ad Attirampakkam risalenti a un milione di anni fa circa (alle ore 22 circa). Si tratta di amigdale scheggiate simmetricamente a mandorla e punte e raschiatoi ottenuti con la tecnica tipica della cosiddetta cultura acheulana, che furono prodotte probabilmente da Homo erectus, che iniziò a uscire dall'Africa in epoche molto remote, si stima già a partire da 1,7 milioni di anni fa (alle 20.41.26). I circa 7000 manufatti in pietra provenienti da Attirampakkam mostrano però di essere stati ottenuti con una tecnica più sofisticata, detta levalloisiana, che prevedeva più fasi di lavorazione della pietra da cui si dovevano ricavare gli strumenti. La comparsa di questa tecnica finora era stata associata a insediamenti europei neanderthaliani e africani di umani moderni, risalenti approssimativamente allo stesso periodo dei manufatti di Attirampakkam. Se la datazione sarà confermata, si apriranno scenari davvero imprevisti per la paleontologia del genere Homo.
Mentre l'Homo heidelbergensis rhodesiensis rimasto in Africa sarebbe stato l'antenato dell'Homo sapiens, e quindi di tutti noi uomini moderni, l'Homo heidelbergensis steinheimensis avrebbe avuto una struttura più massiccia delle ossa; l'evoluzione della capacità cranica avrebbe portato all'affermazione di una nuova specie di Homo: l'Homo neanderthalensis (o uomo di Neanderthal), cosiddetto dalla grotta di Feldhofer a Neanderthal, nei pressi di Düsseldorf, dove fu riportato alla luce per la prima volta nel 1856 da Johann Fuhlrott (1803-1877). Questo fu il primo ritrovamento nella storia di ossa umane che però non appartenevano alla nostra specie e, come c'era da immaginare, furono oggetto di controversie per decenni: ci fu chi vi volle vedere semplicemente il cranio di un uomo deforme; il dottor Rudolf Wagner (1805-1864) di Göttingen lo definì il "cranio di un olandese vecchiotto", Josef Karl Mayer (1787-1865) di Bonn lo attribuì ad un cosacco che inseguiva l'armata di Napoleone in ritirata (ma non si è accorto di quanto era antico?), ed il rinomato Rudolf Virchow (1821-1902) pontificò che si trattava addirittura di un uomo che aveva sofferto di rachitismo nell'età infantile, di artrite in vecchiaia, e che per giunta aveva preso anche un brutto colpo in testa! Tutto questo sembra dar ragione ai versi del Faust di Goethe:
« Daran erkenn ich den gelehrten Herrn! / Was ihr nicht tastet, steht euch meilenfern; / was ihr nicht faßt, das fehlt euch ganz und gar; / was ihr nicht rechnet, glaubt ihr, sei nicht war; / was ihr nicht wägt, hat für euch kein Gewicht; / was ihr nicht münzt, das, meint ihr, gelte nicht! » (Faust, parte II, atto I. Traduzione: « In ciò riconosco i nostri signori dotti! Quello che non toccate, vi è lontano miglia; quello che non afferrate, non esiste affatto per voi; quello che voi non potete calcolare, credete che non sia vero; quello che non pesate, non ha per voi peso alcuno; quello che voi non coniate, credete non abbia alcun valore! »)
Ma torniamo all'uomo di Neanderthal. Esso visse in Europa durante l'ultima glaciazione, iniziata circa 70 mila anni fa (ore 23.51.49), anche se resti fossili di questa specie sono stati ritrovati, seppure con minore frequenza, anche in Medio Oriente e nell'Africa settentrionale. La sua presenza è stata documentata anche in Italia in aree come quella dei monti Lessini in Veneto, in Liguria, in Toscana, nel Lazio e in Puglia. Era alto non più di 160 cm, ma molto muscoloso; il collo era tozzo ed il suo cranio era largo, basso e rientrante, con forte prognatismo, arcate sopraccigliari ancora piuttosto sviluppate e con bozze frontali molto accentuate e sporgenti; la struttura tarchiata era progettata apposta per resistere ai rigori delle glaciazioni pleistoceniche. La capacità cranica raggiungeva i 1350 cm3; viveva nelle caverne, era nomade, usava il fuoco per riscaldarsi, cacciava grossi animali come mammut e rinoceronti, sapeva fabbricare raschietti, asce di pietra e arpioni di legno ed acquisì una notevole tecnica nella lavorazione della pietra scheggiata. Questa è quella a cui è stato dato il nome di cultura musteriana, dalla grotta di Le Moustier, nei Pirenei francesi. Una ricerca compiuta nel 2012 dal paleontologo José Yravedra dell'Università Complutense di Madrid ha dimostrato che i Neanderthal vissuti 84.000 anni fa (ore 23.50.11) sulle rive del Manzanares (il Manzanarre citato nel « 5 maggio » di Manzoni), fiume che oggi attraversa Madrid, cacciavano persino elefanti, cibandosi anche del midollo osseo dei pachidermi (molto probabilmente si trattava di mammut). Gli scavi nel sito di Preresa, nella regione madrilena presso Getafe, hanno rinvenuto ossa con segni di tagli per ottenere la carne e percussioni per estrarre il midollo: in tutto sono state rinvenute 82 ossa di elefante e 754 pietre-utensili in un'area di 255 metri quadrati.
Appartenevano alla specie dell'uomo di Neanderthal anche gli antichi abitanti della Sierra di Atapuerca, in Spagna, i cui resti fossili sono stati scoperti nel 1997 nel sito di Sima de los Huesos, uno dei veri e propri "paradisi" per i paleontologi europei. A dimostrarlo è stato un gruppo di ricercatori del Max Planck Institut per la biologia evoluzionistica di Lipsia, e dell'Universidad Complutense di Madrid. I resti trovati a Sima de los Huesos appartengono a 28 individui vissuti circa 430.000 anni fa (ore 23.00.47), che erano imparentati con i Neanderthal tipici dell'Eurasia occidentale. I reperti archeologici trovati vicino alle ossa e la struttura anatomica dell'uomo di Sima portarono subito a pensare che appartenesse al lignaggio da cui si svilupparono i Neanderthal, ma una successiva analisi del DNA mitocondriale estratto da alcune ossa sembrava mettere in dubbio questa ipotesi, indicando una vicinanza più stretta con l'uomo di Denisova. Matthias Meyer, Svante Pääbo e colleghi sono ora riusciti a estrarre da due campioni di ossa fossili anche del DNA nucleare, la cui analisi ha chiaramente indicato che questi ominidi appartengono alla linea evolutiva dei Neanderthal e che, quindi, la divergenza fra neanderthaliani e denisoviani deve essere avvenuta prima di 430.000 anni fa. D'altra parte lo studio ha anche confermato la presenza di un DNA mitocondriale simile a quello dell'uomo di Denisova. Ciò ha indotto gli autori a ipotizzare che quel DNA mitocondriale sia stato acquisito dall'uomo di Sima in una fase successiva, forse in seguito a un flusso genico proveniente direttamente dall'Africa, come è suggerito anche da alcuni indizi archeologici, come i tempi di diffusione di particolari varianti dell'industria litica.
E non è tutto: come vedremo, il Neanderthal era probabilmente capace di parlare e di avere pensieri astratti, contrariamente a quanto credevano molti scienziati fino a poco tempo fa: per esempio, inumavano i loro morti (abbiamo ritrovato molte loro tombe perfettamente intatte) e fabbricavano amuleti, segno probabile del fatto che credevano in un'entità superiore ed in una vita dopo la morte. Altro che primitivi selvaggi spazzati via dalla civiltà!
Il cervello Neanderthal
Del resto, che il cervello Neanderthal fosse assai più evoluto di quanto i paleontologi pensassero fino a non molto tempo fa, ingannati dal suo aspetto per così dire "arcaico", lo dimostra la recente, incredibile scoperta di antichissimi "gioielli" neanderthaliani, compiuta da un gruppo di archeologi guidati da João Zilhão dell'Università di Bristol. Questi monili preistorici, recuperati in due siti archeologici della Murcia, in Spagna, erano costituiti da gusci marini perforati e dipinti, usati come ciondoli ed appesi al collo con un cordino, e risalgono almeno a 50.000 anni fa (ore 23.54.09), cioè prima dell'arrivo dell'uomo moderno nel nostro continente. Ciò vuol dire che l'uomo di Neanderthal è stato in grado di costruire ornamenti da solo, senza osservare gli Homo sapiens, ovvero i nostri antenati, arrivati in Europa più tardi. « Se l'uomo di Neanderthal impiegava ornamenti per il corpo, significa che aveva capacità cognitive avanzate », ha spiegato Diego Angelucci, professore di archeologia dell'Università di Trento e coautore della ricerca. « L'abbellimento personale è un comportamento che indica la nascita di un pensiero simbolico e rappresenta un segno di autoidentificazione. Inoltre le materie prime per la realizzazione di questi monili non erano reperibili in loco: spesso si trovavano in luoghi lontani anche 50 chilometri dalla residenza dei loro autori ».
Per ora non si è trovata traccia di orecchini né di anelli, ma le collane non sono i soli indizi a farci capire che l'uomo di Neanderthal era un narciso. Il desiderio di farsi bello lo manifestava anche sfoggiando muscoli decorati con il body painting di vari colori. Giallo, rosso e viola i colori più gettonati, ottenuti dai minerali in varie tonalità cromatiche, ma anche l'intramontabile nero con « effetto metallizzato brillante » (ha precisato Angelucci), grazie a minerali come ematite e pirite. « Sapevano mischiare e impastare i colori, e probabilmente si dipingevano il corpo come gli aborigeni australiani », ha concluso il paleontologo. Probabilmente il make-up per il viso non era stato ancora inventato, ma il minerale natrojarosite, di colore giallo, è lo stesso che gli antichi Egizi usavano come ombretto in epoche decisamente più vicini a noi. Altro dunque che essere rozzo dal cervello limitato, capace al più di inseguire le prede brandendo una robusta clava: "pendenti", collane di conchiglie e colori tribali dimostrano che il pallino per gli ornamenti e l'istinto per il miglioramento estetico sono nati molto prima dei più remoti antenati del professor Rudolf Virchow!
Siccome dove si parla di trucco non può mancare una donna, non possiamo non ricordare che il numero di ottobre 2008 di "National Geographic Italia" ha pubblicato in copertina (vedi immagine a sinistra) la ricostruzione di una femmina di Neanderthal che è stata battezzata "Wilma", come la moglie di Fred Flintstone degli "Antenati" (fortunata serie a cartoni animati di Hanna e Barbera), perchè come lei avrebbe avuto i capelli rossi. Servendosi di tracce di DNA prelevate da ossa risalenti a 43.000 anni fa rinvenute a El Sidròn, nella provincia delle Asturie, in Spagna, i gemelli artisti Adrie e Alfons Kennis, specializzati in ricostruzioni paleontologiche, hanno lavorato più di sei mesi per creare questa straordinaria immagine. Lo scheletro di Wilma è stato riprodotto con repliche del bacino e del cranio prelevate da femmine della sua specie, cui sono state aggiunte parti di uno scheletro maschile assemblato all'American Museum of Natural History di New York. I calcoli per ridurre a dimensioni femminili le ossa maschili sono stati eseguiti da Steve Churchill, paleoantropologo della Duke University. Così, dopo mesi di paziente lavoro è "nata" una femmina massiccia e muscolosa, alta un metro e cinquanta, che sulle pagine del magazine , invece di porgere la clava al marito, brandisce una lancia in atteggiamento minaccioso. Da Israele alla Germania, infatti, le evidenze archeologiche indicano che i Neanderthal si sostenevano quasi esclusivamente cacciando mammiferi come cavalli, cervi e bisonti, e l'elevato fabbisogno calorico dei loro corpi rese probabilmente necessario che donne e bambini si unissero alla caccia, un'impresa dura e pericolosa.
La paleoneurologia
Ma non è tutto. Markus Bastir e Antonio Rosas, paleoantropologi del Museo nazionale di scienze naturali di Madrid, hanno utilizzato tecniche mediche di immagine ad alta risoluzione per confrontare crani fossili di diversi ominidi: un esempio di quella che va sotto il nome di paleoneurologia. Oggi infatti è possibile analizzare la parte interna della scatola cranica, farne un'analisi morfologica e applicare tecniche di statistica multivariata e ricostruzioni in 3D ottenendo risultati eccezionali, un tempo impensabili. Risultato? Rispetto all'Homo neanderthalensis, l'Homo sapiens, nostro diretto antenato, presentava un maggiore sviluppo del lobo temporale e del bulbo olfattivo. Un 12 % in più che potrebbe fare la differenza. L'olfatto è un senso che nella vita quotidiana, dove prevalgono vista, udito e tatto, noi usiamo pochissimo, ma è fondamentale in un contesto naturale non antropizzato, perché legato alla sopravvivenza. Permette a un predatore di individuare la preda, e alla preda di captarne la presenza; dà indicazioni preziose sulla maturazione dei vegetali, produce sensazioni di piacere e dispiacere nei confronti di un cibo, innesca processi di memorizzazione e memoria, è di primaria importanza nella chimica delle relazioni sociali. Inoltre, mentre le informazioni fornite da altri sensi vengono elaborati da vari filtri corticali, l'olfatto passa direttamente dall'ambiente ai centri più alti del cervello.
Emozione, motivazione, paura, memoria, piacere e attrazione attraversano l'olfatto, un senso che, visto che respiriamo sempre, non dorme mai. La dimensione del cervello di Homo sapiens e Neanderthal è simile; diversa appare però la sua organizzazione. Dunque esiste una relazione tra la maggiore dimensione dei lobi temporali (la parte coinvolta nel linguaggio, nella memoria e nelle funzioni sociali) e dei bulbi olfattivi, e l'evoluzione di aspetti comportamentali e funzioni sociali più specializzate? « Bisogna essere molto cauti », ha dichiarato Diego Angelucci, professore di metodologie della ricerca archeologica presso l'Università di Trento, « e porsi anzitutto la domanda: Sapiens e Neanderthal erano specie diverse? Io appartengo alla corrente che sostiene il contrario. Per definizione, due specie non sono in grado di generare stirpe feconda: non possono cioè accoppiarsi e fare figli. Come spiegare, allora, un'evidenza scheletrica come il bambino di Lagar Velho ritrovato in Portogallo nel 1999, è apparentemente un ibrido di Homo sapiens e neandertaliano? Negli ultimi anni proliferano studi che tendono a enfatizzare le differenze tra i due ominidi: ma se invece che specie fossero, come credo io, sottospecie, il discorso sarebbe del tutto diverso ».
Vi è poi la questione dello sviluppo delle strutture neuroanatomiche in età infantile. Il sito paleontologico di El Sidrón, nelle Asturie, ci ha restituito nel tempo ben 500 reperti datati a 49.000 anni fa, appartenenti a sette individui adulti e sei individui giovani, facenti parte di un unico gruppo, e legati da una stretta parentela. L' analisi di un scheletro di un bambino completo al 36 %, effettuata da Antonio Rosas e colleghi del Museo Nacional de Ciencias Naturales (MNCN) di Madrid, ci ha rivelato che nell'uomo di Neanderthal il periodo di crescita del cervello era più lungo rispetto a quello degli esseri umani. Le rilevazioni antropometriche dei reperti ormai numerosi indicano che Homo neanderthalensis aveva una capacità cranica in media maggiore di quella di Homo sapiens. Ben poco si sa però di come arrivava a quelle dimensioni durante la crescita. Uno dei problemi più rilevanti per i paleoantropologi è che, per qualunque specie di ominide dotata di un grande cervello, un tasso accelerato di crescita del cervello associato a una altrettanto rapida crescita del resto del corpo avrebbe comportato un costo energetico elevato. Sviluppare un cervello di grandi dimensioni pone quindi limiti alla forma del corpo. Nel caso degli esseri umani moderni, per esempio, lo sviluppo cerebrale è maggiore nella prima infanzia e nell'infanzia, e sembra richiedere un rallentamento compensatorio di crescita del corpo. In passato alcuni studi avevano ipotizzato che un cervello più grande potrebbe essere spiegato con una precoce e rapida crescita postnatale, mentre altri hanno proposto una crescita più prolungata nel tempo. Il campione studiato da Rosas e colleghi, battezzato El Sidrón J1, mostra una dentatura molto ben conservata con un mix di caratteristiche giovanili e adulte, che ha permesso di stimare un' età di sette anni r mezzo. Una porzione posteriore di alcune vertebre cervicali e toraciche, chiamata sincondrosi neurocentrale, non era ancora fusa, mentre negli esseri umani moderni tende a saldarsi tra i 4 e i 6 anni di età. Inoltre, il suo cervello ha una dimensione che è circa l'87,5 % di quella tipica di un neanderthaliano adulto, mentre i bambini della nostra specie della stessa età hanno già il 95 % del peso del cervello adulto. Le vertebre non ancora saldate e un cervello ancora immaturo fanno dunque pensare a un processo di maturazione neuroanatomico dell'uomo di Neanderthal più prolungato rispetto a quello di Homo sapiens. Gli autori però ritengono che si tratti di un fattore legato alle più ampie dimensioni corporee dei Neanderthal piuttosto che a una differenza fondamentale nel tasso di crescita complessiva.
E il torace? Il torace dei Neanderthal aveva dimensioni molto simili a quelle dell'uomo moderno, ma alcune differenze nella sua forma suggeriscono che il suo meccanismo di respirazione fosse leggermente diverso, facendo maggiore affidamento sul movimento del diaframma. L'ipotesi è avanzata da un gruppo internazionale di ricercatori diretti da Ella Been dell'Università di Tel Aviv, in Israele. Le prime ricostruzioni del torace dell'uomo di Neanderthal, basate per lo più solo sulle prime costole e sulle clavicole, avevano fatto ipotizzare che avessero una morfologia toracica molto diversa da quella degli uomini moderni, ma scoperte successive avevano messo in dubbio questa conclusione, tanto che alcuni paleontologi ritenevano che sotto questo aspetto le due specie fossero sostanzialmente identiche. Been e colleghi hanno ora sottoposto a scansione tomografica tutte le ossa toraciche di "Kebara 2", uno degli scheletri di Neanderthal scoperti nel 1983 nella grotta di Kebara, situata sul lato occidentale del Monte Carmelo, in Israele. Risalente a circa 60.000 anni fa (ore 23.52.59), Kebara 2 è lo scheletro neanderthaliano che presenta la colonna vertebrale e il torace più completi finora trovati. Dopo aver ricostruito con un software 3D lo scheletro di Kebara 2, e identificato i punti di ancoraggio della muscolatura diaframmatica, particolarmente ampi e robusti, gli autori hanno scoperto che la sua dimensione toracica complessiva era sostanzialmente uguale alla nostra, ma più ampia nel suo segmento inferiore. Alcune simulazioni al computer dei meccanismi respiratori hanno poi mostrato che i movimenti del diaframma avrebbero potuto aumentare la capacità polmonare dei Neanderthal ben più di quanto facciano nell'uomo moderno. Questo, concludono Been e colleghi, potrebbe aver avuto anche riflessi sulla biochimica respiratoria ed ematologica, con meccanismi adattativi analoghi a quelli che si osservano anche oggi nelle popolazioni andine e tibetane, nelle quali il numero o le dimensioni dei globuli rossi e il loro contenuto in emoglobina differisce, su base genetica, da quello degli altri esseri umani. Per confermare questa ipotesi servono però ulteriori ricerche, anche di tipo genetico.
Nel 2023 un team di antropologi della Fudan University in Cina e dell’University College London ha scoperto che parte del DNA ereditato dai Neanderthal influenza anche la forma del nostro naso. Essi infatti hanno condotto uno studio di associazione sull’intero genoma combinando i dati genetici e le caratteristiche facciali di oltre 6000 persone provenienti dall’America Latina con origini europee, americane e africane, e così sono emerse 33 nuove regioni del genoma umano associate alla forma del volto. Una in particolare, chiamata ATF3, contribuirebbe a determinare l’altezza del nostro naso e conterrebbe materiale genetico ereditato dai Neanderthal. Su questo gene gli antropologi hanno anche scoperto segni di selezione naturale che suggerirebbero un vantaggio evolutivo per chi ha ereditato il materiale genetico dei Neanderthal, poiché il naso ci aiuta a regolare la temperatura e l’umidità dell’aria che respiriamo. e quindi il gene appena identificato potrebbe essere stato ereditato dai Neanderthal per aiutare gli esseri umani ad adattarsi a climi più freddi quando sono usciti dall’Africa. È la seconda volta che i ricercatori scoprono parti di DNA di ominidi estinti in grado di influenzare le caratteristiche del nostro volto: nel 2021 lo stesso gruppo di ricercatori aveva individuato materiale genetico ereditato dai Denisova che contribuisce a determinare la forma delle labbra degli uomini moderni.
Sempre nel 2023 uno studio ha dimostrato come le varianti geniche ereditate dai Neanderthal influenzino la nostra salute. Infatti l'Istituto "Mario Negri" di Milano ha presentato una ricerca che analizza la relazione fra fattori genetici e la gravità della malattia da SARS-CoV-2 in provincia di Bergamo (divenuta nel febbraio 2020 drammatico epicentro della pandemia in Europa). Quasi 10.000 persone hanno compilato un questionario on line sulla loro storia clinica e familiare riferita al Covid-19; ebbene, è risultato che chi aveva avuto il Covid-19 in forma grave era, più spesso degli altri, parente di primo grado di persone morte per il virus, indicando un contributo genetico alla gravità della malattia. Il DNA di questi campioni è stato analizzato con una tecnologia chiamata "DNA microarray", che può leggere centinaia di migliaia di polimorfismi su tutto il genoma, ed essa ha permesso di individuare la regione responsabile delle diverse manifestazioni della malattia. Questa suscettibilità è legata in particolare a tre geni che si trovano sul cromosoma 3 (CCR9, CXCR6 e LZTFL1), e che derivano proprio dall'ibridazione con i Neanderthal! I risultati dimostrano che chi è stato esposto al virus ed è portatore dell'insieme genetico (aplotipo) ereditato dai Neanderthal, ha un rischio doppio di sviluppare la malattia in forma grave (polmonite). D'altra parte, già nel 2020 Svante Pääbo (premio Nobel per la Medicina nel 2022) aveva individuato un segmento di DNA che abbiamo ereditato dai Neanderthal, proprio sul cromosoma 3, ritenuto responsabile di forme gravi di SARS-CoV-2: si manifesterebbe con una frequenza di circa il 50% in popolazioni dell'Asia meridionale e di circa il 16% in Europa. Chi lo avrebbe detto, che esisteva una relazione così stretta tra il Covid-19 e l'Uomo di Neanderthal?
Non c'è dubbio, insomma, che i Neanderthal e i sapiens abbiano più tratti in comune che differenze Ma i paleoantropologi hanno anche individuato differenze cruciali. Un gruppo guidato da Felipe Mora-Bermúdez del Max-Planck-Institut per la biologia cellulare molecolare e genetica a Dresda e del Max-Planck-Institut per l'antropologia evoluzionistica a Lipsia ha scoperto ad esempio che la replicazione delle cellule staminali nel cervello avviene a ritmi diversi nelle due specie umane. Nei sapiens, il processo è risultato circa il 50 per cento più lento rispetto ai cugini Neanderthalensis. Di conseguenza, Homo sapiens è stato esposto a meno errori durante la divisione cellulare. A differenza di quanto è avvenuto per i Neanderthal, nell'evoluzione degli esseri umani anatomicamente moderni sono cambiati circa 100 aminoacidi. Mora-Bermúdez e colleghi hanno studiato gli effetti di queste mutazioni nelle unità di base delle proteine usando tre proteine che controllano la disposizione dei cromosomi durante la divisione delle cellule staminali nella neocorteccia cerebrale. Essa ha svolto un ruolo importante nell'evoluzione umana: questa regione cerebrale si è espansa e ha contribuito alla formazione di migliori capacità cognitive, compreso il linguaggio. Per il loro studio, i ricercatori hanno prodotto modelli di topi dotati di aminoacidi degli esseri umani anatomicamente moderni. Poiché i topi non modificati somigliano ai Neanderthal per quanto riguarda questi aminoacidi, gli scienziati li hanno utilizzati come gruppo di controllo. Hanno poi confrontato la crescita cerebrale degli embrioni di topo di entrambi i gruppi. É stato così scoperto che tre mutazioni a carico di alcuni aminoacidi negli esseri umani moderni in due di queste tre proteine, ovvero KIF18a e KNL1, causano una fase più lunga in cui i cromosomi vengono preparati per la divisione cellulare. Ciò comporta un minor numero di errori nella distribuzione dei cromosomi alle cellule staminali neurali figlie, proprio come negli esseri umani moderni. Per ottenere un controllo incrociato, i ricercatori hanno anche fatto crescere in laboratorio "cervelli in miniatura" detti organoidi e li hanno dotati degli aminoacidi dei Neanderthal. Quando i micro-cervelli sono cresciuti, i ricercatori hanno scoperto che la fase di preparazione alla diffusione cerebrale nei cervelli dei Neanderthal e dei primati era più veloce, e che si verificavano più errori nella distribuzione e nel numero dei cromosomi. Da ciò i ricercatori hanno concluso che la funzione cerebrale dei Neanderthal era maggiormente influenzata da errori cromosomici rispetto a quella dei sapiens. Tali errori possono causare malattie, come le trisomie (la presenza aberrante di una terza copia di un cromosoma) o il cancro.
E ora, una curiosità. Secondo alcuni studiosi del MIT di Boston e della Universitat Autònoma de Barcelona, anche i Neanderthal mangiavano l'insalata! Nonostante la loro dieta fosse ricca soprattutto di elementi proteici, e dunque di carne, essi non disdegnavano neanche le erbe, come dimostrerebbe l'analisi della composizione delle feci fossilizzate (dette coproliti) di un uomo di Neanderthal vissuto 50 mila anni fa (ore 23.54.09) a El Salt, nella Spagna meridionale. L'alimentazione dei Neanderthal era senz'altro composta soprattutto di carne, ma la conformazione della sua dentatura ha sempre lasciato supporre che il nostro cugino consumasse anche vegetali, sebbene in minor misura. In queste coproliti la presenza di marcatori indicanti il consumo di erbe sono chiari: i paleontologi in particolare hanno rilevato la presenza di stanoli e steroli, composti chimici contenuti per esempio in ortaggi e frutti, oggi usati in medicina per combattere il colesterolo cattivo. A dir la verità, altri studiosi hanno messo in dubbio che si tratti davvero di feci umane, ma la loro composizione sembra suggerire che si tratti proprio di queste. Tali escrementi dimostrerebbero perciò come l'uomo di Neanderthal fosse onnivoro. Si spera che lo stesso tipo di ricerca sui coproliti possa essere usata anche in altri siti ed estesa ad altre specie ominidi.
Un'altra misteriosa scomparsa
Gli uomini di Neanderthal erano comparsi molto prima del loro periodo di massimo splendore: se ne conoscono degli individui molto antichi, come testimonia in Italia il famoso uomo di Saccopastore trovato in una cava di ghiaia nella valle dell'Aniene, alle porte di Roma, che secondo i ricercatori dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia risale a ben 250 mila anni fa (ore 23.30.48). Al contrario, i Neanderthal più recenti sarebbero quelli provenienti dal sito croato di Vindija, datati tramite spettrometria di massa da Fred Smith della Northern Illinois University e da Erik Trinkaus della Washington University di Saint Louis, i quali li fanno risalire a 32.000 anni fa (alle 23.55.34). Ma perché, se essi vissero in un epoca così relativamente recente da distare da noi meno di quattro minuti e mezzo dell'Anno della Terra, essi scomparvero del tutto. improvvisamente ed un po' misteriosamente? La morte dell'ultimo Neanderthal, l'immaginario Hwoogh, è stata descritta in modo straziante dallo scrittore di fantascienza americano Lester del Rey (1915-1993) nel suo racconto "Il giorno è compiuto", del 1939, ma i motivi di questa estinzione non sono ancora stati accertati, e le ipotesi sono fiorite copiose. Si pensò che fossero troppo ben adattati alle epoche glaciali in cui vivevano, come dimostra il corpo tozzo per disperdere meno calore possibile, e che alla fine di esse si fossero estinti; secondo Simon Underdown dell'Oxford Brookes University, poi, fu un primordiale "morbo della mucca pazza" dovuto al cannibalismo rituale praticato da questi nostri parenti (alcuni scheletri vecchi di 120 mila anni individuati in una grotta francese a Moula Guercy nel 1999 mostravano come almeno sei di essi erano stati spolpati da altri componenti della loro specie, e le loro ossa frantumate per estrarre midollo e cervella). Secondo William Gilpin della Stanford University invece fu la competizione, in particolare quella culturale, con gli esseri umani moderni a determinare l'estinzione dei Neanderthal. Nonostante al loro arrivo in Europa gli uomini moderni fossero molto meno numerosi dei Neanderthal che abitavano la regione già da molto tempo, infatti, il vantaggio competitivo di disporre di manufatti di qualità superiore avrebbe garantito una maggiore sopravvivenza, e quindi una crescita della popolazione più elevata rispetto ai concorrenti. A sua volta, l'incremento della popolazione avrebbe facilitato l'introduzione di nuovi perfezionamenti tecnologici, aumentando quindi il divario culturale fra i due gruppi, fino a portare alla scomparsa della popolazione autoctona.
Ci sono anche teorie molto elaborate. Ad esempio un gruppo di ricercatori del Max Planck Institut per l'antropologia evolutiva a Lipsia, della Stony Brook University e della University of Arkansas a Fayetteville, ha proposto che siano state le diverse strategie alimentari di Neanderthal e umani moderni a contribuire all'estinzione degli uni e alla sopravvivenza degli altri. Nel corso di centinaia di migliaia di anni, i Neanderthal sono riusciti a prosperare sopravvivendo alle forti fluttuazioni climatiche dell'Eurasia occidentale, con l'alternarsi di periodi molto freddi e più miti. La loro estinzione si verificò all'apice dell'ultimo periodo glaciale, relativamente poco tempo dopo l'arrivo in Europa degli esseri umani moderni. « Ci si aspetterebbe che i Neanderthal fossero meglio adattati alle condizioni climatiche a volte molto dure dell'era glaciale in Europa », ha affermato Sireen El Zaatari, coautore dello studio. Dall'analisi delle microabrasioni sui molari fossili di Neanderthal ed esseri umani moderni del Paleolitico superiore è emerso che i Neanderthal avevano sempre adattato la loro dieta alle risorse più facili da trovare nelle diverse condizioni climatiche. Quando prevaleva un habitat a steppa, i Neanderthal mangiavano soprattutto carne. Nei periodi in cui il continente era prevalentemente a foresta, la loro dieta privilegiava semi e noci dure, che lasciano sui denti segni di microusura più complessi. Gli esseri umani moderni hanno invece cercato di attenersi il più possibile alla loro strategia alimentare di base, a prescindere dai cambiamenti ambientali. In particolare hanno mantenuto una dieta con una percentuale piuttosto alta di alimenti di origine vegetale anche in habitat prevalentemente a steppa. « Per essere in grado di farlo, hanno sviluppato strumenti, per esempio per estrarre le radici nel terreno », ha spiegato El Zaatari. La strategia alimentare flessibile che aveva assicurato la sopravvivenza dei Neanderthal per centinaia di migliaia di anni, da vantaggio si sarebbe trasformata in uno svantaggio quando è stata applicata a un contesto in cui alle difficili condizioni climatiche si è aggiunta la concorrenza degli umani moderni. La maggiore rigidità della dieta di questi ultimi si sarebbe invece rivelata per una volta un fattore positivo.
Invece Hiroki Tanabe, dell'Università di Nagoya in Giappone, sostiene che esistevano alcune differenze neuroanatomiche significative tra Sapiens e Neanderthal, in particolare nella regione del cervelletto, differenze che potrebbero aver dato ai Sapiens un vantaggio in termini di adattamento all'ambiente che fu poi decisivo per prendere il sopravvento. La sua ipotesi si basa sul confronto tra modelli anatomici cerebrali ricavati da scansioni di tomografia computerizzata di teche craniche fossili di individui estinti e quelle di risonanza magnetica cerebrale di 1185 soggetti viventi, da cui si è ottenuto un modello del cervello umano medio attuale. Questi confronti hanno permesso di prevedere quale aspetto potesse avere il cervello dei primi Homo sapiens e dei Neanderthal, e in che modo le singole regioni cerebrali potessero differire tra le due specie. La conclusione è stata che i primi Homo sapiens non avevano cervelli più grandi di quelli di Neanderthal, ma morfologie cerebrali significativamente diverse: in particolare, avevano un cervelletto più grande. Utilizzando poi i dati di 1095 soggetti moderni, gli autori hanno esaminato la possibile correlazione tra la dimensione del cervelletto e le capacità dei soggetti, come la comprensione e la produzione del linguaggio, la memoria di lavoro e la flessibilità cognitiva. L'analisi statistica dei dati raccolti indica che le differenze neuroanatomiche dei primi Homo sapiens rispetto ai Neanderthal conferivano loro abilità cognitive e sociali più avanzate. Proprio questo fattore potrebbe aver influito sulla capacità dei primi umani di adattarsi ai cambiamenti ambientali, aumentando le loro possibilità di sopravvivenza rispetto ai Neanderthal.
E c'è persino una teoria "catastrofica" analoga a quelle riguardanti l'estinzione dei dinosauri. Naomi Cleghorn, dell'Università di California a Berkeley, infatti ha scoperto che circa 40 mila anni fa (alle 23.55.19), in quelli che oggi sono l'Italia e il Caucaso, una serie di vulcani eruttarono in rapida successione: l'eruzione più violenta fu quella detta dell'Ignimbrite Campana, avvenuta a quell'epoca nei Campi Flegrei presso Napoli, con ogni probabilità la più violenta verificatasi in Europa negli ultimi 200 mila anni. Le diverse concentrazioni dei pollini trovati nei sedimenti della grotta Mezmaiskaya, in Russia, messe in correlazione con gli strati di ceneri vulcaniche presenti, fanno pensare che le eruzioni abbiano praticamente distrutto la vegetazione. La distruzione delle piante avrebbe causato un crollo delle popolazioni di erbivori, con conseguenze devastanti per i Neanderthal, che si sostentavano soprattutto con la caccia ai grossi mammiferi. « Da tempo si dibatte su una possibile causa ambientale per la scomparsa dei Neanderthal », ha spiegato la Cleghorn. I nostri cugini erano sopravvissuti a diverse glaciazioni e ad altri disastri naturali, ma secondo la Cleghorn e i suoi colleghi non potevano resistere alle eruzioni di 40 mila anni fa: a quanto pare tutti i vulcani eruttarono quasi all'unisono. « Se un cambiamento avviene nell'arco di un paio di generazione, adattarsi è molto più facile: c'è il tempo di spostarsi, di cercare altri siti in cui vivere, e la popolazione può riprendersi. Ma noi stiamo parlando di un evento unico nella storia ». Probabilmente in quell'epoca remota vivevano in Europa anche piccoli gruppi di Homo sapiens che avrebbero subito gli effetti delle eruzioni; ma sarebbero scampati all'estinzione perché in Asia e in Africa esistevano popolazioni più numerose, mentre i Neanderthal erano concentrati soprattutto in Europa. « La loro popolazione non era abbastanza numerosa e densa per riprendersi dopo le eruzioni. » Infine, Stephen Kuhn e Mary Stimer dell'Arizona University, sulla rivista Current Anthropology, hanno proposto la tesi per cui la principale causa dell'estinzione dei Neanderthal sarebbe stata la mancata suddivisione dei lavori tra i sessi. I più organizzati sapiens, in modo decisamente più efficiente, avrebbero affidato alle loro donne compiti stanziali e meno gravosi, lasciando ai maschi i ruoli di cacciatori ed approvvigionatori di materiali. La prole, protetta e anch'essa stanziale, avrebbe avuto così maggiori possibilità di sopravvivenza.
Si tratta indubbiamente di ipotesi seducenti, ma oggi si suppone che ciò non basti. Il timore che ormai da lungo tempo serpeggia tra gli studiosi (e non), è che essi siano stati letteralmente sterminati nello scontro con altri popoli calati in Europa durante l'ultima glaciazione, e che questi popoli potrebbero essere i nostri antenati. L'antropologo John Hoffecker dell'Institute of Arctic and Alpine Research dell'Università del Colorado, ad esempio, ritiene che, a giudicare dai manufatti fabbricati da Homo sapiens ma ritrovati nelle roccaforti dei Neanderthal, i primi avevano già cominciato a competere con i seconda per il predominio in Europa, e i Neanderthal erano in cattive acque già ben prima di 40 mila anni fa. Forse il primordiale "morbo della mucca pazza" e le eruzioni catastrofiche indebolirono e basta quell'antica razza ormai in declino: il colpo di grazia glielo avremmo dato noi, nel corso della prima "guerra di sterminio" della storia umana. Se è andata così, la vicenda del fratricidio di Caino assumerebbe una tragica realtà storica.
Tecnologia Neanderthal
Nell'agosto 2008 tale timore si è in parte attenuato quando si è fatto strada un nuovo studio, stavolta da parte di un gruppo di scienziati inglesi e americani dell'Università di Exeter, dell'Università della Southern Methodist, della Texas State University e della Think Computer Corporation, che hanno analizzato gli utensili di cui erano in possesso l'Homo neanderthalensis e l'Homo sapiens. Essi hanno dimostrato che tali strumenti erano ugualmente efficienti, sia dal punto di vista delle possibilità che dell'efficienza di utilizzo. Non sarebbe dunque stato il divario tecnologico e d'intelligenza fra sapiens e neanderthalensis a far scomparire quest'ultimo dalla faccia della Terra. Il nuovo studio smentisce categoricamente quanto per circa sessant'anni, ha sostenuto la maggior parte dei paleoantropologi, e cioè che l'Homo sapiens ebbe la meglio sul neanderthalensis perché mise a punto strumenti tecnologici di qualità superiore.
La nuova ricerca è consistita nello studio al computer e nella riproduzione reale di strumenti che utilizzavano le due specie per poi metterli a confronto. Gli studiosi, in particolare, hanno ricreato gli arnesi in pietra a forma di lama, usati sia dai Neanderthal che dai sapiens, e quelli a forma di scaglia allungata, più stretti e allungati rispetto ai precedenti e utilizzati solo sai sapiens. Questi ultimi vennero prodotti dai sapiens per la prima volta durante la loro colonizzazione europea, una volta lasciata l'Africa, circa 40.000 anni fa (ore 23.55.19). La loro introduzione nella vita di tutti i giorni è sempre stata pensata, da parte dei paleoantropologi, come un vero e proprio salto tecnologico, frutto di una maggiore intelligenza, che avrebbe aiutato più di ogni altra cosa a sopraffare il suo cugino dell'Età della Pietra. Con tali strumenti infatti, avrebbe cacciato con maggiore facilità e avrebbe prodotto altri strumenti con maggiore facilità e qualità migliore.
Per verificare questo assunto, i ricercatori anglo-americani hanno confrontato la semplicità d'uso degli strumenti prodotti, la loro capacità di taglio, la resistenza nell'uso nel tempo e la loro durevolezza. Metin Eren, dell'Università di Exeter, ha spiegato: « Lo studio ha dimostrato che tra i diversi utensili utilizzati non vi sono differenze statisticamente importanti nella loro efficienza. Anzi, in alcune situazioni l'uso degli utensili a forma di lama era superiore a quelli a forma di scaglia. » Questa scoperta riapre il dibattito sulla scomparsa del Neanderthal, perché l'ipotesi di una maggiore bravura del sapiens nella caccia, che avrebbe via via impedito ai Neanderthal di procurarsi il cibo, o addirittura di una minore intelligenza dei Neanderthal che avrebbe fatto di loro degli ottusi scimmioni in confronto ai cugini che stavano avendo il sopravvento, crolla di schianto di fronte allo studio sull'efficienza dei mezzi a disposizione fa crollare tale ipotesi. Ma se gli utensili a scaglia non hanno apportato alcun miglioramento nella vita tecnologica dei sapiens, perché allora li hanno mantenuti? "Risponde Eren: « Essi potrebbero avere avuto un significato più profondo che non quello di essere nuovi strumenti tecnologici. Colonizzare un continente non è facile e deve essere stato ancor più difficile farlo durante un'era glaciale, come si trovò a farlo l'Homo sapiens. Forse quel nuovo mezzo tecnologico poteva avere un significato simbolico più importante del suo stesso uso, avrebbe, cioè, fatto da "collante" tra i diversi gruppi sociali che si sarebbero sentiti superiori ai loro cugini ».
A ciò si deve aggiungere un'altra importante scoperta effettuata dall'italiano Antonio Tagliacozzo, archeozoologo del Museo Pigorini di Roma, secondo il quale i Neanderthal si ornavano di penne, proprio come gli Indiani d'America, esibendole come simboli di potere e autorità. Questa è solo l'ultima, in ordine di tempo, di una serie di scoperte sensazionali effettuate nella grotta di Fumane, sui monti Lessini presso Verona, dove archeologi dell'Università di Ferrara scavano dal 1988 in collaborazione con la Soprintendenza archeologica del Veneto. Qui sono state rinvenute le pitture rupestri più antiche d'Europa, vecchie di 32.000 anni (alle 23.56.16); e Fumane racconta tutta la nostra preistoria da circa 90.000 a 25.000 anni fa (dalle 23.49.29 alle 23.57.05). Le tracce del passaggio prima dei Neanderthal e poi degli Uomini moderni, dai focolari alle capanne agli oggetti utilizzati, si trovano in uno stato di conservazione eccezionale, perché i ghiacci hanno fatto crollare la volta, trasformando la grotta in una "trappola sedimentaria", che ha fatto giungere la preistoria straordinariamente intatta fino a noi. Così ci sono giunte anche le piccole e fragili ossa di ali di uccelli, conservate al punto da poter ancora notare chiaramente i segni di macellazione, « specie sull'ulna dove si attaccano le penne più vistose », ha spiegato Tagliacozzo. « Ma abbiamo trovato anche segni del distacco forzato di ali intere e di parti di ali, oltre che di singole penne. Segni cioè di utilizzi diversi e forse per scopi diversi. E siamo certi del loro uso ornamentale perché sono tutte penne di uccelli rapaci: avvoltoio gipeto, falco, uccelli che non si mangiano ».
Quest'uso di penne a scopo ornamentale da parte dei Neanderthal risulta vecchio di almeno 44.000 anni fa (alle 23.54.52), mentre le penne ornamentali più antiche dei loro "cugini" Sapiens sono di 20.000 anni più recenti. È una scoperta che lascia ormai pochi dubbi circa il fatto che i robusti Neanderthal fossero in grado di "pensare simbolicamente", cioè di trasmettere informazioni attraverso un codice condiviso di simboli. « Il dibattito scientifico sulle capacità cognitive dei Neanderthal si basa in buona parte su testimonianze archeologiche poco affidabili e di datazione incerta. Fumane invece mostra chiaramente che i Neanderthal hanno cominciato a ornarsi di piume molto prima di entrare in contatto con l'uomo moderno, in totale autonomia », ha spiegato il direttore dello scavo Marco Peresani, « e che possedevano già da sé, e non per contatto con noi, le nostre stesse capacità cognitive. Altro che bruti! »
Bisogna aggiungere l'importantissima scoperta effettuata nel 2016 da ricercatori dell'Università di Bordeaux, i quali hanno scoperto la prima costruzione realizzata da un essere umano tra quelle note finora, che risale a 176.000 anni fa (ore 23.39.27) e fu opera proprio dei Neanderthal. Si tratta di una serie di strutture formate da 400 pezzi di stalagmite disposti ad anello, situate a 336 metri dall'ingresso della grotta di Bruniquel, nel sudovest della Francia. Queste strutture sono state scoperte nel 1992, ma solo nel 2016 sono state studiate e datate, e provano che i Neanderthal avevano comportamenti e abilità sociali ben più complessi di quanto generalmente ritenuto. Finora le poche strutture artificiali neanderthaliane note erano molto più recenti e costituite da elementi isolati di muretti a secco; per di più anche la loro attribuzione a questi nostri cugini era stata contestata da diversi studiosi. Il complesso è costituito da sei strutture, due più grandi (rispettivamente di 6,7 per 4,5 metri di diametro e di 2,2 per 2,1 metri) e quattro di dimensioni minori, formate da pezzi di stalagmite di dimensioni simili (circa 30 centimetri), una circostanza che dimostra come la loro costruzione sia stata accuratamente progettata. All'interno di una delle strutture più piccole i ricercatori hanno anche recuperato un frammento di osso di circa sette centimetri, che mostra segni di contatto con una fonte di calore. La funzione di queste strutture, al cui interno sono state trovate tracce dell'accensione di fuochi, sono oscure: potevano far parte di un rifugio o avere qualche significato simbolico che ci sfugge. Nell'epoca a cui risale il complesso, gli uomini di Neanderthal erano già presenti nell'attuale Francia, ma i Sapiens non ancora, dato che arrivarono nel continente europeo solo 40.000 anni fa (ore 23.55.19). Per confronto, la più antica documentazione archeologica di strutture costruite da esseri umani anatomicamente moderni risale a circa 20.000 anni fa (alle 23.57.39!), e sono le costruzioni in ossa di mammut realizzate dai cacciatori-raccoglitori delle pianure russe. La scoperta, che testimonia anche come i Neanderthal avessero già allora l'idea di organizzazione dello spazio, di controllo del fuoco e le capacità di sfruttare ambienti ipogei, rappresenta un'ulteriore conferma delle capacità dei neanderthaliani, a lungo sottovalutate proprio a causa dell'assenza di reperti archeologici, un'assenza che tuttavia a questo punto si può attribuire innanzitutto alla loro distruzione. Le strutture di Bruniquel sono ben conservate probabilmente perché sono rimaste sigillate da ostruzioni di calcite molto presto dopo la loro costruzione. Secondo José Luis Sanchidrián, docente presso l'Università di Córdoba, sarebbero ascrivibili ai Neanderthal anche le pitture parietali della Grotta di Nerja, presso Malaga, risalenti a più di 42.000 anni fa (alle 23.55.06). Tutto questo non contribuisce però a farci capire perché i Neanderthal si estinsero.
Foto e icostruzione in 3D delle strutture della grotta di Bruniquel (Cortesia Etienne FABRE - SSAC) |
Ma non basta. Noi sapiens abbiamo forse un debito culturale con i
Neanderthal? In due siti francesi, Abri Peyrony e Pech-de-l'Azé
I, in Dordogna, un gruppo di ricercatori del
Max Planck Institut per l'antropologia evolutiva a
Lipsia, dell'Università di Leida, nei Paesi Bassi, e dell'università di
Bordeaux ha scoperto la prima serie di strumenti in osso standardizzati e specializzati attribuibili ai Neanderthal.
Tali strumenti risalgono a circa 50.000 anni fa (alle
23.54.09), quindi prima della sostituzione delle popolazioni neanderthaliane da parte degli esseri umani moderni, arrivati in Europa circa 40.000 anni
fa (alle 23.55.19). Si tratta di bacchette leggermente ricurve e arrotondate alle estremità, ottenute da costole di animali, che servivano per la
lavorazione delle pelli: premendo su una piccola area e spostando lentamente la pressione si
riusciva a renderle più dure, brillanti e impermeabili. La loro particolarità è che hanno una forma standardizzata, pressoché identica, pur nella varietà di dimensioni imputabile alla differente origine animale. Questo è un tratto caratteristico dell'identificazione di una
cultura; tale scoperta, che si inserisce nel lungo dibattito sulle capacità cognitive dei Neanderthal,
sembra confermare la tesi che le abilità intellettive e culturali di questi nostri cugini fossero in realtà molto simili a quelle degli esseri umani moderni.
I Neanderthal cacciatori?
Nel 2023 sono arrivate anche le prove che nel sud dell’attuale Germania, circa 48.000 anni fa, un gruppo di Neanderthal riuscì ad abbattere uno dei più grandi felidi conosciuti, il leone delle caverne (Panthera spelaea), oggi estinto. A dimostrarlo è stato un gruppo internazionale di ricercatori, guidato da Gabriele Russo e formato dagli archeologi delle Università di Tubinga e di Gottinga, in Germania, e dell’Università di Reading, nel Regno Unito, che ha analizzato i resti di un leone delle caverne rinvenuti nel 1985 a Siegsdorf, in Baviera. Su una delle costole dell’antico felino i ricercatori hanno trovato il segno di una ferita fatale, inferta con una lancia di legno. Un colpo intenzionale, che dimostrerebbe la capacità dei Neanderthal di cacciare i leoni delle caverne. I risultati rappresentano la prima prova diretta della caccia al leone nella storia umana e, combinati con altre prove archeologiche trovate dagli autori, suggeriscono un ruolo di questi animali nel simbolismo dei Neanderthal. Per associare la morte del leone di Siegsdorf a un’antica battuta di caccia, Russo e colleghi hanno analizzato lo scheletro quasi completo dell’animale, datato a 48.000 anni fa (alle ore 23.54.24). In precedenza, i ricercatori avevano riconosciuto sui reperti segni di taglio che indicavano una macellazione dell’animale dopo la morte per consumarne le carni. Durante le nuove indagini archeologiche però, una ferita a forma di punta all’interno della terza costola del leone di Siegsdorf ha attirato l’attenzione dei ricercatori. Si trattava di una perforazione parziale insolita, mai analizzata in precedenza: confrontando il campione con i segni lasciati sulle ossa dei leoni delle caverne da parte di altri carnivori diffusi nel Pleistocene superiore, i ricercatori non hanno trovato alcuna corrispondenza. La ferita non era dovuta al morso di un altro animale; il confronto con le ossa di altri animali colpite con riproduzioni di armi paleolitiche, hanno chiarito invece che la lesione sarebbe riconducibile all’impatto di una lancia con punta in legno. La prova, secondo gli autori, che i Neanderthal erano in grado di cacciare i leoni delle caverne. In passato, questa capacità era attribuita solo a Homo sapiens. Il leone delle caverne, in grado di raggiungere i quattro metri di lunghezza e oltre 340 chilogrammi di peso, era uno dei predatori alfa del Pleistocene superiore e, probabilmente, un problema serio per le specie umane che popolavano quelle aree. Per i Neanderthal potevano rappresentare sia dei concorrenti nella caccia sia un pericolo come predatori.
Gli autori dello studio hanno avanzato inoltre ipotesi sull’antica battuta di caccia: le analisi balistiche indicano che il leone delle caverne sarebbe stato abbattuto mentre era sdraiato sul lato destro del corpo: l’impatto con la lancia, entrata sul lato sinistro del corpo dell’animale, ha lasciato infatti il segno sul lato interno della terza costola destra del leone, senza perforarla del tutto in quanto supportata dal terreno. Il leone delle caverne potrebbe quindi essere stato preso di sorpresa mentre riposava. Un’altra ipotesi prevede invece che il leone sia stato precedentemente inseguito e colpito ripetutamente, come suggerirebbero alcuni segni trovati su altre ossa, prima di crollare al suolo ed essere abbattuto. Qualunque sia stata la tecnica di caccia adottata, comunque, i segni trovati sulle ossa indicano che dall’animale sono state prelevate le carni, confermando che i grandi predatori potevano far parte della dieta dei Neanderthal. L’uso alimentare però non è il solo motivo che potrebbe aver spinto i Neanderthal a cacciare i leoni delle caverne; sono state infatti trovate le prime e più antiche evidenze dell’uso diretto della pelliccia dei leoni delle caverne da parte dei Neanderthal, che indicherebbero un rapporto simbolico e di rispetto nei confronti di questo animale. Finora, il simbolismo legato ai leoni delle caverne era stato documentato solo per Homo sapiens. Analizzando tre ossa della zampa di un leone delle caverne rinvenute nel 2019 nella Grotta dell’Unicorno, a Herzberg am Harz, nella Bassa Sassoni, e risalenti a più di 190.000 anni fa (alle 23.37.48), gli autori hanno individuato sull’animale particolari segni di scuoiamento. I segni di taglio trovati sulle falangi indicano che le ossa erano state lavorate in modo da togliere gli artigli dal resto della zampa del leone e tenerli attaccati alla pelliccia, e dunque probabilmente rappresentavano un elemento estetico da conservare. In conclusione, i Neanderthal si impegnavano in una lavorazione delle pelli che richiedeva tempo, precisione e la conoscenza approfondita dell’anatomia dell’animale, e questa scelta sarebbe legata a un uso culturale della pelle dei leoni delle caverne e a meccanismi simbolici nient'affatto scontati, legati per esempio alla forza dell’animale, di cui i Neanderthal avrebbero inteso appropriarsi. I reperti della Grotta dell’Unicorno ci dicono che qualcuno h scuoiato il leone e portato la pelle dentro la caverna, usandola o come elemento decorativo o come indumento da indossare durante alcuni rituali, forse religiosi (il fatto che i Neanderthal credessero o meno in una qualche forma di divinità, presumibilmente gli antenati divinizzati, e nella sopravvivenza dopo la morte, è tuttora oggetto di dibattito). Una cosa comunque è certa: Gabriele Russo e colleghi hanno confermato l’abilità dei Neanderthal come cacciatori e hanno aperto nuovi scenari sulla loro complessità culturale.
I Neanderthal incendiari?
Inoltre, uno studio pubblicato nel 2018 da ricercatori dell'Università di Leida, nei Paesi Bassi, e dell'Università di Bordeaux, in Francia, ha dimostrato che i Neanderthal sapevano accendere il fuoco sfruttando le scintille prodotte dalla percussione fra un frammento di pirite e un'altra pietra. I reperti archeologici scoperti nei siti abitati da Neanderthal mostrano senz'altro che usavano il fuoco; finora però non era chiaro se essi se lo procurassero da fonti naturali, prendendo tizzoni ardenti in seguito a incendi o fulmini caduti su qualche albero, o se fossero in grado di accenderlo, come faceva Homo sapiens. Mentre infatti in numerosi siti di Homo sapiens sparsi in tutta l'Eurasia sono venuti alla luce utensili in selce dalla forma inconfondibile accanto a frammenti di pirite, nulla di simile era stato scoperto nei siti neanderthaliani. Analizzando diversi bifacciali in selce, utensili in pietra di forma piatta, scheggiati per ottenere un bordo tagliente, provenienti da 17 differenti siti neanderthaliani localizzati fra la Francia occidentale e il Belgio, e risalenti a circa 50.000 anni fa (alle ore 23.54.09), Andrew C. Sorensen e colleghi hanno notato che su 59 di essi si potevano distinguere al microscopio segni di ripetute regolari percussioni con un altro minerale duro. A questo punto i ricercatori sono ricorsi alla cosiddetta archeologia sperimentale, replicando la produzione di bifacciali in selce e altri materiali lapidei che hanno poi percosso ripetutamente con diversi minerali, fra cui frammenti di pirite, e usato per altre operazioni a cui potevano essere destinati gli strumenti, per esempio il disossamento di carcasse animali. Esaminando al microscopio questi reperti e confrontando le tracce lasciate dalla percussione con quelle rilevate sugli strumenti dei Neanderthal, hanno trovato che corrispondevano proprio con quelle lasciate dalla percussione fra bifacciale e pirite. Questo suggerisce che molto probabilmente i gruppi di Neanderthal della regione considerata usarono almeno occasionalmente i loro strumenti per innescare il fuoco, e ridurre la loro dipendenza da eventi naturali per procurarselo. Il fatto che al microscopio non siano stati rilevati cristalli di pirite, che fornirebbero la prova definitiva, è verosimilmente dovuto alla loro facile alterazione; i ricercatori però sperano che i prossimi più sofisticati esami che si apprestano a effettuare sugli strumenti, come la spettroscopia Raman e altri metodi analitici, diano esito positivo.
Oggi peraltro sappiamo che, molto prima che gli uomini diventassero agricoltori, gli esseri umani stavano modificando l'ambiente su larga scala. Le prove di questo assunto sono evidenti nel Borneo e nel lago Malawi, e hanno tra 85.000 e 55.000 anni (tra le 23.50.04 e le 23.53.35). Per lo più con l'aiuto del fuoco, i nostri predecessori ottennero territori produttivi in cui si poteva trovare più cibo che nella natura selvaggia incontaminata. Ma nel dicembre 2021 un gruppo di ricerca guidato da Will Roebroeks sempre dell'Università di Leida ha suggerito che questa pratica sia assai più antica, perchè anche i Neanderthal stavano già trasformando il loro habitat. Nel sito di Neumark-Nord, nella valle di Geiseltal, nel lander tedesco della Sassonia-Anhalt, sono stati esaminati alcuni sedimenti, dai uali è emerso che 125.000 anni fa (alle ore 23.45.24), durante il periodo caldo Eemiano, gruppi di Neanderthal si stabilirono qui, sulla sponda del lago. La presenza di Homo neanderthalensis durò per circa duemila anni, come rivelano numerosi strumenti litici e residui di macellazione. Il carbone e il particolare polline presenti nel sedimento suggeriscono che qui bruciavano ripetutamente incendi su larga scala e che prevaleva un paesaggio aperto. Intorno ad altri laghi a est della catena montuosa dell'Harz, invece, c'era una densa foresta.
Diversi scenari possono spiegare questo risultato: forse la zona era naturalmente ricoperta da una densa foresta, e i Neanderthal vivevano qui proprio per questo motivo. Forse era così solo all'inizio, e più tardi hanno deliberatamente contribuito alla deforestazione quando la copertura degli alberi minacciava di diventare troppo densa. Forse gli incendi erano una conseguenza involontaria dello stile di vita dei Neanderthal: basta pensare agli incendi boschivi causati da falò che sfuggono al controllo. O forse, secondo Roebroeks e il suo gruppo, i Neanderthal hanno deliberatamente appiccato incendi fin dall'inizio e deforestato la zona per lasciare spazio alla vegetazione aperta. Il vantaggio delle foreste aperte infatti consiste nel fatto che offrono habitat significativamente più adatti per diverse specie animali e vegetali rispetto alla foresta densa specialmente lungo i confini dei due habitat. Le radure estese attirano anche grandi animali da pascolo che venivano cacciati dai Neanderthal. Dove c'è molta luce, crescono più alberi giovani, che sono più facili da abbattere per via del minor diametro del tronco.
Poiché c'erano solo poche decine di migliaia di Neanderthal in tutta l'Europa, la loro influenza sul paesaggio, se c'era, era probabilmente limitata a poche macchie: una differenza significativa rispetto ai paesaggi dell'Europa moderna, dominata dalle coltivazioni. Le comunità preistoriche dunque hanno avuto un'influenza altrettanto distruttiva sulla natura, poiché hanno colonizzato nuove terre e hanno spazzato via in breve tempo le specie animali autoctone. Questo è probabilmente quello che è successo nel continente nordamericano o nelle isole del Pacifico precedentemente disabitate.
Moda e architettura Neanderthal
E i vestiti? L'abitudine di portare vestiti è talmente radicata nella nostra civiltà, da farci dimenticare in genere che noi siamo gli unici animale a farne uso. Eppure, c'è un bel po' di cose che sappiamo circa l'invenzione dell' abbigliamento. Molte ricostruzioni paleolitiche ci mostrano individui vestiti di pelli che non rendono giustizia alla realtà. Gli uomini di quell'era lontana adoperavano aghi in osso finemente lavorati già molti millenni fa, come quelli usati per cucire le migliaia di perline di avorio e denti di volpe che coprivano i corpi di una ragazza e un ragazzo sepolti a Sunghir, in Russia, circa 28.000 anni fa (ore 23.56.44). Inoltre, a parte gli stereotipi alla Flintstone, i vestiti dell'età della pietra non erano solo pelli di animali. Già dal 1990 si sa che i nostri antenati di allora erano in grado di produrre vesti con la tecnica della tessitura, un particolare che troviamo inciso su terrecotte provenienti dai siti di Pavlov e Dolni Vestonice in Repubblica Ceca. Nella Caverna di Dzudzuana in Georgia sono state rinvenute 30.000 vecchie fibre vegetali filate che erano state successivamente tinte di colori rosa, blu, nero e turchese.
Ma i Neanderthal? Dopotutto vivevano in un'Europa ricoperta dai ghiacci. Le ricerche su come i mammiferi mantengono la loro temperatura corporea a livelli salutari suggeriscono che anche loro avevano bisogno di rivestimenti decenti, in grado di coprire almeno l'80 % del loro corpo durante i periodi freddi, soprattutto mani e piedi. Abbastanza sorprendentemente, ci sono prove che i Neanderthal più di 100.000 anni fa (ore 23.48.19) erano esperti nella concia di pelli di animali: uno strumento di pietra dal sito di Neumark-Nord in Germania ha conservato frammenti di materiale organico attaccato ad esso che sono stati impregnati di tannino, la sostanza tratta dalla corteccia di rovere ancora oggi usata per preparare il cuoio. La pietra probabilmente faceva parte del manico di uno strumento che è stato bagnato mentre le pelli venivano lavorate. Anche se mancavano di aghi sottili (inventati molto più tardi ), gli uomini di Neanderthal non avevano bisogno di essi per cucire le loro pelli.
Se vogliamo tornare più indietro nel tempo, per la nostra ricerca dobbiamo rivolgerci ai... pidocchi. Infatti i pidocchi parassiti dell'uomo si sono adattati nei secoli a vivere nei suoi vestiti, e così devono essersi evoluti una volta che l'uomo ha iniziato a indossarli. Ricerche compiute analizzando il DNA suggeriscono che questo avvenne almeno 170 mila anni fa (ore 23.40.09), prima della più antica evidenza archeologica.
Le "novità" introdotte per la prima volta dai Neanderthal non si limitano ai vestiti. I ricercatori del Museo di Storia Naturale di Parigi, in collaborazione con l'Accademia Nazionale delle Scienze d'Ucraina, sostengono che i nostri cugini non cacciavano i Mammut solo per cibarsi, ma anche per usare le sue grandi ossa nella costruzione della loro abitazioni. « Finora si pensava che solo l'uomo moderno fosse in grado di costruire delle capanne con le ossa di mammut », ha spiegato Marylene Patou-Mathis. « Il nostro studio innovativo dimostra scientificamente che il Neanderthal aveva le stesse attitudini cognitive e abilità del Sapiens ». Gli studiosi franco-ucraini si sono avvalsi del materiale raccolto sul sito archeologico Molodova I, nella valle del Dnestr in Ucraina, ricco di vestigia del Paleotico medio. In particolare sono stati trovati 40 mila artefatti, attrezzi di vita quotidiana e circa 3.000 ossa di mammiferi, molti dei quali di Mammuthus primigenius. « In un habitat di questo tipo, con prevalenza di steppa e molto freddo, il legno vegetale era piuttosto raro. I Neanderthal avevano capito per primi che potevano sostituire il legno con le ossa degli animali », ha aggiunto la ricercatrice. Usando i grandi femori dei mammut piantati nel terreno rivestiti con pelli di renna, i nostri parenti potevano così ripararsi dal freddo e costruirsi delle capanne « perfettamente abitabili e confortevoli ». Delle case, assicura Marylene Patou-Mathis, « che non avevano nulla da invidiare a quelle che, migliaia di anni più tardi, avrebbero costruito i Sapiens, utilizzando le stesse tecniche ».
Appare ormai certo che i Neanderthal avevano una tecnologia sufficiente a realizzare strumenti anche con l'uso di catrame di betulla, come ha rivelato uno studio di Marcel Niekus, della Foundation for Stone Age Research in the Netherlands a Groeningen, nei Paesi Bassi, e colleghi. L'uso di catrame di betulla come adesivo per fissare pietre affilate su supporti di legno e realizzare così vari tipi di strumenti è stato dedotto analizzando un reperto scoperto nel 2016 sulla spiaggia di Zandmotor, nei Paesi Bassi, in uno strato geologico in cui c'era anche una porzione di cranio neanderthaliano, datato a circa 50.000 anni fa (alle 23.54.09). Si tratta di un frammento di selce affilato su un lato e coperto di catrame di betulla sull'altro, in modo da poter essere impugnato e usato esercitando molta pressione senza ferirsi. Probabilmente l'oggetto non era destinato alla caccia ma al taglio e alla raschiatura. La costruzione di uno strumento di questo tipo richiedeva un procedimento in più fasi, dalla raccolta di un particolare tipo di legno alla sua combustione per estrarne il catrame: l'analisi della microstruttura dei residui ha stabilito che la temperatura doveva raggiungere i 350°-400° per una resa ottimale. Inoltre, il catrame ottenuto, simile alla gomma, doveva essere modellato, aspettando che diventasse solido una volta raffreddato a temperatura ambiente. Le conclusioni delle analisi di Niekus e colleghi portano a diverse possibili interpretazioni sul comportamento dei Neanderthal: la prima è che lo strumento doveva avere una notevole utilità pratica per giustificare un così ampio impiego di risorse. Inoltre, l'uso di catrame come adesivo implica un certo grado di pensiero complesso, fatto di pianificazione, conoscenza dei materiali e astrazione, oltre a una capacità di conservazione e trasmissione delle conoscenze tecniche. Tutto questo non è affatto banale in una società, come quella neanderthaliana, formata da piccoli gruppi nomadi. Una popolazione numerosa, hanno sottolineato Niekus e colleghi, non è quindi una condizione necessaria per sviluppare tecnologie avanzate. Secondo i ricercatori, anche l'ambiente relativamente freddo e ostile delle latitudini a cui è stato scoperto il reperto di selce, ai limiti settentrionali dell'area occupata dai Neanderthal, può aver rivestito un ruolo importante nello sviluppo di tecnologie raffinate e nella produzione di catrame in grandi quantità.
Ibridi sapiens-Neanderthal?
Nel corso della seconda metà del XX secolo si è molto dibattuto in ambito accademico se l'uomo di Neandertal fosse da considerare una sottospecie di Homo sapiens, con la conseguente possibilità di incrocio e ibridazione tra i due, oppure se sia una specie autonoma. Nel primo caso, il nome della specie sarebbe Homo sapiens neanderthalensis; nel secondo, si deve invece parlare di Homo neanderthalensis. Nel corso dell'ultimo decennio la controversia sembra risolta a vantaggio della seconda opzione, visto che il biologo molecolare svedese Svante Pääbo del Max Planck Institut di Lipsia ha testato sequenze di DNA proveniente da ossa del suddetto sito di Vindija, le quali secondo lui mostrano una condivisione del 99,5% del patrimonio genetico con Homo sapiens; secondo le sue stime, pubblicate in un articolo sulla rivista Nature, la divergenza fra le due specie risalirebbe addirittura a 516 mila anni fa (alle 22.59.44); inoltre il Neanderthal aveva la carnagione chiara e possedeva già i geni del linguaggio e dell'intolleranza al latte. Preso dall'entusiasmo, Svante Pääbo ha anche iniziato la ricostruzione integrale del patrimonio genetico di Homo neanderthalensis, giunta per ora a il 60 % del totale. E così, in questo ipertesto io ho optato per la classificazione dei Neanderthal in una specie a parte. Per questi suoi eclatanti risultati, Pääbo è stato insignito del Premio Nobel per la Medicina nel 2022!
Comunque la discussione è sicuramente più aperta che mai. Fino a poco tempo fa sembrava assodato che le ibridazioni fossero impossibili: Edward Rubin, direttore del Lawrence Berkeley National Laboratory e del Joint Genome Institute (JGI), a fine 2006 ha pubblicato un articolo in cui sosteneva di poter escludere con certezza, prove genetiche alla mano, che vi siano mai stati incroci tra i due gruppi umani, e questo sfortunatamente significava che l'unica cosa che essi hanno incrociato sono state le mazze e le scuri. Ma Olga Rickards, esperta di genetica dell'Università Tor Vergata di Roma ha più recentemente confrontato la mappa genetica dei Neanderthal eseguita da Svante Pääbo con quella di cinque individui dei nostri giorni: un francese, un cinese, un abitante della Papua Nuova Guinea, uno del Sudafrica e uno dell'Africa occidentale. Lo scopo era quello di confrontare le caratteristiche genetiche dei Neanderthal con quelle dei suoi parenti ominidi, scimpanzè compreso, stabilendone così le somiglianze con l'uomo moderno e individuando i tratti genetici esclusivi dell'uomo contemporaneo. Il risultato è stato che l'uomo moderno del tipo europeo, asiatico e melanesiano condivide con l'uomo di Neanderthal tra l'uno e il quattro per cento del suo patrimonio genetico, mentre nel DNA degli africani non vi sarebbe traccia di quello del nostro parente estinto dal mento sfuggente. Conclusione: l'Homo neandertalensis e l'Homo sapiens si sarebbero incontrati e accoppiati, probabilmente nella zona mediorientale della Mezzaluna Fertile, fra i 100 mila e i 50 mila anni fa, quindi dopo la loro fuoriuscita dall'Africa. Se è vero, ci sarebbe un po' di uomo di Neanderthal in tutti noi, geneticamente parlando. Perchè è tanto importante per noi confermare questo risultato? Forse è una conseguenza del senso di colpa per l'eventuale genocidio dei Neanderthal da parte dei più evoluti Cro-Magnon? Certamente sarebbe molto più tranquillizzante per la nostra coscienza, riuscire a dimostrare che i due gruppi convissero in pace, e che i Neanderthal scomparvero solo perchè "riassorbiti" dai sapiens tramite fusione dei due popoli. Anche Sarah Tishkoff, una dei maggiori esperti di genetica delle popolazioni africane, che lavora all'Università della Pennsylvania, il 26 luglio 2012 ha pubblicato un articolo che illustra i dettagli del sequenziamento completo del genoma di cinque individui per ciascuno dei tre gruppi di cacciatori-raccoglitori ancora esistenti: i pigmei del Camerun e gli Hadza e i Sandawe della Tanzania. I risultati hanno rivelato milioni di varianti genetiche di recente scoperta: differenze in una singola lettera (A, T, C, G) del codice genetico, secondo le quali molto tempo fa i primi umani moderni possono essersi incrociati con altre specie di ominidi, anche se la documentazione fossile non fornisce molti dati che lo suffraghino.
Una possibile conferma è arrivata nel 2017, grazie al lavoro di alcuni ricercatori del Max-Planck-Institut per la storia dell'umanità a Jena e dell'Università di Tübingen. Secondo loro, circa 270.000 anni fa (alle 23.28.28) un gruppo di ominidi strettamente imparentati con l'essere umano moderno giunse in Europa dove si mescolò con i Neanderthal che vi abitavano. La scoperta è stata possibile grazie all'analisi del DNA mitocondriale estratto da un femore neanderthaliano venuto alla luce nella grotta di Hohlenstein-Stadel, nella Germania sud-occidentale, e datato a circa 124.000 anni fa (alle 23.45.31), ben prima dell'arrivo sul continente dei primi Homo sapiens. Precedenti ricerche basate sull'analisi del DNA nucleare dei Neanderthal e sul suo confronto con quello degli esseri umani moderni hanno stimato che la separazione dei due gruppi sia avvenuta fra i 765.000 i 550.000 anni fa circa (tra le 22.30.39 e le 22.55.46); inoltre le stesse analisi hanno rilevato uno stretto apparentamento fra Neanderthal e l'uomo di Denisova, l'altro nostro "cugino" umano estinto, di cui parleremo più avanti. Il patrimonio genetico non è tuttavia formato dal solo DNA nucleare, che si trova cioè nel nucleo delle cellule, ma anche da quello presente nei mitocondri, che derivano solo dalle cellule uovo della madre. Il DNA mitocondriale permette quindi di ricostruire l'ascendenza materna. Ebbene, gli studi sul DNA mitocondriale hanno indicato una data molto più recente per la separazione fra Neanderthal ed essere umano moderno: meno di 400.000 anni fa (ore 23.13.17). Le analisi di DNA nucleare e mitocondriale indicano quindi due date notevolmente differenti per la separazione del lignaggio dell'essere umano moderno e neanderthaliano, suggerendo che in qualche momento della storia dei Neanderthal ci sia stato un parziale mescolamento dei due lignaggi. Questa ipotesi è stata confermata dall'analisi del DNA mitocondriale del femore di Hohlenstein-Stadel: quel DNA è infatti risultato differente da quello dei neanderthaliani più antichi e più simile a quelli dell'essere umano moderno. Prendendo in esame il cosiddetto orologio molecolare (cioè il tasso medio di mutazioni che intervengono nel DNA nel corso del tempo) Johannes Krause e colleghi sono riusciti a definire una linea temporale di questi eventi. La migrazione dall'Africa all'Europa degli antenati diretti dell'uomo moderno sarebbe avvenuta fra 470.000 e 220.000 anni fa (tra le 23.00.06 e le 23.34.18), con il picco di probabilità intorno ai 270.000 anni fa. Il gruppo dei nuovi migranti deve essere stato abbastanza piccolo da non avere un grande impatto sul DNA nucleare dei Neanderthal, ma abbastanza grande da sostituire la linea mitocondriale dei Neanderthal dell'epoca. Questo scenario, concludono i ricercatori, implica inoltre che la popolazione dei Neanderthal europei doveva essere più consistente di quella finora stimata.
C'è invece chi sostiene che l'uomo moderno ha solo dato il colpo di grazia ai Neanderthal, la cui specie al momento dell'incontro con i sapiens era già in pesante declino. Le analisi del DNA fossile di alcuni neanderthaliani della Spagna settentrionale indicherebbero infatti che 50.000 anni fa in Europa la maggior parte degli uomini di Neanderthal era già scomparsa. Successivamente, un piccolo gruppo di uomini di Neanderthal avrebbe ricolonizzato l'Europa centro-occidentale, dove sarebbe sopravvissuto per altri 10.000 anni, prima che entrasse in scena l'uomo moderno. « Che gli uomini di Neanderthal in Europa si fossero quasi estinti, per poi recuperare, e che tutto questo abbia avuto luogo molto tempo prima che venissero in contatto con gli esseri umani moderni, è stata una sorpresa. Ciò indica che l'uomo di Neanderthal potrebbe essere stato più sensibile di quanto si pensasse ai drammatici cambiamenti climatici avvenuti in epoca glaciale », ha spiegato Love Dalen, del Museo Svedese di Storia Naturale a Stoccolma. I ricercatori hanno rilevato che, nel corso dei diecimila anni precedenti alla loro scomparsa, la variazione genetica tra i Neanderthal europei era estremamente limitata. I fossili europei più antichi, come quelli provenienti dell'Asia, avevano una variabilità genetica molto maggiore, paragonabile a quella esibita da una specie la cui popolazione prospera in una regione per un lungo periodo di tempo. « La quantità di variazioni genetiche nei Neanderthal geologicamente più antichi, come in Asia, era pari a quella degli esseri umani moderni, mentre la variazione tra gli ultimi Neanderthal europei non era superiore a quella degli esseri umani moderni in Islanda », ha aggiunto Götherström Anders, dell'Università di Uppsala.
Un passo avanti decisivo in questa direzione è stato l'annuncio, avvenuto nel marzo 2013, della scoperta del primo fossile di ibrido Homo sapiens-Neandertal mai rinvenuto. Nel 2006 vennero ristudiati alcuni frammenti – a un primo esame, resti del genere Homo – appartenenti alle collezioni del Museo di Storia Naturale di Verona. Tra i ricercatori c'era l'antropologa Silvana Condemi, che attribuì alcuni di essi non all'uomo moderno, bensì al Neanderthal. L'ipotesi venne poi confermata da David Caramelli, specializzato nell'analisi genetica sui reperti alpini, che sequenziò il DNA di uno dei frammenti e li confermò come neandertaliani. Studi ulteriori rivelano che questi individui, come pure altri ritrovati in Spagna, avevano capelli rossi e pelle chiara. Ma ad interessarci sono le analisi di una mandibola molto particolare, detta la mandibola di Mezzena dal luogo del ritrovamento originario, sui monti Lessini (Verona). Dal punto di vista morfologico, la mandibola è « sapiens »; non lo è però il suo DNA. In altre parole: la mandibola non è sfuggente com'è tipico dei Neanderthal; eppure il patrimonio genetico riscontrato appartiene a questo genere. Un ibrido, forse? È un'ipotesi plausibile, anche se, per esserne certi, occorrerà analizzare il genoma di neandertaliani più antichi, vissuti intorno ai 130 mila anni fa, quando, a quanto sappiamo, l'Homo sapiens non era ancora uscito dall'Africa, e tra i due generi non c'erano state occasioni di contatto.
« Se anche in individui di quell'epoca si troveranno tracce di genoma condiviso, allora potrebbero aver ragione gli autori che sostengono che questa comunanza è dovuta all'origine di entrambi dall'Homo ergaster. Se di tracce invece non se ne trovano, potrebbe trattarsi di un incrocio isolato », ha affermato David Caramelli. « Non sappiamo se questo individuo fosse solo o se appartenesse a un gruppo. Se si trattasse di F2, F3 o F4 – il termine tecnico con il quale indichiamo la generazione di appartenenza, se i figli, i nipoti o i pronipoti del primo ibrido – non lo possiamo dire. Ciò che sappiamo, però, visto che l'analisi riguarda il DNA mitocondriale, che si trasmette per via materna, è che l'incrocio fu tra un Homo sapiens e un Neandertal femmina ».
Sriram Sankararaman e colleghi dell'Harvard Medical School di Boston hanno inoltre accertato che il genoma degli Homo sapiens non africani contiene tracce degli antenati Neanderthal, ma il DNA dei Neanderthal non è distribuito uniformemente nel nostro genoma . I geni dei Neanderthal infatti sono stati trovati con alta frequenza nelle latitudini più settentrionali, riguardano la pelle e le caratteristiche dei capelli, e potrebbero aver aiutato i moderni umani ad adattarsi all'ambiente più freddo diverso da quello africano. Ciò potrebbe essere avvenuto fornendo loro una pelle più spessa, anche se li ha esposti a più alti rischi di contrarre il diabete o il lupus, malattia cronica della pelle. Si tratta dei primi studi che approfondiscono l'influenza degli effetti biologici che il transfert di geni neanderthaliani ha avuto sugli umani. Gli stessi elementi genetici potrebbero aver giocato un ruolo nelle migrazioni dell'Homo sapiens dal nord dell'Africa verso il resto d'Europa.
Non tutti però si sono rassegnati alla scomparsa di questa razza precursore della nostra, e la fantasy ci ha ricamato su abbondantemente. Lyon Sprague de Camp (1907-2000) nel suo "L'uomo nodoso" del 1939, e Peter Schuyler Miller (1912-1974) nel suo "Il vecchio Mulligan" del 1940 immaginano entrambi che un uomo di Neanderthal, in seguito a un misterioso incidente occorsogli nel Paleolitico (un fulmine nell'un caso, una tremenda botta in testa nell'altro), non sia più invecchiato e sia sopravvissuto fino al momento presente. Il Neanderthal di Sprague de Camp, essendo diventato un fabbro nell'Età dei Metalli, ed essendosi rotto la gamba cadendo da un albero, avrebbe dato vita alla leggenda di Vulcano, l'immortale fabbro storpio degli déi; quello di Schuyler Miller invece avrebbe addirittura interpretato ruoli importantissimi nella storia del passato, diventando tra l'altro "il suocero di Mosè, la guardia del corpo di Abramo e il magnano di Giulio Cesare", come testimonierebbe il ritornello da lui cantato mentre è alticcio: « Sono nato centomila anni fa-a-a, / e non c'è niente al mondo che non so-o-o; / ho visto Pietro, Paolo e Mosè-è-è.... » Fervida fantasia da scrittori di fantascienza...
E ora, un'altra scoperta davvero stupefacente. Si sa che il giudeo-cristianesimo ha sempre visto nel serpente il simbolo del male, perché fu proprio questo rettile a provocare la cacciata dell'uomo dal giardino dell'Eden; ma, molto prima che si formasse questa tradizione, il serpente era addirittura adorato come divinità suprema. Infatti nel 2006 un team di archeologi norvegesi ha scoperto nello stato africano del Botswana una caverna dove circa 70.000 anni fa (ore 23.51.49) sarebbero stati praticati i più antichi riti religiosi, consistenti nella venerazione di un dio pitone. La caverna in questione si trova sulle colline Tsodile, ed in essa Sheila Coulson, archeologa che lavora all'Università di Oslo, ha ritrovato una grande pietra lavorata che raffigurava la testa di un pitone. La scoperta ha davvero dell'eccezionale perché fino ad oggi si pensava che le prime cerimonie religiose fossero state organizzate solo 30.000 anni fa dall'Homo sapiens, come attestavano i reperti scoperti in Europa. Ma a quanto sembra il sentimento religioso si sviluppò negli Homo africani molti millenni prima. Infatti dietro la pietra c'era un grosso spazio, nel quale secondo gli archeologi si posizionava lo sciamano, che cominciava a parlare senza essere visto e ciò faceva sembrare che fosse il dio pitone a parlare. Secondo la Coulson, i raggi del sole fanno apparire il serpente più grande, mentre di notte, quando si accendono fiamme nella caverna, il pitone sembra addirittura muoversi. Davanti al dio pitone probabilmente gli uomini primitivi facevano sacrifici e ponevano manufatti, tra cui pietre rosse che successivamente venivano bruciate. In questo luogo avvenivano solo riti religiosi, perché non vi è alcun arnese che testimoni una vita domestica nella grotta. La studiosa norvegese ritiene che ciò dimostra come quelle persone erano più organizzate di quanto si pensi, avendo già interiorizzato l'idea di dividere le attività quotidiane dall'adorazione del divino.
Nei genomi neanderthaliani i ricercatori leggono anche indizi che suggeriscono una struttura patrilocale, nella quale i maschi sarebbero rimasti a vivere nella comunità in cui erano nati, mentre le femmine, una volta cresciute, avrebbero cambiato gruppo di appartenenza per unirsi a quello del compagno e far nascere lì i propri figli. Ma come sono arrivati a formulare questa ipotesi? In effetti, analizzando il DNA mitocondriale, il cromosoma Y e centinaia di migliaia di geni del DNA nucleare, è emerso che i fossili di Chagyrskaya, località sui Monti Altai all'estremità orientale dell'areale dei nostri parenti più prossimi, rappresentano una piccola comunità Neanderthal. Tra i suoi membri, in particolare, sono stati riconosciuti un padre e una figlia adolescente, alcuni uomini che potrebbero essere cugini materni, e una coppia di individui (un uomo e una donna) con una non meglio specificata parentela di secondo grado. In tutti gli individui si nota una diffusa ed estesa presenza di omozigosi (una condizione che si verifica quando riceviamo copie uguali di geni da parte materna e paterna), e questo porta gli autori a concludere che le dimensioni della comunità di Chagyrskaya fossero ridotte. Secondi i criteri usati attualmente per classificare le specie animali, avrebbe potuto essere considerata una comunità a rischio di estinzione. I DNA mitocondriali ereditati dalle madri mostrano una diversità molto maggiore rispetto alle sequenze dei cromosomi Y ereditate dai padri. Lo scenario che sembra spiegare meglio la complessità dei dati prevede una comunità di una ventina di persone, in cui almeno il 60 per cento delle donne provenivano da altre comunità. In altri luoghi, in particolare a Vindija in Croazia, sembra vivesse una popolazione più numerosa di quella della grotta siberiana, e anche questo spinge gli autori a chiedersi se le caratteristiche delle comunità degli Altai siano legate alla loro collocazione geografica isolata all’estremità orientale della distribuzione nota dei Neanderthal, o se siano tipiche delle comunità di Neanderthal più in generale. Per scoprirlo, ovviamente, serviranno ulteriori studi su altri gruppi neanderthaliani in altre parti dell’Eurasia.
L'ultimo arrivato: Homo naledi
A complicare ulteriormente la vita dei paleoantropologi è attivato, nel settembre 2015, l'Homo naledi, un nostro parente identificato grazie a oltre 1.550 resti di ossa scoperte in un pozzo profondo 30 metri in una grotta presso Maropeng, non lontano da Johannesburg, in un'area che l'Unesco ha inserito nel Patrimonio dell'umanità per la straordinaria ricchezza dei reperti dei nostri più antichi progenitori. Erano ammucchiati in una cavità accessibile solo attraverso un pozzo talmente stretto che per recuperarli è stato arruolato uno speciale team di speleologi e ricercatori che fossero magri abbastanza per entrarci con le braccia alzate sopra la testa!
Homo naledi era alto in media un metro e cinquanta e pesava circa 45 chili. Il nome, naledi, deriva da quello della Dinaledi Chamber nella grotta Rising Star, dove tra novembre 2013 e marzo 2014 sono stati scoperti i resti appartenenti almeno a una quindicina di individui. In lingua Sotho, parlata nella zona, "naledi" significa stella. Nel team internazionale di oltre 50 ricercatori che ha lavorato sull'Homo naledi c'è anche l'italiano Damiano Marchi, antropologo del dipartimento di biologia dell'Università di Pisa. Marchi si è occupato in particolare dell'arto inferiore dell'ominide, con l'obiettivo di determinare le sue peculiarità locomotorie. Secondo i ricercatori, guidati da Lee Berger dell'Università sudafricana del Witwatersrand, i reperti recuperati sono solo una parte di quelli ancora da dissotterrare nella grotta. Tra i quindici individui hanno identificato neonati, giovani e persone più anziane, e tutti presentano tratti omogenei.
Homo naledi presenta un cervello piccolo insieme a un corpo più slanciato. « È una stranezza: aveva tratti moderni insieme a caratteristiche più arcaiche », commenta Chris Stringer del Museo di Storia Naturale di Londra. Secondo Stringer, la profondità del pozzo e la sua difficile accessibilità potrebbe far supporre che i resti vi siano stati intenzionalmente depositati. Se così fosse e se la datazione confermasse un'età molto antica, sarebbe una scoperta veramente straordinaria, in quanto finora le inumazioni di defunti erano conosciute solo tra i Neanderthal e nella nostra specie Homo sapiens, quindi in epoca recente. « Sarebbe un dato sorprendente di un comportamento molto complesso in una specie che aveva un cervello non più grande di quello di un gorilla », ha affermato Stringer, entusiasta. La morfologia craniale di Homo naledi è unica, ma ci sono similitudini con altre specie di Homo, come Homo erectus, Homo habilis o Homo rudolfensis. Anche la statura e la massa corporea sono assimilabili a specie umane più piccole, mentre il limitato volume craniale lo avvicina a generi molto più antichi, come gli australopiteci. La dentatura e la forma del polso e della mano sono simili a quelle di specie moderne, così come i piedi e gli arti inferiori. Al contrario spalle, tronco, pelvi e femore prossimale hanno caratteristiche arcaiche. L'ominide era dotato di dita estremamente curve, più di qualunque altra specie simile, a testimonianza di una particolare abilità nell'arrampicarsi. I piedi, insieme alle lunghe gambe, suggeriscono inoltre che era predisposto per lunghi spostamenti. « Questa scoperta », ha concluso Stinger, « ci fa ammirare una volta di più la straordinaria complessità dell'evoluzione umana e la necessità di ulteriore ricerche per comprendere appieno tutte le diramazioni dell'albero della vita della specie umana ». Qui a sinistra, una possibile ricostruzione di questo nuovo ominide, che attende ancora di trovare il giusto posto nel pedigree della razza umana, e che alcuni si sono affrettati a definire una bufala, come l'Uomo di Piltdown: secondo il divulgatore canadese Hubert Reeves (1932-), Homo Naledi non sarebbe altro che un australopiteco, e la cosiddetta "sepoltura" una trappola dove questi australopiteci sarebbero entrati senza poterne più uscire.
A smentire questa versione è venuta però la scoperta di altri fossili di Homo naledi in una seconda camera di Rising Star, la Camera Lesedi, situata a circa 100 metri dalla Camera Dinaledi, e la loro datazione. Quei fossili sono decisamente giovani, il che sollevano molte domande sull'origine e l'evoluzione di Homo. Le ossa della Camera Dinaledi risalirebbero non a due milioni di anni fa, come si era supposto all'inizio, bensì ad un periodo compreso fra i 335.000 e i 236.000 anni fa (tra le 23.20.52 e le 23.32.26). Siamo dunque nella seconda metà del Pleistocene Medio, un'epoca in cui eravamo convinti che in Africa ci fossero solo le popolazioni più evolute di Homo heidelbergensis, dalle quali intorno a 200.000 anni fa sarebbe comparsa la nostra specie, Homo sapiens. Invece, laggiù in Africa meridionale, nel Pleistocene Medio c'erano anche degli esseri umani di aspetto molto più arcaico e di piccole dimensioni: Homo naledi. Per questo tale datazion e è sorprendente. È parecchio più recente di quanto fosse atteso per una specie che mostra caratteristiche comparabili a quelle di specie umane primordiali, datate intorno a due milioni di anni fa (in effetti, molti avevamo ipoteticamente riferito i resti della Dinaledi Chamber proprio a quell'epoca). Possiamo dunque affermare che nel Pleistocene Medio esisteva in Sudafrica più di una linea evolutiva di nostri parenti estinti. Se le cose stanno cosi, Homo naledi e da interpretare come una varietà "superstite" dei primi Homo. Homo naledi potrebbe essere emerso nello stesso periodo di Homo erectus e di altre specie precoci di Homo, o addirittura aver dato origine a Homo erectus o Homo sapiens, e i fossili di Rising Star rappresenterebbero solo un capitolo molto recente della lunga storia di Homo naledi. Se i ricercatori hanno ragione, l'Africa meridionale può avere avuto un ruolo più importante nell'evoluzione del nostro lignaggio di quanto immaginato dalla maggior parte degli esperti. Finora le conoscenze paleoantropologiche indicavano nell'Africa orientale il fulcro dell'evoluzione umana, mentre l'Africa meridionale restava ai margini. Ma è da tempo che si fanno strada altre ipotesi.
Nel 2021 è arrivata poi la descrizione da parte di Lee Berger di un bambino di Homo naledi ritrovato sempre nella grotta Rising Star: aveva un'età compresa tra i quattro e i sei anni, visse 250.000 anni fa ed è stato soprannominato Leti. Di lui ci restano un cranio parziale (28 frammenti) e di sei denti. La descrizione di un esemplare in età infantile è rara in paleoantropologia per la relativa fragilità dei tessuti ossei degli individui più giovani, che tendono a deteriorarsi più facilmente di quelli adulti; se questo colpo di fortuna da un lato apre uno spiraglio sulla crescita e lo sviluppo di questa specie, dall'altro avvalora la tesi che quel sistema di caverne avesse la funzione un sito per le sepolture rituali. Il cranio infatti è stato trovato lontano dagli altri resti, in una parte di caverna particolarmente angusta e difficile da raggiungere, da cui il nome Leti. da "letimela" che, in lingua Setswana, significa "quello perduto". Questo fa pensare che qualche membro della sua famiglia lo abbia depositato lì durante un rituale funebre, confermando che tali riti sono ben più antichi di quanto pensavamo prima della scoperta di Homo naledi. Inoltre i frammenti ossei dei Leti hanno permesso di effettuare rilevazioni biometriche, mediante le quali le dimensioni del suo cervello sono state stimate tra 480 e 610 centimetri cubi circa, corrispondenti al 90-95 % del volume di un adulto. La dimensione del cervello di Leti lo rende confrontabile con quello dei membri adulti delle specie trovate finora. In più il cranio di Leti ha ben conservata l'area della glabella, la depressione ossea tra le arcate sopracciliari, che risulta molto simile a quella osservata negli individui adulti. Ancora non sappiamo per ora quale fosse il sesso del piccolo Homo naledi, ma questa informazione si potrà ricavare da futuri studi che avranno come oggetto le proteine antiche presenti nei resti. Invece, resteranno probabilmente un mistero le cause della morte di Leti, considerato che i resti non recano segni di ferite che possano far pensare a un trauma.
Oltre a scuotere l'albero genealogico e la biogeografia dell'evoluzione umana, Lee Berger afferma che la scoperta di più ossa in un'altra parte del sistema di grotte, difficile da raggiungere, suffraga la sua ipotesi che Homo naledi abbia deliberatamente collocato i suoi morti in quei luoghi. Finora si riteneva che il comportamento funerario fosse esclusivo di Homo sapiens. Inoltre, le nuove datazioni di Homo naledi indicano che viveva in un'epoca in cui gli antenati umani stavano producendo sofisticati strumenti di pietra, e non si può escludere che Homo naledi ne fosse l'artefice. In questo caso, gli scienziati dovranno riconsiderare la longeva nozione che la dimensione del cervello guida la complessità del comportamento. Non tutti naturalmente sono d'accordo con queste conclusioni. Dal canto suo, il paleoantropologo francese Jean-Luc Voisin dell'Università di Aix-Marseille ritiene che gli arti di Homo naledi fossero quelli di un arrampicatore, come i ben più antichi Australopiteci, e siccome nella regione in cui abitava gli alberi sono radi, sulla scorta della sua esperienza di scalatore ritiene che Homo naledi si fosse adattato ad arrampicarsi sulle falesie e le doline di cui è piena la regione carsica della "Culla dell'Umanità", onde sfuggire lestamente ai grandi predatori. Infine, il paleoecologo a J. Tyler Faith dell'Università del Queensland in Australia ritiene che, se le datazioni sono corrette, Homo naledi rappresenterebbe un classico esempio di vicolo cieco evolutivo, notando le analogie con Homo floresiensis: Homo naledi secondo lui non avrebbe mai potuto dare origine a popolazioni umane oggi viventi. Occorreranno lunghi studi per dissipare il mistero che ancora avvolge l'ultimo arrivato nell'albero genealogico umano. Comunque proseguiranno le ricerche, tuttavia, dalla vicenda di Homo naledi possiamo ricavare un'importante morale. Questa nuova scoperta dimostra perché e inutile, e di solito sbagliato, cercare di prevedere 1'età di un fossile basandosi solo sul suo aspetto; al tempo stesso, ci conferma che una buona datazione e solo quella ottenuta attraverso test indipendenti e quanto più numerosi e affidabili possibile.
L'Homo sapiens
Non più tardi di 160.000 anni fa (ore 23.41.19) comparve il primo rappresentante di una nuova specie, detta Homo sapiens, anche se il primo ritrovamento di uno scheletro di questo tipo risaliva a 40.000 anni fa ed è noto come Uomo di Cro-Magnon, dal nome della località della Dordogna (Francia meridionale) in cui nel 1868 venne riportato alla luce. Ne furono trovati sette scheletri anche nelle Grotte dei Balzi Rossi (Ventimiglia). L'uomo di Cro-Magnon aveva un'altezza rilevante, di poco inferiore a quella attuale, ed era caratterizzato da fronte alta, faccia piccola con orbite basse e approssimativamente rettangolari, ed uno scheletro più slanciato di quello dell'uomo di Neanderthal. Fino agli anni sessanta del novecento si pensava che fosse un suo discendente diretto, mentre oggi i Neanderthal appaiono al più come suoi lontani cugini. Siamo negli ultimi cinque minuti dell'Anno della Terra.
Dell'Homo sapiens si conoscono due sottospecie: Homo sapiens idaltu, estinta, ed Homo sapiens sapiens, cui apparteniamo noi. La prima visse in Africa circa 160 mila anni fa (ore 23.41.19); il nome idàltu deriva dalla lingua Afar e significa "primogenito". I suoi resti fossili furono scoperti nel 1997 da Tim White nel sito di Middle Awash nel triangolo di Afar in Etiopia, una regione caratterizzata da plateau vulcanici. Egli trovò tre crani ben conservati, il migliore dei quali apparteneva ad un maschio adulto con una capacità cranica di 1450 cm3; gli altri due erano resti del cranio di un altro maschio adulto, e quello di un bambino di sei anni. Quanto alla seconda sottospecie, in questo ipertesto il nome "Homo sapiens sapiens" non è stato adottato, perchè quel doppio sapiens mi sembra francamente troppo, per una razza come la nostra; e penso che in molti converranno con me su questo punto.
Quest'uomo, di cui noi siamo diretti discendenti, si rivelò industrioso e intelligente, dato che cominciò a costruire abitazioni e a vivere in comunità. Per quanto ne sappiamo fu lui il primo a mettere piede in America, alla fine del Pleistocene, sfruttando un passaggio ghiacciato sopra lo stretto di Bering. Le principali culture cui l'uomo di Cro-Magnon diede vita sono la cultura magdaleniana, dal nome della grotta di La Madeleine in Dordogna, con la quale le pitture rupestri sulle pareti delle caverne raggiunsero il loro apice (ci sono stati ritrovamenti in 120 località), e quella aurignaziana, dal sito francese di Aurignac, caratterizzata da utensili d'osso, raschiatoi e bulini. In passato si era creduto che queste culture fossero comparse quasi dal nulla nell'Europa del Paleolitico, e ciò aveva alimentato la leggenda che esse fossero dovute ad ondate di emigrazione dall'Atlantide o da qualche altra avanzata civiltà primigenia, ma oggi lo studio più attento dei fossili ha confinato tale ipotesi nell'ambito della fantascienza.
Alla fine degli anni novanta del secolo scorso, molti paleoantropologi erano convinti che le capacità cognitive necessarie per dare origine a culture umane simili alla nostra, cioè dotate di un linguaggio complesso e di culture simboliche, sarebbero apparse all'improvviso 50.000 anni fa (alle 23.54.09), come risultato di una casuale mutazione genetica prodottasi in popolazioni già moderne dal punto di vista anatomico ma non da quello cognitivo. Sculture, ornamenti, pitture, strumenti musicali e sepolture del Paleolitico Superiore europeo, cioè tra 42.000 e 10.000 anni fa (tra le 23.55.06 e le 23.58.49), erano visti come la prova evidente di questo cambiamento radicale. Quelle espressioni culturali erano considerate anche come la dimostrazione dell'abisso biologico e cognitivo che sembrava separare i primi uomini anatomicamente e cognitivamente moderni arrivati in Europa circa 42.000 anni fa (ore 23.55.06) dalle popolazioni neanderthaliane già presenti sul suolo europeo da centinaia di migliaia di anni. Forti di importanti innovazioni tecnologiche i nuovi arrivati, cioè i suddetti uomini di Cro Magnon, avrebbero rapidamente rimpiazzato i Neanderthal. All'inizio del nostro secolo, tuttavia, questa visione semplicistica ha lasciato il passo a un'altra, secondo cui la cognizione che caratterizza tutte le popolazioni umane attuali si sarebbe sviluppata molto prima di 50.000 anni fa e sarebbe la conseguenza diretta dell'origine della nostra specie in Africa. In altre parole, tutte le popolazioni umane di oggi discenderebbero da una popolazione ancestrale africana. La prova di questo modello era nella forte variabilità genetica delle popolazioni africane di oggi, più elevata in assoluto rispetto alla diversità delle popolazioni umane attuali non africane. Le informazioni genetiche disponibili in quegli anni suggerivano anche una riduzione graduale e in tutte le direzioni di questa diversità a partire delle regioni orientali o meridionali dell'Africa. Inoltre, simulazioni realizzate con i dati genetici identificavano un'espansione che sarebbe avvenuta negli ultimi 200.000 anni a partire da una piccola popolazione.
I dati genetici erano dunque interpretati a favore di uno scenario in cui un'unica, piccola popolazione aveva "conquistato" prima l'Africa e in seguito tutto il pianeta. A questa visione alcuni opponevano la cosiddetta "ipotesi multiregionale", che considerava invece la nostra specie come il risultato di un'evoluzione indipendente in Africa e in Asia a partire da popolazioni arcaiche locali. In parallelo ai dati genetici, alcuni resti umani con caratteri moderni, come quelli venuti alla luce nei siti di Herto e di Omo Kibish in Etiopia e datati tra 200.000 e 150.000 anni fa (tra le 23.36.38 e le 23.42.29), erano interpretati come i probabili rappresentanti fossili di questa prima umanità. Dotate di morfologia cranica e cognizione moderne, le popolazioni della nuova specie avrebbero rapidamente rimpiazzato senza scambi genetici e culturali degni di nota le popolazioni arcaiche africane prima di uscire dall'Africa durante un evento indicato come "Out of Africa", a partire da circa 180.000 anni fa (dalle 23.38.59). In seguito, a partire da 60.000 anni fa (dalle 23.52.59), avrebbero rimpiazzato in maniera sistematica tutte le popolazioni arcaiche eurasiatiche, come i Neanderthal in Europa e nel Vicino Oriente, e i discendenti di Homo erectus e Homo ergaster in Asia. Generando la specie Homo sapiens, la selezione naturale avrebbe fornito una marcia in più a quella piccola popolazione moderna originaria: nuove facoltà cognitive, tra cui un linguaggio simile al nostro e la capacità di elaborare e trasmettere innovazioni tecnologiche complesse e culture simboliche, incluse le prime mitologie e le prime religioni. Questo modello presentava il vantaggio di essere semplice. La chiave del nostro successo consisteva nel fatto che eravamo una specie nuova, diversa e meglio adattata rispetto alle altre specie umane che a quell'epoca vivevano sulla Terra. Eravamo quindi ineluttabilmente destinati a rimpiazzare le popolazioni biologicamente e cognitivamente arcaiche: certamente un'ipotesi che solletica il nostro orgoglio di specie destinata a dominare il Pianeta. Ma nuove scoperte e innovazioni metodologiche in paleoantropologia, genetica e archeologia ci spingono ora a pensare a un processo più complesso: gli studi più recenti dimostrano che i caratteri anatomici che distinguono la morfologia cranica dei sapiens da quella dei nostri antenati più arcaici si affermarono definitivamente tra 100.000 e 35.000 anni fa (tra le 23.48.19 e le 23.55.55), quindi più di recente rispetto al periodo in cui era stato fissato 1'emergere della nostra specie in Africa.
Proprio in questa direzione ci spingono recenti, eccezionali scoperte archeologiche, come i fossili scoperti nel 1961 in Marocco a Jebel Irhoud, datati nel 2018 tra i 350.000 e i 280.000 anni fa (tra le 23.19.07 e le 23.27.18) e attribuiti a Homo sapiens: essi hanno catapultato il Maghreb all'attenzione di tutti gli studiosi del mistero delle nostre origini. Addirittura un gruppo di ricercatori dell'Istituto di paleontologia dell'Università di Pechino guidati dal professor Jin Changzhu ha analizzat alcuni resti fossili umani (parti di una mandibola) nel sud della Cina, nella provincia di Guangxi, e ha sostenuto che l'Homo sapiens anatomicamente moderno è nato in Cina e non in Africa, ed ha 110.000 anni (risalirebbe quindi alle 23.47.09) invece dei centomila dell'africano. Se queste scoperte saranno confermate, rafforzeranno in modo significativo l'ipotesi multiregionale: i moderni umani sarebbero i discendenti dei primi uomini usciti dall'Africa, ma poi si sono incrociati con le popolazioni che incontravano nelle altre regioni. Le opinioni già si scontrano: il professor Milfordd Wolpoff dell'Università del Michigan si è espresso a favore del risultato cinese, mentre Chris Stringer, paleontologo del Natural History Museum di Londra, ipotizza che potrebbero essere i resti di un uomo di Neanderthal la cui popolazione di migrazione in migrazione si sarebbe spostata fino in la Cina.
Un'altra scoperta che ha sparigliato le già disordinate carte dell'albero genealogico della nostra specie è avvenuta nel 2010 sull'isola di Creta: Louis Godart su "L'Osservatore Romano" ha scritto che « a Plakias, una piccola località della Creta sud-occidentale di fronte al Mar Libico, una equipe greco-americana ha scoperto un abbondante materiale litico composto da oltre 2.000 pietre lavorate che si dividono tra piccole asce, raschiatoi, perforatori e scalpelli. » Ma non è la quantità imponente del deposito a colpire, bensì la sua datazione: secondo l'archeologa greca Eleni Panagopoulou, sono due gli strati archeologici attestati a Plakias: il primo, più recente, risalirebbe all'inizio dell'Olocene; il secondo, quello più ricco di reperti, a circa 130.000 anni fa (ore 23.44.49). L'archeologa non esclude che la fase di occupazione del sito sia addirittura molto anteriore a questo periodo. Come conciliare questi dati con la presenza a Plakias di manufatti risalenti a un periodo anteriore di circa 70.000 anni alla migrazione della specie Homo sapiens sapiens dall'Africa? E come gli antichi artigiani raggiunsero l'isola di Creta, dato che essa si è staccata dal continente oltre cinque milioni di anni fa, ed è escluso che un abbassamento del livello del mare o un periodo di glaciazione abbiano mai consentito di raggiungerla a piedi? A che epoca risale la prima navigazione umana in grado di affrontare 100 chilometri di mare aperto? Il mistero rimane: chi vivrà vedrà.
Birger Rasmussen, ricercatore presso il Dipartimento di Geologia della Curtin University, ha annunciato poi che nel sito di Pilbara, nell'Australia Occidentale, del quale abbiamo già parlato a proposito del Precambriano, avrebbe scoperto nel 2011 un gran numero di enigmatici petroglifi aborigeni, incredibilmente più antichi del sito di Stonehenge e delle piramidi d'Egitto. Queste straordinarie incisioni rupestri rappresentano figure stilizzate di esseri umani, animali (alcuni dei quali estinti circa 3.000 anni fa) e moltissimi volti umani. L'archeologo ipotizza che si possa contare fino ad un milione di incisioni! Quando furono eseguite le prime analisi sui petroglifi, i ricercatori pensarono che le rocce potessero a circa 30.000 anni fa (ore 23.56.29), ma lo studio condotto dal team del professor Brad Pillans, geologo presso l'Australian National University di Canberra, ha riservato un'incredibile sorpresa. Le analisi sono state eseguite su campioni raccolti nella Penisola di Burrup, caratterizzata da un clima tropicale semidesertico con basse precipitazioni, misurando il tasso di erosione naturale delle rocce. I risultati mostrano che la zona è interessata da tassi di erosione più bassi di qualsiasi altra parte del mondo, fornendo l'ambiente ideale per la conservazione dell'arte rupestre. « La combinazione di una roccia particolarmente resistente e del clima secco ci fanno pensare che le incisioni potrebbero risalire a ben 60.000 anni fa », cioè alle 23.52.59, ha spiegato Pillans: « Si tratta di incisioni che attraversano la storia, suggerendo che ci troviamo di fronte ad alcuni dei più antichi petroglifi del mondo ». Data la straordinaria quantità e diversità di questi magnifici petroglifi e della loro antichità, Pillans si augura che l'area possa essere presto nominata patrimonio mondiale dell'umanità da parte dell'UNESCO.
Ad inserire un nuovo tassello nella già ardua ricostruzione dell'articolato mosaico dei nostri più lontani antenati è venuta nell'autunno 2014 l'analisi genetica del DNA della tibia di un uomo delle caverne battezzato K14 (Kostenki 14), dal nome del sito Kostenki-Borshchevo lungo il medio corso del Don, in cui sino stati ritrovati i suoi resti. Finora si riteneva che le popolazioni da cui discendono gli europei fossero uscite dall'Africa non prima di 50-60.000 anni fa (23.52.59-23.54.09). Lo studio che ha portato a questi risultati lo dobbiamo ad un gruppo di paleoantropologi e genetisti dello Statens Naturhistoriske Museum di Copenaghen, dell'Università di Cambridge e del Max-Planck-Institut per l'antropologia evoluzionistica di Lipsia. K14 è uno degli europei anatomicamente moderni più antichi di cui si abbia notizia: i reperti, scoperti nel 1854 ma datati solo di recente, risalgono infatti a un periodo compreso fra 38.700 a 36.200 anni fa (tra le 23.55.29 e le 23.55.46). Grazie all'analisi genetica, Andaine Seguin-Orlando e colleghi hanno scoperto in particolare che il suo DNA era simile a quello del "ragazzo di Mal'ta", membro di una tribù di cacciatori-raccoglitori vissuta 24.000 anni fa (ore 23.57.12) sulle rive del lago Bajkal. Forti sono risultate anche le somiglianze con il patrimonio genetico della maggioranza degli europei e degli abitanti della Siberia occidentale di oggi, mentre il genoma è chiaramente distinto da quello degli asiatici orientali. I ricercatori hanno scoperto anche che K14 condivideva molte varianti genetiche con gli agricoltori neolitici europei e e da più antichi abitanti del Medio Oriente; questo suggerisce che alla formazione del suo genoma abbia partecipato un antico lignaggio eurasiatico. Inoltre, il genoma di K14 ha una percentuale di DNA neanderthaliano superiore dell'1 % circa a quello degli europei moderni. Verosimilmente, non era passato molto tempo dall'incrocio tra Homo neanderthalensis e Homo sapiens, come indicano anche recenti studi di genomica su un fossile di 45.000 anni fa (alle 23.54.45) rinvenuto in Siberia. Questi risultati dipingono un quadro sempre più complicato della colonizzazione umana dell'Europa, e suggeriscono che le moderne popolazioni europee non siano il prodotto di poche e distinte migrazioni, ma di una complessa serie di mescolanze fra varie popolazioni in costante movimento nelle regioni centroccidentali del continente eurasiatico.
Anche la forma del cervello dei nostri antenati di 160.000 anni fa è stata oggetto di dibattito: invece di una testa tondeggiante, Homo sapiens aveva un cranio largo e allungato, con un viso piuttosto affusolato. Gli scienziati hanno sempre ipotizzato che anche il cervello avesse un profilo simile a quello delle ossa. Un'ipotesi comune è che l’organo pensante si sia evoluto molto nella sua funzione e successivamente nella sua forma negli ultimi 200.000 anni; di conseguenza, il cranio che lo contiene avrebbe dovuto assumere una forma corrispondente. Un gruppo di ricerca guidato da Christoph Zollikofer dell'Università di Zurigo ha ricostruito i crani di un bambino e di un adulto provenienti dal sito di Herto, in Etiopia, risalenti a circa 160.000 anni fa (alle 23.41.19), ed hanno analizzato diversi reperti di ossa craniche provenienti dai siti di Qafzeh e Skuhl, in Israele, che risalgono a circa 100.000-120.000 anni fa (tra le 23.45.59 e le 23.48.19). Hanno poi confrontato i modelli tridimensionali dei crani fossili con 125 immagini di crani di esseri umani moderni. Nel farlo, hanno sfruttato il fatto che la crescita del cervello umano è praticamente completa quando, nella prima infanzia, compaiono i primi molari permanenti. Le ossa del viso e della base cranica, invece, continuano a crescere fino all'età adulta. Il gruppo di Zollikofer ha scoperto che le ossa craniche infantili dei primi Homo sapiens avevano una forma simile a quella dei bambini di oggi, in un momento in cui la crescita del cervello era già completa. La forma differente del cranio si è quindi sviluppata solo successivamente. Hanno così concluso che questa trasformazione è stata probabilmente dovuta a differenze nella dieta e nello stile di vita: gli alimenti più morbidi sono più facili da masticare e richiedono un minor impegno alla mascella. Una dieta corrispondente è quindi probabilmente associata a visi più piccoli e crani arrotondati.
La "patria" dell'Homo sapiens
Dobbiamo aggiungere che alcuni ricercatori guidati da Vanessa Hayes, dell'australiano Garvan Institute of Medical Research e dell'Università di Sydney, assieme all'italiana Benedetta Baldi, hanno collocato la prima "patria" dell'Homo sapiens in una vasta area dell'Africa meridionale, nell'attuale Botswana settentrionale, dove il nostro antenato viveva tra 200.000 e 130.000 anni fa (tra le 23.36.38 e le 23.44.49), e lo è stata per 70 mila anni (per oltre 8 minuti). La scoperta è stata possibile grazie alla popolazione che vive oggi in quell'area, analizzando il Dna mitocondriale che viene trasmesso solo dalla madre. Accumulando lentamente i cambiamenti nel corso delle generazioni, questo Dna permette di risalire a ritroso alle nostre antenate. Così si è risaliti ai primi gruppi di uomini moderni, il cosiddetto lignaggio "L0". Combinando l'epoca in cui è emerso il lignaggio L0 con la distribuzione geografica di queste popolazioni è stato scoperto che, 200.000 anni fa, il primo gruppo di Homo sapiens viveva a sud del fiume Zambesi, nel nord del Botswana, che oggi è una regione arida ma all'epoca era una vasta zona umida e lussureggiante. Queste caratteristiche inficiano la conservazione dei resti fossili, dicendoci che lì non li troviamo perché non sono riusciti a preservarsi. Per indagare l'ambiente in cui vivevano i primi Sapiens, i ricercatori hanno usato simulazioni al computer sul clima dell'epoca: è emerso così che cambiamenti climatici, dovuti all'oscillazione dell'asse terrestre che ha modificato l'incidenza delle radiazioni solari nell'emisfero australe, hanno aperto "corridoi" verdi nelle regioni precedentemente più aride, portando le popolazioni a migrare prima verso nord-est, circa 130 mila anni fa, e poi verso sud-ovest, circa 110 mila anni fa.
Tuttavia, c'è un unico dato che stride con questa ricostruzione, ed è una nuova scoperta archeologica, avvenuta nel 2017, che sposterebbe indietro le lancette dell'orologio dell'Homo sapiens. L'arcata superiore sinistra di una mascella rinvenuta nella grotta di Misliya sul monte Carmelo, in Israele, è stata datata tra 194 mila e 177 mila anni fa (tra le 23.27.20 e le 23.39.19): dunque la nostra specie uscì dall'Africa 40 mila anni prima (circa cinque minuti prima) di quanto finora ritenuto dai paleoantropologi. Questo significa o che vi è stato un altro corridoio che si è aperto prima, oppure che questo frammento è appartenuto a un Sapiens più arcaico, come ipotizzano alcuni studiosi. Nella grotta sul monte Carmelo sono state trovate testimonianze sul fatto che i nostri progenitori si cibavano di tartarughe e uova di struzzo, arrostivano lepri e lavoravano i ciottoli di selce. La parte superiore di mascella è stata rinvenuta da alcuni studenti nel 2002 mentre scavavano all'interno della grotta di Misliya e conserva una fila completa di denti: tre molari, due premolari, un canino e due incisivi. I denti hanno caratteristiche simili a quelli rinvenuti in altre grotte israeliane e sono differenti a quelli dei Neanderthal. I ciottoli di selce sono stati lavorati con la tecnica di Levallois, un metodo di scheggiatura che richiede competenza e capacità di astrazione. Secondo alcuni studiosi, la tecnica di Levallois è una caratteristica dell'Homo sapiens e marca la presenza delle nostra specie e i suoi primi passi fuori dall'Africa. Altri studiosi però contestano la datazione, affermando che i resti sono stati contaminati proprio dal sistema usato per datarli, la tomografia computerizzata: i raggi X avrebbero infatti influenzato le radiazioni emesse dallo smalto dei denti, e quindi la datazione sarebbe antecedente e non superiore a 70 mila anni fa (ore 23.51.49). Ovviamente invece gli autori dello studio difendono le loro datazioni, dunque il caso è ancora controverso. Ma se le date sono corrette, significa che le prime migrazioni di Sapiens avvennero quando il clima era più umido, e non ci fu una sola migrazione, ma fasi successive. « Se la nostra specie era in Medio Oriente 200 mila anni fa », ha concluso Israel Hershkovitz dell'Università di Tel Aviv, « vuol dire che non ci siamo evoluti 300.000 anni fa, ma molto prima ». L'impressione è che la storia della nostra specie sia ancora tutta da scrivere.
E non basta. Una nuova datazione dei resti di Omo-Kibish I, un cranio particolarmente significativo per le origini di Homo sapiens scoperto in Etiopia negli anni sessanta, eseguita da Céline Vidal dell'Università di Cambridge e colleghi, li colloca addirittura a 233.000 anni fa (alle 23.32.47)! La particolarità di questi resti consiste nel fatto che sono stati trovati sotto uno spesso strato di cenere vulcanica con una grana così fine da rendere difficoltosa la datazione con le tecniche radiometriche convenzionali. Per aggirare questa difficoltà, Vidal e colleghi hanno cercato di datare alcune delle principali eruzioni vulcaniche avvenute nella porzione etiope della Rift Valley, l'ampia depressione africana lungo la quale si concentrano molti ritrovamenti paleoantropologici del continente. I ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione sulle eruzioni che hanno interessato la porzione etiope della Rift Valley nel corso del Pleistocene medio, l'epoca in cui si situa la comparsa di Homo sapiens, raccogliendo campioni di pomice nei depositi vulcanici e macinandoli fino a dimensioni sub-millimetriche. L'idea era di eseguire un confronto geochimico tra i minerali contenuti nei depositi vulcanici del sito di Kibish con quelli di altre zone: da questa analisi è emerso che le firme geochimiche degli strati geologici che sovrastano quelli di Omo-Kibish I corrispondono a quelli del vulcano Shala, situato a più di 400 chilometri di distanza e datati a 230.000 anni fa. Ciò implica che i resti di Omo I debbano avere più di 230.000 anni. I dati non hanno invece permesso di trarre conclusioni rigorose per altri importanti resti fossili etiopici, relativi al sito di Herto. Resta da capire quanto questi nuovi risultati possano influenzare gli attuali modelli paleoantropologici sull'origine della nostra specie. Il risultato interviene in un dibattito molto sentito dalla comunità scientifica, relativo alla questione di chi siano i primi veri rappresentanti di Homo sapiens. Omo-Kibish I documenta un dato che oggi viene un po' messo in discussione, e cioè che i primi "veri" Sapiens siano quelli dotati di un cranio globulare, e non quelli invece con altre caratteristiche morfologiche ritrovate nell'umanità successiva, per esempio nella faccia o nei denti. Tali caratteristiche secondo molti vanno ascritte ai precursori della nostra specie, come il reperto di Jebel Irhoud, in Marocco, che risalirebbe a 300.000 anni fa ed è considerato il più antico Homo sapiens.
Nel 2024 poi un gruppo internazionale di ricerca guidato da Sarah Pederzani del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology ha portato alla luce prove straordinarie dell'arrivo degli Homo sapiens nelle gelide latitudini dell'Europa settentrionale diversi millenni prima della scomparsa dei Neanderthal. Si tratta di fossili di Homo sapiens nel sito della grotta di Ilsenhöhle a Ranis, in Germania. Datati a circa 45.000 anni fa (alle ore 23.54.45), questi reperti sono associati a punte di selce allungate sagomate su entrambi i lati conosciute come punte fogliate bifacciali, caratteristiche del complesso tecnologico Lincombian-Ranisian-Jerzmanowician (LRJ). Questo tecnocomplesso archeologico è situato tra il Paleolitico Medio associato ai Neanderthal e il Paleolitico Superiore associato agli Homo sapiens. Gli strumenti in pietra LRJ ritrovati a Ranis, rinvenuti anche in altre località in Europa, dalla Moravia e dalla Polonia orientale alle Isole Britanniche, rivelano un arrivo anticipato di gruppi di Homo sapiens nel nord-ovest dell'Europa avvenuto diversi millenni prima della scomparsa dei Neanderthal nel sud-ovest europeo. Questo dimostra che anche questi primi gruppi di Homo sapiens, in espansione attraverso l'Eurasia, avevano già una notevole capacità di adattarsi a tali condizioni climatiche avverse. Fino a poco tempo fa si riteneva che la resistenza alle condizioni climatiche fredde si manifestasse solo diversi millenni dopo; forse le steppe fredde con mandrie più grandi di animali da predare erano ambienti più attraenti per questi gruppi umani di quanto si pensasse in precedenza.
Come il clima influenzò la comparsa di Homo sapiens
Una volta c'erano solo antropologi fisici e archeologi, che studiavano il nostro passato remoto scavando e analizzando ossa e pietre. Poi sono arrivati i genetisti, che usavano il DNA antico e moderno per ricostruire le parentele tra popoli e specie con sequenziamenti e algoritmi. Da qualche anno si stanno facendo sempre più spazio i modellisti, che con l'aiuto di supercomputer mettono in relazione i fenomeni astronomici e le loro ripercussioni climatiche con i conseguenti cambiamenti ecologici e le tracce lasciate dagli antichi ominidi. I modellisti stanno ottenendo risultati eclatanti, tra cui la proposta secondo cui la comparsa di Homo sapiens in Africa circa 300.000 anni fa sia stata innescata da una fase di riscaldamento che avrebbe messo in difficoltà Homo heidelbergensis. Proprio da quest'ultimo si sarebbe evoluta una specie più adatta alle nuove condizioni, la nostra. Il modello suggerisce anche la culla più probabile: non tutto il continente come vorrebbe l'ipotesi pan-africana, ma la sua estremità meridionale. A tale proposta hanno contribuito nel 2022 scienziati del clima, paleoecologi e antropologi in Corea del Sud, Italia, Svizzera e Germania. « Il clima è il segnapassi dell'evoluzione », ha scritto Pasquale Raia, professore di paleontologia e paleoecologia all'Università Federico II di Napoli e membro del gruppo internazionale a cui si deve questo risultato. Insieme ad Alessandro Mondanaro, dell'Università di Firenze, ha censito le tracce lasciate dai nostri antenati del genere Homo in Africa, Asia ed Europa. Purtroppo dallo studio restano inevitabilmente fuori le specie di cui abbiamo un numero troppo ridotto di fossili, come i Denisoviani che per un po' hanno convissuto e si sono incrociati con Homo sapiens.
Raia è un naturalista che sviluppa e usa algoritmi per studiare le grandi questioni della biologia evoluzionistica, ed ha già proposto che l'estinzione di tre specie di esseri umani (erectus, heidelbergensis e neanderthalensis) sia dovuta a fattori climatici, un severo monito anche per noi, in vista dei cambiamenti climatici in corso. Axel Timmermann, che lavora alla Pusan National University di Busan, in Corea del Sud, ha invece dimostrato l'esistenza di uno stretto legame tra i cambiamenti del clima e le migrazioni umane avvenute negli ultimi 120.000 anni. La loro collaborazione ha cercato di rispondere ad alcune domande, solo in apparenza semplici: quali condizioni climatiche preferivano le specie umane arcaiche? Quale ruolo gioca il clima nel processo della speciazione umana? Chi sono gli antenati diretti di Homo sapiens? Ebbene, l'inclinazione e le oscillazioni dell'asse terrestre, insieme ai cambiamenti nella forma dell'orbita che il nostro pianeta segue intorno al Sole, costituiscono una sorta di orologio celeste che influenza la quantità di radiazione solare ricevuta in epoche differenti alle diverse latitudini. Questi fenomeni, scanditi secondo periodi di centinaia di migliaia di anni, mettono in moto un ciclo di condizioni climatiche: umido-secco, caldo-freddo. Le zone abitabili si espandono e si restringono di conseguenza, perché il cibo diventa più o meno facile da trovare in un luogo piuttosto che un altro. Questi stress ambientali non hanno influenzato solo le migrazioni umane, ma anche la comparsa di nuove specie, giacché le anomalie climatiche possono aver ridotto il numero di individui, causando un collo di bottiglia genetico e ponendo i presupposti per la speciazione.
Ci sono regioni del mondo che sono state scavate meno di altre, perciò le testimonianze giunte fino a noi soffrono di un errore sistematico geografico. Ma sproprio la possibilità di usare i dati paleoclimatici per individuare l'estensione delle regioni abitabili consente di rimediare, almeno in parte, a questo sbilanciamento testando i diversi scenari possibili, e le conclusioni sono rimaste invariate. Tutti i dati sono stati trattati per sei mesi da Aleph, uno dei computer più potenti al mondo, riempiendo centinaia di hard disk. Ne è emersa una fortissima associazione fra dati fossili-archeologici e climatici. Il risultato più inatteso riguarda proprio la comparsa di Homo sapiens, che risulta essersi originato da heidelbergensis in Sudafrica 300.000 anni fa (alle 23.24.58). La linea genetica dei Neanderthal, invece, si è separata dallo stesso heidelbergensis 100.000 anni prima, in Europa, anche se poi i sapiens e i neanderthaliani si sono ripetutamente incrociati. Il cranio più antico con caratteristiche anatomicamente simili agli uomini moderni è venuto alla luce a Herto in Etiopia e ha 170.000 anni circa (risale alle 23.40.09). Un altro cranio ben preservato è quello di Florisbad nell'Africa meridionale, datato a 260.000 anni fa (alle 23.29.38), con caratteristiche miste di sapiens e heidelbergensis. Mentre il cranio di Broken Hills è un chiaro esemplare di heidelbergensis vecchio da 300 a 400.000 anni. Da qui l'ipotesi che la speciazione o la transizione tra le due specie sia avvenuta in Africa meridionale fra i 300.000 e i 200.000 anni fa. Se è corretta, gli habitat di Homo heidelbergensis e di Homo sapiens dovevano essere sovrapposti durante questo periodo nella parte meridionale del continente, ed è proprio quello che emerge dal nuovo modello di simulazione degli habitat umani arcaici. In breve, secondo tale modello, tra due e un milione di anni fa le specie esistenti di Homo preferivano habitat molto stabili e sfruttavano uno spettro limitato di risorse. L'estesa migrazione in Eurasia di Homo heidelbergensis testimonia l'adattamento a nuovi ambienti, anche secchi e freddi, reso possibile anche dall'abilità nel lavorare la pietra e controllare il fuoco. Ma fu Homo sapiens che alla fine dimostrò le capacità adattative migliori, attrezzandosi socialmente e tecnologicamente anche per le condizioni più difficili, fino a restare l'unica specie umana sul pianeta. Axel Timmermann ha proposto tre concetti chiave che emergono combinando il climate supecomputing modeling con i dati archeologici e antropologici. Primo: i cambiamenti climatici indotti dalle variazioni dell'asse e dell'orbita terrestre hanno influenzato i luoghi dove vivevano le specie umane arcaiche. Secondo: eventi importanti di speciazione sembrano correlati con cambiamenti climatici o sovrapposizioni di habitat. Terzo: probabilmente l'africano Homo heidelbergensis è l'antenato dei primi Homo sapiens.
Dimostrare l'esistenza di un nesso deterministico tra un evento climatico e una speciazione è impossibile. Le conclusioni di Raia e di Timmermann dunque sono di natura probabilistica, e vari ricercatori hanno manifestato delle forti riserve sui loro risultati. Il commento più scettico è stato quello di Tyler Faith dell'Università dello Utah a Salt Lake City: « Se fosse stato possibile risolvere il mistero della relazione tra cambiamenti climatici ed evoluzione umana con un singolo studio, lo avremmo fatto quarant'anni fa. » Al che Raia ha replicato: « Ma quarant'annni fa non c'erano i supercomputer, ed in confronto a oggi avevamo il pallottoliere! » Attendiamo nuovi, importanti risultati dai suoi modelli.
La Rivoluzione Artistica
L'Uomo di Cro-Magnon operò inoltre la cosiddetta « Rivoluzione Artistica », perché cominciò ad eseguire dipinti su blocchi di pietra, su piccoli oggetti, sulle pareti delle caverne (i cosiddetti graffiti), a scolpire, modellare. Insomma, iniziò a dedicarsi a quella che oggi viene chiamata « intelligenza simbolica ». Le immagini rappresentavano segni geometrici, simboli sessuali e figure di animali spesso incomplete: al di là, dunque, dell'ambito delle necessità fisiche e contingenti, com'era stato invece fino a quel momento. Tra i più importanti siti ricchi di pitture rupestri vi sono:
a) le grotte di Altamira, situate nei pressi di Santillana del Mar in Cantabria, Spagna. Le loro pitture rupestri del Paleolitico superiore raffigurano mammiferi selvatici e mani umane. Il sito si trova in un punto strategico per poter sfruttare la disponibilità di cibo costituito dalla ricca fauna che abitava le vallate delle montagne circostanti. Circa 13.000 anni fa una frana bloccò l'entrata della caverna, preservandone così il contenuto fino alla riscoperta avvenuta nel 1879, in seguito al crollo di un albero. Molti pittori contemporanei sono stati influenzati dalle pitture di Altamira; persino Pablo Picasso, dopo averle visitate, pare che abbia esclamato: « Dopo Altamira, tutto è decadenza! »
b) le grotte di Lascaux, nel territorio del comune di Montignac, nel dipartimento francese della Dordogna. furono scoperte casualmente il 12 settembre 1940 da quattro ragazzi francesi, Georges Agnel, Simon Coencas, Jacques Marsal e Marcel Ravidat, ma furono studiate attentamente solo dopo la fine del Secondo Conflitto Mondiale; oggi sappiamo che esse sono ascrivibili alla già citata cultura magdaleniana. L'incredibile numero di riproduzioni della fauna paleolitica osservabile sulle sue pareti ha giustificato il loro inserimento nell'elenco dei Patrimoni dell'umanità dell'UNESCO.
c) la grotta Chauvet, presso Vallon-Pont-d'Arc, nella regione francese di Rhône-Alpes. La sua casuale scoperta avvenne solo il 18 dicembre 1994 per opera degli speleologi dilettanti Jean-Marie Chauvet, Éliette Brunel e Christian Hillaire. Questa grotta presenta pitture e incisioni rupestri di almeno 500 animali (bisonti, mammut, rinoceronti, leoni, orsi, cervi, cavalli, iene, renne, gufi ed enormi felini scuri), soli o in branco, databili di circa 32.000 anni fa (alle 23.56.16). Si ipotizza che questo luogo rappresentasse un importante centro di culto dell'epoca, un po' come un santuario frequentato da molte tribù.
È aperto il dibattito sui motivi che spinsero gli uomini di Cro-Magnon ad affrescare le pareti delle loro caverne. Sono state avanzate almeno tre ipotesi, le quali però possono tranquillamente coesistere:
1) si trattò di una pura manifestazione di gusto
artistico;
2) le figure erano utilizzate per celebrare dei culti magico-religiosi;
3) rappresentando gli animali, l'uomo primitivo attribuiva loro il potere magico
di rendere più facile la caccia.
Probabilmente opera di individui iniziati ai culti sciamanici, le grotte sopra nominate rappresentavano presumibilmente i luoghi di incontro con gli spiriti di tutte le cose: esseri magici, possenti e misteriosi, l'incontro con le quali era limitato ai soli iniziati: una vera e propria casta di sciamani, presumibilmente scelti in base a riti iniziatici basati su prove di coraggio, come avviene ancor oggi in molti culti tribali dall'Africa all'Australia, e dei quali si trova testimonianza persino nei riti religiosi dell'antico Egitto e della Grecia classica. In tutti quei luoghi, le testimonianze visive che ci guardano dalle pareti vecchie centinaia di secoli ci parlano di esseri mascherati che impersonano gli animali da cacciare nel corso di antichi riti volti a propiziare la caccia, l'abbondanza e la fertilità. L'immagine della grotta Chauvet raffigurante un leone che attacca i genitali di un ragazzo è probabilmente legata alla pratica della circoncisione, ben più antica dunque del patriarca Abramo. Solo dopo l'iniziazione egli potrà passare alla vita adulta, cioè giungere al primo atto sessuale con la sua donna e partecipare al grande rito collettivo della caccia. Una cosa è certa: chiunque abbia tracciato quelle così realistiche eppure così allegoriche rappresentazioni, alla sua specie apparteniamo anche noi. Chi disegnò i bovidi preistorici sulle pareti delle caverne di Lascaux e di Altamira non doveva dunque essere mosso da motivazioni troppo diverse da quelle di Michelangelo Buonarroti quando affrescò la Cappella Sistina...
E non è tutto. Infatti, come Michelangelo fu scultore prima che pittore, così l'Uomo di Cro-Magnon si diede fin da subito all'arte scultoria oltre che alle pitture parietali. Lo dimostrerebbe una statuina scolpita nell'avorio di una zanna di mammut trovata nella Germania meridionale dall'archeologo tedesco Nicholas Conard, dell'Università di Tübingen, che la ha definita "la più antica rappresentazione del corpo femminile finora conosciuta". Sei frammenti della statuina sono stati rinvenuti nel settembre 2008 durante scavi archeologici a Hohle Fels, nel massiccio del Giura Svevo, una zona montuosa emersa dal mare durante il periodo Giurassico; rimessi assieme, i frammenti hanno rivelato una figura femminile lunga appena sei centimetri, con il seno e i fianchi molto pronunciati. La statuina, che è stata subito ribattezzata "la Venere di Hohle Fels", farebbe pensare che l'arte del Paleolitico era molto più ricercata di quanto ritenuto finora. Gli esami al radiocarbonio datano la scultura tra i 40 e i 31 mila anni fa (tra le 23.55.19 e le 23.56.23).
Le costellazioni di Lascaux
Una teoria rivoluzionaria ed assai recente aggiunge tuttavia un'altra dimensione alla rivoluzione artistica dei Cro-Magnon, i quali, oltre ad essere pittori geniali, sarebbero stati anche attentissimi osservatori del cielo stellato. Ad avanzare questa singolare ipotesi è stata l'astronoma francese Chantal Jègues-Wolkiewiez, che nei numerosi animali (uri, cavalli e cervi) dipinti sulle pareti delle grotte di Lascaux ha affermato di riconoscere una rappresentazione delle costellazioni zodiacali visibili nel Paleolitico Finora l'incredibile fauna preistorica istoriata sulle pareti della cosiddetta "Grande Sala dei Tori", una sorta di "Cappella Sistina della Preistoria" che non smette di sorprenderci per il realismo naïf delle sue figure, era interpretata unicamente come un tentativo sciamanico di ridurre gli spiriti delle prede in potere dei cacciatori, e quindi di cacciarle più facilmente, e quindi come una delle prime grandiose manifestazioni di religiosità umana; se la Jègues-Wolkiewiez ha ragione, tuttavia, ci troviamo anche di fronte ad una delle prime testimonianze di una scienza astronomica, che finora si credeva nata con i Sumeri non prima di 5000 anni or sono.
Interpretazioni similari dell'incredibile serie di affreschi di Lascaux erano già state avanzate in passato, e scartate dagli antropologi come stravaganti, ma questa volta l'ipotesi suona molto più seria. Infatti la Jègues-Wolkiewiez ha misurato l'orientazione delle pitture preistoriche nei confronti dei raggi solari che penetrano nella grande galleria d'ingresso, e si è accorta che tale ingresso è perfettamente allineato con i raggi del sole al tramonto del solstizio d'estate! In tal modo, ogni estate doveva svolgersi un incredibile spettacolo luminoso, quando il sole penetrava nella grotta e rischiarava la Sala dei Tori. A questo punto l'astronoma d'Oltralpe ha pensato ad una corrispondenza tra quanto rappresentato sulla grotta e quanto visibile nel cielo estivo, che certo allora non era viziato da alcun inquinamento luminoso. Per verificare la sua idea, la Jègues-Wolkiewiez ha ricostruito al computer il cielo stellato così come appariva 17.000 anni fa (alle 23.58.00), all'epoca in cui secondo la datazione al radiocarbonio quelle pareti sono state così mirabilmente affrescate; con una bussola ad alta precisione ha misurato le orientazioni dei dipinti di Lascaux; infine ha confrontato i dati archeologici con quelli astronomici. La coincidenza è risultata impressionante. La nostra ricercatrice ha così appurato che la misteriosa bestia ritratta sulla parete sinistra della Grande Sala, soprannominata "l'Unicorno" e non somigliante ad alcuno degli animali preistorici a noi noti, altro non sarebbe che una rappresentazione artistica di quella che noi chiamiamo la costellazione del Capricorno. Poco a sinistra di esso si vede un gigantesco uro con il petto e il muso macchiettati, che corrisponde incredibilmente alla moderna costellazione dello Scorpione; le "macchie" corrisponderebbero alle stelle della Via Lattea, che attraversa proprio lo Scorpione da un capo all'altro. In un bovide rappresentato sulla parete della sala rivolta a sud si potrebbe riconoscere la costellazione del Toro, completa degli ammassi stellari delle Pleiadi e delle Iadi; invece due bisonti rappresentati in direzioni opposte nelle profondità della grotta e con le code pressoché coincidenti sarebbero un'impareggiabile rappresentazione artistica delle direzioni esatte in cui sorge il sole al solstizio d'estate e al solstizio d'inverno, indicate dagli occhi degli animali, mentre le loro code rappresenterebbe il punto di levata del sole agli equinozi di primavera e di autunno. Secondo gli esperti, il colore del bisonte di sinistra indica che sta mutando il pelo, ciò che avviene in primavera, mentre il bisonte di destra presenta l'erezione del pube caratteristica della stagione degli amori, coincidente con i mesi autunnali; e il fatto che le due bestie si voltano le spalle rappresenta efficacemente due periodi antitetici dell'anno solare.
Per essere certa delle proprie affermazioni, Chantal Jègues-Wolkiewiez ha studiato per quattro anni ben 137 grotte dipinte, dimostrando che tutte presentano allineamenti con punti significativi dell'orizzonte, in particolare quelli di levata e di tramonto del sole in corrispondenza dei solstizi e degli equinozi. Secondo la nostra ricercatrice, « non c'è dubbio che quelle caverne siano state scelte perchè permettevano alla luce solare di entrare in esse solo in momenti particolari dell'anno »; e i solstizi e gli equinozi sono a tutti gli effetti appuntamenti irrinunciabili, dato che annunciano i cambi di stagione, cioè con i momenti in cui migravano le grandi mandrie di mammiferi dell'Era Glaciale che i nostri antenati cacciavano attivamente. Naturalmente resta irrisolto il problema di come facessero i nostri antenati di diciassettemila anni fa a ricordare con estrema precisione le posizioni degli astri una volta che si trovavano nelle profondità oscure delle loro grotte, in assenza ovviamente di qualunque forma di scrittura: non è escluso che forassero delle pelli in corrispondenza delle posizioni stellari e poi usassero queste ultime come "cartoni" per realizzare le loro pitture rupestri. Jean Clottes, tra i maggiori esperti mondiali di arte rupestre, ha sostenuto le tesi della Jègues-Wolkiewiez affermando tra l'altro che « l'uomo del Paleolitico superiore aveva il nostro stesso cervello e la nostra stessa struttura mentale: dunque che fosse interessato agli astri ed al ciclo delle stagioni è poco ma sicuro. Che traducesse tutto questo in arte non può certamente essere escluso ».
Chantal Jègues-Wolkiewiez ha anche studiato un piccolo osso scoperto negli anni settanta nell'Abri Blanchard, un sito della Dordogna non lontano da Lascaux, dall'antropologo americano Alexander Marshack. Quest'ultimo aveva già avanzato l'ipotesi che l'osso, risalente a 32.000 anni fa e recante 69 buchetti realizzati artificialmente, rappresentasse un primissimo esemplare di calendario lunare. La Jègues-Wolkiewiez ha confermato quest'ipotesi, calcolando le posizioni della Luna nei cieli francesi del Paleolitico e confrontandole con le posizione delle 69 incisioni: esse corrispondono effettivamente alla traiettoria del nostro satellite lungo un ciclo di 69 giorni. La scoperta di conoscenze astronomiche complesse ed antiche quanto l'uomo stesso è destinata a trasformare radicalmente la nostra comprensione di una delle pagine più importanti della nostra Preistoria, tracciata millenni e millenni fa sul fondo di una grotta mirabilmente affrescata.
I cartoni animati preistorici!
Secondo l'archeologo Marc Azéma dell'Università di Toulouse-Le Mirail in Francia e Florent Rivère, un artista indipendente di Foix, circa 30.000 anni fa gli antenati degli europei usavano tecniche simili a quelle dei cartoni animati per dare l'impressione agli osservatori che leoni e altri animali selvatici si muovessero a passo di carica sulle pareti della grotta su cui erano dipinti! « Gli artisti dell'età della pietra cercavano di dare vita alle loro immagini », ha dichiarato Azéma: « la maggior parte dei disegni rupestri mostrano gli animali in azione. » In particolare, i due studiosi hanno appuntato la loro attenzione sulle grotte francesi di Chauvet (nell'Ardèche, regione della Rhône-Alpes, scoperta nel 1994) e La Baume Latrone (nel dipartimento del Gard, scoperta nel 1940), lavorandovi per ben vent'anni.
« Movimento e azione sono rappresentati in pitture rupestri in diversi modi », ha confermato l'archeologo Jean Clottes, specialista di arte rupestre nonché conservatore generale onorario del patrimonio per il Ministero della Cultura francese. Clottes ha condotto nel 1998 un'indagine alla grotta di Chauvet sui dipinti rupestri di 30 mila anni fa. Un dipinto di Chauvet, lungo dieci metri, rappresenta secondo Clottes e Azéma una storia di caccia. Il fotoracconto inizia mostrando alcuni leoni che inseguono la preda, le orecchie indietro e testa bassa. Mammut e altri animali appaiono nelle vicinanze. In una seconda sezione del dipinto rupestre, un branco di 16 leoni, qualcuno dei quali appare più piccolo degli altri per farlo apparire più lontano, insegue i bisonti in fuga. Orbene, un bisonte con otto zampe nella grotta di Chauvet sarebbe il risultato di due immagini sovrapposte della stessa creatura in posizioni diverse, per creare l'effetto della corsa! Torce che passavano ondeggiando tra le scene dipinte avrebbero senz'altro accresciuto il senso del movimento degli animali.
In Francia, 53 figure in ben 12 grotte sovrappongono due o più immagini per rappresentare la corsa, il sollevamento della testa e lo scuotimento della coda. Nella famosa Grotta di Lascaux, 20 animali dipinti mostrano più teste, gambe o code. Una scultura su un osso animale da un'altra grotta francese dell'Età della Pietra raffigura tre fermo-immagine di un leone in azione, un altro modo di rappresentare il movimento.
Ma i ricercatori citati si sono spinti ancora più in là: secondo loro, i nostri antenati avevano inventato anche una sorta di giocattolo d'animazione. In alcuni siti in Francia e Spagna infatti sono stati riportati alla luce dei dischi di pietra e osso, con tipici fori centrali, che mostrano immagini opposte di animali seduti e in piedi. Nel corso di esperimenti condotti a partire dal 2007, Rivère ha riprodotto questi dischi incisi e ha inserito fili di tendine animale attraverso i fori centrali. Ruotando questi filamenti, i dischi ruotano avanti e indietro in modo sufficientemente rapido per far sembrare che gli animali si mettano seduti e si alzino in piedi! Ora, questo è il principio alla base del taumatropio, un dispositivo inventato solo nel 1825: due corde legate alle estremità di un disco con un'immagine su entrambi i lati (ad esempio, un vaso di fronte ad un mazzo di fiori) sono fatti roteare tra le dita, in modo che le immagini rotanti sembrino combinarsi in un'unica immagine, nel nostro caso i fiori dentro il vaso. I taumatropi sono considerati tra i precursori del moderno cinema d'animazione. Se ciò fosse confermato, ci troveremmo davanti ad una sorta di cinematografo preistorico, dimostrando che davvero i nostri antenati ne sapevano davvero molto di più di quanto noi non riusciamo ad immaginare!
Una sorta di scrittura di centomila anni fa?
E non è tutto. Un pezzetto di ocra che reca una serie di incisioni lineari potrebbe contenere la più antica forma di comunicazione simbolica scritta della storia dell'uomo. Tale reperto risale a circa 100.000 anni fa (ore 23.48.19) ed è stato recuperato nella Klasies River Cave in Sudafrica. Esso misura circa 7 cm di lunghezza e contiene una serie di « sette profonde, grandi linee incise e diverse tra loro, e da sedici più strette e meno profonde », ha affermato Riaan Rifkin dell'Università di Witwatersrand, uno degli autori della ricerca. « Il frammento è un residuo di un pezzo di ocra semicircolare che probabilmente conteneva un disegno molto più ampio inciso sulla sua superficie. I resti umani associati indicano che il pezzo è stato certamente inciso dall'Homo sapiens ».
L'ocra è stato tra i primi pigmenti usati dagli esseri umani, e forse anche da altri ominidi, per scopi artistici. L'analisi microscopica e tramite fluorescenza a raggi X ha portato alla conclusione che le incisioni lineari sono state intenzionali; l'incisore ha davvero realizzato il disegno con intento simbolico? L'utilizzo di simboli con un preciso significato è stato un importante passo in avanti nello sviluppo umano: ad esso sono legati, tra le altre cose, il linguaggio e la matematica. I motivi lineari e a quadretti incisi potrebbero essere stati comuni migliaia di anni fa: disegni simili su ocra sono stati rinvenuti nella grotta di Blombos, anch'essa in Sudafrica, e su frammenti di guscio di uova di struzzo nel sito di Diepkloof Rock Shelter, finora ritenuta la prima forma di comunicazione simbolica. Come minimo, quello della Grotta del Fiume Klasies potrebbe essere il più antico esempio noto di arte astratta!
Poveri mammiferi!
La migrazione di Homo sapiens fuori dal suo continente di origine, l'Africa, fu un passo fondamentale per l'evoluzione degli esseri umani ma segnò profondamente, e in negativo, la fauna dei nuovi territori colonizzati. A farne le spese furono soprattutto i mammiferi più grandi, che subirono una drastica diminuzione delle dimensioni medie e massime, come ha dimostrato Felisa Smith, dell'Università del New Mexico ad Albuquerque, basandosi sull'analisi di un ampio database della distribuzione delle dimensioni corporee dei mammiferi terrestri negli ultimi 66 milioni di anni e dei relativi tassi di estinzione.
A partire dal Paleolitico Medio gli ominidi erano cacciatori che vivevano in gruppi e usavano sia utensili litici sia il fuoco. È perciò plausibile che le loro attività e la rapida crescita della popolazione abbiano influenzato la biodiversità dei mammiferi fin da subito. È importante però riuscire a correlare questi cambiamenti della biodiversità con i principali eventi di migrazione di Homo sapiens, in particolare le prime ondate fuori dall'Africa del Tardo Pleistocene. Dall'analisi dei dati ricavabili dai fossili la Smith ha dedotto l'esistenza di un notevole incremento dei tassi di estinzione durante i periodi in cui gli esseri umani si sono dispersi in tutto il globo, correlato alla massa corporea: le specie estinte tendevano ad avere dimensioni corporee due o tre volte più grandi delle specie sopravvissute.
L'elemento forse più convincente della tesi sostenuta da Smith consiste nel fatto che la riduzione più marcata delle dimensioni dei mammiferi avvenne nel Tardo Pleistocene, in coincidenza con l'acquisizione da parte degli ominidi di armi a lunga gittata. L'autrice ha calcolato per questo periodo un calo della massa media dei mammiferi di più di dieci volte! Nel Nord America, per esempio, la massa media dei mammiferi terrestri passò da 98 a 7,6 chilogrammi. Da notare che prima del cosiddetto « Out of Africa », il continente africano era abitato da mammiferi tendenzialmente di taglia più piccola, cioè con masse corporee pari a circa metà di quella dei mammiferi dell'Eurasia della stessa epoca. La Smith sostiene che anche questo dato è da interpretare come l'effetto dell'interazione tra ominidi e animali già in atto. E non si tratta di un processo concluso, sottolinea la ricercatrice: le estinzioni dei mammiferi terrestri di maggiori dimensioni procedono di gran passo. Se nei prossimi secoli si confermasse questo andamento, ci si dovrebbe aspettare un calo nella massa media dei mammiferi terrestri da 7,7 a 4,9 chilogrammi, con gravi ripercussioni su molti ecosistemi. E nell'arco di due soli secoli, il bovino domestico (Bos taurus) con i suoi 900 chilogrammi di massa media, potrebbe diventare il più grande mammifero terrestre. Speriamo non sia così.
Il mistero della mandibola cinese
Una mandibola umana fossile scoperta nella Cina meridionale potrebbe peraltro rivoluzionare le nostre teorie sull'epoca in cui i nostri antenati lasciarono l'Africa. Essa, rinvenuta nel 2007 nella Grotta Zhiren da Erik Trinkaus, antropologo della Washington University a Saint Louis, presenta una caratteristica chiaramente moderna: un mento prominente, ma essa è almeno 60.000 anni più vecchia di quelli che finora erano i più antichi resti di Homo sapiens trovati in Cina. Insomma, il nuovo fossile cinese, risalente a 100.000 anni fa (ore 23.48.19), apparterrebbe al più antico uomo moderno mai scoperto fuori dall'Africa. La vulgata tradizionale afferma che l'Homo sapiens migrò dall'Africa circa 60.000 anni fa (ore 23.52.59), rimpiazzando rapidamente in tutto il mondo specie umane precedenti, come Homo erectus e Homo neanderthalensis.
Trovare in Cina un fossile di uomo moderno così antico significa contraddire in maniera significativa tale cronologia, e portare invece acqua al mulino del la teoria multiregionale, secondo cui gli antenati dell'umanità si diffusero dall'Africa negli altri continenti incrociandosi con altri uomini primitivi, e si evolsero regionalmente. La scoperta potrebbe anche implicare che in Cina l'uomo moderno convisse, forse persino incrociandosi, con altre specie del genere Homo per 50 o 60.000 anni (per 7 minuti). Il fossile inoltre sembra suggerire che l'uomo anatomicamente moderno sia arrivato in Cina ben prima che la specie iniziasse a comportarsi in modo "umano": ad esempio, il pensiero astratto è un tipico tratto umano che implica l'utilizzo di oggetti come perline o disegni che rappresentino cose, persone o eventi. Ma le prime testimonianze di questo tratto non appaiono in Cina prima di 30.000 anni fa. Non tutti però sono d'accordo con Erik Trinkaus: secondo il paleoantropologo John Hawks della University of Wisconsin a Madison, la mandibola e i due molari sono gli unici resti trovati nella grotta, e la mandibola rientrerebbe nei parametri sia di un Neanderthal sia di un Homo sapiens. Se però la scoperta venisse confermata, dovremo ripensare tutta la cronologia della migrazione umana.
I pionieri dell'Asia
E non è tutto: forse i Sapiens erano già presenti in Asia tra 120 e 80 mila anni fa (tra le 23.45.59 e le 23.50.39), come proverebbero 47 denti umani rinvenuti in una grotta nel sud della Cina. Fino ad oggi si pensava che, all'epoca, i nostri antenati non avessero ancora messo piede fuori dall'Africa. I 47 denti sono stati trovati in un sistema di cunicoli esteso per 3 km nella contea di Daoxian, nella provincia cinese dello Hunan, insieme a resti di iene, panda giganti e decine di altri animali. L'assenza di strumenti in pietra sembra indicare che l'uomo non vivesse nelle grotte, ma che le sue spoglie siano stati trasportate fin qui dai predatori. I denti di piccola taglia, con radici strette e corone piatte, sembrano inequivocabilmente di Sapiens, come dimostrano le comparazioni compiute dai paleoantropologi dell'University College London e dell'Institute of Vertebrate Paleontology and Paleoanthropology di Pechino con denti umani antichi e moderni. La loro datazione si è però rivelata complessa, poiché dopo 50 mila anni le tracce di carbonio radioattivo nei reperti svaniscono: i ricercatori hanno datato i depositi di calcite e i resti animali della grotta per dedurre l'età dei reperti.
La scoperta confuterebbe la diffusa ipotesi secondo la quale le più antiche migrazioni di Sapiens fuori dall'Africa sarebbero avvenute tra i 60 mila e i 50 mila anni fa (tra le 23.52.59 e 23.54.09). Resti più antichi di uomo moderno sono già stati trovati fuori dall'Africa (per esempio, reperti di 100 mila anni fa sono stati rinvenuti in Israele), ma fino ad oggi si pensava riguardassero primi tentativi falliti di migrazione. Non è chiaro nemmeno perché i più antichi resti Sapiens rinvenuti in Europa risalgano invece a 45 mila anni fa (ore 23.54.45). Il rigido clima dell'Europa dell'Era glaciale e il predominio Neanderthal potrebbero aver ritardato l'arrivo dei nostri antenati nel continente.
Nonostante le buone probabilità che i denti di Daoxian siano più antichi di 80 mila anni fa (ore 23.50.39), c'è un dettaglio che potrebbe far inarcare qualche sopracciglio: alcuni reperti sono cariati, una caratteristica non comune in denti più antichi di 50 mila anni fa, ma che potrebbe dipendere dalla particolare dieta seguita dai Sapiens in Asia tropicale. Una cosa è certa: gli asiatici moderni discenderebbero dalla mescolanza tra Sapiens e Neanderthal avvenuta in Asia occidentale 60 mila anni fa. Il resto è ancora tutto da chiarire.
I 47 denti umani rinvenuti nella caverna di Daoxian |
Il "collo di bottiglia" della specie umana e la catastrofe di Toba
Alcune recenti ricerche genetiche hanno proposto uno scenario davvero inquietante: per ben due volte, ai primi Homo sapiens sarebbe mancato davvero molto poco per estinguersi per sempre, impedendo in blocco il sorgere della civiltà umana. Secondo Curtis William Marean, docente alla School of Human Evolution and Social Change della Arizona State University, la prima volta ciò accadde durante una violentissima glaciazione detta Glaciazione di Riss che, tra 195.000 e 123.000 anni fa (dalle 23.37.13 alle 23.45.38), avrebbe fatto inaridire e desertificare gran parte del continente africano. I nostri antenati, comparsi da poco, a causa della scarsità di cibo si ritrovarono ridotti a poche centinaia di esemplari. Come riuscirono a farcela? Secondo Marean, ebbero una fortuna sfacciata: trovarono rifugio in alcune grotte presso Pinnacle Point, un promontorio che si spinge nell'Oceano Indiano all'estremità meridionale del Continente Nero, presso la città sudafricana di Mossel Bay. Qui, i nostri antenati furono incredibilmente salvati dal... mare. Essi infatti furono, secondo Marean, i primi ominidi a sfruttare i frutti di mare, ricchissimi di proteine, e i pesci rimasti intrappolati nelle pozze dopo il ritirarsi della marea; inoltre probabilmente raccoglievano le geofite, piante dotate di organi sotterranei di immagazzinamento energetico, come tuberi e bulbi, inaccessibili alla maggior parte degli altri animali proprio perchè crescevano sotto terra. Tuttavia la raccolta delle geofite e dei frutti di mare richiedeva un cervello altamente sviluppato, giacché la marea torna velocemente su se stessa e l'oceano in quel punto pullula di squali bianchi, senza contare le pareti rocciose a precipizio sul mare. Occorreva calcolare attraverso le fasi lunari i momenti più propizi per lo sviluppo dei tuberi delle geofite e per conoscere i periodi di bassa marea; e questo avrebbe contribuito a sviluppare in maniera decisiva l'intelligenza dei nostri avi, ai quali occorrevano ragionamenti decisamente complessi per poter sopravvivere. Probabilmente l'evoluzione favorì proprio i più intelligenti tra i primi rappresentanti degli Homo sapiens, che furono gli unici a salvarsi dall'era siccitosa. Inoltre Marean sostiene di aver ritrovato nelle grotte di Pinnacle Poit delle conchiglie raccolte a solo scopo ornamentale, il che indicherebbe l'insorgere di un ragionamento simbolico complesso decine e decine di migliaia di anni prima della Cultura Solutreana in Francia, che per prima tra i sapiens 20.000 anni fa avrebbe ideato il pensiero simbolico. Ciò confermerebbe che le capacità cognitive avanzate si sarebbero evolute in tempi assai più antichi di quanto si pensasse, e furono essenziali per la sopravvivenza stessa della nostra specie, che poi, uscita dal suo estremo ridotto sudafricano, avrebbe colonizzato il mondo intero.
La seconda volta in cui l'umanità rischiò grosso fu più recente, secondo lo scenario proposto nell'aprile 2008 da Doron Behar del Rambam Medical Center di Haifa (Israele): circa 150.000 anni fa (ore 23.42.29) la specie Homo sapiens si sarebbe divisa in due gruppi distinti, che avrebbero iniziato a evolvere in due specie differenti, rimanendo tali per circa 100.000 anni (per 11 minuti e mezzo), prima di riunirsi appena in tempo e dare vita di nuovo all'unica specie di Homo sapiens oggi esistente. Questo sarebbe il più lungo periodo della storia dell'uomo durante il quale due gruppi di popolazione rimasero separati tra di loro senza alcuna mescolanza genetica. Quando, circa 60.000 anni fa (ore 23.52.59), l'Homo sapiens iniziò a lasciare l'Africa, nella sua prima grande migrazione, le tracce di questa divisione sarebbero state ancora chiaramente presenti. "La fusione che permise l'umanità di ridiventare di nuovo un'unica specie avvenne circa 40 mila anni fa", ha spiegato Doron Behar. "La divisione della popolazione in due gruppi si verificò in seguito alle aride condizioni climatiche cui furono interessati i nostri più antichi antenati dell'Africa meridionale e orientale, che costrinse la società primitiva a cercare nuove aree per la loro sopravvivenza. Sono numerose infatti, le testimonianze geologiche dell'epoca, che dimostrerebbero tale violento e veloce cambiamento climatico."
Spencer Wells, responsabile del Genographic Project a cui fa capo la ricerca, ha spiegato inoltre quanto segue: "Da sempre si è ipotizzato che l'originale popolazione dell'Homo sapiens che abitava nell'Africa subsahariana fosse composta da un gruppo di persone molto piccolo, ma che si era sempre mosso più o meno tutto assieme. In realtà la ricerca ci dice che le cose andarono diversamente". Il fatto è che Behar, Wells e i loro colleghi hanno analizzato 624 genomi completi del DNA mitocondriale, che passa da madre in figlia, di numerose popolazioni che oggi abitano l'Africa subsahariana, e questo avrebbe permesso loro di dimostrare che i due gruppi di persone si sarebbero ridotti addirittura a poche centinaia di individui, un numero che può facilmente portare alla scomparsa di una specie. Si parla di "collo di bottiglia" nell'evoluzione umana, e se confermato sarebbe determinante per spiegare la scarsa variabilità genetica nella nostra specie. "Si diedero davvero molto da fare per riuscire a sopravvivere", aggiunge Wells con una punta di ammirazione per quei nostri lontani antenati.
Già nel 1998 Stanley H. Ambrose dell'Università dell'Illinois aveva avanzato un'ipotesi analoga: grazie a studi sul mitocondrio umano egli si convinse che circa 75.000 anni fa (ore 23.51.14) la specie umana fu ridotta a poche migliaia o addirittura centinaia di individui. Questo "collo di bottiglia" venne da lui spiegato con una catastrofe accaduta all'incirca nella stessa epoca, oggi nota come "catastrofe del lago Toba". Si tratta di un lago vulcanico lungo 100 km e largo 30, posto nel nord dell'isola di Sumatra. Nel 1949 il geologo olandese Rein van Bemmelen (1904-1983) dimostrò che il lago Toba occupa un'antica caldera vulcanica esplosa proprio tra 78 e 70 mila anni fa (tra le 23.50.53 e le 23.51.49). Si pensa che quella remota eruzione sia stata una delle più catastrofiche dell'ultimo milione di anni: furono eruttati quasi 2800 km³ di materiale, e le ceneri di riolite espulse dal supervulcano si trovano sparse in un raggio di 3000 km: oltre all'isola di Sumatra sono state trovate anche in Malesia, in India e sul fondo dell'oceano Indiano. L'eruzione dovette durare settimane, ed alla fine l'intero cono collassò, lasciando un grande cratere che si riempì d'acqua, al cui centro sorge oggi una nuova montagna che raggiunge i 1600 metri di altitudine, nota come isola di Samosir. Sicuramente un simile evento interessò tutto l'ecosistema mondiale del tempo, e potrebbe essere stato la causa della drastica riduzione del numero di individui di varie specie, compresa la nostra.
Come sempre accade, la teoria del "collo di bottiglia" ha trovato sia consensi che oppositori. Peter Foster dell'Anglia Ruskin University, in Gran Bretagna, ha affermato di essere giunto già nel 1977 alle medesime conclusioni, anche se allora nessuno tra i paleontologi gli aveva dato credito. Altri paleontologi invece sostengono che gli studi legati al DNA mitocondriali sono importanti ma non decisivi né sufficienti per ricostruire con una precisione del 100 % lo scenario primordiale dell'umanità e della sua evoluzione; naturalmente più di uno si spinge sino ad affermare che, se davvero la popolazione umana si fosse ridotta a quell'entità numerica, fatalmente si sarebbe estinta sul serio. Sta di fatto, come afferma Luigi Bignami, che se questa teoria si rivelerà esatta, significherà che noi uomini esistiamo davvero solo per un soffio. Forse quella di Deucalione e Pirra, o di Ut-napishtim e sua moglie, scampati per il rotto della cuffia al diluvio voluto dagli déi, non è soltanto una parabola.
L'uomo moderno approda in Puglia
Due denti da latte scoperti presso il sito della Grotta del Cavallo, in Puglia, rappresentano le prime tracce dell'uomo moderno in Europa. Questi reperti furono portati alla luce da Palma di Cesola dell'Università di Siena nel 1964, e inizialmente vennero attribuiti ai Neanderthal. Questa attribuzione portò fra l'altro all'inizio di un intenso dibattito sulle capacità cognitive dei Neanderthal e sul loro possibile sviluppo indipendente di un comportamento simbolico simile a quello dei primi esseri umani moderni. Nella grotta erano infatti presenti anche testimonianze della cultura Uluzziana, caratterizzata da oggetti di ornamento personale, strumenti in osso e pigmenti. In seguito però un gruppo internazionale di ricercatori, analizzando i reperti con nuove più sofisticate tecnologie, ha appurato che essi sono in realtà appartenuti a un bambino della nostra specie. L'attribuzione è garantita dal fatto che nell'analisi sono stati utilizzati due metodi indipendenti per confrontare sia le caratteristiche interne sia quelle esterne dei denti, tra cui lo spessore dello smalto e la conformazione generale della corona, che hanno fornito risultati perfettamente concordanti. « La nostra analisi », ha osservato Katerina Harvati dell'Università di Tubinga, che ha coordinato la ricerca, « mostra chiaramente che i resti dentali di Grotta del Cavallo appartenevano a esseri umani moderni, e quindi che la cultura Uluzziana è stata prodotta da esseri umani moderni, e non dai Neanderthal. »
Inoltre, nuove analisi di datazione al radiocarbonio effettuate sulle conchiglie marine rinvenute negli stessi livelli archeologici dei denti indicano che questi strati risalgono a un periodo compreso fra i 45.000 e i 43.000 anni fa. Questa datazione implica che quelli della Grotta del Cavallo sono i più antichi resti umani moderni in Europa finora noti. « L'Homo sapiens moderno sembra essersi diffuso in Europa, un continente già occupato dai Neanderthal, già prima dell'inizio dell'Aurignaziano », ha concluso Ottmar Kullmer della Senckenberg Research Institution a Francoforte, rilevando come la prima linea di penetrazione nel continente sia probabilmente partita proprio coste europee meridionali che si affacciano sul Mediterraneo. Tutto questo fa pensare che quello del Salento sia il più antico insediamento di uomo moderno in Europa finora conosciuto
I primi cereali
Alcune recenti ricerche hanno messo in discussione molte delle più solide certezze che i paleontologi avevano fin dagli albori di questa scienza. Lo dimostrano le costellazioni di Lascaux e il rischio di estinzione dell'Homo sapiens di cui si è parlato sopra. Un'altra bomba è stata fatta esplodere da Julio Mercader, ricercatore del Dipartimento di Archeologia dell'Università di Calgary in Canada, secondo il quale il consumo di cereali selvatici tra le popolazioni di cacciatori e raccoglitori potrebbe essere stato molto più antica di quanto ritenuto finora. Mercader infatti ritiene di aver ritrovato il più antico esempio di dieta basata in buona parte su cereali e radici in una popolazione di Homo sapiens vissuta più di 100.000 anni fa (alle 23.48.19): egli ha recuperato decine di strumenti di osso in una profonda cava in Mozambico. Ciò dimostrerebbe come il sorgo selvatico, antenato del principale cereale consumato tuttora nell'Africa sub-sahariana per produrre farina, pane, pappe e bevande alcoliche, era presente nella dieta dell'Homo sapiens insieme con la palma, la cosiddetta falsa banana (Enset ventricosum), alcuni legumi (es. Cajanus cajan) e la patata africana. Si tratterebbe della prima e più antica evidenza diretta di cereali pre-domesticati ovunque nel mondo.
Mercader e colleghi dell'Università del Mozambico hanno effettuato scavi nella cava di calcare nei pressi del Lago Nyassa, che venne utilizzata in modo intermittente da antichi raccoglitori per almeno 60.000 anni (alle 23.52.59). La scoperta di diverse migliaia di particelle di amido e di strumenti per raschiare e molare il sorgo selvatico dimostrano come tale cereale venisse portato nella cava e lavorato in modo sistematico. « Il risultato retrodata notevolmente l'inizio dell'utilizzo dei semi da parte delle specie umane, e rappresenta una prova di una dieta estesa e sofisticata molto prima di quanto ritenuto », ha spiegato Mercader. « Ciò avvenne durante l'Età della pietra, quando la raccolta di cereali selvatici è stata percepita come attività altrettanto importante di radici, frutti e frutta secca. Si è ipotizzato che l'uso dell'amido abbia rappresentato un passo cruciale nell'evoluzione umana, poiché migliorò la qualità della dieta nelle savane e nelle foreste africane, in cui si è evoluta la prima linea di esseri umani moderni. L'inclusione dei cereali nella nostra dieta è considerato un passo importante in virtù della complessità tecnica della manipolazione culinaria richiesta per convertire i cereali in alimenti. » Mercader sostiene che questo tipo di evidenze archeologiche sono in accordo con altre dello stesso tipo rinvenute in ogni parte del mondo all'inizio dell'Era Glaciale, circa 90.000 anni prima delle prime evidenze di consumo di cereali fino a qui accertate, datate approssimativamente 12.000 anni fa, durante gli ultimi stadi dell'ultima Era glaciale.
L'Homo floresiensis
Come non citare la scoperta di un nuovo membro della famiglia umana sull'isola indonesiana di Flores, ad opera di una squadra di ricercatori australiani ed indonesiani, guidata da Richard Roberts, avvenuta in una grotta dell'isola di Flores (Indonesia) nell'ottobre 2004? Il sito italiano di Scientific American lo ha addirittura definito "un fossile di Hobbit" (!!) con riferimento ai curiosi mezzuomini della saga di Tolkien, perchè l'usura dei denti indica che al momento della morte, avvenuta appena 18.000 anni fa (alle 23.57.54), il fossile (pare si tratti di una femmina) aveva raggiunto l'età adulta, ma la sua altezza era inferiore al metro e il cervello era di dimensioni pari a un terzo di quello degli uomini moderni, misurando solo 417 centimetri cubi. Le somiglianze tra la struttura esterna del cranio di questo bizzarro ominide e la nostra hanno autorizzato a classificarlo nel genere Homo, e così è stato battezzato Homo floresiensis. A fianco se ne vede una rappresentazione artistica dovuta a Peter Schouten, per la quale ringrazio la cortesia della National Geographic Society.
Subito però è scoppiata una polemica asperrima: da una parte ci sono coloro che rifiutano l'esistenza di una specie "nana" nel passato recente dell'umanità, il cui capofila è il giavanese Teuku Jacob, che è stato accusato addirittura di aver impedito a colleghi rivali lo studio dei fossili, il quale ritiene trattarsi solo di un esemplare di Homo sapiens colpito da nanismo microcefalico, una malattia che rende il cranio più piccolo del normale; dall'altra parte della barricata stanno invece quanti mettono in luce le enormi differenze tra i nuovi fossili e le specie conosciute di Homo erectus ed Homo sapiens, e ritengono difficile che si tratti di un esemplare malato o minorato, visto che sembra essere morto a circa trent'anni di età. Secondo una terza scuola di pensiero, si tratterebbe invece di un caso di specie evolutasi solo in un ben determinato ambiente, un po' come l'elefantino nano di Malta: un Uomo di Giava trovatosi tagliato fuori dagli altri gruppi umani in un ambiente assai limitato (l'isola di Flores è piuttosto piccola), che per sopravvivere con limitate risorse a disposizione ha sviluppato una taglia ridottissima, da "Hobbit".
In effetti le scoperte vanno succedendosi a ritmo incalzante: a cinque anni dal rinvenimento degli scheletri sull'isola di Flores, due ricerche pubblicate sul numero di maggio 2009 di "Nature" hanno dato corpo alla tesi secondo cui lo « Hobbit indonesiano » non sarebbe un pigmeo frutto di nanismo insulare, ma una vera nuova specie umana. Analizzando la struttura del piede di Homo floresiensis, infatti, i paleontologi vi hanno riscontrato al tempo stesso caratteristiche umane (pollice allineato con le altre dita, giunture capaci di allungarsi per sostenere tutto il peso del corpo) ed estremamente primitive: il piede è molto più lungo, in proporzione, del suo equivalente umano (il 70 % della lunghezza del femore, un rapporto mai osservato prima in alcun ominide, contro il 55 % di un uomo moderno), ed inoltre ha l'alluce eccezionalmente corto ed è privo dell'arco plantare; in altre parole è piatto, come nelle grandi scimmie. In base a queste tre ultime caratteristiche, lasciando da parte i piedoni degli Hobbit immaginati da Tolkien, il più vicino al floresiensis è il Bonobo. Ora, diverse caratteristiche delle pelvi, della gamba e del piede del nostro piccoletto indicano che egli camminava in posizione eretta, ma quel piedone sproporzionato non doveva certo rendergli agevole la locomozione: con delle gambe così corte e con dei piedi così corti doveva avere un'andatura assai particolare per non trascinare le dita dei piedi sul terreno (si pensi a quanto sia scomodo camminare sulla terraferma indossando un paio di pinne da sub!). Non parliamo di quanto doveva essere difficoltosa la corsa per evitare di finire in pasto a uno dei Varani di Komodo che infestano l'isola di Flores! Probabilmente lo « Hobbit »poteva scattare solo su brevi distanze e per ragioni difensive, ma certo non poteva pensare di correre la maratona. Se il piede fosse il solo ad esibire tratti primitivi, i paleontologi potrebbero sostenere che Homo floresiensis sia un discendente di Homo erectus perfettamente in grado di camminare eretto, e la particolare morfologia del piede potrebbe essere attribuibile ad una "regressione evolutiva" causata dalla diminuzione delle dimensioni corporee. Ma le caratteristiche arcaiche del floresiensis si riscontrano in tutto il suo scheletro: esso ha il trapezoide (un osso del polso) di forma piramidale, come nelle grandi scimmie antropomorfe, mentre nella nostra specie ha la forma di uno scarpone. La clavicola è corta e molto curva, in netto contrasto con le clavicole più lunghe e più diritte di ominidi più moderni; la pelvi ha la forma di una bacinella, come negli australopiteci, e non ad imbuto come in Homo erectus e nelle successive specie del genere Homo.
C'è poi il problema della testa, ritenuta dai detrattori più piccola di quanto ci si potrebbe attendere da un ominide di un metro d'altezza: troppo più piccola. Se le regole note fossero rispettate, lo "hobbit" avrebbe dovuto avere un cervello di circa 1000 centimetri cubi, se si trattasse di un esemplare nano della nostra specie, o come minimo di 500 o 600 centimetri cubi, se si trattasse di un Homo erectus di piccole dimensioni. Per questo motivo molti ne hanno messo in dubbio l'identità come specie a sé stante, parlando di possibili effetti di qualche patologia. Tuttavia altre caratteristiche del cranio, come il naso stretto e le arcate sopraccigliari prominenti fanno pensare che lo "hobbit" sia un membro del genere Homo, e non una scimmia antropomorfa, anche se aveva il cervello grande solo come un pompelmo. Gli strumenti che usava, poi, sono inequivocabilmente quelli di una specie umana piuttosto evoluta, tanto che Homo sapiens potrebbe averli copiati sull'isola dal floresiensis, e non viceversa. Come ha fatto notare il genetista italiano Edoardo Boncinelli, « la vita sulle isole, dove il cibo può scarseggiare, ha le sue peculiarità, e molte di queste si riflettono sull'evoluzione di alcune specie. Paragonando i resti di alcune specie fossili di ippopotami nani vissuti nel Madagascar a quelli di specie affini vissuti sul continente africano, si trovano valori molto diversi dagli attesi e molto più simili alla situazione di Homo floresiensis. In particolare il cranio sembra ridursi motto più dell'atteso, probabilmente perché il costo metabolico della massa cerebrale e assai più alto rispetto a quello del resto del corpo: poco cibo, quindi corpi piccoli e testa ancora più piccola. Gli ippopotami non sono esseri umani, ma la loro analisi comparativa può darci una lezione di carattere generale. »
In conclusione, probabilmente siamo in presenza di un nuovo nostro nuovo cugino, per quanto alla lontana, capace di usare strumenti e di dare la caccia ad animali di notevoli proporzioni, soprattutto paragonate alla sua piccola stazza. Da tutto questo però discende logicamente l'ipotesi che l'Homo floresiensis non sia il prodotto di un'involuzione dell'Homo erectus, bensì un tipo di ominide dotato di cervello inusualmente piccolo, la cui linea evolutiva si sarebbe staccata in un momento precedente da quella che poi avrebbe originato erectus e sapiens, e quindi, come scritto su "Nature" da William Jungers, « prima che la selezione per la corsa di resistenza entrasse in gioco nell'evoluzione della razza umana ». Con chi può essere imparentato? Se floresiensis è molto più primitivo di erectus, o si è evoluto subito dopo habilis, uno dei più antichi rappresentanti noti del nostro genere, o addirittura prima di esso. In entrambi i casi, siamo costretti a concludere che alcune popolazioni di Homo hanno lasciato l'Africa assai prima di quando pensassimo fino a oggi. Attualmente la prova più antica e certa di resti umani fuori dall'Africa arriva dalla Georgia, dove sono stati rinvenuti resti di Homo erectus risalenti a 1,73 milioni di anni fa (alle ore 20.37.56); anche quei lontani progenitori erano più piccoli degli erectus africani. Se però ha ragione chi propone questa nuova, rivoluzionaria interpretazione degli uomini di Flores, allora la prima migrazione intercontinentale risale a centinaia di migliaia di anni prima, ed è stata intrapresa da esseri umani di tipo totalmente diverso, che avevano più aspetti in comune con la piccola Lucy di Afar che con i colonizzatori evoluti e muscolosi immaginati dagli antropologi. E finora non si ha alcuna evidenza di fossili di quell'avventuroso pioniere lungo l'arco che va dal corno d'Africa al Sudest asiatico. Molti ricercatori criticano questo scenario: « Più spostiamo indietro la divergenza tra floresiensis e gli altri ominidi, più diventa problematico spiegare perchè una specie nata in Africa ha lasciato una traccia di sé solo sulla piccola isola di Flores », ha commentato Robert Martin del Field Museum di Chicago. Indubbiamente « floresiensis è un ominide su cui nessuno avrebbe da ridire, se lo avessimo scoperto in Africa e risalisse a due milioni di anni fa », ha aggiunto Matthew Tocheri della Smithsonian Institution di Washington: « il problema è che lo abbiamo trovato in Indonesia risalente a tempi praticamente moderni ». Si è ipotizzato che gli Australopiteci abbiano abbandonato l'Africa perchè la prateria che aveva colonizzato quel continente circa tre milioni di anni fa si era estesa all'Asia, ma per avere delle risposte certe occorre trovare fossili di "hobbit" anche in altri siti archeologici più vicini all'Asia. Il "cacciatore di ominidi" Mike Morwood sta esplorando due siti a Sulawesi e la località di Niah, nel Borneo settentrionale, mentre sul continente asiatico si pensa che sarà più difficile trovare i fossili giusti, perchè lì è più raro trovare rocce con la giusta età esposte in superficie. Intanto, i piccoli ominidi di Flores ci hanno riservato un'altra sorpresa: grazie a nuovi metodi di datazione di manufatti litici riconducibili ad Homo floresiensis, Adam Brumm dell'Università di Wollongong in Australia sostiene di aver scoperto che questi "Hobbit" vivevano sull'isola di Flores già un milione di anni fa, rafforzando l'ipotesi di una divergenza dagli altri ceppi del genere Homo collocata incredibilmente indietro nel tempo. Invece il ricercatore Ralph Holloway, della Columbia University, ha usato la risonanza magnetica per stabilire le dimensioni della cavità cranica e i rapporti fra le sue differenti regioni in 21 bambini affetti da microcefalia, confrontandoli con quelli di 118 bambini normali. Successivamente ha eseguito analoghe misure su crani di 10 uomini microcefali, 79 uomini normali, 17 di Homo erectus, 4 di Australopithecus e infine i fossili di Flores. Confrontando i dati ottenuti, Holoway ha osservato che quelli relativi allo hobbit non rientrano nello spettro di variazione né dell'essere umano moderno normale, né in quello dell'Homo erectus, ma ricadono in quello di uomini affetti da microcefalia. Secondo lui quindi gli « Hobbit » sarebbero individui patologici, e non appartenenti a una specie a sé stante. Ma le sue misure sono state subito contestate da altri studiosi. Maciej Henneberg, dell'Università di Adelaide, sostiene invece che in realtà il presunto "Hobbit" sarebbe un individuo della nostra specie affetto da sindrome di Down: l'asimmetria facciale, il piccolo volume endocranico, la brachicefalia, il femore molto corto, i piedi piatti e diverse altre caratteristiche del nostro fossile sarebbero compatibili con il quadro diagnostico di tale sindrome in una persona che appartenga a una popolazione di corporatura minuta, quali quelle che ancora vivono nella regione. Purtroppo i tentativi di ricavare dai pochi reperti disponibili del DNA sufficientemente integro per essere analizzato e dare una risposta definitiva alla questione si sono dimostrati infruttuosi; fino a che non verranno scoperti dei fossili di tale presunto ominide fuori dalla "Contea" di Flores, il dibattito tra gli accademici continuerà, e tutto lascia pensare che sarà rovente.
Nel 2016 tuttavia nuovi scavi nella grotta di Liang Bua, sull'isola di Flores, hanno retrodatato la misteriosa specie ominide di cui stiamo parlando. Thomas Sutikna, dell'Università di Wollongong, e colleghi sono convinti che il piccolo ominide abbia utilizzato la famosa grotta in un arco di tempo compreso tra 190.000 e 50.000 anni fa (tra le 23.37.48 e le 23.54.09), e non fino a 12.000 anni fa come ipotizzato on precedenza: datazione molto più recente, che aveva fatto supporre che l'hobbit avesse potuto vivere per diverse migliaia di anni a fianco dell'uomo moderno, arrivato in Australia attraverso l'arcipelago di cui fa parte Flores proprio circa 50.000 anni fa. I nuovi scavi effettuati sotto la guida di Sutikna hanno portato alla luce parti della grotta che non erano state viste inizialmente, e hanno evidenziato depositi disomogenei e una stratigrafia molto più complessa di quanto non emerso in precedenza. Modificando così la datazione originale dei resti fossili, che viene anticipata di diversi millenni. Homo floresiensis sarebbe dunque scomparso molto prima di quanto non si ritenesse fino ad oggi. « "In realtà la questione dell'incontro o meno con Homo sapiens rimane aperta », ha affermato il paleoantropologo Giorgio Manzi, professore al dipartimento di Biologia ambientale dell'università di Roma la Sapienza. « Anzi, la data in cui i cosiddetti "hobbit" spariscono coincide proprio con l'arrivo da quelle parti dell'uomo moderno. Una strana coincidenza, che potrebbe indicare che proprio l'incontro con i nostri progenitori ne abbia determinato la scomparsa. Ancora più interessante sarebbe determinare quando l''hobbit sia arrivato sull'isola indonesiana. Si suppone che sia accaduto ai tempi della prima diffusione extra africana degli ominidi, quindi fra due milioni e un milione di anni fa ».
Poiché i misteri ci arrivano tra capo e collo sempre in gruppo, all'enigma dello "Hobbit" di Flores si aggiunge quello delle cicogne giganti vissute sulla stessa isola. Nel 2010 infatti sul fondo della caverna di Liang Bua, la stessa dove sono stati ritrovati i resti dell'Homo floresiensis, è stata scoperta una nuova specie di cicogna, battezzata Leptoptilos robustus, che poteva raggiungere 1,82 metri di altezza. La datazione dei resti ha permesso di stabilire che gli "Hobbit" e le cicogne giganti vissero contemporaneamente tra i 50.000 e i 20.000 anni fa. « All'inizio pensavo che si trattassero delle ossa di un grande rapace », ha dichiarato Hanneke Meijer, autore del ritrovamento, « ma poi, con mia grande sorpresa, ho realizzato che si trattava di una cicogna. Le ossa delle gambe infatti sono molto sottili, il che significa che deve aver vissuto la maggior parte del suo tempo a terra ». Probabilmente avevano perso la capacità di volare: sull'isola, dove oltre ai floresiensis non c'erano grandi mammiferi predatori, come lupi o grandi gatti, molte specie sono cresciute notevolmente in dimensioni: oltre ai resti delle cicogne sono stati infatti trovati anche quelli di topi giganti che vissero contemporaneamente agli uomini. Se è vero che le cicogne sicuramente non hanno mai portato i bambini, se non nella credenza popolare, c'è però il rischio che ai tempi dei floresiensis i bambini li abbiano mangiati...
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L'enigmatico Ominide di Denisova
Come se il mistero sollevato dal nanerottolo di Flores non contribuisse da solo a rendere ancora più complesso l'albero genealogico del genere Homo, nel 2008 si è aggiunto un nuovo tassello a scompigliare ancora si più la già strana forma del puzzle che stiamo cercando di ricostruire. Johannes Krause, dell'Istituto Max Planck di Lipsia, ha rinvenuto nella caverna di Denisova, una remota grotta dei monti Altai, presso il confine tra Siberia e Mongolia, un pezzo di osso della falange di un dito, datato a 41 mila anni fa (alle 23.55.13). Ebbene, secondo Krause esso non apparteneva né a un Uomo di Neanderthal né a un moderno Homo sapiens, le uniche specie di ominidi che sarebbero vissute a quel tempo sul continente eurasiatico.
Krause è giunto a questo risultato studiando il DNA mitocondriale dell'osso rinvenuto, DNA che come è noto viene ereditato solo per linea materna. Le analisi sembrano testimoniare che i Sapiens, i Neanderthal e l'ominide di Altai avrebbero avuto un antenato comune vissuto un milione di anni fa; la falange dunque attesterebbe una migrazione dall'Africa differente da quelle finora note, che ha portato l'Homo erectus a lasciare quel continente a partire da 1,9 milioni di anni fa per diffondersi in tutto il mondo. Le scoperte archeologiche fin qui compiute hanno evidenziato che ci sono state altre due migrazioni dall'Africa: tra 500 mila e 300 mila anni fa (dalle 23.00.36 alle 23.24.58) quella dei Neanderthal, poi 50 mila anni fa (alle 23.54.09) quella di noi uomini moderni. Ma i campioni del suolo della grotta di Denisova hanno consentito di datare i reperti tra 48 mila e 30 mila anni fa (dalle 23.54.24 alle 23.56.29): quindi il misterioso ominide di Altai potrebbe essere venuto in contatto sia con i Neanderthal, dei quali sono stati rivenuti resti a meno di 100 km dalla grotta di Denisova, sia con i Sapiens che frequentano i monti Altai da più di 40 mila anni. Fino a 125 mila anni fa (alle 23.45.24) vi sono tracce anche della sopravvivenza di Homo erectus e Homo heidelbergensis proprio nella Siberia meridionale. A quanto pare, alla fine del Pleistocene i Monti Altai erano incredibilmente affollati. Inutile dire che l'esistenza contemporanea di una linea umana finora sconosciuta, la quarta dopo i Sapiens, i Neanderthal e gli Hobbit di Flores, obbligherebbe a rivedere conoscenze ormai date per acquisite da decenni sulla colonizzazione umana dell'Eurasia.
Grazie a un nuovo metodo per trattare gli scarsi campioni disponibili, nel 2012 è stato sequenziato il genoma dell'uomo di Denisova, e le analisi hanno confermato che ha una piccola percentuale dei suoi geni in comune con gli umani moderni, ma secondo i ricercatori l'incrocio non avvenne direttamente, bensì attraverso i neanderthaliani. L'esiguità del campione disponibile ha portato i ricercatori a sviluppare un nuovo metodo per separare le due eliche della molecola di DNA in modo da poter utilizzare ciascuna di esse per il sequenziamento, ottenendo materiale di qualità simile a quella di campioni attuali. « Si tratta di una sequenza genica di un'accuratezza mai raggiunta finora per una specie estinta », ha spiegato Matthias Meyer del Max-Planck-Institut a Lipsia. « Per la maggior parte del genoma, è possibile determinare le differenze tra i cromosomi ereditati dal padre e quelli ereditati dalla madre. » Grazie alle analisi, si è arrivati a a concludere che i denisoviani avevano una variabilità genetica assai limitata: fatto, questo, spiegabile ipotizzando che la loro popolazione sia stata inizialmente poco numerosa, e che sia cresciuta via via che si diffondevano in vaste regioni dell'Asia. « Se le future ricerche sul genoma di Neanderthal dovessero mostrare variazioni di popolazione simili a quelle dei denisoviani, potrebbe essere un indizio del fatto che è stata un'unica popolazione originaria dell'Africa a dare origine alle due specie », ha sottolineato Meyer. Tra gli altri dati ricavati dal sequenziamento, l'analisi di alcuni alleli consentono di trarre alcune conclusioni sui tratti fenotipici dell'Homo di Denisova: con tutta probabilità, la donna aveva la pelle scura, e occhi e capelli castani.
L'ingresso della grotta di Denisova |
Questa è la prima volta che una nuova specie viene identificata soltanto attraverso il Dna mitocondriale: le comparazioni confermano il principio secondo cui la quantità di differenze genetiche che si accumulano fra due specie è un buon indicatore delle loro relazioni genealogiche in termini di evoluzione. « Sono estremamente sorpreso da questa scoperta », ha dichiarato Svante Pääbo, direttore del Dipartimento di Genetica dell'Istituto Max Planck, dopo che l'analisi del genoma tratto dal nucleo delle cellule dei resti di Denisova nel dicembre 2010 ha confermato definitivamente che, oltre ai Neanderthal, l'uomo moderno aveva un'altra specie "cugina". Anche un dente di questi antichi "cugini" ritrovato insieme al dito mostra una morfologia che li distingue sia dai Neandertal, sia dagli umani moderni, ricordando molto i denti dei più antichi Homo habilis e Homo erectus. « Il dente è sorprendente, e ci permette di collegare le informazioni genetiche e morfologiche », ha osservato Bence Viola, uno dei partecipanti al progetto. Ma l'analisi del genoma nucleare di questo reperto ha portato a un'altra scoperta, ancor più sorprendente: il DNA della nuova specie condivide infatti un elevato numero di varianti geniche con le moderne popolazioni di Papua Nuova Guinea, indicando un incrocio fra l'antica popolazione di Denisova e gli antenati dei melanesiani. L'analisi comparativa dei genomi, che comprendeva campioni delle popolazioni della Nuova Guinea e dell'isola di Bougainville, ha infatti rivelato che almeno dal 4 al 6 % del genoma di quelle popolazioni melanesiane deriva da quello dell'antica popolazione siberiana. Questa constatazione induce a ipotizzare che questa popolazione possa essersi diffusa in Asia nel corso del tardo Pleistocene. Come si è visto sopra, Fabio di Vincenzo e Giorgio Manzi hanno interpretato questa specie come una possibile sottospecie di Homo heidelbergensis. Inoltre sono stati trovati più alleli di Denisova in Asia e Sud America che nelle popolazioni europee: secondo i ricercatori, questo probabilmente indica che l'incrocio è avvenuto tra gli esseri umani moderni e i neanderthaliani, parenti stretti dei Denisoviani, invece di un incrocio diretto con gli stessi Denisoviani.
Ma l'aspetto che più intriga Pääbo è il "catalogo" quasi completo delle differenze genetiche tra le diverse specie: negli ultimi 100.000 anni, negli esseri umani moderni sono cambiati più di 100.000 singoli nucleotidi, parte dei quali sono implicati nella definizione dell'architettura e del funzionamento del sistema nervoso: l'ipotesi degli studiosi è che con l'emergere di Homo sapiens potrebbero essere cambiati aspetti cruciali della trasmissione sinaptica.
Intanto, le scoperte si stanno moltiplicando. Svante Pääbo e colleghi di una collaborazione internazionale, in cui figura anche l'Università di Bologna, a metà 2017 sono riusciti a recuperare materiale genetico da un molare inferiore deciduo, denominato Denisova 2, ritrovato nel 1984 in uno strato profondo della grotta di Denisova e appartenuto a un individuo (il quarto scoperto finora) di sesso femminile e di età compresa tra 10 e 12 anni. È stato datato tra 150.000 e 100.000 anni fa (tra le 23.42.29 e le 23.48.19), ed è quindi il più antico di quelli finora noti. L'analisi del DNA mitocondriale, che si tramanda solo per via matrilineare, ha rivelato che si tratta di un reperto più antico rispetto ad altri campioni di denisoviani. Questa conclusione è un'ulteriore conferma dell'ipotesi secondo cui i denisoviani probabilmente sono vissuti vicino alla caverna per molto tempo, alternandosi con l'uomo di Nanderthal e con gli esseri umani moderni, di cui pure sono stati trovati i resti nella grotta russa. Ciò contribuisce a disegnare un quadro molto più complesso di quanto ritenuto in passato delle diverse popolazioni umane che vivevano in Eurasia nel Pleistocene.
Nel 2022 poi la scoperta di un dente fossile nella grotta Tam Ngu Hao, in un'area remota del Laos, da parte di scienziati dell'Università di Copenaghen, del francese Centre National de la Recherche Scientifique e dell'Università dell'Illinois a Urbana-Champaign, ha dimostrato che l'uomo di Denisova non viveva solo in Siberia e nell'altopiano tibetano, da dove in precedenza venivano gli unici reperti conosciuti, ma abitava anche nel Sudest asiatico. Tramite un'analisi dettagliata della forma del dente, eccezionalmente grande, i ricercatori hanno collegato il reperto ai resti della grotta di Denisova. L'analisi delle proteine trovate sul reperto suggerisce inoltre che apparterrebbe a una giovane, di età compresa fra i tre e gli otto anni, vissuta fra i 164.000 e i 131.000 anni fa (tra le 23.40.50 e le 23.44.42). Già in precedenza alcuni studi genetici avevano individuato tracce di DNA denisoviano nelle popolazioni moderne di queste regioni. La scoperta conferma la presenza di questa specie umana estinta anche nel meridione del continente asiatico!
Non è tutto. Secondo alcuni ricercatori del BGI (Beijing Genomics Institute) a Shenzhen e dell'Università della California a Berkeley, la mutazione genetica che ha permesso ai tibetani di adattarsi brillantemente alla vita in alta quota è stata sviluppata proprio grazie a un incrocio dei loro lontani antenati con qualche gruppo di denisoviani. Per effettuare questo studio, Emilia Huerta-Sánchez e colleghi hanno confrontato il genoma di 41 tibetani e 40 cinesi di etnia Han, individuando nei primi una variante genica particolarmente insolita a carico di un gene, chiamato EPAS1, coinvolto nella gestione del metabolismo in situazioni in cui scarseggia l'ossigeno. Sull'altopiano dei Tibet, a più di 4000 metri di quota, la concentrazione di ossigeno è inferiore del 40 % rispetto a quella del livello del mare, ma i tibetani si sono adattati in maniera straordinariamente efficace a queste difficili condizioni, grazie a mutazioni che consentono un tasso di fertilità delle donne superiore a quello delle donne che si sono acclimatate al luogo ma sono originarie dei bassopiani, e un tasso di mortalità infantile inferiore dei loro figli. Nei tibetani inoltre i bassi livelli di ossigeno non portano a un aumento dei livelli di emoglobina, che si osserva invece nelle altre persone e che è collegato a un aumento dei rischio di gravi eventi cardiaci.
Successivamente, i ricercatori hanno confrontato la variante genica dei tibetani (e in particolare quelle modificazioni puntiformi nella sequenza del DNA che costituisce il gene e che sono note come polimorfismi di singolo nucleotide o SNP) con i dati raccolti dal "1000 Genomes Project", una collaborazione internazionale che sta censendo e classificando le varianti geniche che caratterizzano le diverse popolazioni della Terra. L'analisi ha evidenziato che quei polimorfismi non sono presenti in alcuna etnia attuale, se non, con una frequenza bassissima e relativa a un numero ridotto di SNP, nella popolazione Han. Questi polimorfismi non si trovano neppure nei Nenderthal, ma i tre quarti di essi corrispondono perfettamente a quelli identificati nei resti dell'uomo di Denisova. Questi dati indicano che il contributo genetico dell'uomo di Denisova deve essere avvenuto in un'epoca abbastanza remota, precedente alla separazione dei tibetani dall'etnia Han, fra i 10.000 e i 3000 anni fa (dalle 23.58.49 alle 23.59.39), nella quale la perdita della variante deve essersi verificata per le pressioni selettive dell'ambiente in cui si sono insediati. Pressioni che invece hanno favorito il suo mantenimento e la sua diffusione fra i tibetani. Questa interpretazione è rafforzata dal fatto che nelle popolazioni in cui oggi è possibile identificare la più forte presenza di un antico contributo genetico denisoviano, quelle della Melanesia (Papua Nuova Guinea, Isole Salomone), è andata perduta qualsiasi traccia dei polimorfismi a carico del gene EPAS1 tipici dei tibetani.
Aggiungiamo che nell'autunno 2019 i ricercatori coordinati da Liran Carmel dell'Università Ebraica di Gerusalemme hanno ricostruito il primo ritratto dell'Uomo di Denisova. Finora non era stato possibile ricostruire l'aspetto di questi uomini primitivi perché l'intera collezione di resti degli uomini di Denisova comprende un mignolo, tre denti e una mascella inferiore. Ora, i ricercatori ci sono riusciti estraendo le informazioni anatomiche dai modelli di attività dei geni. Tali modelli sono stati dedotti sulla base delle modifiche genetiche indotte dall'ambiente, che sono modifiche chimiche del DNA che influenzano l'attività dei geni senza cambiare la sequenza sottostante. Per testare il metodo, i ricercatori lo hanno prima applicato a due specie la cui anatomia è nota, il Neanderthal e lo scimpanzé, e hanno visto che circa l'85% delle ricostruzioni dei tratti erano accurati. Quindi lo hanno applicato per ricostruire il ritratto dell'Uomo di Denisova. In questo modo è stato possibile identificare 56 caratteristiche anatomiche in cui i Denisovani differivano dagli uomini moderni e dai Neanderthal, 34 delle quali nel cranio. Ad esempio, il cranio dei Denisovani era probabilmente più largo di quello degli uomini moderni e dei Neanderthal e anche l'arco dentale era probabilmente più ampio. Insomma, i Denisovani somigliavano ai Neanderthal nella forma del volto un po' allungata e nell'ampiezza delle pelvi, ma erano diversi da loro e anche dagli uomini moderni nella forma del cranio. Si tratta di un passo avanti importante verso la capacità di ottenere l'identikit di un individuo dal suo DNA.
La prima ricostruzione dell'Uomo di Denisova |
La prima figlia di padre Denisova e madre Neanderthal
Una ragazzina di 13 anni vissuta 90.000 anni fa in Siberia ha fornito la prova che uomini Neanderthal e uomini di Denisova si incrociarono tra loro. L'annuncio della scoperta, risalente al 2018, è di un gruppo di ricercatori del Max Planck Institut per l'antropologia evolutiva a Lipsia, in collaborazione con l'Università di Novosibirsk, in Russia.
L'incrocio fra Neanderthal e uomini moderni è ben noto, e ricerche recenti hanno dimostrato che la nostra specie si incrociò anche con i denisovani, del cui genoma sono state trovate tracce nelle attuali popolazioni dell'Estremo Oriente e di Papua. Mancava però una prova certa anche di un incrocio fra uomini di Denisova e neanderthaliani, le cui linee evolutive si separarono circa 390.000 anni fa (ore 23.14.27), anche se gli antropologi ne sospettavano la possibilità: tracce della presenza di Neanderthal sono infatti emerse anche nelle regioni abitate dai denisovani, dei quali invece sono stati trovati resti fossili (circa 2000 frammenti) soltanto nella grotta di Denisova, nelle montagne dell'Altai, in Siberia.
L'analisi morfologica, radiologica, densitometrica e delle proteine del collagene di uno di questi frammenti, denominato Denisova 11, ha rivelato che apparteneva a un soggetto morto all'età di circa tredici anni. L'analisi genetica ha poi mostrato che si trattava di una femmina, figlia di un padre denisovano e di una madre neanderthaliana. Ma le sorprese non sono finite qui. Approfondendo le analisi, i ricercatori hanno scoperto che anche nella genealogia del padre di Denisova 11 vi erano antenati Neanderthal. La componente genetica neanderthaliana del padre risaliva però a un periodo molto precedente, stimato in circa 300-600 generazioni. Il genoma materno, invece, è risultato più simile a quello dei Neanderthal vissuti in Europa occidentale in un'epoca più recente rispetto ai neanderthaliani insediati in tempi remoti nella regione di Denisova.
Ciò significa che ci devono essere state due distinte migrazioni di Neanderthal: una molto antica, che ha portato ai denisovani la componente genetica neanderthaliana riscontrata nel padre di Denisova 11; l'altra, molto più recente, che ha condotto in Siberia il gruppo a cui appartenevano la madre o i suoi recenti antenati. Questo genoma ci permette di conoscere meglio due popolazioni: i neanderthaliani da parte della madre e i denisovani da parte del padre.
Nel gennaio 2019, inoltre, è stato finalmente ricostruito, grazie a nuove indagini strumentali, l'alternarsi delle diverse specie umane nell'occupazione della grotta di Denisova nel corso dei millenni. La decifrazione dei segni umani lasciati a Denisova è quanto mai complessa, poiché riguarda un arco temporale estremamente ampio, che copre sia il Paleolitico medio, tra 340.000 e 45.000 anni fa, sia la parte iniziale del Paleolitico superiore, tra 45.000 e 40.000 anni fa. La scoperta di manufatti ornamentali antichi, come pendagli fatti di ossa, e altri oggetti di avorio di mammut erano stati attribuiti inizialmente a Homo sapiens, ma le analisi del materiale genetico antico hanno dimostrato la presenza di Denisova e di Nenderthal durante il Paleolitico medio, mentre non sono stati riscontrati segni della presenza di Homo sapiens.
Zenobia Jacobs e Richard Roberts dell'Università di Wollongong in Australia hanno presentato i risultati della datazione di 103 depositi di sedimenti che vanno da 300.000 a 20.000 anni fa, insieme con i resti di 27 specie di grandi vertebrati, 100 specie di piccoli vertebrati, soprattutto mammiferi e pesci, e 72 specie di piante. L'analisi di questi reperti è stata effettuata con una tecnica che misura l'ultima volta che alcuni minerali sono stati esposti alla luce solare. Ciò ha permesso di ricostruire l'ambiente intorno alla grotta di Denisova, che è variato notevolmente nel corso del tempo, passando dall'essere prevalentemente una foresta di latifoglie, nelle epoche più calde, a tundra e steppa, nelle epoche più fredde. Infine, gli autori sono arrivati a stime di quando i Denisoviani occuparono la grotta: si tratta di un periodo compreso tra 287.000 e 55.000 anni fa, mentre per i Neanderthal varia tra 193.000 e 97.000 anni fa. In seguito, Katerina Douka del Max-Planck-Institut per la scienza della storia umana a Jena e colleghi si sono concentrati sui reperti trovati negli strati risalenti al Paeolitico medio e superiore. I loro risultati riguardano, in particolare, 50 nuove datazioni con la tecnica del radiocarbonio, l'analisi con la tecnica di zooarcheologia per spettrometria di massa di più di 2000 fossili, che ha permesso d'individuare tre nuovi frammenti ossei appartenuti a Denisova, e infine l'analisi di tutti i frammenti fossili di Denisova disponibili finora.
Gli autori hanno concluso che quest'ultima specie era presente nella grotta già 195.000 anni fa, mentre i resti più recenti sono datati a un periodo compreso tra 76.000 e 52.000 anni fa. Tutti i fossili relativi ai Neanderthal, invece, sono datati a 140.000-80.000 anni fa, cioè un'epoca intermedia tra le prime e le ultime testimonianze di Denisoviani. Per quanto riguarda manufatti, ovvero ciondoli fabbricati con denti e punte di freccia fatte di ossa, risalgono a 49.000-43.000 anni fa: si tratta quindi dei più antichi manufatti scoperti in Eurasia nel nord. Sulla base delle attuali prove archeologiche, si può ipotizzare che questi manufatti siano associati alla popolazione denisoviana, mentre non si può determinare se esseri umani anatomicamente moderni fossero coinvolti nella loro produzione, poiché non sono mai stati trovati finora fossili di esseri umani moderni né prove genetiche, così antichi nella regione di Altai.
Aggiungiamo che negli ultimi decenni l'Asia dell'est è stata teatro di importanti ritrovamenti paeloantropologici, da cui è emerso che durante il Pleistocene medio-tardo la regione era abitata da diverse specie di Homo, tra cui Homo erectus, uomo di Denisova e uomo di Neanderthal, oltre che da esseri umani anatomicamente moderni. Nello stesso periodo, recenti studi hanno documentato la presenza nella regione di diverse forme arcaiche di Homo, i cui rapporti con le altre specie non sono ancora chiari. A partire dagli scavi condotti negli anni settanta, il sito di Xujiayao, che si trova nel bacino del Nihewan, nel nord della Cina, ha prodotto un'abbondanza di fossili di ominidi arcaici, tra cui la mascella di un ragazzino, battezzato il Giovane di Xujiayao.
Nel 2019 un gruppo internazionale di ricerca guidato da Debbie Guatelli-Steinberg, professoressa di antropologia della Ohio State University, ha sostenuto che il giovane, vissuto tra 248.000 e 104.000 anni fa (tra le 23.31.02 e le 23.47.51), mostra i segni di uno sviluppo dentale molto simile a quello che si osserva in un bambino di oggi. I denti offrono alcuni dei migliori dati antropologici sulla crescita e lo sviluppo dei nostri antichi antenati. Rispetto agli altri primati, l'organismo degli esseri umani moderni, inclusi i denti, impiega molto tempo per formarsi e svilupparsi, e gli antropologi ritengono che questa caratteristica sia associata ai lunghi periodi di dipendenza dei piccoli dagli adulti. Negli esseri umani moderni, in particolare, è lenta la formazione dello smalto e della corona, così come è lento lo sviluppo delle radici, mentre l'eruzione dei molari è ritardata.
Guatelli-Steinberg e colleghi hanno usato una tecnica molto sofisticata, denominata microtomografia di sincrotrone a raggi X a contrasto di fase, per studiare le linee presenti su sette denti dalla mascella superiore del giovane di Xujiayao che ne indicano le diverse fasi di crescita. Hanno poi confrontato i dati ottenuti con i modelli di sviluppo dei denti già stabiliti per altri ominidi arcaici e per gli esseri umani moderni. I risultati indicano che l'individuo è morto a circa sei anni e mezzo. L'espansione della radice del primo molare superiore è risultata relativamente rapida, ma i tempi di formazione della corona, il grado di sviluppo dentale e l'età stimata all'eruzione del primo molare erano ben all'interno dell'intervallo considerato normale per gli umani moderni tipici.
Le scoperte sul Giovane di Xujiayao suggeriscono per la prima volta che questi esseri umani arcaici dell'Asia avevano già una dipendenza infantile prolungata, una prima riproduzione ritardata e una notevole longevità. I ricercatori sottolineano però che il mix di caratteristiche arcaiche e moderne non risolve i dubbi sulla collocazione tassonomica del giovane. Non sappiamo esattamente dove si colloca questo enigmatico ominide nell'evoluzione umana”, ha dichiarato Song Xing, ricercatore dell'Accademia delle Scienze Cinese a Pechino. “Ha alcune affinità con i nostri lontani cugini Denisoviani e Neanderthal, ma anche alcune caratteristiche moderne: è uno strano mosaico.
L'evoluzione dell'uomo in un disegno per ragazzi tratto dalla rubrica "La stanza dei piccoli" del numero 39 di "Famiglia Cristiana" del 25 settembre 2016 |
Il mistero dell'antenato arcaico cinese
Nel 2016 nel sito di Lingjing nella provincia di Henan, in Cina) sono stati rinvenuti due crani fossili di Homo risalenti a un periodo compreso fra 125.000 e 105.000 anni fa (tra le 23.45.24 e le 23.47.44) che i ricercatori faticano a classificare. Gli autori della scoperta lo indicano come una forma di Homo "arcaico", che potrebbe essere una variante orientale dei Neanderthal, oppure un nuovo membro del nostro genere, o ancora lo sfuggente uomo di Denisova. I crani sono solo parziali (mancano parte della regione facciale e le mascelle), ma il volume cranico è di circa 1.800 centimetri cubi, vicino al limite superiore sia dei Neanderthal sia dell'essere umano moderno, e la parte occipitale mostra caratteristiche tipiche dei Neanderthal, così come le arcate sopracciliari prominenti e le ossa dell'orecchio interno. Tuttavia, differiscono da quelli dei Neandethal europei e mediorientali per altri aspetti: le arcate sopracciliari sono più sottili e le ossa meno robuste, più simili a quelle dei primi esseri umani moderni e di altri fossili asiatici. I crani hanno poi dei tratti, come l'ampia base in corrispondenza della congiunzione con la colonna vertebrale e una sommità piuttosto piatta, che li avvicinano ad alcuni fossili rinvenuti in Asia orientale, risalenti a un periodo compreso fra 600.000 e 100.000 anni fa (tra le 22.49.55 e le 23.48.19), che sfidano anch'essi una facile classificazione.
Secondo Xiu-Jie Wu, coautrice dello studio, è plausibile che si tratti di « un nuovo tipo di umano arcaico che è sopravvissuto in Asia orientale fino a 100.000 anni fa », i cui membri si sono mescolati sia con i Neanderthal sia con umani moderni. Altri paleoantropologi ritengono invece che la descrizione si adatti bene all'uomo di Denisova, di cui abbiamo parlato sopra. « La descrizione corrisponde esattamente a quello che ci dice il DNA quando cerchiamo di dare un senso alle scoperte di Denisova », ha osservato Jean-Jacques Hublin, paleoantropologo al Max Planck Institut per l'antropologia evolutiva di Lipsia in Germania. « Questi fossili cinesi sono nel posto giusto, al momento giusto e con le giuste caratteristiche ». Purtroppo, nonostante gli sforzi dei ricercatori, non è stato possibile estrarre dai crani dei campioni di DNA analizzabili che confermino o smentiscano questa ipotesi. Così, si è subito aperta la caccia a nuovi fossili di questo "Homo arcaico".
Aggiungiamo che, quando si parla di tecnologia Made in China, si pensa immediatamente all'elettronica prodotta dal gigante asiatico. Questa volta invece bisogna andare con la mente all'alba della civiltà umana, e precisamente a un periodo compreso tra 170.000 e 80.000 anni fa (tra le 23.40.09 e le 23.50.39). A tale epoca risalgono manufatti scoperti in un sito nella Cina meridionale dagli archeologi di una collaborazione internazionale guidata dall'Università di Washington, e testimoniano l'esistenza in quella regione e in quell'epoca di un metodo di scheggiatura della pietra noto come tecnica Levallois, dal nome del sobborgo parigino nei pressi del quale, nell'Ottocento, furono scoperti i primi reperti di quel tipo. La tecnica Levallois si è sviluppata in Africa e in Europa occidentale a partire da 300.000 anni fa, ma si riteneva che in Asia orientale fosse comparsa solo 40.000-30.000 anni fa. Tale tecnica consiste in una serie di scheggiature successive e rappresenta un approccio più sofisticato alla produzione di utensili rispetto ai periodi precedenti, in cui si usavano semplici pietre di forma ovale. Il prodotto finale è una scheggia di grandi dimensioni con una superficie sfaccettata, usata come una sorta di attrezzo universale, con cui si poteva trafiggere, tagliare, raschiare o scavare. I manufatti di Levallois esaminati nello studio sono stati scoperti nella grotta di Guanyindong, nella provincia di Guizhou, già negli anni sessanta e settanta, ma la loro datazione è rimasta a lungo incerta: la tecnica degli isotopi dell'uranio aveva infatti stimato l'età del sito entro un ampio arco temporale, tra i 240.000 e i 50.000 anni fa. Per datare i manufatti è stata usata una tecnica detta luminescenza ottica stimolata (OSL), che può stabilire quando un campione di sedimento (basta anche un solo granello di sabbia!) è stato esposto per l'ultima volta alla luce solare. Da ciò si può quindi stimare per quanto tempo è rimasto sepolto un manufatto scoperto nello stesso strato di sedimenti. I ricercatori hanno analizzato oltre 2.200 manufatti trovati nella Grotta di Guanyindong, riducendo poi l'analisi a 45 reperti in pietra in stile Levallois. Per quelli ritenuti più antichi, risalenti a 180.000-130.000 anni fa, è stato identificato anche l'ambiente in cui erano stati utilizzati: un bosco che sorgeva su un paesaggio roccioso, in una foresta pluviale più piccola rispetto a oggi.
La scoperta di questi strumenti litici e la loro retrodatazione è particolarmente importante perché non ci sono fossili umani che possano collegare gli utensili alla migrazione di popolazioni nella regione. Questo significa che la tecnologia si è evoluta in modo indipendente in parti diverse del mondo preistorico. Finora si pensava che la tecnica Levallois fosse emersa in Cina in tempi relativamente recenti; questo lavoro rivela la complessità e l'adattabilità delle popolazioni che vivevano là, equivalenti a quelle che si osservano nei reperti archeologici di altre parti del mondo, e mostra la diversità dell'esperienza umana.
Altri due Homo?
In anni più recenti sono state annunciate le scoperte di due nuovi rami dell'albero genealogico umano. Il primo è stato portato alla luce nel sito di Nesher Ramla, in Israele, da parte della squadra dell'archeologo Yossi Zaidner dell'Università Ebraica di Gerusalemme. La sua conclusione è che i fossili appartennero agli ultimi sopravvissuti di un gruppo umano fino a ora sconosciuto, di cui non hanno ancora proposto una nomenclatura ufficiale. Secondo gli studiosi, questa popolazione avrebbe diffuso per prima in Europa e Asia tratti che sarebbero diventati tipici dei Neanderthal. Conosciamo l'uomo di Nesher Ramla grazie a una mandibola, un molare e parti di cranio fatti risalire a un periodo tra i 140.000 e i 120.000 anni fa (tra le 23.43.39 e le 23.45.59), quindi nel Pleistocene Medio. Mandibola e dente hanno tratti neanderthaliani, mentre il cranio fa pensare a specie arcaiche di Homo; tale combinazione di caratteristiche, secondo Zaidner e colleghi, è la prova che ci troviamo davanti ad una nuova popolazione di Homo, che comprenderebbe anche fossili di attribuzione incerta rinvenuti nella stessa regione a Qesem, Zuttiyeh e Tabun. Questa popolazione avrebbe abitato l'antico Israele già 420.000 anni fa (alle 23.10.57), e si sarebbe diffusa in seguito nel continente Eurasiatico. I Neanderthal europei avrebbero ereditato alcuni dei loro tratti da questo gruppo. Negli stessi strati dell'uomo di Nesher Ramla sono state ritrovate migliaia di utensili, essenzialmente punte e lamine di silice. Gli strumenti portano i segni della tecnica levalloisiana, un metodo per scheggiare la pietra con movimenti consolidati e ripetitivi. La tecnica viene in genere associata a Neanderthal o sapiens; secondo gli autori, gli artefatti testimoniano scambi culturali avvenuti tra i Nesher Ramla e popolazioni di sapiens provenienti dall'Africa, che avrebbero diffuso il metodo. I contatti tra le popolazioni furono, forse, anche più intimi. Si era già sospettato di accoppiamenti avvenuti nella zona tra sapiens e una popolazione ignota di Homo: secondo Zaidner e colleghi, si tratterebbe proprio degli ominidi di Nesher Ramla.
Ha già ricevuto il nome di Homo longi, invece, l'ominide descritto dal paleontologo Qiang Ji e dal paleoantropologo Xijun Ni dell'Università GEO di Hebei, e dall'antropologo Chris Stringer del Museo di Storia Naturale di Londra. Come spiegato da Ji, Ni e colleghi, Homo longi prende il nome da Long Jiang, letteralmente “drago fiume”, nome comune della provincia di Heilongjiang in cui è stato trovato il cranio; lo si chiama per questo anche "dragon-man". Il cranio, ancora in ottime condizioni, ha avuto una storia travagliata: fu trovato nel 1933 nella riva del fiume Songhua, nella città di Harbin, da un cinese costretto dagli occupanti giapponesi a costruire un ponte. L'uomo nascose ai soldati il suo ritrovamento, e come conseguenza il cranio rimase in un pozzo per due generazioni. Entrò in possesso dell'Università GEO di Hebei soltanto nel 2018. Il percorso accidentato del cranio ha reso più difficile la sua datazione, ma gli studiosi ritengono che abbia almeno 146.000 anni (che risalga cioè alle 23.42.57). È molto grosso, e come i resti di Nesher Ramla presenta caratteri arcaici combinati ad altri più recenti, nello specifico una faccia simile a quelle di Homo sapiens. Per di più, l'unico dente rimanente combacia con molari della caverna di Denisova, e i ricercatori ipotizzano una parentela con i denisoviani. Ji, Ni e colleghi propongono che il cranio di Harbin e altri fossili della regione appartennero a un gruppo monofiletico (ovvero, che condivide un antenato comune); la loro ricostruzione è che questo gruppo, e non quello dei Neanderthal, sia il più filogeneticamente vicino a noi. Queste considerazioni fanno ritenere ai ricercatori che gli spostamenti del genere Homo tra Africa, Europa e Asia non avvennero con uno spostamento unidirezionale "fuori dall'Africa", ma con tanti spostamenti di diverse entità e direzione da un continente all'altro.
Non tutti gli studiosi si sono detti d'accordo con le affermazioni straordinarie fatte negli studi. Diversi paleoantropologi ritengono che i fossili israeliani potrebbero rientrare nell'intervallo di variabilità dei Neanderthal, o esserne una forma regionale. Altri hanno fatto notare che i resti sono troppo recenti per parlare di antenati dei Neanderthal. Di Homo longi, più di uno pensa che il nome non sopravvivrà a lungo: la ricostruzione filogenetica non combacerebbe con le informazioni raccolte sinora dal DNA. Altri ancora sperano che il fossile sia l'esemplare a lungo cercato di cranio denisoviano. L'unica cosa di cui possiamo stare certi è che la ricerca farà il suo corso, e che si farà il possibile per avvicinarci sempre più alla verità.
L'orango gigante (che nulla ha a che vedere con lo Yeti)
Lo sapete qual è stato il più grande primate oggi noto? Si tratta di Gigantopithecus blacki, un parente degli oranghi alto tre metri e pesante fino a 300 chilogrammi, che vagava nelle fitte foreste tropicali della Cina durante il Pleistocene. Di questo gigante sappiamo in realtà molto poco: di lui ci sono pervenute, infatti, solo quattro mascelle e circa 2000 denti. Anche la sua scomparsa, avvenuta prima della comparsa dell'Homo sapiens moderno, è rimasta a lungo un mistero. Come mai un animale così imponente si è estinto, mentre l'orango e altre scimmie antropomorfe prosperavano? Nel 2024 Yingqi Zhang, dell'Istituto di paleontologia dei vertebrati e paleoantropologia dell'Accademia Cinese delle Scienze, ha puntato il dito contro il cambiamento climatico. Per oltre dieci anni i paleontologi hanno scavato in cerca di indizi in 22 grotte nella provincia dello Guangxi, nel sud della Cina. Oltre ai resti di Gigantopithecus blacki, hanno raccolto sedimenti e reperti di altri animali e piante che sono stati datati con varie tecniche. Si è scoperto così che la grande scimmia si è estinta tra 295.000 e 215.000 anni fa (tra le 23.25.33 e le 23.34.53), molto prima di quanto si pensasse. L'esame di pollini, fauna, isotopi e microusura dei denti ha permesso inoltre di ricostruirne l'ambiente e i comportamenti alimentari. Tra 700.000 e 600.000 anni fa (tra le 22.38.14 e le 22.49.55), la foresta ricca e diversificata in cui viveva diventò più variabile e soggetta a stagionalità, con meno cibo disponibile. Gli oranghi seppero adattarsi alle mutate condizioni; Gigantopithecus blacki, pur erbivoro ma più specializzato, restò invece legato a un habitat che scompariva e offriva cibi meno nutrienti e diversificati. Lo stress cronico e l'areale ridotto ne determinarono inevitabilmente l'estinzione.
Gigantopithecus blacki è famoso soprattutto perchè i cultori di criptozoologia sono convinti che il famoso Yeti (dal tibetano "yeh-teh", "quello là"), noto al grande pubblico anche come "abominevole uomo delle nevi", sia in realtà un Gigantopithecus adattato a vivere tra le nevi dell'Himalaya, in santuari irraggiungibili dagli esseri umani, e perciò sopravvissuto sino al presente. Purtroppo per il nostro primate gigante vale lo stesso discorso fatto per il supersqualo Megalodon e per altri criptidi: come il Megalodon era un pesce abituato a vivere in acque calde e poco profonde, ben diverse dai freddi abissi oceanici, allo stesso modo Gigantopithecus blacki era un gigantesco orango perfettamente adattato ai climi tropicali, e difficilmente si sarebbe abituato a vivere tra le nevi del Tibet ad alta quota. Oggi le spiegazioni più razionali dei pur numerosi avvistamenti di Yeti fanno riferimento piuttosto all'Ursus arctos pruinosus o orso azzurro tibetano (come ha ipotizzato il famoso alpinista Reinhold Messner) o a scimmie che vivono davvero fino a 4000 metri di quota sull'altopiano tibetano, come Semnopithecus schistaceus. Quanto poi all'idea che anche il Bigfoot dell'America Settentrionale e l'Isnashi dell'America meridionale siano esemplari di Gigantopithecus blacki emigrati nel Nuovo Mondo attraverso la Beringia, l'idea è del tutto da scartare per via dell'incompatibilità dell'orango gigante con i climi glaciali; di solito gli uomini-scimmia del Nuovo Mondo sono considerati creature totalmente leggendarie, legate al folklore dei Nativi Americani, e i presunti avvistamenti sarebbero solo abbagli o scherzi. Ma non c'è dubbio che i cultori di criptozoologia non si accontenteranno mai di questa spiegazione, e continueranno verosimilmente a correre dietro per sempre a una creatura mai esistita, come l'Uomo Falena o il Mostro di Loch Ness.
Aborigeni australiani e ominidi della Caverna del Cervo Rosso
E non è tutto. Il DNA degli aborigeni australiani conterrebbe sequenze genetiche tipiche dei neandertaliani, dimostrando che sono avvenuti incroci tra di loro, come già molti sospettavano, ma recenti analisi compiute da paleoantropologi russi hanno dimostrato che il loro genoma contiene tracce di Dna appartenente ai denisoviani! Secondo gli scienziati dell'Harvard Medical School a Boston e quelli del l'Istituto Max Planck a Lipsia, i denisoviani si sono imparentati non solo con gli aborigeni australiani ma anche con alcuni gruppi di popolazioni filippine. A sostenere questa ipotesi sono stati proprio i risultati scaturiti dall'analisi del loro Dna che, essendo altamente riconoscibile anche se presente in piccoli volumi, si comporta come un mezzo di contrasto usato in medicina per rendere visibili i vasi sanguigni di un paziente: rilevandolo si può seguire l'evoluzione degli esseri umani. Da ciò conseguirebbe che gli aborigeni dell'Australia sarebbero i discendenti dei primi uomini che si sono avventurati fuori dall'Africa, per arrivare in Asia e quindi in Australia passando per l'India! Inoltre, alla luce di queste nuove analisi genetiche sembra emergere un quadro dell'evoluzione dell'uomo moderno e dei suoi più stretti parenti ben più complesso di quanto finora ritenuto. Secondo i ricercatori è probabile che un gruppo ancestrale abbia lasciato l'Africa fra i 400.000 e i 300.000 anni fa (23.13-17 – 23.24.58), divergendo rapidamente tra la specie dei Neanderthalensis, che si diffuse in Europa, e una popolazione che, direttasi più a est, diede vita all'uomo denisoviano. Quando gli umani moderni abbandonarono il continente africano fra 80.000 e 70.000 anni fa (23.50.39 – 23.51.49), incontrarono dapprima i Neanderthal, con un'interazione che ha lasciato tracce genetiche in tutte le popolazioni non africane, portato verso l'Asia sudorientale anche gli aborigeni australiani; solo successivamente una seconda ondata, datata tra 38.000 e 25.000 anni fa (23.55.34 – 23.57.05), sospinse un gruppo di umani moderni a contatto con le popolazioni di Denisova, un incontro le cui tracce si ritrovano nelle popolazioni australiane e melanesiane di oggi. Gli studiosi sperano ora di ritrovare qualche altro frammento, per riuscire quantomeno a ipotizzare l'aspetto dei nuovi cugini. Assomigliavano più a noi o ai più massicci neandertheliani? Per adesso dobbiamo accontentarci di quel frammento di dito e di quel dente, che per lo meno fa ben sperare, essendo un dente del giudizio...
All'ominide di Denisova fanno compagnia altri misteriosi resti fossili ritrovati nel sudovest della Cina da un team internazionale di scienziati, guidato da Darren Curnoe della University of New South Wales e da Ji Xueping dello Yunnan Institute of Cultural Relics and Archeology. Stavolta si tratta delle ossa di almeno quattro persone, datate tra i 14.500 e gli 11.500 anni fa, rinvenute nel 1979 in due grotte a Longlin, nella regione autonoma di Guangxi Zhuang, e dieci anni dopo a Maludong, vicino alla città di Mengzi nella provincia dello Yunnan. Nessuno se ne era preoccupato troppo finché i suddetti ricercatori non hanno scoperto che tali fossili presentano caratteristiche peculiari, un singolare mosaico di tratti arcaici, moderni e sconosciuti, davvero difficile da rintracciare altrove. Secondo la ricostruzione, gli scheletri apparterrebbero a persone vissute nel periodo in cui la Cina stava cominciando a sviluppare le prime colture agricole; quegli esseri umani presentavano un cranio rotondo e molto spesso, con arcate sopraccigliari molto pronunciate, un cervello di grandezza moderata e un lobo frontale di forma "moderna"; i loro volti erano brevi e piuttosto piatti, con un naso largo e molari molto grandi, ma senza mento.
« Red-deer Cave people » ("Popolo della Caverna del Cervo Rosso") è il nome con cui gli scienziati hanno battezzato questi nostri antenati, poichè andavano a caccia di cervi rossi (oggi estinti) e li cucinavano nella cava di Madulong. « La scoperta potrebbe aprire un nuovo capitolo nella storia dell'evoluzione umana », ha spiegato Curnoe, « e siamo solo all'inizio: allo stato attuale, siamo riluttanti a darne una classificazione precisa. » Tante le ipotesi ancora in ballo: oltre alla possibilità che appartengano a una specie umana sinora sconosciuta, sopravvissuta fino alla fine dell'era glaciale, si potrebbe trattare anche di un nucleo migrato dall'Africa senza interferire geneticamente con le popolazioni locali. Una prima estrazione del DNA non ha portato a risultati significativi, ma sono in corso nuovi tentativi. La scoperta è straordinaria, non soltanto perché potrebbe portare all'individuazione di una nuova specie umana, ma anche perché in Asia non sono stati frequenti i ritrovamenti di fossili umani, nonostante oggi quel continente ospiti più della metà della popolazione mondiale!
Il DNA degli antenati fantasma
Bisogna aggiungere notizia di un altro grande risultato delle ricerche genetiche compiute sui fossili di ominidi nell'ultimo decennio. Da esse infatti risulta che le popolazioni umane moderne ospitano, nel proprio DNA, tracce genetiche di esseri umani arcaici, appartenenti a più specie non identificate: dei "rami fantasma" dell'intricato albero genealogico dell'uomo, non associabili per ora a reperti fossili. In base alle analisi statistiche, questi progenitori potrebbero essersi separati dall'antenato comune di sapiens, Neanderthal e Denisoviani un milione di anni fa.
Le ricerche avevano già dimostrato che i sapiens si incrociarono con Neanderthal e Denisoviani dopo l'uscita dall'Africa; che ogni essere umano moderno ha una frazione di DNA ereditato dai Neanderthal e che alcune popolazione native australiane, melanesiane e polinesiane conservano geni denisoviani. Tutto questo fa sì che l'immagine che riesce a rappresentare meglio le relazioni tra le varie specie umane non è né quella dell'albero né quella del cespuglio, ma piuttosto quella del reticolo. Per esempio, circa 100.000 anni fa una piccola popolazione di Neanderthal che si stava spostando dall'Europa all'Asia si incrociò con una primissima ondata di Homo sapiens in uscita dall'Africa; tra 60.000 e 50.000 anni fa (tra le 23.52.59 e le 23.54.09), altri rappresentanti della nostra specie e di quella dei Neanderthal si "conobbero" intimamente in Medio Oriente, incontro replicato poi circa 40.000 anni fa in Romania (alle 23.55.19). Un altro incrocio sarebbe avvenuto in Asia oltre 60.000 anni fa tra sapiens e denisoviani. Poco si sapeva, tuttavia, sulla presenza di frazioni di DNA riconducibili ad esseri umani arcaici nelle persone i cui antenati non hanno mai lasciato l'Africa, perché il DNA dei fossili rimasti a lungo in climi troppo caldi si degrada facilmente.
Un gruppo di genetisti della Harvard Medical School guidato da David Reich si è trovato davanti ad un rebus usando il cosiddetto metodo delle quattro popolazioni, che permette di confrontare tra loro le basi azotate del DNA situate nella stessa posizione, per cercare di ricostruirne i rapporti di parentela. Reich stava testando l'ipotesi, largamente accettata, secondo cui asiatici orientali e nativi americani sono popolazioni sorelle, discese da un ramo ancestrale comune. I suoi test statistici hanno però messo in evidenza una strana connessione tra gli odierni abitanti dell'Europa settentrionale e i nativi americani. Per far tornare i conti, Reich e soci hanno proposto che oltre 15.000 anni fa (alle 23.58.15) nell'Eurasia del Nord vivesse una popolazione umana oggi estinta, incrociatasi sia con gli antichi nordeuropei sia con gli antenati dei nativi americani; Reich li chiamò "Antichi Eurasiatici del Nord". Una parte di questa popolazione emigrò ad est percorrendo la Siberia e contribuì al gruppo che attraversando la Beringia popolò le Americhe; un'altra parte migrò verso ovest e contribuì al pot-pourri europeo. Oggi questa popolazione non esiste più allo stato puro, come non ci sono più i Neanderthal e i Denisoviani, ma gli "Antichi Eurasiatici del Nord" ebbero un grande successo: a conti fatti, secondo Reich, oltre metà della popolazione mondiale deve a questa specie umana arcaica non meglio identificata tra il 5 e il 40 % del loro genoma. La conferma delle ipotesi di Reich arrivò nel 2013, quando fu ritrovato a Mal'ta, in Siberia, un fossile risalente a 24.000 anni fa (alle 23.57.12), il cui genoma è molto affine a quello degli europei e dei nativi americani moderni, ma poco a quello degli odierni siberiani. Conclusione: l'ominide di Mal'ta è il prototipo fossile degli "Antichi Eurasiatici del Nord". L'antico DNA ha dunque fatto luce su vicende preistoriche che il DNA moderno ci aveva lasciato intravedere: il "fantasma genetico" ha trovato un corpo e ha indicato la via per nuove scoperte.
Iosif Lazaridis, sempre della Harvard Medical School, ha cercato di ricostruire la preistoria dell'Europa confrontando il DNA dei suoi abitanti antichi e moderni, e i suoi lavori hanno suggerito relazioni molto più complesse della classica struttura ad albero. Inserendo anche il DNA di Mal'ta nel test delle quattro popolazioni si è convinto dell'esistenza di un'altra popolazione fantasma, detta degli "Eurasiatici basali" perchè si sarebbe separata da Homo sapiens prima della sua uscita dall'Africa, circa 60.000 anni fa, contribuendo per circa un quarto al DNA di europei e mediorientali odierni. Non sappiamo se di questo antenato arcaico non siano ancora emerse prove, o se le sue tracce siano già venute alla luce e semplicemente non gli siano state ancora attribuite. Ma non basta: secondo uno studio del 2019 condotto da Oscar Lao del Barcelona Institute of Science and Technology, il DNA delle popolazioni del Sudest Asiatico e dell'Australia suggerisce un incrocio degli uomini anatomicamente moderni con un'enigmatica popolazione di ominidi chiamati in gergo EH1 ("Extinct Hominid 1"), forse cugini di Neanderthal e Denisoviani. Lo studio degli attuali abitanti dell'isola indonesiana di Flores emergerebbe poi il possibile contributo di un'altra popolazione fantasma detta EH2 ("Extinct Hominid 2"). Nel febbraio 2020, infine, Arun Durvasula e Sriram Sankararaman dell'Università della California a Los Angeles hanno analizzato il DNA di moderni abitanti dell'Africa Occidentale, scoprendovi misteriose tracce genetiche arcaiche che suggeriscono il contributo di una popolazione non ancora identificata, vissuta in Africa circa mezzo milione di anni fa.
Insomma, nel genoma di noi sapiens moderne sono presenti tracce di antiche popolazioni umane estinte, ancora senza volto e senza nome perchè mai associate ad alcun fossile, veri e propri "fantasmi genetici": echi del passato che risuonano nel DNA delle donne e degli uomini contemporanei, individuati tramite analisi statistiche. Del resto, a tutt'oggi gli stessi denisoviani possono essere considerati quasi-fantasmi, fatti di paleo-DNA e poco più. Solo il perfezionamento delle tecniche di sequenziamento del DNA, e il colpo di fortuna di qualche paleontologo, potrà dirci di più su questi fantasmi del passato che si aggirano nel nostro genoma, rendendo ancora più plurale e diversificata la preistoria della nostra specie.
Sintesi delle migrazioni dell'Homo sapiens negli ultimi 200.000 anni |
Homo fantasticus
Come avete visto, l'albero genealogico del genere Homo negli ultimi anni si è fatto sempre più denso e complicato. Ma le specie che abbiamo esaminato noi in questa pagina sono solo una parte di tutte le specie che i paleontologi hanno proposto nel corso degli ultimi 150 anni! A poco a poco, i ricercatori si sono resi conto che i fossili attribuiti a certe specie in realtà appartengono ad altre specie già note, e quindi le nomenclature proposte sono sparite, come il povero brontosauro del Giurassico. Ecco a voi, a titolo di esempio, quattro specie di Homo che probabilmente non troverete mai più nei libri di testo di paleontologia né nelle sale dei musei.
1) Homo antiquus. Nel 1984 Walter Ferguson della Tel Aviv University in Israele ha proposto che l'Australopithecus afarensis non sia una vera specie. A quell'epoca, i fossili noti di Australopithecus afarensis provenivano solo dai siti di Afar in Etiopia e di Laetoli in Tanzania; vi era una notevole diversificazione strutturale tra le ossa attribuite agli afarensis, e gli antropologi avevano pensato che la diversità fosse dovuta al dimorfismo sessuale, cioè alle differenze di dimensioni tra i maschi e le femmine della specie. Ferguson, invece, riteneva che le ossa fossero rappresentative di individui provenienti da più di una specie. In base alle dimensioni e la forma dei molari, Ferguson concluse che alcuni dei più grandi fossili di Afar corrispondessero alla specie nota come Australopithecus africanus, fino ad allora (e fino ad oggi) rinvenuta solo in Sud Africa, mentre le mandibole con denti più piccoli appartenessero al genere Homo. Ma nessun fossile di questo genere era vecchio di tre milioni di anni (quasi sei ore dell'anno della Terra), e quindi Ferguson creò una nuova specie chiamata Homo antiquus, che avrebbe vissuto fianco a fianco con gli Australopithecus per centinaia di migliaia di anni. Questa ipotesi aveva un'implicazione importantissima: se Australopithecus e Homo avevano convissuto nello stesso habitat, era improbabile che gli australopiteci fossero gli antenati diretti del genere Homo. Il lavoro di Ferguson però non ha avuto fortuna: la maggior parte dei paleontologi continua a credere nell'esistenza di Australopithecus afarensis, e trent'anni dopo la sua ipotesi ben poche persone hanno mai sentito parlare di Homo antiquus.
2) Homo kanamensis. Molte delle scoperte di Louis Leakey hanno resistito alla prova del tempo, ma Homo kanamensis non è tra queste. Nei primi anni trenta del secolo scorso, Leakey riportò alla luce una mascella inferiore di ominide nel sito di Kanam, in Kenya. La mascella era simile per molti versi a quella dell'uomo moderno, ma era più spessa in alcuni punti chiave. Leakey allora decise che la mandibola avrebbe dovuto essere ascritta a una specie nuova, Homo kanamensis per l'appunto. Avendo circa mezzo milione di anni di età (quasi mezz'ora dell'Anno della Terra), tale specie sarebbe stata il membro più anziano del genere Homo trovato fino ad allora. Purtroppo però i successivi studi stratigrafici nel sito di Kanam dimostrarono che il fossile non era così antico come Leakey pensava, avendo appena un'età di poche decine di migliaia di anni. Probabilmente l'insolito spessore della mascella era dovuto ad una crescita anomala; in altre parole, il povero Homo kanamensis non era altro che un Homo sapiens con qualche lieve difetto fisico.
3) Homo capensis. Ai primi del Novecento due contadini di Boskop, in Sud Africa, si imbatterono in fossili di ominidi, tra cui frammenti di un teschio, che vennero esaminati da anatomisti di grido tra i quali Raymond Dart, famoso perché in seguito avrebbe scoperto il primo australopiteco fossile, e Robert Broom. Broom stimò la dimensione del cervello in 1.980 centimetri cubi: un valore impressionante, visto che il cervello dell'uomo moderno misura circa 1.400 centimetri cubi! Broom battezzò il cranio Homo capensis, o anche Uomo di Boskop. Altri esemplari provenienti dal Sudafrica sono stati ascritti a tale specie, e alcuni scienziati si convinsero che l'Africa australe un tempo era abitata da una razza con faccia da scimmia ma cervelli enormi. Ma, a partire dal 1950, i paleontologi misero in discussione la legittimità di Homo capensis. Infatti lo spessore del cranio fossile ha reso difficile stimare la dimensione vera del cervello; inoltre l'antropologo e blogger John Hawks nel corso del 2008 ha affermato che anche un valore di 1.980 centimetri cubi rientrerebbe nel range di normalità per il cervello dell'uomo moderno. Hawks ha sottolineato anche che gli scienziati sono stati indotti a scegliere preferenzialmente i crani più grandi da includere nella specie Homo capensis, ignorando i piccoli teschi che sono stati trovati in associazione con i campioni più grandi. Oggi i fossili un tempo classificati come Homo capensis sono considerati membri di Homo sapiens.
4) Homo gardarensis. Un caso da manuale degli errori di interpretazione dei fossili in buona fede, nella speranza di aver compiuto una grande scoperta. É questo il nome dato ai resti parziali rinvenuti nel 1927 da Frederik Hansen in un sito funerario a Garðar, in Groenlandia, in un insediamento norreno del XII secolo. I primi studi ritenevano erroneamente quei resti simili a quelli dell'Homo heidelbergensis, ma questa somiglianza fu in seguito dimostrata errata. Le ossa furono classificate come quelle di un uomo del Medioevo che soffriva di acromegalia, oggi si possono vedere nel Panum Institute di Copenaghen.
L'uomo di Piltdown
Già che siamo su questo argomento, vorrei citare il caso clamoroso dell'uomo di Piltdown. Esso fu scoperto nel 1912 nell'omonima cava di ghiaia inglese ad opera di un paleontologo dilettante, Charles Dawson (1854-1916), e per questo gli fu dato il nome di Eoanthropus dawsoni ("l'uomo dell'aurora di Dawson"). Non esistevano ancora buoni metodi di datazione radiometrica, ma il colore scuro dei reperti e la loro scoperta in associazione ad alcuni denti di mastodonte lasciava pensare che si trattasse di un fossile molto antico. Si trattava di una mandibola e della parte posteriore di un cranio, ma la cosa strana è che il cranio era voluminoso come quello di un uomo moderno, mentre la mandibola era decisamente scimmiesca con mento sfuggente ed i tipici diastemi, cioè la separazione netta tra canini e premolari, che negli ominidi e nell'uomo non esiste più. Invece i fossili provenienti da Neanderthal, da Giava e da Pechino mostravano le caratteristiche inverse: un cranio molto poco voluminoso, poco più che scimmiesco, ma dei denti decisamente umani. È da notare che l'uomo di Piltdown aveva però i canini piatti come quelli di un uomo, e non a punta come quelli di un gorilla.
Certamente la matassa non era facile da sbrogliare, ma era una matassa molto gradita ai paleontologi inglesi dell'epoca. E questo per due motivi. Primo: quella era un'epoca di accesi nazionalismi e di forti rivalità tra le potenze europee e, dopo i ritrovamenti francesi e tedeschi, ben pochi inglesi erano disposti a rinunciare al loro « ominide nazionale ». Secondo: per la mentalità dell'epoca, la stessa che avrebbe condotto al fiorire del fascismo e del nazismo, era meglio un antenato con la faccia da scimmia ma con il cervello da uomo che il viceversa. E così, nonostante l'oggettiva difficoltà ad inserirlo in un albero genealogico della specie umana, poiché esso restava assolutamente isolato nonostante il diluvio di fossili scoperti tra le due guerre mondiali, a partire dagli australopiteci, esso resistette intatto fino all'avvento del dentista Alvan T. Marston, (1889-1971) il quale per primo pensò ad un cranio umano e ad uno scimmiesco finiti accidentalmente insieme nella cava di Piltdown, anche perchè mancava il condilo della mandibola e non si poteva sapere se essa si incastrava effettivamente nel cranio. I dubbi di Marston crebbero dopo la sua analisi dei denti del presunto Eoanthropus e, osservando bene i molari al microscopio con l'aiuto del collega J.S. Wiener, si accorse che essi erano originariamente dotati di normalissime cuspidi scimmiesche, ma erano stati limati per sembrare umani: a forte ingrandimento si vedevano chiaramente i graffi della lima. La mandibola era dello stesso colore del cranio solo perchè era stata appositamente verniciata. A questo punto fu evidente a tutti che l'orgoglio della paleoantropologia britannica non era altro che un falso abilmente confezionato. Oggi l'analisi dei radioisotopi ha rivelato che il cranio e la mandibola hanno solo 500 anni; il primo è umano, e il secondo di orango. La frode era stata un vero capolavoro di perfezione, perchè l'autore aveva fatto saltare volontariamente il condilo, per aggirare il fatto che cranio e mandibola non combaciavano. Naturalmente molti furono sollevati dal vedere un personaggio tanto strambo come il Piltdown man sparire dagli alberi genealogici, ma altrettanti furono imbarazzati e delusi.
Ancora oggi l'autore della colossale frode è del tutto ignoto. Dawson, autore della scoperta, può essere facilmente scagionato perchè era solo un dilettante e non aveva né i mezzi né le conoscenze necessarie ad imbastire una simile buggeratura. Louis Leakey puntò il dito su padre Teilhard de Chardin, perchè era stato presente alla scoperta del fossile ed avrebbe così inteso mettere in ridicolo la paleontologia inglese, ma la sua lunga carriera di scienziato, di filosofo e di sacerdote ci autorizza ad assolverlo con formula piena. Finora nessuna proposta di soluzione dell'enigma è risultata convincente; è probabile che anche questo "delitto perfetto" sia destinato a rimanere per sempre senza un colpevole.
I vantaggi dell'affollamento
Un gruppo di ricercatori dello University College di Londra ha recentemente avanzato un'ipotesi rivoluzionaria, secondo cui sarebbe stato l'aumento della densità della popolazione a catalizzare nella nostra specie la comparsa del comportamento "moderno", e non qualche improvvisa mutazione che avrebbe influito sulle capacità cerebrale come ipotizzato nel famoso saggio dello psicologo Julian Jaynes (1920-1997) "Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza". Il concetto è semplice: solo un'elevata densità di popolazione può portare a maggiori scambi di idee, a migliori prestazioni e a impedire che le innovazioni raggiunte vadano perdute.
"Per comportamento moderno intendiamo un radicale salto nella complessità tecnologica e culturale, che rende unica la nostra specie. E comprende il comportamento simbolico, come l'arte astratta e realistica, la decorazione del corpo con conchiglie, ocra o tatuaggi, strumenti musicali, manufatti di osso corno e avorio, e più sofisticate tecniche di caccia e cattura", ha spiegato Stephen Shennan, che ha diretto lo studio. "L'uomo moderno c'è da almeno 160.000-200.000 anni, ma fino a circa 90.000 anni fa non esiste alcuna documentazione archeologica di tecnologie che vadano al di là di strumenti di pietra basilari. In Europa e nell'Asia mediorientale il progresso tecnologico e comportamentale esplode circa 45.000 anni fa, quando vi arrivano gli uomini, ma questo non si manifesta in Estremo oriente, nel sudest asiatico e in Australia se non molto dopo, a dispetto della presenza umana. Nell'Africa subsahariana la situazione è più complessa. Molte caratteristiche del comportamento umano moderno, inclusa la prima arte astratta, si ritrovano 90.000 anni fa, ma poi sembrano scomparire circa 65.000 anni fa per riemergere 40.000 anni fa."
Gli scienziati hanno avanzato molte ipotesi sul perché si sia verificata questa esplosione culturale, e su come e quando sia avvenuta, ipotizzando anche nuove mutazioni che avrebbero migliorato il cervello, progressi nel linguaggio, e l'espansione di nuovi ambienti che avrebbero richiesto nuove tecnologie per sopravvivere. Il problema è che nessuna di queste spiegazioni può dare pienamente conto dell'apparire dei comportamento umano moderno in momenti differenti in luoghi diversi, o della sua scomparsa temporanea nell'Africa subsahariana. Per giungere alla loro conclusione i ricercatori hanno sviluppato modelli e simulazioni dell'apprendimento sociale, i quali hanno mostrato come gruppi con alte e basse capacità possono coesistere per lunghi periodi di tempo, e che il livello delle capacità che può essere mantenuto è funzione della densità locale della popolazione o del livello di migrazione fra i gruppi. Usando stime genetiche sulla dimensioni delle popolazioni del passato, i ricercatori sono arrivati a mostrare che in Africa subsahariana, Europa e Medio Oriente le densità erano simili quando il comportamento moderno è apparso la prima volta in ciascuna di quelle aree. Lo studio sottolinea inoltre come nell'Africa subsahariana la densità della popolazione fosse crollata per ragioni climatiche nel periodo in cui il comportamento moderno è temporaneamente scomparso in quella regione. Un'ipotesi decisamente controcorrente, ma non priva di fascino.
Come siamo diventati maratoneti
Nel 2020 Eugène Morin della Trent University e Bruce Winterhalder dell’Università della California a Davis, hanno avviato una collaborazione con la Pennsylvania State University per studiare i vantaggi sociali ed economici dei metodi di caccia, dal punto di vista della cooperazione, della suddivisione del lavoro e del contesto di incontro con le prede. Passando in rassegna migliaia di documenti e coprendo 500 anni di storia, sono arrivate le sorprese. Alle pratiche venatorie tradizionali, come la caccia in gruppo, la disposizione di trappole e lacci, gli appostamenti silenziosi, gli agguati, dobbiamo probabilmente aggiungere anche la cosiddetta caccia per sfinimento.
Come mostra questo documentario del noto naturalista David Attenborough (1926-), ancor oggi nel deserto del Kalahari i San, noti un tempo agli europei con il nome di Boscimani, praticano la cosiddetta "caccia per sfinimento": rincorrere per miglia e miglia un animale, pur veloce nella corsa, finchè esso non cade a terra sfinito e può essere catturato; ovviamente anche i cacciatori alla fine sono tutti allo stremo, ma ciò che conta è resistere pochi istanti più della preda. A partire dagli anni ottanta si è fatta strada l’ipotesi che tale tipo di caccia potrebbe aver svolto un ruolo cruciale nell’evoluzione umana, favorendo la selezione di caratteristiche anatomiche e fisiologiche utili alla corsa di resistenza, e dunque al procacciamento della carne anche in assenza di armi. Gli scettici, tuttavia, hanno sempre avanzato alla teoria della caccia per sfinimento almeno due obiezioni. Correre è più faticoso che camminare, come può essere conveniente una strategia di cattura tanto dispendiosa dal punto di vista energetico? E, se è vero che l’evoluzione ci ha forgiato così, come dei cacciatori-maratoneti, perché si trovano soltanto sparute testimonianze di comportamenti simili a quello dei corridori San?
In tempi più recenti tuttava è stato accertato al di là di ogni ragionevole dubbio che tale tipo di caccia può risultare vantaggioso almeno in determinati contesti, e probabilmente non era poi così raro. Infatti la rapidità dell’uccisione può ripagare l’energia e il tempo spesi per l’inseguimento: è stato calcolato che un cacciatore-camminatore avrebbe bisogno di due ore per uccidere un’antilope di grossa taglia come l’orice, ma accelerando il passo fino a dieci chilometri orari, la preda collasserebbe in meno di mezz’ora. Inoltre sono stati documentati ben 391 casi di inseguimento di resistenza da parte di popolazioni indigene in svariate regioni del mondo, riportati da missionari, esploratori e colonizzatori tra il XVI e il XXI secolo. In particolare questo stile venatorio era utilizzato dalla grande maggioranza (114 su 141) delle società del Nord America studiate dall’Università della California a Davis negli anni trenta e quaranta del secolo scorso. Insomma, l'importanza evolutiva della caccia di resistenza era stata gravemente sottovalutata, soprattutto in vista della comprensione della locomozione e della termoregolazione umana.
In effetti gli esseri umani non sono grandi sprinter: chi riesce a mantenere una velocità di dieci metri al secondo per una ventina di secondi può essere considerato un campione olimpico; oltre questo limite, anche i velocisti sono costretti a rallentare per motivi fisiologici, che hanno a che vedere con la sintesi della molecola di adenosintrifosfato (ATP) e con il passaggio dal metabolismo anaerobico a quello aerobico. Altri animali fanno molto meglio di noi: la gazzella di Thomson arriva a fino a 26,5 metri al secondo e il ghepardo addirittura a 29 metri al secondo, riuscendo a mantenere questi ritmi per interi minuti. Se pensiamo alla corsa lenta su lunghe distanze, invece, siamo ben attrezzati. I migliori sono in grado di correre estenuanti maratone giornaliere per settimane. I muscoli scheletrici di gambe e bacino tipici della specie umana, poi, sono piuttosto diversi da quelli degli altri primati e dei mammiferi in generale. Noi tendiamo ad avere una percentuale maggiore di fibre a contrazione lenta e resistenti alla fatica piuttosto che di fibre a contrazione rapida, ed il risultato è una riduzione della spesa energetica e una migliore capacità di combattere l’ipossia anche su percorsi lunghi e lunghissimi. C’è poi la questione della dissipazione del calore: uno sforzo fisico intenso eseguito sotto il Sole comporta un pericoloso surriscaldamento corporeo, che la specie umana riduce efficacemente grazie alla pelle quasi glabra e a un adattamento evolutivo recente: l’abbondante sudorazione. Non a caso ci siamo meritati i soprannomi di “scimmie nude” e “scimmie che sudano”! Le ghiandole sudoripare hanno una densità dieci volte maggiore nella nostra pelle che in quella degli scimpanzé, e i maratoneti possono sudare fino a 3,7 litri all’ora! Ad avvantaggiarci nella corsa di resistenza sono anche le gambe lunghe, le giunture rafforzate, l’arco plantare sviluppato e altri adattamenti, che avrebbero iniziato a manifestarsi nel genere Homo almeno 1,8 milioni di anni fa (alle ore 20.49.46). Facendo affidamento su questi punti di forza, i nostri antenati cacciatori potrebbero aver imparato a spingere le prede a correre senza sosta fino a crollare al suolo per ipertermia, aprendosi nuove possibilità di predazione. Questa tecnica oltretutto può rivelarsi vincente anche fuori dai deserti assolati, per esempio con prede veloci messe in difficoltà dalla neve o dal fango. Ancor oggi i cacciatori sudanesi faticano un giorno per inseguire le giraffe quando gli animali sono rallentati dal terreno ammorbidito dalla pioggia, e i cacciatori Ojibway (nativi americani della zona dei Grandi Laghi) indossano le racchette da neve per inseguire gli alci che si sfiniscono affondando in profonde distese di neve. Forse è in questo modo che sono nati i Pietro Mennea e i Carl Lewis...
Evoluzione "a cespuglio"
Per tirare le somme, come realizzare un "albero genealogico" credibile della nostra specie? In molti ci hanno provato fin dai primi del Novecento, seguendo il classico principio della linearità, secondo cui una specie si estingue quando da essa se ne evolve una più specializzata, lasciando posto ad essa sulla Terra. Proprio ispirandomi a questo principio, dominante nei manuali di paleoantropologia fin quasi alla fine del secolo scorso, nei miei verdi anni avevo realizzato questo ingenuo disegno che pretendeva di illustra le principali tappe dell'evoluzione umana:
L'evoluzione dell'uomo come era pensata nei primi anni '80 del secolo scorso, disegno dell'autore risalente a quell'epoca |
Come si vede, questa visione della catena evolutiva umana prevedeva che da un primo antenato ominide ancora non identificato sarebbe disceso l'Australopithecus, poi da questo il genere Homo, prima con gli arcantropi, poi con i paleoantropi ed infine con i neantropi. Poi però la scoperta di un numero crescente di fossili nella famiglia degli ominidi senz'altro appartenuti a specie diverse, ma vissuti nello stesso luogo e nella stessa epoca, ha notevolmente complicato il quadro, e così oggi il modello dell'evoluzione lineare non è più condiviso da nessuno: ciò che oggi ci sembra normale, cioè il fatto che sulla Terra viva un'unica specie umana, sarebbe in realtà una vera e propria eccezione nell'album di famiglia dell' umanità. Ad esempio, in Africa tra 2,5 e 2 milioni di anni fa sarebbero convissute innumerevoli specie ominidi cugine tra loro, suddivise in ben tre generi: le prime tre specie di Homo (habilis, rudolfensis ed ergaster), gli ultimi australopiteci nordorientali (come Australopithecus garhi), e i parantropi dall'aspetto più gorillesco, Oggi si preferisce perciò parlare di "cladogenesi" o di "evoluzione a cespuglio": come si vede nello schema sottostante, da una specie ne derivano molte altre, che spesso si estinguono a causa di lotte fratricide tra le varie popolazioni.
Tutto ciò comporta un cambiamento deciso di prospettiva. Infatti il modello lineare prevede che sulla Terra esista una specie di ominidi alla volta, perchè le risorse del pianeta non basterebbero a mantenerne più di una. In questo modo, noi appariremmo come dei predestinati, giacché fin dall'inizio sembrava scritto che la linea evolutiva dovesse culminare in noi. Il modello a cespuglio traccia invece un quadro molto simile a quello di altre diffuse famiglie di animali, caratterizzato da una grande varietà di sviluppi evolutivi, non tutti però coronati da successo. Noi siamo semplicemente quelli che sono riusciti a prevaricare su tutti gli altri e, alla fine, ad averla vinta. Per quali motivi, ancora non si sa con certezza. Certo è che, in questo contesto, la nostra storia evolutiva va descritta come una serie interminabile di lotte per la sopravvivenza, e questo spiegherebbe perchè noi pretesi "Homines sapientes" siamo in realtà tanto propensi a farci continuamente guerra tra di noi, tanto da dar ragione a ciò che diceva Karl Krauss: « il diavolo è un illuso, se spera di riuscire a far diventare gli uomini peggiori di quanto non siano già! »
L'evoluzione dell'uomo come è pensata negli anni duemila, schema dell'autore |
L'antenato marocchino
Nel sito marocchino di Jebel Irhoud, ben noto agli archeologi, il ritrovamento di nuovi fossili nel 2017 e l'indagine con strumenti più sofisticati di altri scoperti a partire dagli anni sessanta del secolo scorso hanno permesso di stabilire che i primi esemplari di sapiens sarebbero apparsi tra 350 e 300 mila anni fa (tra le 23.19.07 e le 23.24.58). Finora la culla dell'uomo moderno era ritenuta l'Africa orientale, in Etiopia, dove i fossili raccontavano una presenza intorno a 195 mila anni fa (alle 23.37.13). Protagonisti della scoperta sono stati Jean-Jacques Hublin del Max-Planck Institut di Lipsia e il suo gruppo internazionale di paleontologi. Se hanno ragione loro, siamo nati centomila anni prima e ciò che rimane di almeno cinque ominidi (soprattutto parti di teschi, mandibole, denti) analizzati in modi diversi, in particolare con tecniche di luminescenza, hanno portato al risultato che di certo riaccenderà le discussioni sulla complicate interpretazioni dei primi rami del nostro albero genealogico. A rafforzare le conclusioni sul balzo indietro nel tempo sono giunte le datazioni di altri materiali trovati nel sito: selci lavorate e resti di animali che hanno permesso di ricostruire la dieta del nostro antenato. Si cibava di diversi tipi di animali di cui andava a caccia, mangiava carne di gazzella, occasionalmente di gnu, di zebra e stagionalmente pure uova di struzzo. Rompeva le ossa molto lunghe, aprendole per arrivare al midollo. Tutto ci dimostra che il Nordafrica ha avuto un ruolo significativo nell'evoluzione dell'uomo moderno.
Le indagini in passato sui fossili di Jebel Irhoud avevano suggerito un'età dell'antenato molto più bassa, intorno a 40.000 anni, tanto da considerarlo una forma africana di Neanderthal. Le successive analisi cancellavano le prime ipotesi arrivando poi negli ultimi anni a considerali contemporanei agli abitanti dell'Etiopia. Adesso i nuovi reperti e le nuove tecnologie hanno portato a un ulteriore, clamoroso, passo avanti, mostrando un'evoluzione più complessa e ponendo in modo più forte delle domande che prima potevano sembrare solo delle speculazioni teoriche. Ci si chiedeva, infatti, se la biologia dell'uomo moderno fosse emersa rapidamente intorno a 200.000 anni fa (alle 23.36.38) oppure se si fosse sviluppata gradualmente negli ultimi 400.000 anni (negli ultimi 47 minuti dell'Anno della Terra). Questa seconda interpretazione sembra prevalere grazie alla scoperta in Marocco. Siamo di fronte ad ominidi che rappresentano una transizione tra forme arcaiche e moderne, cioè sono espressioni di un trend evolutivo che ancora non ha espresso il vero Homo sapiens. Ci sono vari fossili appartenenti a queste fasi di passaggio emersi dal Sudafrica alla Tanzania, e andranno spiegati con una visione più ampia rispetto al passato.
Un'ipotesi rivoluzionaria
Prima di procedere oltre, occorre riferire l'ipotesi formulata nell'ottobre 2013 da un gruppo di antropologi del Museo Nazionale della Georgia a Tbilisi, del Museo Antropologico di Zurigo e delle Università di Tel Aviv e Harvard dopo aver esaminato un cranio di Homo risalente a circa 1,8 milioni di anni fa (ore 20.29.46), venuto alla luce a Dmanisi, in Georgia, dove sono stati scoperti anche i resti di altri quattro individui coevi. I fossili appartengono ad antichi antenati dell'uomo risalenti all'inizio del Pleistocene, di poco posteriori alla separazione del primo Homo da Australopithecus e alla sua fuoriuscita dall'Africa. I crani ritrovati a Dmanisi sono molto diversi uno dall'altro, tanto da far venire la tentazione di classificarli come appartenenti a specie diverse. Tuttavia, i reperti provengono tutti dalla stessa località, dallo stesso sito e dallo stesso istante geologico, il che rende verosimile la loro appartenenza a un'unica popolazione di una singola specie.
I ricercatori hanno quindi proceduto a valutare i tassi di variazione fra le caratteristiche dei diversi individui, scoprendo che l'entità di queste variazioni non supera quella che si trova nelle popolazioni moderne della nostra specie, degli scimpanzè e dei bonobo. D'altra parte, il cranio più di recente dei cinque, indicato come Skull 5, combina differenti caratteristiche chiave, come una piccola scatola cranica (appena 546 centimetri cubi), una faccia allungata e grandi denti, che finora non erano mai state osservate tutte insieme in nessun fossile di Homo. L'aspetto più interessante della scoperta consiste nel fatto che questa singolare miscela di tratti mostra punti di contatto con diversi altri fossili, tra cui quelli risalenti a circa 2,4 milioni di anni fa (ore 19.19.40) rinvenuti in Africa, e con altri scoperti in Asia e in Europa databili tra gli 1,8 e gli 1,2 milioni di anni fa (dalle 20.29.46 alle 21.39.50). Ciò ha indotto David Lordkipanidze, capo del team, e i suoi colleghi ad effettuare un'analisi statistica simile a quella condotta sui fossili di Dmanisi anche sui dati relativi a reperti di Homo erectus, Homo rudolfensis ed Homo ergaster, rilevando così un modello di variazioni analogo a quello trovato per i resti di Dmanisi. Di conseguenza, osserva Lordkipanidze, « è ragionevole supporre che a quel tempo in Africa ci fosse una singola specie Homo. E poiché gli ominidi di Dmanisi sono così simili a quelli africani, possiamo anche ipotizzare che rappresentino tutti la stessa specie! »
Conclusione strabiliante: le caratteristiche che finora distinguevano Homo habilis, Homo rudolfensis e Homo erectus, le prime tre specie conosciute del genere Homo, non sarebbero indicative di specie distinte, ma solo l'espressione delle variazioni individuali di membri di un'unica specie. In quest'ottica Homo ergaster in realtà sarebbe al massimo una sottospecie di Homo erectus, ossia Homo erectus ergaster, mentre gli antichi abitanti di Dmanisi andrebbero correttamente classificati come Homo erectus ergaster georgicus. Questo studio è destinato a suscitare senz'altro ampi dibattiti nella comunità dei paleoantropologi, ma è presto per affermare che si è realizzata un'effettiva semplificazione del complesso "cespuglio" filogenetico dell'uomo moderno. Comunque non c'è dubbio, come ha dichiarato Ian Tattersall, dell'American Museum of Natural History a New York, che Skull 5 sia « uno dei crani più importanti mai scoperti nella storia della paleoantropologia ».
I cinque crani di Dmanisi sullo sfondo del sito del ritrovamento (immagine di M. Ponce de León e Ch. Zollikofer dell'Università di Zurigo) |
E non è tutto. Nel 2024 un gruppo di studio dell'Accademia delle Scienze Ceca e dell'Università di Aarhus ha cercato di dimostrare la prima presenza umana in Europa in un sito sul fiume Tysa, nell'Ucraina occidentale, noto come Korolevo. In esso è stato riportato alla luce uno strato di utensili in pietra lasciati sul letto del fiume e realizzati nello stile Olduvaiano, la forma più primitiva di costruzione di utensili. Per datarli è stato applicato un metodo di datazione innovativo che usa piogge di raggi cosmici fino alla superficie della Terra, dove reagiscono con i minerali presenti nelle rocce e nei terreni per produrre nuclidi radioattivi in quantità minime ma misurabili, tra cui il berillio-10 e l'alluminio-26. La data è stata ottenuta osservando il rapporto di questi due nuclidi, che cambia nel tempo a causa delle loro diverse emivite di decadimento radioattivo: 1,4 milioni di anni per il berillio-10 e 700.000 anni per l'alluminio-26. Applicando questo approccio allo strato di sedimenti contenente gli utensili in pietra di Korolevo, si è risaliti ad un'età compresa tra 1,5 e 1,3 milioni di anni fa (tra le 21.00.48 e le 21.33.59), rendendo questa occupazione umana la più antica d'Europa datata con sicurezza. Gli utensili sono troppo antichi e primitivi per essere opera di esseri umani anatomicamente moderni o di Neanderthal: i loro costruttori erano probabilmente una varietà di Homo erectus. Nel loro viaggio dall'Africa all'Eurasia, i primi esseri umani hanno attraversato il Medio Oriente, dove hanno lasciato segni di occupazione già 2,5 milioni di anni fa (alle 19.00.59). Una volta entrati in Eurasia, gli esseri umani migrarono verso est a un ritmo notevole, raggiungendo l'isola di Giava, nel Sudest asiatico, circa nello stesso periodo in cui li troviamo in Ucraina occidentale. Non si sa che cosa abbia causato il ritardo dell'incursione verso ovest in Europa, ma sembra che Korolevo colmi il divario migratorio tra il Caucaso e i siti dell'Europa sud-occidentale datati tra 1,2 e 1,1 milioni di anni ad Atapuerca e Vallonnet (tra le 21.39.50 e le 22.08.29). Una proposta è che le persone siano entrate in Europa da est attraverso la valle del Danubio e la pianura pannonica, e quindi da oriente. Sono tutte ipotesi in attesa di conferma, ma il cui fascino è indubitabile.
Il lungo rapporto tra uomini e orsi
Uomini e cani sono legati da una storia millenaria, si sa; ma non meno lungo è il rapporto tra gli uomini e gli orsi. E con questa parola intendiamo sia i grandi orsi delle caverne ormai estinti (Ursus spelaeus) che gli orsi bruni (Ursus arctos) sopravvissuti sino ad oggi: le prove archeologiche indicano che questi animali venivano cacciati dai gruppi di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico per usarne pelli, carne e ossa. Un team di archeologi dell’Università di Tubinga e della Soprintendenza dei beni culturali del Baden-Württerberg e Bassa Sassonia, in Germania, ha messo insieme decenni di dati archeologici sulle interazioni fra uomini e orsi durante il Pleistocene, ricostruendo l’evoluzione del rapporto fra questi animali e i nostri antenati lungo un arco di tempo che copre 300.000 anni di storia. In Europa centrale, una delle prime evidenze della caccia agli orsi da parte degli ominini proviene dagli scavi di Schöningen, nella Germania settentrionale, e risalgono al Paleolitico inferiore, intorno ai 320.000 anni fa (alle ore 23.22.37). Sulle ossa di un’antica specie di orso i ricercatori hanno individuato segni di taglio compatibili con lo scuoiamento dell’animale, ed alcune caratteristiche biologiche della decomposizione degli orsi supporterebbero l’ipotesi dell’uccisione intenzionale dell’animale. Infatti, quando un orso muore, nel giro di ventiquattr'ore perde il pelo e la pelliccia diventa inutilizzabile. Il fatto che gli ominini del Paleolitico inferiore abbiano lavorato subito gli orsi per prenderne la pelle suggerisce un’uccisione volontaria dell’animale, e fornisce un indizio valido per parlare di caccia attiva. A condurre questa antica battuta di caccia sarebbero stati i gruppi di Homo heidelbergensis che proprio in quel periodo lasciavano il posto ai Neanderthal. Strumenti litici e ossa lavorate trovate a Schöningen non corrispondono infatti alla tecnologia usata dai primi Neanderthal, ma a quella degli ultimi Homo heidelbergensis presenti nel continente. Inoltre, l’abbondanza di lance, giavellotti e picche rinvenuta in quel sito fa supporre che questi uomini erano abili cacciatori, capaci di braccare un orso in spazi aperti, come è il sito di Schöningen. Per il Paleolitico inferiore, però, le prove delle interazioni fra uomini e orsi rimangono scarse.
Nel Paleolitico medio, invece, le testimonianze di interazione fra i gruppi di cacciatori-raccoglitori e gli orsi aumentano. I Neanderthal, che dominavano in questo periodo la scena europea, iniziarono a sfruttare più intensamente gli orsi, come testimoniato dai ritrovamenti emersi da altri siti tedeschi presi in esame. Sulle ossa di orso, ai segni di taglio per lo scuoiamento si aggiungono segni di macellazione per prelevare le carni, cosa che indica l’aumento dello sfruttamento di questi animali durante il Paleolitico medio. I reperti rianalizzati non forniscono però prove dirette della caccia sistematica all’orso da parte dei Neanderthal, ma raccontano una storia di coesistenza, basata principalmente sull’evitamento reciproco e su incontri occasionali. Dalle zone più antiche del sito archeologico della Grotta dell’Unicorno, risalenti a circa 190.000 anni fa (alle 23.37.48), sono emersi resti scheletrici di orso depositati naturalmente, alternati a reperti litici. Le ossa di orso con segni di lavorazione diventano più frequenti a partire dai 50.000 anni fa (ore 23.54.09), e ciò ci fa capire che gli orsi e gli esseri umani si alternarono nell’occupazione della grotta per circa 140.000 anni. Durante il Paleolitico medio i Neanderthal cacciavano gli orsi delle caverne per aggiungerli al loro menù, mettendo in atto un comportamento opportunistico: gli incontri avvenivano soprattutto all’interno delle grotte, in inverno, quando gli animali erano più vulnerabili, e ad essere presi di mira erano soprattutto gli orsi delle caverne, più facili da intercettare.
Intorno ai 40.000 anni fa (alle 23.55.19), con la diffusione di Homo sapiens, le cose cambiarono. A partire dal Paleolitico superiore, i paleontologi hanno osservato un aumento della frequenza e della varietà di modifiche antropiche rivenute sui resti di orso, le quali indicano chiaramente un cambiamento del comportamento umano e un aumento della competizione tra uomini e orsi nel corso del tempo. La frequenza dei ritrovamenti di ossa lavorate risalenti al Paleolitico superiore mostra, infatti, come la caccia agli orsi da parte degli esseri umani era diventata un’attività sistematica. Inoltre le analisi condotte sui reperti, ricchi di segni di taglio e impatto, chiariscono come Homo sapiens sfruttasse in modo completo questi animali, usandone le pelli, la carne, le ossa, il midollo. Alcune tracce indicano che persino i polpastrelli degli orsi venivano scarnificati per ricavarne il grasso. Se per i Neanderthal gli orsi erano una risorsa occasionale, per Homo sapiens erano diventati un "piatto stagionale" fisso. Ma non è tutto: dal Paleolitico superiore diventa chiara la relazione simbolica instaurata con gli orsi, testimoniata da gioielli realizzati con denti di orso e da statuette in avorio che li raffiguravano. La dimensione simbolica non si può escludere neppure per le comunità di Neanderthal, però le tracce archeologiche, come denti forati ed elaborazioni delle parti dure dell’animale a scopi simbolici, compaiono nel Paleolitico superiore e accompagnano l’evoluzione dei gruppi umani fino alla preistoria più recente. Il simbolismo legato agli orsi potrebbe essere associato all’immedesimazione degli umani in questi animali: dal popolo Ainu del Giappone, ai Sami della Finlandia, passando per i nativi americani, c’è spesso una visione archetipa di questo animale come antenato degli esseri umani, e lo stesso poteva valere per i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico, che continuarono a cacciare gli orsi anche dopo il passaggio a uno stile di vita agricolo. L’aumento della predazione da parte di Homo sapiens durante il Paleolitico superiore ha portato i ricercatori a riconsiderare il ruolo della nostra specie nell’estinzione degli orsi delle caverne,» avvenuta durante l’ultima era glaciale, intorno ai 24.000 anni fa (alle 23.57.12). « Gli orsi delle caverne hanno affrontato diverse glaciazioni", ha spiegato Gabriele Russo, coautore dello studio. « È improbabile che solo le condizioni climatiche abbiano determinato la loro estinzione. Dalla loro comparsa nel Paleolitico medio, l’unica cosa che è cambiata è stata l’aumento della caccia da parte di Homo sapiens. » Alcune analisi genomiche hanno rivelato un impoverimento genetico della specie già intorno ai 50.000 anni fa; una combinazione di fattori e l’incontro con gli esseri umani moderni durante l’ultima era glaciale, quando le risorse scarseggiavano, sarebbe stato fatale per gli orsi delle caverne, tra i primi di una lunga lista di specie estintesi per mano dell'Homo sedicente sapiens.
L'Homo sapiens d'Arabia
Una piccola falange di 3,2 centimetri di lunghezza rappresenta il più antico fossile di Homo sapiens scoperto finora al di fuori dell'Africa e del Medio Oriente. È stato trovato ad Al Wusta, nel deserto del Nefud, nel centro-nord dell'Arabia Saudita, e suggerisce che le prime migrazioni della nostra specie verso l'Eurasia furono più estese di quanto ritenuto. Huw Groucutt del Max-Planck-Institut per la scienza della storia umana a Jena, in Germania, e colleghi hanno eseguito scansioni tridimensionali del fossile con una tecnica tomografica all'avanguardia, poi hanno confrontato i risultati con quelli relativi ad altre ossa dello stesso tipo, appartenuti a primati non umani, ad antichi ominidi. Le analisi hanno confermato che l'osso è di un individuo della nostra specie. La radiodatazione ha stabilito che il reperto risale a un periodo compreso tra 95.000 e 86.000 anni fa (tra le 23.48.54 e le 23.49.57), coerentemente con la datazione di altri reperti e di sedimenti, effettuata con tecniche differenti, venuti alla luce nella stessa area.
Nel modello finora più accreditato, l'espansione di Homo sapiens dall'Africa verso l'Eurasia prevede due fasi tra loro distanti nel tempo. Secondo questo modello, la prima migrazione seguì un corridoio nel Medio Oriente che costeggiava la porzione orientale del bacino del Mediterraneo. Tradizionalmente questa primo evento veniva fatto risalire tra i 130.000 e i 90.000 anni fa (tra le 23.44.49 e le 23.49.29), ma recenti scoperte nella grotta di Misliya, in Israele, hanno retrodatato questa migrazione a prima di 177.000 anni fa (prima delle 23.39.19). Questa nuova datazione ha trovato sostegno sia in dati paleogenetici recenti, che fanno ritenere che la separazione del ramo di Homo sapiens da ominidi più antichi sia da situare tra 350.000 e 260.000 anni fa (tra le 23.19.07 e le 23.29.38), sia con i resti di Homo sapiens scoperti nella grotta di Jebel Irhoud, in Marocco, datati tra 350.000 e 280.000 anni fa (tra le 23.19.07 e le ).
La seconda fase migratoria dell'essere umano moderno è invece situata a circa 65.000 anni fa (alle 23.52.24), con una parziale sovrapposizione, quindi, con la presenza dell'uomo di Neanderthal in Medioriente tra 70.000 e 48.000 anni fa (tra le 23.51.49 e le 23.54.24). Sfortunatamente, di questa seconda migrazione sono rimasti pochissimi fossili, e la sua cronologia e la sua geografia sono basate su artefatti litici. Dunque la falange di Al Wusta cambia di molto le cose. Conferma infatti la presenza di Homo sapiens in Medio Oriente tra i due maggiori eventi migratori, aprendo la strada a una diversa interpretazione dei dati paleontologici e archeologici: la migrazione potrebbe essere stata un fenomeno continuativo, non concentrato in due eventi separati. I ricercatori hanno stabilito che all'epoca in cui è vissuto l'individuo al quale appartiene il fossile, il clima della regione che circondava il sito era umido e monsonico. Questo modello è stato confermato dalla scoperta nella stessa area di ossa fossili di ippopotamo e conchiglie di lumaca d'acqua dolce. Questa antica incursione nella verde Arabia, parte della diaspora umana fuori dall'Africa, potrebbe essere stata facilitata dall'incremento delle piogge estive, che portò i primi esseri umani in migrazione a occupare non solo le foreste del Medio Oriente, alimentate principalmente dalle piogge nella stagione fredda, ma anche le praterie semi-aride dell'Arabia interna, come la regione di Al Wusta. L'abilità di queste prime popolazioni di colonizzare ampiamente questa regione mette in discussione una teoria finora ampiamente condivisa, secondo cui le prime migrazioni fuori dall'Africa furono localizzate ed ebbero un successo limitato.
Una svolta significativa per gli studi degli eventi migratori "Out of Africa" dei nostri antenati è avvenuta nell'estate 2021, quando Huw Groucutt e colleghi hanno migliorato i risultati delle loro ricerche, trovando le prove che negli ultimi 400.000 anni la penisola arabica è stata teatro di almeno cinque fasi migratorie da parte di popolazioni umane provenienti dall'Africa. I paleontologi si sono concentrati su una sequenza di depositi lacustri che si sono formati nel sito chiamato Khall Amayshan (KAM 4), nel deserto del Nefud, nel nord dell'attuale Arabia Saudita, in un periodo di aumento delle precipitazioni: si tratta di cinque laghi, ciascuno dei quali è associato a un diverso tipo di manufatti in pietra, la cui datazione fornisce preziose informazioni sull'alternanza di periodi di clima umidi e secchi. I dati ottenuti documentano cinque brevi intervalli di aridità ridotta datati rispettivamente a circa 400.000 (23.13.17), 300.000 (23.24.58), 200.000 (23.36.38), 130.000-75.000 (23.44.49-23.51.14) e 55.000 anni fa (23.53.35). Questi periodi di condizioni ambientali favorevoli coincisero con altrettante fasi di migrazione dei primi ominidi in Arabia, che mostrano alcune differenze notevoli tra loro in termini di cultura materiale. Due fasi corrispondono alla tecnologia cosiddetta Acheuleana, associata generalmente a Homo erectus, e tre con forme distinte di tecnologia del Paleolitico Medio, tra 300.000 e 40.000 anni fa circa (23.24.58-23.55.19). Questi manufatti testimoniano così la più antica occupazione di ominidi in Arabia nota finora e suggeriscono la colonizzazione dell'Arabia da parte di diverse popolazioni, forse anche composte da specie diverse. Da sottolineare anche che i dati archeologici di KAM 4 e di altre località arabe mostrano che la fauna dell'Arabia antica condivideva più somiglianze con la fauna contemporanea dell'Africa che con quella del Medio Oriente. Le prime popolazioni di Homo sapiens arrivate in Arabia potrebbero essersi sovrapposte ai Neanderthal, che occupavano la regione settentrionale del Medio Oriente tra circa 80.000 e 45.000 anni fa (23.50.39-23.54.45).
Ambientalismo preistorico
Secondo uno studio dell'Università di Tel Aviv, già i primi ominidi riciclavano i propri rudimentali strumenti, magari rotti o comunque inservibili, per farne nuovi oggetti. Pietre e ossa erano infatti utilizzati per realizzare altri utensili secondo le più moderne mode dell'ecosostenibilità e del "green think". Quali fossero le ragioni, dicono gli autori della ricerca, il principio di partenza era ed è sempre lo stesso: risparmiare energia recuperando materie prime. Riciclando la selce, non si deve ogni volta procurarsene di nuova. La vera anomalia, anzi, starebbe nell'uomo contemporaneo, preda del consumismo sfrenato, tanto da dimenticare i vantaggi di un comportamento più rispettoso verso il mondo che lo circonda. « Per la prima volta sveliamo l'ampiezza di questo fenomeno sia in termini di diffusione che dei diversi metodi utilizzati », ha raccontato Ran Barkai, archeologo dell'ateneo israeliano. C'è un elemento secondo Barkai a provare l'omogenea diffusione dell'approccio ecologico dei nostri antenati del Pleistocene: essi hanno manifestato questo tipo di atteggiamento « in momenti diversi dell'evoluzione, in posti diversi e con diversi metodi legati ai vari contesti e alla disponibilità di alcuni materiali piuttosto di altri ». Oltre che verde, quello delle varie specie del genere Homo sembra dunque sia stato un riciclaggio davvero intelligente.
I ricercatori di Tel Aviv sostengono di aver rintracciato segni di questo atteggiamento fino a oltre un milione di anni fa. Senza distinzione, gli uomini delle caverne della penisola iberica, italica, mediorientale e nordafricana avevano adottato, nella loro difficile e pericolosa quotidianità, questa efficiente pratica di riutilizzo di vecchie materie prime: lastre di pietra o scaglie di selce venivano utilizzate come materiali di partenza per produrre strumenti minuti e utili ad altre attività come lame o raschietti. Alcune prove per esempio sono state raccolte a Castel di Guido, vicino a Roma, dove nei pressi di un bacino asciutto sono stati rinvenuti degli attrezzi in osso risalenti a 300.000 anni fa (ore 23.24.58). A produrli, uomini di Neanderthal cacciatori di elefanti: « Vi sono diversi livelli di reimpiego e di riciclo », ha dichiarato Giovanni Boschian, paleontologo dell'Università di Pisa: « le ossa sono state frantumate per estrarre il midollo e i frammenti sono stati modellati in strumenti, abbandonati, e infine rielaborati per essere utilizzati di nuovo ».
Anche nella celebre grotta di Qesem, a una dozzina di chilometri da Tel Aviv, Avi Gopher, un altro archeologo dell'ateneo israeliano, ha scoperto schegge di pietra rimodellate in piccole lame per tagliare la carne, come se si trattasse di una forma primitiva di piccole posate confezionate fra 420.000 e 200.000 anni fa (tra le 23.10.57 e le 23.36.38): secondo Gopher « circa il 10 % degli strumenti presenti nel sito sono stati riciclati in qualche modo, e non è stato un comportamento occasionale: faceva parte del loro stile di vita ». « È bello pensare al riciclaggio preistorico », ha dichiarato invece Daniel Amick, antropologo della Loyola University di Chicago, « ma credo che lo facessero solo quando ne avevano davvero bisogno ». Ad ogni modo, chissà perchè, ma non mi suona strano pensare all'autoproclamatosi sapiens sapiens come alla pecora nera, in fatto di ambientalismo, del genere Homo...
I primi lavoratori del legno
Fino a poco tempo fa si pensava che la prima specie del genere Homo a lavorare il legno fosse stata la nostra. Nel 2019 però un team di archeologi guidati da Larry Barham, dell'Università di Liverpool, ha scoperto in sedimenti sabbiosi due tronchi tagliati con utensili di pietra quasi mezzo milione di anni fa presso la riva paludosa del fiume Kalambo, nell'attuale Zambia. Questo sorprendente ritrovamento suggerisce che altri ominidi fossero esperti lavoratori del legno molto prima della comparsa di Homo sapiens. Siccome le estremità dei due tronchi erano state deliberatamente sagomate in modo da formare ampie tacche che potevano essere incastrate tra loro, Barham pensa che altri tronchi siano stati posati su questi per formare una piattaforma solida accanto al bacino del fiume Kalambo, forse per costruire una postazione di pesca o una palafitta. Come si sa, il legno marcisce rapidamente se esposto all'aria, quindi la maggior parte dei manufatti in legno sopravvive solo pochi anni e nella documentazione archeologica se ne trovano di rado. In questo caso, invece, l'acqua che dal fiume si infiltrava nella sabbia ha mantenuto i tronchi bagnati e li ha conservati a perfezione. Da questo punto di vista, l'area delle cascate di Kalambo è una miniera di reperti archeologici, perché conserva prove di attività della nostra e di altre specie umane che vanno dalla prima età della pietra fin quasi ai tempi moderni.
Gli archeologi hanno utilizzato una tecnica chiamata luminescenza stimolata otticamente per stabilire quando i grani di quarzo e feldspato nei sedimenti in esame sono stati esposti per l'ultima volta alla luce del sole. Questi test hanno fornito per i sedimenti un'incredibile età di 476.000 anni (risalgono alle ore 23 spaccate del 31 dicembre). Barham sostiene che diverse specie di ominidi potrebbero aver realizzato questi oggetti di legno: forse Homo erectus o Homo heidelbergensis. È anche possibile che gli oggetti siano stati realizzati dai primissimi membri della nostra specie, ma i ricercatori non lo ritengono probabile. « Ci piace pensare che tutto ciò che è complesso e intelligente debba essere opera nostra, ma questo fa parte della nostra arroganza », ha affermato Barham. La capacità di lavorare il legno da parte dei primi ominidi era stata già suggerita da scoperte precedenti: negli anni novanta, nella Germania settentrionale, sono stati rinvenuti rozzi bastoni da lancio e lance in legno attribuiti ad Homo heidelbergensis; una parte di una tavola di legno levigata, databile a più di 780.000 anni fa (alle ore 22.28.54), è stata portata alla luce nel 1989 accanto al fiume Giordano, nel territorio del Golan conteso da Israele e Siria, e anch'esso era un raro esempio di legno conservato nei sedimenti fluviali; l'archeologa Biancamaria Aranguren, che ha lavorato per il Ministero della Cultura italiano, ha studiato gli utensili in legno trovati nel sito di Poggetti Vecchi in Toscana e attribuiti ai primi Neanderthal, sostenendo che si dovrebbe prestare maggiore attenzione ai siti sommersi dall'acqua, che potrebbero contenere reperti ben conservati che attestano la lavorazione del legno da parte degli ominidi. Anche le antiche corde neandertaliane sarebbero la prova che questa specie era tecnologicamente più avanzata di quanto si ritenesse un tempo. Dopotutto, gli antichi tronchi del fiume Kalambo oggi ci sembrano eccezionali, ma solo perché si è conservato così poco legno e altri materiali organici di quell'epoca. Il 90 per cento della cultura materiale del passato è scomparso; e così, quando riusciamo a ottenere qualche reperto che si è conservato, siamo stupefatti da ciò che troviamo, anche se all'epoca esso doveva apparire assolutamente normale.
Il ruolo dei vulcani nell'evoluzione umana
Il corso della storia dell'umanità potrebbe essere stato segnato, proprio al suo inizio, da una immane serie di eventi vulcanici esplosivi avvenuti circa 200.000 anni fa (alle ore 23.36.28) nella sezione etiope della grande Rift Valley dell'Africa orientale, in coincidenza con l'arrivo di Homo sapiens nella regione avvenuto in un momento chiave dell'evoluzione umana. Questa ipotesi è stata avanzata da un gruppo di ricercatori delle Università di Oxford, di St. Andrews e di Addis Abeba, che hanno ricostruito la storia eruttiva di un segmento di 200 chilometri di lunghezza della spaccatura che attraversa l'Etiopia. Sono state condotte molte ricerche per comprendere il legame tra i cambiamenti ambientali del passato e l'evoluzione umana, che si sono però concentrate soprattutto sul paleoclima africano, mentre ben poca attenzione è stata dedicata al possibile ruolo del vulcanismo esplosivo.
La grande Rift Valley è un sistema di fosse tettoniche ancora attive che sta lentamente spaccando in due l'Africa. L'allontanamento della parte più orientale dal resto del continente provoca un assottigliamento e una riduzione della densità della crosta, con un parallelo richiamo di magma dal mantello terrestre, un fenomeno che favorisce il vulcanismo. Combinando i dati ottenuti dallo studio delle caldere di Aluto, Corbetti, Shala e Gedemsa, William Hutchison e colleghi hanno trovato prove di una vera e propria raffica di attività vulcanica altamente esplosiva tra 320.000 e 170.000 anni fa (tra le 23.22.37 e le 23.40.09), che si è manifestata con una frequenza cinque volte superiore al tasso medio di vulcanismo della regione. Secondo i ricercatori è plausibile che l'entità di queste eruzioni, con il rilascio di polveri, gas acidi e aerosol, abbia colpito i laghi della Rift Valley, devastando una parte significativa della vegetazione, e quindi influendo sulle risorse da cui dipendevano i nostri antenati e rimodellando i paesaggi, con la creazione e/o la distruzione di possibili vie di migrazione di quelle popolazioni.
Per controllare questa ipotesi, Hutchison e colleghi sperano di poter condurre un'ulteriore ricerca, più sistematica, su tutto il territorio, in modo da definire in maggior dettaglio la dinamica del fenomeno. Uno studio di questo tipo ha fra l'altro un interesse anche più pratico, dato che nell'area interessata, scarsamente monitorata dal punto di vista vulcanologico, attualmente vivono circa 10 milioni di persone, che si troverebbero impreparate di fronte a un esempio tettonico inaspettato.
Attraverso il Sahara
È d'uopo citare a questo punto una ricerca condotta da studiosi del Royal Netherlands Institute for Sea Research e dell'Università di Brema, diretta da Isla S. Castañeda e Stefan Schouten. Secondo loro una serie di grandi cambiamenti climatici nelle regioni del Sahara e del Sahel hanno facilitato e indirizzato le prime migrazioni dell'uomo al di fuori del continente africano. Essi infatti hanno scoperto che tra 120.000 e 110.000, tra 50.000 e 45.000, e tra 10.000 e 8.000 anni fa, Sahara e Sahel godevano di un tasso di umidità sufficiente non soltanto per la presenza di vaste praterie, ma anche di un'ampia distesa di alberi ad alto fusto, indicando la presenza di condizioni meteorologiche molto più umide di quelle attuali. Per accertare tutto ciò hanno studiato i sedimenti marini, corrispondenti agli ultimi 200.000 anni, che si sono depositati sui fondali al largo della Guinea, in Africa occidentale: i forti venti che provengono dal Sahara e dal Sahel trasportano infatti ingenti quantitativi di polveri, ceneri, pollini, foglie ed altro materiale, che in parte si disperdono sulla superficie marina per poi depositarsi sul fondo. Dall'analisi di questi dati, i ricercatori sono riusciti a stabilire l'importanza relativa di piante erbacee e arboree in tutto il lasso di tempo considerato.
I due periodi più antichi (120.000-110.000 e 50.000-45.000 anni fa, cioè 23.45.59-23.47.09 e 23.54.09-23.54.45) coincidono esattamente con le epoche in cui i primi esseri umani sono migrati dall'Africa orientale all'Africa settentrionale e nel Medio oriente, in Asia e infine on Europa. A quei tempi le condizioni meteorologiche nella parte centrale del Nord Africa hanno permesso l'attraversamento di una regione oggi del tutto inospitale, permettendo la migrazione verso gli altri continenti. Quando il clima nel Sahara e nel Sahel è tornato secco, i suoi abitanti sono stati costretti a spostarsi provocando cambiamenti sia culturali che genetici nelle altre regioni del Nord Africa e del Medio oriente, in cui nel frattempo si erano stabilite altre popolazioni.
Secondo i ricercatori suddetti, a loro volta questi cambiamenti climatici sul continente sarebbero correlati a variazioni nella forza del sistema di correnti oceaniche (AOC, Atlantic Overturning Circulation), affermazione che deriva dall'analisi dei resti degli scheletri di foraminiferi bentonici trovati nei sedimenti. I cambiamenti nell'AOC determinano infatti una modifica nei rapporti fra le diverse sostanze chimiche disciolte nell'acqua marina, riflessi nella composizione degli scheletri dei foraminiferi. L'ipotesi delle ondate successive di migrazione è stata in seguito confermata da successive analisi di dati genetici e somatici di varie popolazioni asiatiche e oceaniche, in particolare della forma del cranio, condotta da una collaborazione internazionale a cui ha partecipato anche il gruppo di Guido Barbujani dell'Università di Ferrara.
Oggi inoltre sappiamo che gli antenati di tutti gli attuali Eurasiatici, Americani e Oceanici emigrarono dall’Africa tra 70.000 e 60.000 anni fa (tra le 23.51.49 e le 23.52.59) e, dopo aver raggiunto l’Eurasia, non si spinsero immediatamente a colonizzarla nella sua interezza, ma si stabilirono per alcuni millenni in un’area presumibilmente circoscritta, formando una popolazione omogenea. Questo evento, datato circa 45.000 anni fa (alle 23.54.45), pose le basi per la divergenza genetica tra gli attuali Europei e i popoli Est Asiatici. Grazie ad uno studio condotto nel 2024 dai ricercatori del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova in collaborazione con il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna, l’Università Griffith di Brisbane, l’Istituto Max Planck di Geoantropologia di Jena e l’Università di Torino, oggi sappiamo dove la nostra specie ha vissuto in quel periodo. « In questo lavoro di ricerca abbiamo utilizzato un nuovo approccio genetico e abbiamo identificato nelle popolazioni antiche e moderne dell’altopiano persiano delle tracce genetiche che assomigliano alle caratteristiche della popolazione originaria, individuando quindi l’area come la probabile patria di tutti i primi eurasiatici », ha spiegato Leonardo Vallini del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova e primo autore dello studio: « la parte più complessa della nostra ricerca è stata quella di districare i vari strati di informazione costituiti da 45.000 anni di movimenti e mescolanze di popolazioni avvenute dopo l’insediamento nell'attuale Persia ». La ricerca multidisciplinare ha indagato anche le caratteristiche paleoecologiche dell’area, indicando come già all’epoca presentasse condizioni ambientali adatte all’occupazione umana, e potenzialmente in grado di sostenere una popolazione più numerosa rispetto ad altre parti dell’Asia occidentale. Per questo, l’altopiano persiano sarà al centro del Progetto ERC Synergy “LAST NEANDERTHALS”, che si propone di esplorare e svelare gli intricati eventi bioculturali verificatisi tra i 60.000 e i 40.000 anni fa, focalizzandosi soprattutto sull’altopiano persiano. « Con il nostro lavoro abbiamo ricostruito 20.000 anni di storia condivisa da europei, asiatici, nativi americani e oceanici. Questa tappa del viaggio umano fuori dall’Africa è affascinante: è durante questo periodo che abbiamo mescolato i nostri geni con quelli dei Neanderthal », ha concluso il professor Luca Pagani, coordinatore dello studio e docente del Dipartimento di Biologia dell’Ateneo patavino. Insomma, siamo tutti un po' Persiani...
I primi vestiti
Più di 60 utensili in osso e uno ricavato da un dente di cetaceo rappresentano gli "arnesi da sarto" appartenuti a nostri antenati vissuti tra 120.000 e 90.000 anni fa (tra le 23.45.59 e le 23.49.29), e venuti alla luce nel 2011 nella Grotta dei Contrabbandieri, in Marocco. La scoperta di questi reperti, e soprattutto la determinazione del loro scopo, descritta da alcuni paleontologi del Max-Planck-Institut für Menschheitsgeschichte, rappresenta una prova indiretta dell'abitudine a vestirsi con pelli di animali da parte di Homo sapiens, abitudine che rappresenta uno snodo cruciale nell'evoluzione umana. L'uso di pelli e pellicce per ripararsi dal freddo indica infatti un progresso non solo cognitivo e culturale, ma anche pratico, perché ha permesso ai nostri antenati di uscire dalla nicchia ecologica dell'Africa del Pleistocene e di affrontare anche la sfida di altri ambienti più freddi. Studi genetici sui pidocchi dell'abbigliamento hanno suggerito che l'abitudine a indossare pelli di animali è emersa negli esseri umani moderni almeno 170.000 anni fa in Africa (alle ore 23.40.09), ma purtroppo le pellicce e altri materiali organici deperibili non si sono conservati nelle documentazioni archeologiche vecchie di più di 100.000 anni. È per questo che le informazioni sull'argomento scarseggiano.
Gli scavi nella Grotta dei Contrabbandieri hanno restituito circa 12.000 frammenti di ossa animali, e solo alcune decine di essi sono stati intenzionalmente conformati da esseri umani per essere usati come utensili. Oltre a questo, gli scienziati hanno identificato sulle ossa di carnivori precisi schemi di tagli che furono prodotti da una lavorazione delle carni finalizzata allo scuoiamento per produrre pelli e pellicce, invece che per ricavare carne per l'alimentazione: i segni infatti concordano con quelli descritti nel corso di altre ricerche. Tra gli innumerevoli frammenti ossei è stata ritrovata anche la punta di un dente di cetaceo che portava segni coerenti con la tecnica usata per ottenere utensili in pietra tramite scheggiatura. La datazione fa di questo reperto la prima documentazione dell'uso di un dente di mammifero marino da parte di Homo sapiens, e l'unico resto accertato di mammifero marino del Pleistocene del Nord Africa. Dato il livello di specializzazione, questi strumenti sono probabilmente parte di una tradizione più grande con esempi precedenti che ancora non sono stati trovati. La caccia prosegue.
Le prime patate arrosto
I resti carbonizzati scoperti nelle grotte di Klasies River in Sudafrica e descritti nel maggio 2019 da Cynthia Larbey dell'Università di Cambridge e colleghi di una collaborazione internazionale testimoniano chiaramente che già 120.000 anni fa (ore 23.45.59) Homo sapiens arrostiva tuberi e radici prima di mangiarseli. Si è trattato di uno studio multidisciplinare sistematico sul ruolo delle piante e del fuoco nelle comunità umane vissute nella cosiddetta Middle Stone Age, periodo della preistoria africana situato tra 300.000 e 40.000 anni fa (tra le 23.24.58 e le 23.55.19). Quello di Klasies River è un sito archeologico molto famoso tra gli addetti ai lavori, costituito da una serie di grotte sul delta del fiume Klasies, nella provincia sudafricana dell'Eastern Cape. Le sue tre principali grotte hanno un deposito sedimentario di circa venti metri, da cui gli scavi hanno riportato alla luce alcune delle testimonianze più antiche di esseri umani. Larbey e colleghi si sono concentrati sui resti di fuochi di circa 30 centimetri di diametro. Le analisi hanno mostrato i resti di cottura di amidi.
I dati raccolti mostrano che questi nostri antenati usavano piccoli fuochi per cuocere i cibi, e radici e tuberi erano chiaramente parte della loro dieta, da 120.000 fino a 65.000 anni fa (dalle 23.45.59 alle 23.52.24): nonostante la trasformazione delle strategie di caccia e nelle tecnologie di fabbricazione di utensili in pietra, continuarono ad arrostire i vegetali. In precedenza le prove genetiche e biologiche indicavano che i primi esseri umani potevano avere dimestichezza con la cottura dei vegetali, ma prove archeologiche di questo tipo non erano mai state ottenute prima. Secondo la Larbey, questi cibi ricchi di amido rappresentavano la base alimentare delle prime popolazioni di Homo sapiens, a cui si aggiungevano proteine e grassi da molluschi, pesci, e fauna di piccole e grandi dimensioni. Una simile dieta è indicativa di un notevole grado di adattamento all'ambiente già 120.000 anni fa. Questa conclusione è coerente con i gli studi genetici, che mostrano una modifica del genoma umano dovuto alla duplicazione del gene AMY1, che codifica per l'amilasi, l'enzima che scinde e dunque favorisce la digestione dell'amido. Dunque la dieta ricca di amidi non è iniziata con l'avvento dell'agricoltura, che è invece di un'epoca molto posteriore, perché in Africa è databile solo a 10.000 anni fa: il consumo di amido è antico quanto gli esseri umani moderni, e i nostri antenati seguivano una dieta bilanciata ed erano dei geni dal punto di vista ecologico, in grado di sfruttare in modo intelligente il loro ambiente per ricavare cibi. Forse converrebbe anche a noi imparare a farlo.
Mtoto, il bambino che dorme da 780 secoli
Risale a 78.000 anni fa (alle ore 23.50.53) una tomba scoperta in Kenya, nella grotta di Panga ya Saidi, che rappresenta la più antica sepoltura intenzionale di un Homo Sapiens finora nota in Africa. La hanno ritrovata alcuni paleontologi del Centro Nacional de Investigación sobre la Evolución Humana di Burgos, diretto da Maria Martinon-Torres. Incredibilmente, essa contiene i resti di un bambino, che quando è morto aveva un'età compresa tra due anni e mezzo e tre anni, e chi viveva con lui si è preoccupato di dargli una sepoltura, scavando una fossa in un luogo protetto dalle intemperie. I ricercatori lo hanno chiamato Mtoto ("bambino" in lingua Swahili): la tomba è stata scavata intenzionalmente per la sepoltura fino alla profondità tre metri, e il bambino è stato ricoperto con i sedimenti raccolti dal pavimento della grotta. Dalle ossa rimaste si è dedotto che le caratteristiche dentali sono quelle dell'Homo Sapiens.
« Abbiamo scoperto per primo il cranio, con l'articolazione della mandibola intatta e qualche dente da latte non ancora spuntato », ha dichiarato Martinon-Torres. « La colonna vertebrale e le costole erano incredibilmente ben conservate, il che suggerisce che il corpo si sia decomposto nella fossa in cui è stato sepolto ». Le analisi successive delle ossa e del suolo della caverna hanno poi confermato che il corpo del bambino era stato ricoperto velocemente dopo la sepoltura, e quindi Mtoto era stato sepolto intenzionalmente poco dopo la sua morte, e non abbandonato là per essere ricoperto dagli agenti naturali. « La posizione della testa suggerisce che vi fosse un supporto, come un cuscino, segno che la comunità cui apparteneva il bambino aveva eseguito una sorta di rito funerario. » Ciò indica, secondo la studiosa, che i comportamenti funerari degli uomini moderni in Africa non erano diversi da quelli dei Neanderthal e dei primi uomini moderni nell'Eurasia, dei quali sono state trovate diverse sepolture di adulti e bambini, ma ben più antiche, risalenti a 120.000 anni fa (alle ore 23.45.59). L'inumazione è una pratica condivisa tra Sapiens e Neanderthal, e quindi questa scoperta potrebbe aiutare a capire i flussi migratori degli Homo sapiens dall'Africa all'Eurasia.
Il pittore del Paleolitico
Dalla grotta di Blombos, uno dei siti archeologici più ricchi del Sudafrica, è emerso nel 2008 un antichissimo "laboratorio artistico" con tracce di pittura, strumenti per estrarre e mescolare pigmenti colorati, contenitori per conservarli, abbandonati come se fossero stati usati ieri. Esso ci rivela come già 100.000 anni fa (alle 23.48.19) i nostri antenati fossero in grado di produrre colori liquidi partendo dall'ocra, da applicare poi sul corpo o da destinare ad altri usi, forse anche decorativi; ma, soprattutto, ci rivela come essi sapessero anche conservarli per poi riutilizzarli, sfruttando come contenitori le conchiglie.
La pratica di produrre della povere di ematite sfregandola su una pietra per ottenere un pigmento colorato era comune in Africa e nel Vicino Oriente in ed è ben documentata a partire da 60.000 anni fa (alle 23.52.59), anche se sono stati trovati reperti anche molto più antichi. Accanto alle due conchiglie di Haliotis tuberculata che servivano da recipiente, sono stati ritrovati « frammenti di ematite con tracce di abrasione e scheggiatura, schegge di quarzite con tracce di pigmento, una placchetta di quarzite con strisce di colore prodotte dallo sfregamento dei frammenti di ematite, una scapola di foca con residui di pigmento, una vertebra e un piccolo osso di carnivoro », ha dichiarato il dottor Francesco d'Errico, professore all'Università di Bordeaux e all'Università di Bergen. « Uno dei due kit è completo, l'altro è formato solo dalla conchiglia, da un pezzo di quarzite e da un frammento di ematite, ma è molto interessante perché contiene pigmenti diversi, indicando così che gli strumenti venivano usati diverse volte. »
« L'artigiano grattugiava l'ematite su una placchetta di quarzite o la scheggiava per produrre piccole schegge », continua d'Errico. « Successivamente, le scheggette così ottenute venivano macinate con un ciottolo o con grandi frammenti di quarzite. Il procedimento produceva secondo l'ocra utilizzata una polvere rossa o gialla che veniva combinata nelle conchiglie a midollo osseo liquefatto al calore. A questa mescola veniva probabilmente aggiunta acqua. » Per conservarlo, il contenuto veniva protetto con un coperchio: nel kit meglio conservato l'apertura della conchiglia era protetta da un ciottolo che combaciava perfettamente con la forma della conchiglia. I ricercatori ipotizzano anche che i buchi per la respirazione del mollusco visibili sulla conchiglia venissero ostruiti per non far colare il liquido. Per mescolare e trasferire il colore fuori dal contenitore, probabilmente si usava un osso.
« Parlare di laboratorio è forse troppo, ma si può pensare ad un artigiano e quasi vederlo mentre applica la sua ricetta, con la pila di oggetti lasciati lì pensando di tornare dopo una settimana per riutilizzare la pittura ». Gli oggetti restituiscono moltissimi particolari: « le strie lasciate sul fondo della conchiglia dal movimento delle dita durante la mescola del pigmento rappresentano la più antica traccia del gesto di un artigiano o forse di un artista preistorico », ha aggiunto d'Errico, "senza contare il fatto che questi sono attualmente i primi contenitori conosciuti! »
Per quali scopi venisse usata la pittura, è ancora un mistero: forse era impiegata per decorare superfici, per creare disegni o motivi ornamentali, oppure per pitturare il corpo. Di sicuro la produzione non era un evento isolato, perché i kit venivano riutilizzati. E proprio il fatto che i pigmenti venissero usati diverse volte indica che avessero un'importanza particolare nella cultura. Secondo d'Errico, l'abilità concettuale di combinare e conservare tali sostanze rappresenta un punto critico nell'evoluzione del pensiero umano, e testimonia un precoce sviluppo tecnologico e comportamentale dell'Homo Sapiens, documentandone sia un'industria di base che la capacità di pianificare a lungo termine. « È un passaggio chiave nell'evoluzione delle capacità cognitive complesse nell'uomo, poiché dimostra che si aveva già l'abilità concettuale di trovare, combinare e immagazzinare sostanze che poi potevano essere utilizzate nelle pratiche sociali. »
Un babirussa dipinto 40.000 anni fa! |
A ciò bisogna aggiungere un'altra scoperta: alcune mani umane e un cinghiale primitivo sono tra le pitture rupestri più antiche al mondo, rinvenute in una grotta sull'isola indonesiana di Sulawesi. Secondo le stime dei paleontologi, i disegni hanno circa 45.000 anni (risalgono alle 23.54.45). Si tratta di immagini straordinariamente simili a quelli delle grotte spagnole di El Castillo che hanno circa la stessa età. Il tesoro di arte rupestre è stato studiato dal gruppo di ricerca coordinato da Maxime Aubert, dell'università australiana di Griffith e del Centro di Scienze Archeologiche dell'università di Wollongong. Le immagini sono sostanzialmente contemporanee a quelle rinvenute in Europa. Si riteneva che le pitture rupestri europee fossero le uniche, invece la scoperta dimostra che pitture molto simili e altrettanto antiche esistono a 13.000 chilometri di distanza, nell'isola di Sulawesi. « Questi disegni sono tra i più antichi mai rinvenuti », ha osservato Aubert, « e il babirussa (una specie di cinghiale tuttora esistente su alcune isole della Malesia, ritratto qui sopra) è uno dei primi animali che l'uomo abbia mai disegnato. » In realtà disegni e pitture che decorano le grotte indonesiane erano stati scoperti negli anni '50, ma per oltre sesant'anni si è creduto che non avessero più di 10.000 anni di età. A portare fuori strada era stata la fortissima erosione cui sono soggette le pareti di quelle grotte, in un clima tropicale. La nuova datazione è stata quindi sorprendente, e costringe a rivedere molte delle teorie più accreditate sull'arte figurativa nella preistoria. Saranno necessarie nuove ricerche per capire se quelle espressioni artistiche fossero un patrimonio comune a tutte le società primitive, da quelle che popolavano l'Africa a quelle del Sudest asiatico, oppure se ogni popolazione avesse sviluppato forme d'arte in modo indipendente.
Il più antico modo di contare
Circa 60.000 anni fa (alle 23.52.59), in quella che oggi è la Francia occidentale, un Neanderthal prese in mano un pezzo di femore di iena delle caverne e un utensile di pietra e vi tracciò nove tacche sorprendentemente simili e più o meno parallele tra loro, come se dovessero significare qualcosa. Francesco d’Errico, archeologo all’Università di Bordeaux, sostenne nel 2018 che quell’osso di iena, scoperto negli anni settanta nel sito di Les Pradelles, nei pressi di Angoulême, sia insolito e non rappresenti un'opera d’arte, ma che codifichi informazioni numeriche. Se così fosse, significherebbe che gli esseri umani anatomicamente moderni non furono gli unici a sviluppare un sistema di numerazione: è possibile che avessero iniziato a farlo anche i Neanderthal. L’origine dei numeri è una nicchia ancora relativamente vuota nella ricerca scientifica: a volte i ricercatori non sono neanche d’accordo su che cosa siano i numeri, anche se uno studio del 2017 li ha definiti come "entità discrete con valori esatti rappresentate da simboli in forma di parole e segni". Oggi psicologi, antropologi ed esperti di scienze cognitive osservano le culture contemporanee per comprendere le differenze tra i sistemi numerici esistenti, definiti come i simboli che una società usa per contare e per maneggiare i numeri, sperando di trovare informazioni che possano gettare luce su alcuni dettagli delle loro origini. I loro studi hanno portato i ricercatori a formulare alcune delle prime ipotesi dettagliate sullo sviluppo preistorico dei sistemi numerici. Il progetto "Evolution of Cognitive Tools for Quantification" (QUANTA), sovvenzionato dal Consiglio europeo per la ricerca nel 2022, potrebbe anche chiarire se i sistemi di numerazione siano un’esclusiva degli esseri umani anatomicamente moderni, oppure se sia possibile che fossero presenti in forma primitiva anche nei Neanderthal.
Un tempo si pensava che l’essere umano fosse l’unica specie ad avere il senso della quantità, ma vari studi a partire dalla metà del XX secolo hanno rivelato che molti altri animali condividono questa capacità. Per esempio, pesci, api e pulcini appena nati sono capaci di riconoscere immediatamente fino a quattro elementi, una capacità definita "subitizing". Alcuni animali sono capaci anche di distinguere la differenza tra due grandi quantità, purché questa differenza sia abbastanza marcata. Gli animali che hanno questa capacità sono in grado, per esempio, di distinguere tra 10 oggetti e 20 oggetti, ma non tra 20 e 21. I bambini di sei mesi mostrano una capacità simile di valutare la quantità. Tutto ciò suggerisce che gli esseri umani abbiano una capacità innata di valutare i numeri. Questa capacità è emersa da processi evolutivi come la selezione naturale, perché apportava vantaggi adattativi. Altri ricercatori, invece, concordano sul fatto che molti animali possano avere una capacità innata di valutare le quantità, però sostengono che la percezione umana dei numeri è in genere molto più complessa e non può aver avuto origine da un processo come quello della selezione naturale. Al contrario, molti aspetti dei numeri, come le parole nella lingua parlata e i segni scritti usati per rappresentarli, devono essere il prodotto dell’evoluzione culturale, un processo in cui gli individui apprendono una nuova capacità (per esempio come usare un utensile) per imitazione o attraverso l’istruzione da parte di adulti. Il problema è ancora molto controverso, e lo studio di D’Errico sull’osso di Les Pradelles potrebbe contribuire a gettare luce sul modo in cui i numeri presero forma nelle primissime fasi.
L’archeologo ha analizzato le nove tacche al microscopio e sostiene che sono talmente simili per forma, profondità e altri dettagli che sembrano essere state fatte con lo stesso utensile in pietra tenuto sempre nello stesso modo. Ciò spinge a ritenere che furono incise tutte dalla stessa persona in un’unica sessione, magari nel giro di qualche minuto o di qualche ora. Tuttavia D’Errico non ritiene che l'autore intendesse creare un motivo decorativo, perché le tacche non sono regolari. Per un raffronto ha analizzato le sette tacche su un osso di corvo risalente a 40.000 anni fa (alle 23.55.19) e scoperto in un sito in Crimea che fu abitato dai Neanderthal. L’analisi statistica dimostra che le tacche su quest’osso sono distanziate con una regolarità simile a quella che si ottiene quando si dà un osso dello stesso tipo a volontari moderni e si chiede loro di incidere tacche a distanza regolare. La stessa analisi dimostra però che le tacche incise sull’osso di Les Pradelles non presentano la stessa regolarità. Questa osservazione, unita al fatto che tutte le tacche erano state incise in una sola sessione, ha portato D’Errico a ritenere che l’osso potesse avere un uso puramente funzionale, come registrazione di informazioni numeriche.
L’osso di Les Pradelles non è una scoperta isolata. Per esempio, durante gli scavi alla Border Cave, in Sudafrica, gli archeologi hanno scoperto un perone di babbuino risalente a circa 42.000 anni fa (alle 23.55.06), anch’esso segnato con 29 tacche. D’Errico sospetta che gli esseri umani anatomicamente moderni che all’epoca vivevano là lo usassero per registrare informazioni numeriche. In questo caso l’analisi delle tacche al microscopio suggerisce che siano state intagliate con quattro attrezzi diversi e quindi rappresentino quattro conteggi separati, che secondo l’archeologo sarebbero avvenuti in quattro momenti diversi. Inoltre D’Errico afferma che le scoperte fatte dal 2000 in poi dimostrano che gli esseri umani antichi iniziarono a produrre incisioni astratte, che suggeriscono la presenza di capacità cognitive complesse, centinaia di migliaia di anni prima di quanto si ritenesse in precedenza.
Alla luce di queste scoperte l’archeologo ha elaborato uno scenario per spiegare come alcuni sistemi numerici siano potuti nascere proprio nell’atto della produzione di questi manufatti. Tutto secondo lui avvenne per caso, quando i primi ominidi lasciarono accidentalmente dei segni sulle ossa degli animali che macellavano. In seguito fecero un salto cognitivo quando si accorsero che potevano incidere deliberatamente le ossa per creare disegni astratti. Più tardi, in un momento non meglio definito, le singole incisioni iniziarono ad essere rivestite di significato, e alcune poterono iniziare a codificare informazioni numeriche. L’osso di iena di Les Pradelles è forse il più antico esempio noto di questo tipo di segni, sostiene D’Errico, secondo il quale ulteriori salti cognitivi portarono infine da quelle tacche all’invenzione di segni per i numeri come 1, 2 e 3. D’Errico stesso riconosce che ci sono lacune in questo scenario: non è chiaro quali fattori culturali o sociali possano aver incoraggiato gli antichi ominidi a iniziare a creare deliberatamente incisioni su ossa o altri manufatti o, più tardi, a sfruttare quei segni per registrare informazioni numeriche. Karenleigh Overmann, archeologa cognitiva all’Università del Colorado a Colorado Springs, sottolinea queste lacune citando l’esempio dei cosiddetti "message stick" ("bastoni del messaggio") usati dagli Aborigeni australiani. Questi bastoni, di solito formati da pezzi di legno piatti o cilindrici, sono decorati con tacche che possono sembrare la codifica di un’informazione numerica, ma che di solito non lo sono, e servono invece da promemoria visivo per aiutare il messaggero a non dimenticare i dettagli del messaggio. Il progetto QUANTA userà dati provenienti da antropologia, scienze cognitive, linguistica e archeologia proprio per comprendere meglio i fattori sociali all'origine dei numeri cercati da D'Errico (che è uno dei suoi quattro ricercatori principali).
Overmann ha sviluppato una propria ipotesi per spiegare la nascita dei sistemi numerici nella preistoria, e in questo è stata aiutata dal fatto che nel mondo sono ancora in uso moltissimi sistemi diversi. Per esempio, i linguisti Claire Bowern e Jason Zentz della Yale University a New Haven, in Connecticut, hanno riferito in un’indagine pubblicata nel 2012 che 139 lingue degli aborigeni australiani hanno numeri specifici che arrivano fino al massimo a "tre" o "quattro". Alcune di quelle lingue usano quantificatori naturali come "diversi" o "molti" per indicare valori al di sopra di tale soglia. Esiste persino una tribù, il popolo Pirahã nell’Amazzonia brasiliana, di cui si dice che non usi i numeri in alcuna forma. Eppure non c’è alcuna carenza di capacità intellettuali nelle società che usano sistemi numerici relativamente semplici! Però l’archeologa si è chiesta se quelle società possano darci indicazioni sulle pressioni sociali che favoriscono lo sviluppo di sistemi numerici più complessi. In uno studio del 2013, Overmann ha analizzato dati antropologici relativi a 33 società di cacciatori-raccoglitori attualmente esistenti nel mondo. Ha scoperto che le comunità che usavano sistemi numerici semplici, che non andavano molto oltre il "quattro", spesso avevano pochi beni materiali, quali armi, utensili o gioielli, mentre le società con sistemi più complessi avevano spesso una maggiore abbondanza di beni. Insomma, nelle società che usavano sistemi complessi, c’erano indizi di come essi si fossero sviluppati. In particolare Overmann ha notato che spesso quelle società usavano sistemi quinari (in base cinque), decimali o vigesimali (in base 20). Questo suggerisce che molti sistemi numerici si siano sviluppati a partire da una fase in cui si contava sulle dita. Secondo la cosiddetta teoria del Material Engagement (MET), la mente si estende al di là del cervello e raggiunge gli oggetti, per esempio gli utensili o anche le dita di una persona. Questa estensione permette alle idee di essere realizzate in forma fisica; così, nel caso della capacità di contare, la concettualizzazione mentale dei numeri potrebbe includere le dita. Ciò rende più tangibili i numeri e più facili le operazioni di addizione e sottrazione. Ma allora, un manufatto come un bastone su cui si segna il conteggio di qualcosa diventa anche un’estensione della mente, e l’atto con cui si incidono le tacche del conteggio sul bastone aiuta ad ancorare e stabilizzare i numeri quando qualcuno conta. Questi supporti furono forse cruciali nel processo con cui gli esseri umani iniziarono a contare fino a grandi numeri.
Alla fine, afferma Overmann, alcune società superarono l’uso dei bastoni di conteggio. Ciò avvenne per la prima volta in Mesopotamia più o meno nello stesso periodo in cui in quella zona sorsero le prime città, le quali crearono un bisogno ancora maggiore di numeri che aiutassero a tenere il conto delle risorse e delle persone. Le prove archeologiche suggeriscono che 5500 anni fa (alle 23.59.21) alcuni abitanti della Mesopotamia abbiano iniziato a usare piccoli oggetti d’argilla come ausilio per facilitare i conteggi. Anche questi oggetti sarebbero stati estensioni della mente, e avrebbero favorito l’emergere di nuove proprietà numeriche. In particolare, le forme degli oggetti iniziarono a rappresentare valori diversi: 10 piccoli coni equivalevano a una sfera, sei sfere equivalevano a un cono grande. L’esistenza dei coni grandi, ciascuno dei quali equivaleva a 60 coni piccoli, permetteva agli abitanti della Mesopotamia di contare fino alle migliaia usando relativamente pochi oggetti. Il progetto QUANTA intende raccogliere e analizzare grandi quantità di dati a proposito dei sistemi numerici di tutto il mondo allo scopo di mettere alla prova l’ipotesi di Overmann secondo cui le parti del corpo e i manufatti possono aver aiutato le società a sviluppare sistemi numerici che alla fine permisero di contare fino alle migliaia e anche oltre. Però Overmann riconosce che c’è un punto su cui la sua ipotesi non dice nulla: in quale momento della preistoria le società umane iniziarono a sviluppare sistemi numerici? Un aiuto in questo senso può venire dalla linguistica. Un insieme di dati suggerisce che i nomi dei numeri possano avere una storia che risale almeno a decine di migliaia di anni fa. Il biologo evolutivo Mark Pagel dell’Università di Reading, nel Regno Unito, e i suoi colleghi studiano da anni la storia delle parole nelle famiglie linguistiche esistenti con l’aiuto di strumenti computazionali che inizialmente avevano sviluppato per studiare l’evoluzione biologica. Di base, le parole sono considerate come entità che rimangono stabili oppure vengono superate e sostituite via via che le lingue si diffondono e si differenziano. Per esempio, la parola inglese "water" e quella tedesca "wasser" sono chiaramente imparentate, il che significa che derivano da una stessa parola antica; questo è un esempio di stabilità. Invece la parola inglese "hand" è diversa dalla parola italiana "mano", segno che a un certo punto, in passato, c’è stata una sostituzione. Calcolando quanto spesso avvengono queste sostituzioni sul lungo periodo, è possibile stimare i tassi di cambiamento e desumere l’età delle parole. Usando questo metodo, Pagel ha dimostrato che i nomi dei numeri con valori bassi (da "uno" a "cinque") sono tra gli elementi più stabili delle lingue orali: cambiano così raramente nelle famiglie linguistiche che a quanto pare sono rimasti stabili per un tempo che va da 10.000 a 100.000 anni! Speriamo che il progetto QUANTA possa quanto prima dirci di più su questo affascinante dilemma.
Il più antico materasso
Dormiamo su un materasso da almeno 77 mila anni: lo testimonia il più antico giaciglio mai ritrovato finora, a Sibudu, in Sudafrica, realizzato con steli, giunchi e foglie compattati per ottenere un materasso morbido e spesso. Intrecciato o no, non si sa, ma i vegetali per realizzarlo sono stati scelti in modo accurato: si è preferito usare piante in grado di rilasciare sostanze insetticide e insetto-repellenti, come la Cryptocara woodii. « Questo indica la conoscenza delle proprietà delle piante intorno al rifugio », ha spiegato Diego Angelucci, archeologo dell'Università di Trento, « e la volontà di tenere lontano le zanzare, soprattutto quelle portatrici di malaria Le analisi del luogo dimostrano che il sito era domestico, non un riparo occasionale. L'ambiente era diviso in aree adibite alle varie attività: la zona notte, la zona lavoro e la zona discarica. La scoperta ci fa capire che il comportamento e l'organizzazione della vita quotidiana erano simili a quelle dell'uomo moderno ».
A scoprire il materasso preistorico è stato un team internazionale di ricercatori, guidati dalla professoressa Lyn Wadley della University of Witwatersrand a Johannesburg, che lavora nel sito sudafricano dal 1998 e qui ha trovato quindici strati di giacigli, compresi in un arco di tempo tra 77 mila e 38 mila anni fa (dalle 23.51.00 alle 23.55.34). La casa non era una reggia, ma il senso di pulizia degli Homo sapiens che abitavano quel sito era pari al nostro. A partire da circa 73 mila anni fa (23.51.28), gli abitanti di Sibudu hanno cominciato a bruciare i materassi vecchi insieme alla spazzatura, per liberarsi da insetti e parassiti. Ne deduciamo la preoccupazione di tenere in ordine il focolare, considerato un bene prezioso per la comunità in via di sviluppo. La crescita della popolazione diventa evidente intorno ai 58 mila anni fa (23.53.14), come dimostra l'aumento del numero di giacigli.
La Wadley ha anche trovato le prove che a Sibudu l'uomo ha iniziato a costruire arco e frecce rudimentali e a inventare ingegnosi sistemi di trappole per la caccia. Per ricavare le loro informazioni, i ricercatori hanno usato due tecniche sofisticate e costose: lo studio archeobotanico al microscopio e la tecnica micromorfologica dei sedimenti al microscopio in strato sottile. Si tratta di archeologia moderna e tecnologica, necessaria per saperne di più sul nostro passato.
Il primo giaciglio in versione Fred Flintstone! |
Le più antiche frecce conosciute
Gli archeologi hanno a lungo dibattuto su quando gli uomini iniziarono a cacciare grosse prede con lance e frecce, grazie alle quali divenne possibile praticare la caccia di bufali e altra selvaggina pericolosa a distanza di sicurezza, con meno rischi di beccarsi un'incornata. Di solito i ricercatori utilizzano metodi indiretti per studiare l'uso di proiettili, come l'analisi delle fratture sulle punte di pietra. Stando a queste ricerche, i primi esseri umani adottarono le lance già 500.000 anni fa in Africa. Ma questo tipo di prove lascia spazio a dubbi e sono spesso contestate, poiché vi è poca differenza tra i segni dei proiettili e segni di macellazione. L'archeologo Corey O'Driscoll della South East Archaeology di Canberra ha invece usato un altro metodo: ha realizzato riproduzioni in selce di punte di lancia e frecce del Paleolitico africano e, nel corso di 15 esperimenti, li ha scagliati contro carcasse di agnello e mucca. Dopo aver fatto bollire o seppellire le carcasse per rimuoverne la carne, O'Driscoll ha trovato 758 ferite sulle ossa, che ha esaminato al microscopio e paragonati ai 201 segni da taglio di una collezione di ossa animali macellate. Ha così scoperto una notevole differenza tra i segni di macellazione e i segni dei proiettili. O'Driscoll ha inoltre osservato che la maggior parte dei segni era situata su vertebre o costole, e che il 17 % conteneva microscopici frammenti di selce a causa dell'elevata velocità di impatto. Per contro, nessuno dei segni da macellazione conteneva tali frammenti. Utilizzando questi criteri, O'Driscoll e la sua collega Jessica Thompson hanno esaminato una costola e due vertebre provenienti dal sito di Pinnacle Point in Sudafrica, e su tutte hanno identificato segni di proiettili e frammenti di pietra. Due dei reperti sono databili tra i 98 e i 91 mila anni fa (tra le 23.48.33 e le 23.49.22), il che li rende la più antica testimonianza diretta dell'uso di proiettili da parte dei cacciatori preistorici.
E non basta. Grazie ad un paziente lavoro di scavi, dalla caverna di Sibudu, in Sudafrica, sono riemersi alcuni frammenti di pietra appuntita, datati a 64 mila anni fa (alle 23.52.31), sui quali sono state rilevate tracce di sangue e materiale osseo. Gli scopritori non hanno dubbi: essi rappresentano le punte di frecce più antiche mai scoperte finora. Le ammaccature presenti sui reperti indicano che le punte venivano scagliate sul bersaglio come proiettili, e non usate a mano come coltelli; alcune presentano poi chiare tracce di una sostanza collosa, forse una resina che serviva a fissarle a bastoncini di legno. Appare evidente che a scoccarle furono alcuni nostri antenati dotati di particolare intelligenza. Cacciare con arco e frecce, infatti, richiede notevoli abilità assai diversificate: saper raccogliere e lavorare materiali diversi, programmare un percorso di caccia, tendere un'imboscata, comunicare ai compagni di caccia la propria posizione: tutte qualità che i costruttori di questi dardi probabilmente possedevano già oltre 600 secoli fa. La scoperta ci costringe a retrodatare la nascita dei primi arcieri di almeno 20.000 anni. Restano assolutamente misteriosi i motivi che condussero quei lontani abitanti del Sudafrica ad ideare questo nuovo tipo di caccia, assai più moderno del semplice corpo a corpo con le prede. Degna di citazione è la poetica spiegazione escogitata dal filosofo spagnolo José Ortega y Gasset (1883-1955): l'uomo preistorico vedeva le prede sfuggirgli rapidissime e, pensando che un uccello avrebbe potuto raggiungerle, prese un bastone, vi mise da una parte un becco e dall'altra delle piume, e così inventò la freccia. Forse non è andata così, ma è affascinante pensare che i nostri antenati di 64 mila anni fa possedessero già una tale capacità di astrazione.
I primi Homo sapiens nel Sudest asiatico
L’arrivo di Homo sapiens nel Sudest asiatico è uno dei nodi più difficili da sciogliere per i paleoantropologi attuali. Ma nel 2023 un gruppo internazionale di ricercatori guidato da Fabrice Demeter dell’Università di Copenaghen e da Laura Shackelford dell’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign ha trovato nella grotta di Tam Pà Ling, nel nord del Laos, le più antiche prove della presenza umana in questo angolo di mondo. Si tratta di un osso cranico parziale e di un frammento di tibia attributi a Homo sapiens e datati fra gli 86.000 e i 68.000 anni fa (tra le 23.49.57 e le 23.52.03). Precedenti analisi genetiche avevano indicato una migrazione dall’Africa intorno a 50.000 anni fa (alle 23.54.09). A rendere difficile la ricostruzione dei primi viaggi umani dall’Africa verso l’Australia, passando per il Sudest asiatico, sono principalmente le condizioni ambientali di questa regione: l'ambiente caldo e umido del Sudest asiatico non favorisce il processo di fossilizzazione. Gli scheletri si decompongono troppo rapidamente per essere coperti da sedimento e mineralizzarsi come fossili: le testimonianze della prima presenza umana in Asia sud-orientale sono quindi limitate. Ciò che sapevamo finora era legato ad alcune prove fossili provenienti da Laos, Indonesia e Australia, datate fra i 73.000 e i 46.000 anni fa (tra le 23.51.49 e le 23.54.38), che insieme fornivano un quadro poco chiaro della migrazione verso oriente di Homo sapiens. I reperti che giungono da Tam Pà Ling aiutano però a gettare un po' di luce su questo enigma. È un sito unico dove le ossa umane, e animali sono state trasportate all’interno della grotta da inondazioni periodiche e rapidamente coperte dall’accumulo costante di sedimento, e ciò ha permesso ai ricercatori di datare con precisione gli strati di sedimento del sito e fornire un contesto affidabile ai reperti presenti, che qui riescono a fossilizzarsi con maggiore facilità.
Combinando diversi metodi di datazione, come la datazione al radiocarbonio, la datazione all’uranio e la datazione a luminescenza, che stima per quanto tempo alcuni minerali di un reperto sono stati esposti alla luce solare per l’ultima volta, i ricercatori hanno datato l’età dell’osso frontale parziale e del frammento di tibia scoperti negli strati profondi del sito. I risultati indicano che i resti dell’osso cranico risalirebbero a circa 68.000 anni fa (alle 23.52.03), confermando la presenza di H. sapiens nella zona intorno ai 70.000 anni fa (alle 23.51.49). Il frammento di tibia, datato fra gli 86.000 e i 77.000 anni fa anni fa (tra 23.49.57 e le 23.51.00), estenderebbero ulteriormente il periodo di presenza umana nel Sudest asiatico. Ulteriori informazioni emergono poi dalla morfologia dell’osso cranico parziale: usando la modellizzazione tridimensionale, i ricercatori hanno confrontato il reperto con alcuni fossili di ominidi estinti, come Homo erectus, Neanderthal e Denisova, e umani moderni vissuti in periodi diversi. Il frammento di cranio appartiene chiaramente a Homo sapiens. È gracile e, come avviene per altri fossili di Homo sapiens dell’Africa datati in epoca simile, non presenta la fronte sfuggente e il toro sopraorbitale sporgente tipico delle specie arcaiche. Sono emerse inoltre differenze s con gli altri fossili di Homo sapiens precedentemente scoperti nella grotta, datati fra i 70.000 e i 46.000 anni fa (tra le 23.51.28 e le 23.54.38), che appartengono a una popolazione più robusta. Secondo gli autori, l’insieme di fossili provenienti da Tam Pa Ling apparterrebbe a due popolazioni umane distinte, giunte nel Sudest asiatico con ondate migratorie diverse. Le prove genomiche, precedentemente raccolte, suggeriscono che a diffondersi nella regione sarebbe stato il gruppo umano arrivato più tardi. I risultati suffragano quindi la teoria delle ondate migratorie multiple nell’area e indicano un arrivo precoce, e infruttuoso, della nostra specie nel Sudest asiatico. Quando i primi esseri umani arrivarono nel Sudest asiatico erano contemporanei di altre specie come Homo erectus, all’epoca ancora presente in Indonesia; grazie agli studi sul DNA presente nella grotta di Tam Pà Ling si potrà ottenere un quadro più preciso delle specie umane contemporaneamente presenti in quell'area e valutare possibili incontri ed incroci fra loro.
Il primo amo
La pesca all'amo è uno dei passatempi più amati per tante persone del nostro tempo, ma a quanto pare già nella preistoria gli uomini si dedicavano a questa attività che richiede molta pazienza oltre che parecchia perizia. Sue O' Connor, archeologa dell'Australian National University di Canberra ha infatti dimostrato che i nostri antenati avevano competenze marittime e tecniche di pesca incredibilmente sofisticate già 42 mila anni fa (ore 23.55.06), antiche quasi il doppio di quanto finora creduto. La prova consiste in una serie di ami trovati durante una campagna di scavi nella grotta Jerimalai isull'isola di Timor Est, campagna che tra l'altro ha avuto il merito di dimostrare come l'uomo del Paleolitico fosse già in grado di affrontare le traversate oceaniche necessarie per raggiungere l'Australia. « Il sito che abbiamo studiato conteneva più di 38 mila lische di pesce databili a circa 42 mila anni fa », ha spiegato la O'Connor. « I primi esseri umani moderni avevano competenze marittime incredibilmente avanzate. Erano esperti nel catturare vari tipi di pesce, difficili da pescare anche oggi, come ad esempio il tonno ». Tra i reperti è stato trovato anche un grosso amo, il quale è considerato il più antico del mondo, ricavato da una conchiglia e databile tra i 23 mila e i 16 mila anni fa. « Pensiamo si tratti del primo esempio conosciuto di amo da pesca. Tuttavia, non siamo ancora riusciti a comprendere in che modo gli uomini del Paleolitico erano in grado di catturare i pesci in rapido movimento nelle acque profonde dell'oceano ». Secondo gli archeologi, la comprensione dei metodi di pesca potrebbe far luce anche su come i primi abitanti dell'Australia abbiano raggiunto il continente. Abbiamo ritenuto per lungo tempo che 50 mila anni fa gli antichi colonizzatori dell'Australia siano stati in grado di percorrere centinaia di chilometri in mare aperto per raggiungere l'Australia. Siamo certi che abbiano usato barche perchè l'Australia è sempre stata separata dal sudest asiatico, fin dalla comparsa dell'uomo. Tuttavia, quando osserviamo i natanti che gli australiani utilizzavano al momento del primo contatto con gli europei nel XVII secolo, notiamo che si tratta di imbarcazioni molto semplici, come zattere e canoe. Come abbiano fatto quei remoti antenati a sviluppare mezzi per navigare nell'oceano in un'epoca così precoce è sempre apparso sconcertante. I nuovi reperti provenienti dalla grotta di Jerimalai potrebbero darci nuovi elementi per risolvere il puzzle.
Quando i poli magnetici si capovolsero
Nel 2015 un team internazionale guidato dai ricercatori del Dipartimento di Chimica dell'Università di Firenze Rita Traversi, Roberto Udisti, Mirko Severi e Silvia Becagli ha trovato le tracce di un evento che risale a 41.000 anni fa (alle 23.55.13), il capovolgimento del campo magnetico terrestre avvenuto durante l'ultima glaciazione, registrato nel ghiaccio estratto a grandissime profondità in Antartide. La ricerca è stata realizzata nell'ambito del progetto internazionale "Epica - European Project for Ice Coring in Antarctica". « Gli indicatori utilizzati fino a oggi per studiare il flusso dei raggi cosmici sulla Terra in epoche passate, i radionuclidi cosmogenici 10Be e 14C, hanno dei limiti », ha spiegato la Traversi, ricercatrice di chimica analitica al Dipartimento di Chimica Ugo Schiff, « e la comunità scientifica si occupa da tempo di individuare nuovi marker ». I ricercatori fiorentini, in collaborazione con i colleghi Sami Solanki del Max-Planck Institute for Solar System Research di Göttingen e Ilya Usoskin del Dipartimento di Fisica dell'Università di Oulu in Finlandia, hanno verificato la sensibilità delle stratigrafie di nitrati al flusso di raggi cosmici, dimostrando la loro efficacia come indicatori di un particolare evento, noto come "Laschamp": una forte anomalia nel profilo di concentrazione di 10Be occorsa circa 41.000 anni fa e dovuta a una rilevante escursione del campo magnetico terrestre. La carota di ghiaccio, estratta nella base di ricerca italo-francese Concordia sul plateau antartico, con i suoi 3.233 metri di lunghezza, copre il più ampio arco temporale mai ottenuto da un tale archivio naturale, quasi un milione di anni, che comprende gli ultimi nove cicli di glaciazioni, e ha consentito di ottenere informazioni paleoclimatiche fondamentali sulla durata e la tempistica dei periodi glaciali e interglaciali.
L'evento ha prodotto un indebolimento dello schermo della Terra nei confronti dei raggi cosmici, che sono penetrati all'interno della sua atmosfera, come testimonia la presenza nel ghiaccio degli isotopi cosmogenici, come il 10Be. « Laschamp è stato l'evento geomagnetico più intenso degli ultimi 50.000 anni », ha spiegato la Traversi, « portando a un'inversione di polarità del campo magnetico terrestre, ed è stato osservato, fin dagli anni '80, in entrambi gli emisferi in numerosi archivi climatici, come rocce vulcaniche, carote di sedimenti marini e carote di ghiaccio artiche e antartiche. I nitrati presenti nella carota di ghiaccio di Epica hanno dimostrato una sensibilità al flusso dei raggi cosmici paragonabile a quella del 10Be, durante il Laschamp, e potranno quindi essere utilizzati come marker anche per ricostruire le passate variazioni dell'attività solare ».
Il primo ritratto
Si trova in una grotta sulla costa orientale del Borneo la più antica pittura rupestre figurativa conosciuta, e raffigura un animale non chiaramente identificato, ma probabilmente un bovino. La pittura risale a circa 40.000 anni fa (alle 23.55.19), ossia allo stesso periodo delle più antiche statuette in avorio di mammut rinvenute nelle grotte del Giura Svevo, in Germania, di fattura attribuibile a umani moderni. A stabilirlo è stato un gruppo di ricercatori della Griffith University, a Brisbane, in Australia, in collaborazione con studiosi del Centro nazionale di ricerca archeologica di Jakarta, in Indonesia. Le pitture rupestri in assoluto più antiche note risalgono a circa 65.000 anni fa e furono eseguite dai Neanderthal; tuttavia, si tratta di serie di linee e punti variamente disposti. La pittura figurativa, con la rappresentazione di animali, persone o altri oggetti, è emersa solo più tardi: finora le più antiche pitture di questo tipo note erano quelle della grotta di Chauvet, nella Francia meridionale (da 37.000 a 33.500 anni fa) e quelle trovate nell'isola di Sulawesi, in Indonesia (35.400 anni fa circa).
Dalla metà degli anni novanta, nelle grotte della penisola di Sangkulirang-Mangkalihat, una regione di difficile accesso della provincia indonesiana di Kalimantan, è stata scoperta una ricchissima serie di pitture rupestri, costituite da figure geometriche, impronte di mani in negativo, pitture di animali (principalmente bovini selvatici) e, infine, figure umane e rappresentazioni di barche. Tuttavia, la datazione di queste opere era risultata finora molto difficile. Ora Maxime Aubert e colleghi sono riusciti a stabilire l'età di una serie di pitture in quattro grotte di Sangkulirang-Mangkalihat analizzando con la tecnica di datazione uranio-torio le piccole concrezioni calcaree che si sono formate sopra ai disegni. Nella grotta di Lubang Jeriji Saléh, che contiene 20 immagini di animali e umani e circa 300 impronte di mani, hanno in particolare individuato una raffigurazione incompleta di un animale databile ad almeno 40.000 anni fa, due immagini di banteng (Bos javanicus lowi) di 37.200 anni fa e diverse impronte di mani in negativo di datazione più incerta e varia, ma comunque compresa fra un minimo di 23.600 anni fa (l'età delle concrezioni successive alla pittura) e 51.800 anni fa (l'età del substrato).
La rappresentazione di figure antropomorfe compare solo in un'epoca più tarda, a partire da circa 20.000 anni fa, e corrisponde anche a un cambiamento di stile, sia nei tratti sia nei colori usati che da rosso-ocra (a base di bauxite) diventano viola-nero (a base di ematite). Poiché l'arcipelago indonesiano e l'Australia hanno iniziato a essere popolati da umani moderni già a partire da 60-70.000 anni fa, ma la pittura figurativa ha fatto la sua apparizione più o meno in contemporanea alla comparsa in Europa e Indonesia, in un lasso di tempo compreso fra i 52.000 e i 40.000 anni fa, osservano i ricercatori, diventa naturale chiedersi se questa coincidenza possa essere legata a qualche flusso migratorio di nuove popolazioni finora non rilevato. E la stessa domanda si può porre per il successivo cambiamento stilistico.
Del resto, che l'Indonesia fosse un fulcro artistico preistorico tutt'altro che marginale lo dimostra la scoperta, risalente al 2017, di una scena di caccia disegnata sulle pareti di una grotta della regione carsica di Maros-Pangkep, nel sito di Leang Bulu' Sipong 4 (isola di Sulawesi). Le analisi di datazione compiute sui depositi minerali cresciuti sopra il dipinto suggeriscono che questo sia stato fatto in una finestra temporale compresa tra i 44.000 e i 35.000 anni fa circa (tra le 23.54.52 e le 23.55.55). A colpire i ricercatori, guidati dall'archeologo Maxime Aubert della Griffith University (Australia), non sono stati solo i dettagli minuziosi della scena di caccia con protagonisti cinghiali e piccoli bufali locali (come l'anoa) dipinti in un rosso scuro, ma soprattutto le sembianze dei cacciatori: corpi dalle sembianze umane, ma con teste e altre parti del corpo simili a quelli di uccelli, rettili, e altre specie endemiche di Sulawesi. Queste figure in parte umane e in parte con le sembianze di animali vengono chiamate teriantropi e sono tradizionalmente considerate rappresentazioni complesse, evolutesi solo in un secondo momento dopo la nascita dell'arte rupestre e precedute da disegni astratti, più semplici. E invece no: tutte le caratteristiche di questa arte evoluta, ha spiegato Aubert, si ritrovano in queste scene dipinte a Sulawesi, e potrebbero nascondere un significato religioso. In Europa la più antica immagine di un teriantrope è l'uomo-leone tedesco, una figura umana con la testa di leone risalente a 40 mila anni fa (alle 23.55.19). Averli scovati a Sulawesi suggerisce che l'Indonesia possa non solo essere stata una culla artistica fondamentale nella preistoria, ma anche un nodo centrale dell'evoluzione del pensiero religioso moderno.
L'Abominevole Orso delle Nevi
Lo scienziato britannico Bryan Sykes, professore di genetica dell'Università di Oxford, ha fatto molto parlare di sé sulla stampa nell'ottobre 2013, affermando di aver risolto il mistero dello Yeti, l'Abominevole Uomo delle Nevi (il cui nome deriva dal tibetano yeh-teh, "quella cosa là"). A suo parere si tratterebbe di un discendente di un orso polare vissuto alla fine del Pleistocene. Per giungere a quest'affermazione, egli ha analizzato il DNA dei peli di due animali sconosciuti trovati sull'Himalaya e lo ha confrontato con un database di genomi animali. Uno dei peli analizzati è stato prelevato da un presunta mummia dello Yeti trovata nella regione indiana di Ladakh da un alpinista francese negli anni settanta, l'altro era un pelo singolo trovato all'inizio degli anni duemila in Bhutan. Lo scienziato ha scoperto che i campioni hanno la stessa impronta genetica della mandibola di un antico orso polare trovata in Norvegia e risalente ad almeno 40.000 anni fa (ore 23.55.19).
I test dimostrerebbero che le creature non erano legate ai moderni orsi bruni himalayani, ma che invece discendevano direttamente dall'orso preistorico. « Potrebbe essere una nuova specie, oppure potrebbe essere un ibrido tra orsi polari e orsi bruni », ha spiegato l'esperto, aggiungendo: « la prossima cosa da fare è andare e trovarne uno ». Secondo lui, il fatto che i due peli sono stati trovati così recentemente e in luoghi così distanti suggerisce che i membri della specie siano ancora vivi. Secondo Tom Gilbert, esperto in antichi genomi del Museo della Storia Nazionale della Danimarca, non coinvolto nella ricerca, le conclusioni del team dello scienziato britannico sono « una spiegazione ragionevole » degli avvistamenti dello Yeti sull'Himalaya. La notizia non ha sorpreso il famoso alpinista altoatesino Reinhold Messner (1944-) che ha dichiarato: « Lo yeti è un orso? È che novità è? Lo sto dicendo da decenni ». Messner ricorda di aver studiato il tema per dieci anni e di aver anche pubblicato un libro. Pare che il Dalai Lama abbia detto a Messner: « lo Yeti e l'Orso delle Nevi sono la stessa creatura: non capisco cosa si immaginano gli occidentali pensando allo Yeti. »
Che Sykes e Messner hanno ragione lo ha confermato nel 2017 uno studio condotto da ricercatori dell'Università di Buffalo e della Nanyang Technological University a Singapore, che hanno analizzato il DNA ricavato da campioni del presunto yeti provenienti da musei, monasteri e collezioni private. Charlotte Lindqvist e colleghi hanno analizzato nove reperti, tra cui ossa, denti, pelle, peli e campioni fecali, raccolti nell'Himalaya e nell'altopiano tibetano e tradizionalmente attribuiti allo yeti. Uno di questi si è rivelato appartenere da un cane, mentre gli altri otto provenivano da orsi neri asiatici, orsi bruni tibetani e orsi bruni dell'Himalaya. Per operare i confronti genetici i ricercatori hanno anche analizzato il genoma mitocondriale raccolto da 23 orsi asiatici e sfruttato le banche dati con i genomi degli orsi delle altre parti del mondo. Da questa analisi è risultato che, mentre gli orsi bruni tibetani hanno una stretta parentela con gli orsi nordamericani ed eurasiatici, gli orsi bruni dell'Himalaya appartengono a un lignaggio nettamente distinto, separatosi dagli altri circa 650.000 anni fa (ore 22.44.05), durante le glaciazioni. Secondo gli scienziati l'espansione dei ghiacciai e la geografia montuosa della regione devono avere separato gli orsi dell'Himalaya dagli altri, portandoli a un lungo periodo di isolamento e a un percorso evolutivo indipendente. Raro e sfuggente, si calcola che attualmente ne esista una trentina di esemplari in tutto. E un altro mistero è stato probabilmente risolto.
Il supercanguro
Un canguro enorme, alto più di due metri, che non salta ma prevalentemente cammina, soprattutto negli spostamenti più lenti: così appariva l'antenato dell'attuale canguro australiano (che a sua volta comprende 60 specie della famiglia dei macropodidi), che ha popolato la Terra fino a circa 40 mila anni fa (ore 23.55.19) e apparteneva alla sottofamiglia delle Sthenurinae, riconducibile al Procoptodon goliah, la sottospecie di taglia più grossa. Questo marsupiale bipede era uno dei più grandi animali del suo ecosistema, tanto che nella tradizione orale degli aborigeni si racconta di una guerra tra uomini e canguri imponenti e si parla anche dello Yamuti, creatura mitologica che viene rappresentata appunto come un canguro colossale. Quel parente extralarge dell'attuale marsupiale saltellante fu descritto per la prima volta dal paleontologo britannico Richard Owen (1804-1892) alla fine del XIX secolo, che parlò di esso come di un canguro di taglia molto grossa, all'incirca tra volte le dimensioni dell'attuale marsupiale, con un'altezza imponente che sfiorava negli esemplari più grandi i due metri e un peso che si aggirava intorno ai 240 chili. Nel 2014 poi alcuni studiosi della Brown University hanno analizzato le ossa e la colonna vertebrale (molto più rigida) dei suoi fossili, e sono arrivati alla conclusione che questi animali non fossero in grado di saltare, sia per la mole che per la loro conformazione, rivelando un'anatomia ben diversa da quella dell'attuale canguro: secondo loro esso era bipede a tutti gli effetti e avanzava muovendo una gamba alla volta, con un movimento straordinariamente simile a quello umano.
Un tronco verticale, fianchi e ginocchia grandi, caviglie stabili: tutto nella morfologia di questo canguro suggeriva l'idoneità a muoversi in posizione eretta, mentre i saltelli potevano essere effettuati solo per movimenti ridotti. Le zampe posteriori erano fornite di un solo grande dito, simile allo zoccolo di un cavallo, e grazie a questa caratteristica il grande canguro si muoveva velocemente attraverso il territorio australiano, cercando fogliame ed erba da mangiare. Cosa sia accaduto alla megafauna australiana resta uno dei misteri paleontologici ancora irrisolti; c'è chi parla di cambiamenti climatici e chi, come il paleontologo australiano Tim Flannery (1956-), della Macquarie University, ipotizza che l'abitudine dell'uomo a cacciare con il fuoco portò alla deforestazione e a un drammatico sconvolgimento del ciclo idrogeologico.
Il supercanguro (disegno di Brian Regal) |
Occorre aggiungere che invece la più antica pittura rupestre australiana, la quale ovviamente raffigura proprio un canguro, risale a circa 17mila anni fa (alle 23.57.54), si trova nella regione del Kimberley, nella parte settentrionale dell'Australia occidentale, ed è stata datata con un espediente molto ingegnoso. Un gruppo di ricercatori guidato da Damien Finch dell'Università di Melbourne è riuscito a collocare nel tempo una serie di pitture aborigene datando con il metodo del radiocarbonio alcuni nidi di vespe cresciuti sopra e sotto le pitture. Esse appartengono al cosiddetto periodo naturalistico, caratterizzato da figure per lo più naturali appunto, come piante e animali, qualche stencil di mani e oggetti e raramente figure antropomorfe. Questa iconica immagine di canguro è visivamente simile alle pitture rupestri delle isole del Sud est asiatico vecchie di più di 40 mila anni, suggerendo il legame culturale e facendo pensare all'esistenza di arte rupestre ancora più antica in Australia, che attende solo di essere scoperta e studiata.
Quando dall'Europa tornammo in Africa
Secondo il modello paleoantropologico comunemente accettato, Homo sapiens è emerso in Africa circa 200.000 anni fa (alle ore 23.36.38) e si è poi diffuso in Eurasia in seguito a una migrazione avvenuta tra 70.000 e 50.000 anni fa (tra le 23.51.49 e le 23.54.09). Questa ipotesi è coerente con le prime registrazioni fossili euroasiatiche riferibili agli esseri umani moderni databili tra i 50.000 e i 45.000 anni fa (tra le 23.54.09 e le 23.54.45) e con alcune prove genetiche. Tuttavia a metà del 2016 un gruppo internazionale di ricerca guidato da Concepcion de la Rua, dell'Università dei Paesi Baschi a Leioa, in Spagna, avanza l'ipotesi che, contemporaneamente alla diffusione di Homo sapiens in tutta l'Europa e in Medio e Vicino Oriente, una consistente popolazione abbia fatto ritorno in Africa. La conclusione è stata tratta grazie all'analisi genetica effettuata sui resti dei denti di un esemplare di Homo sapiens scoperto nella grotta di Pestera Muierii, in Romania, risalente a circa 35.000 anni fa (ore 23.55.55). De la Rua e colleghi hanno studiato in particolare il DNA mitocondriale recuperato dal reperto, che codifica le informazioni genetiche necessarie per la sintesi di proteine coinvolte nella respirazione cellulare.
Il DNA mitocondriale, che si trova cioè negli organelli cellulari chiamati mitocondri ed è diverso da dal DNA che si trova nel nucleo della cellula, ha la particolarità di trasmettersi per via matrilineare. Questo significa che ogni individuo ha un DNA mitocondriale identico a quello della propria madre, se si eccettuano gli effetti di mutazioni casuali e di ricombinazioni genetiche interne. Un materiale genetico così stabile attraverso le generazioni è uno strumento fondamentale per i paleontologi perché permette di stabilire le parentele di diversi individui andando anche molto indietro nel tempo. Nel caso del fossile in questione, gli autori della ricerca hanno verificato che il suo DNA mitocondriale appartiene a un aplogruppo basale, cioè a una popolazione genetica che ha in comune un antico progenitore, di origine eurasiatica e non è stato mai osservato in alcun altro reperto umano, né antico né moderno. Da esso hanno però avuto origine le diverse varianti, chiamate aplotipi, che sono attualmente predominanti nell'Africa settentrionale. L'ipotesi dei ricercatori è dunque che si tratti di un individuo appartenente a una popolazione che attraversò l'Europa sudorientale per fare ritorno in Nord Africa, circa 45.000 anni fa (ore 23.54.45), cioè nella prima parte del Paleolitico superiore. Si tratta della prima prova sperimentale di questo ritorno in Africa del Paleolitico, di cui non sono state finora trovate tracce nel continente africano. Si attendono ulteriori conferme.
I nematodi criptobiotici
Nel 2018 alcuni scienziati hanno annunciato di aver scoperto e riportato in vita due tipi di nematodi microscopici trovati nel permafrost siberiano, risalenti a 46.000 fa (alle ore 23.54.38), in base alla datazione della materia vegetale trovata associata a questi organismi. Questi nematodi rappresentano una nuova specie, Panagrolaimus kolymaensis, dal nome del fiume Kolyma nella Siberia nordorientale, dove sono stati trovati. Sembra incredibile, ma secondo i loro scopritori questi vermi sono davvero sopravvissuti per 46.000 anni! Le specie di Panagrolaimus si trovano in tutto il mondo e sono note per la loro capacità di sopravvivere in ambienti che le espongono regolarmente al disseccamento o al congelamento; se questi vermi sono davvero così antichi come suggerisce il loro studio, sarebbero di gran lunga gli esempi più sorprendenti di ciò che gli scienziati chiamano criptobiosi, la capacità di un organismo di sospendere il proprio metabolismo in condizioni avverse! Il record precedente apparteneva ai rotiferi sopravvissuti nel ghiaccio per 24.000 anni. Alcuni scienziati sono naturalmente scettici sui risultati dello studio, suggerendo che i nematodi analizzati potessero derivare da una contaminazione moderna. Un modo per verificare le età dei vermi, non del permafrost circostante, sarebbe quello di campionare il suolo della zona e confermare che i nematodi in esso presenti rappresentano specie diverse da quelle trovate nel permafrost. Inoltre il meccanismo di congelamento testato dai ricercatori non sarebbe realistico perché prevede l'essiccazione dei nematodi prima di congelarli bruscamente: è più probabile che in natura le temperature si abbassino gradualmente mentre l'acqua rimane presente: poiché i nematodi hanno bisogno di acqua per essere attivi e riprodursi, sembra più probabile che siano stati congelati a contatto con l'acqua.
Questo studio include anche analisi genetiche, che però in questo caso sono impegnative perché Panagrolaimus kolymaensis è un organismo partenogenico, per cui le femmine della specie possono riprodursi senza un partner maschile, anche se in genere meno frequentemente. Inoltre i nematodi sono triploidi, cioè contengono tre copie di ciascun cromosoma; di solito i cromosomi sono a coppie, con la metà ereditata da ciascun genitore. Il tipo di analisi genetica usata dal gruppo di ricercatori richiede da 2000 a 4000 vermi, un numero banale per le più comuni specie da laboratorio, ma che è difficile da raggiungere quando si lavora con Panagrolaimus kolymaensis. Durante le analisi, i ricercatori hanno anche cercato i geni che si sa che Caenorhabditis elegans, un organismo modello usato nei laboratori di tutto il mondo, utilizza quando una forma particolare di quel verme, chiamata larva dauer, entra in dormienza nella criptobiosi. Era stato precedentemente dimostrato che queste larve dauer devono elaborare uno zucchero chiamato trealosio per sopravvivere al congelamento; nel nuovo studio, i biologi hanno scoperto che i geni necessari per questo processo sono presenti anche in Panagrolaimus kolymaensis. Questo kit di sopravvivenza insomma sarebbe lo stesso di 46.000 anni fa. Il tempo ci dirà chi ha ragione.
I primi montanari
Nel 2019 Bruno Glaser, della Martin Luther University Halle-Wittenberg di Halle, in Germania, ha annunciato di aver scoperto, studiando i resti preistorici delle Montagne di Bale, in Etiopia, che i nostri antenati si adattarono a vivere a 4000 metri di altitudine già 45.000 anni fa, nel pieno dell'ultima glaciazione. Ciò è in netto contrasto con le valutazioni fatte prima, che ritenevano più probabile che gli insediamenti paleolitici fossero concentrati a basse quote: la scoperta rivela perciò una notevole capacità di adattamento fisico e culturale alle condizioni ambientali avverse. Quella studiata è infatti una regione nel sud dell'Etiopia piuttosto inospitale, posta a circa 4000 metri di quota, caratterizzata da un'aria molto rarefatta, da precipitazioni frequenti e da un'elevata escursione termica tra giorno e notte. E 45.000 anni fa (alle ore 23.54.45) era una lande fredda e ricoperta di ghiacciai. Da anni Glaser e colleghi studiavano alcuni affioramenti rocciosi nel sito di Fincha Habera, sulle Montagne di Bale, da cui hanno estratto diversi reperti archeologici, come manufatti in pietra, frammenti di argilla e perline di vetro. Analisi più approfondite dei sedimenti con metodi geochimici e glaciologici hanno fornito una caratterizzazione completa di resti di materiale biologico e di nutrienti presenti nei suoli, nonché delle possibili condizioni di temperatura, umidità e livello di precipitazioni della zona durante il Paleolitico. Insieme alla datazione al radiocarbonio i dati così raccolti hanno permesso di stimare da quante persone era occupato il sito e per quanto tempo.
Ne emerge un modello assai articolato della vita di questi nostri antichi antenati. Il sito di Fincha Habera è stato occupato in un'epoca compresa tra 47.000 e 31.000 anni fa (tra le 23.54.30 e le 23.56.23). Si trovava al limite di un ghiacciaio: ciò garantiva agli abitanti abbondanza d'acqua, mentre probabilmente le condizioni a basse quote erano troppo secche per la sopravvivenza. Per quanto riguarda il cibo, sembra invece che il nutrimento principale fosse il ratto-talpa gigante, un roditore di grandi dimensioni molto diffuso nella zona, semplice da catturare grazie anche alla facilità di reperire ossidiana per fabbricare utensili e armi in pietra: l'animale forniva il nutrimento necessario in una regione così difficile. I dati raccolti con le analisi del suolo hanno rivelato anche un secondo insediamento umano iniziato nel 10.000 a.C.: i campioni di suolo contengono per la prima volta escrementi di animali da pascolo, il che indica probabilmente l'avvento di nuovi metodi di sostentamento e sfruttamento del territorio.
Le punte di freccia dell'Uluzziano
Uno studio effettuato sui reperti della Grotta del Cavallo, un importante sito archeologico sulla costa del Salento, da una collaborazione italo-giapponese, di cui fanno parte l'Università di Siena e l'Università di Bologna. ha rivelato che gli esseri umani vissuti in Europa tra 45.000 e 40.000 anni fa circa (tra le 23.54.45 e le 23.55.19) e le cacciavano già con archi e frecce. Si tratta di un'importante scoperta sulla tecnologia avanzata della cultura Uluzziana, probabilmente la più antica di Homo sapiens in Europa, che completa il quadro delle ipotesi sulla colonizzazione del continente da parte dei nostri antenati e sull'estinzione dell'uomo di Neanderthal. La ricerca si è concentrata su 146 piccole lame in pietra scheggiata a forma di mezzaluna, di cui era ancora sconosciuto l'utilizzo. I giapponesi hanno effettuato prove sperimentali, riproducendo le semilune con lo stesso materiale e montandole su frecce o sui cosiddetti propulsori, aste che servivano sostanzialmente a prolungare il braccio e a lanciare così i proiettili con più forza. Le semilune realizzate ex novo sono state lanciate contro pelli animali, in modo da simulare gli impatti tipici della caccia. Il risultato è che i segni e le fratture da impatto sono molto simili a quelle riscontrate nei reperti della Grotta del Cavallo. La difficoltà a quel punto consiste nel capire se la tecnologia usata fosse effettivamente quella del propulsore o dell'arco e della freccia.
Questa scoperta retrodaterebbe di 20.000-25.000 anni l'introduzione di armi da lancio basate su dispositivi meccanici in Europa. L'efficienza nella caccia derivata da questa innovazione ha probabilmente dato a Homo sapiens un vantaggio enorme, permettendogli di soppiantare Homo neanderthalensis, con il quale aveva convissuto nelle stesse regioni europee per circa 5000 anni. La scoperta di una tecnologia così innovativa, che sappiamo essere presente in Africa già 15.000-20.000 anni prima, va a sostegno dell'ipotesi che si sia verificata un'ondata di colonizzazione di Homo sapiens arrivati in Europa dal continente africano con una tecnologia sofisticata. Lo sguardo a questo punto non può che ampliarsi a tutto il continente europeo: altri contesti in Europa, definiti di transizione tra i Neanderthal e i sapiens, mostrano strumenti litici molto simili, e può darsi che siano in arrivo altre sorprese.
Una nuova data per l'arrivo dei sapiens in Europa
Non possiamo non citare uno studio pubblicato nel settembre 2020 da Jonathan Haws dell'Università di Louisville e colleghi di una collaborazione internazionale, tra cui Sahra Talamo dell'Università di Bologna, che retrodata di circa 5000 anni la colonizzazione del continente da parte di Homo sapiens, collocandola cronologicamente in un'epoca in cui nella stessa regione era già presente l'uomo di Neanderthal. Naturalmente questa proposta è destinata a ravvivare il dibattito sulla coesistenza delle due specie umane nelle stesse zone geografiche e i loro possibili incroci. Haws e colleghi hanno analizzato alcuni utensili litici scoperti nella grotta di Lapa do Picareiro, non lontana dalla costa atlantica del Portogallo centrale. Le campagne di scavi condotte nell'arco di 25 anni hanno consentito una ricostruzione dettagliata dell'occupazione umana della grotta negli ultimi 50.000 anni, restituendo reperti simili ad altri provenienti da tutta l'Eurasia e dalla pianura russa. Alcuni di essi in particolare sono stati attribuiti alla cultura paleolitica aurignaziana, e quindi a Homo sapiens. A ciò si si è aggiunta la datazione dei reperti con metodi all'avanguardia, condotta da Sahra Talamo in collaborazione con il Max-Planck-Institut per l'Antropologia evoluzionistica di Lipsia, la quale ha analizzato ossa fossili che mostrano segni di tagli da macellazione e rotture intenzionali per estrarre il midollo osseo, un alimento molto apprezzato e nutriente consumato dai nostri remoti antenati.
I risultati della datazione collocano l'arrivo dell'uomo moderno nell'intervallo tra 41.000 e 38.000 anni fa (tra le 23.55.13 e le 23.55.34). L'ultima occupazione neanderthaliana del sito ha avuto luogo invece tra 45.000 e 42.000 anni fa (tra le 23.54.45 e le 23.55.06). Come sappiamo, se gli ultimi Neanderthal sopravvissuti in Europa sono stati sostituiti o assimilati dagli esseri umani moderni è una questione ancora irrisolta in paleoantropologia. Le datazioni più antiche degli utensili di pietra di Picareiro tendono ad escludere la possibilità che l'uomo moderno sia arrivato nella regione quando i Neanderthal non c'erano più da molto, e questo di per sé è dirompente. Fino a oggi, infatti, le più antiche testimonianze dell'uomo moderno a sud del fiume Ebro in Spagna provenivano da Bajondillo, un insieme di grotte sulla costa meridionale. Le nuove ricerche supportano sicuramente l'ipotesi controversa che l'uomo moderno si trovasse nella zona di Bajondillo prima di quanto pensassimo, anche se non è ancora chiaro come sia arrivato fin qui: probabilmente lungo i fiumi che scorrono da est a ovest nell'entroterra, ma è anche possibile un percorso costiero. Insomma, la controversia è ben lungi dall'essere risolta.
I primi orecchini
Quelli che alcuni paleontologi hanno trovato nella grotta di Stajnia, nel sud della Polonia, potrebbero rappresentare il più antico esempio conosciuto di gioielli decorati in Eurasia. Si tratta nientemeno che di un paio di orecchini preistorici, ricavati da una zanna di mammut lanoso. Insieme ad essi sono stati trovati altri manufatti, tra cui un punteruolo lungo 7 centimetri, modellato da un pezzo di osso di cavallo. I gioielli preistorici risalgono a un'epoca compresa tra i 41.730 e i 41.340 anni fa (tra le 23.55.08 e le 23.55.10). Chi ha realizzato i manufatti di Stajnia aveva chiaramente proprietà di linguaggio, e la natura dei manufatti stessi ci offre un'affascinante visione di ciò che era apprezzato da chi li ha fatti, e come era il mondo che li circondava. È ragionevole supporre che cavalli e mammut fossero davvero importanti nelle loro vite, e che questi oggetti abbiano un significato da più punti di vista.
Naturalmente il radiocarbonio non ha datato gli orecchini, bensì la zanna di mammut con cui essi sono stati forgiati: i pendenti potrebbero essere stati realizzati molto tempo dopo. Tuttavia, anzitutto le zanne di mammut non si conservavano spesso in quella regione, a causa delle condizioni climatiche del luogo; in secondo luogo, « una vecchia zanna di mammut sarebbe stata inadatta per modellare l'ornamento di Stajnia e scolpirvi il suo squisito motivo punteggiato », ha spiegato Sahra Talamo, chimico dell'Università di Bologna, che ha guidato lo studio dei reperti.
Un ritrovamento di questo tipo è interessante per molti aspetti. Trovare un manufatto simile non è come riportare alla luce armi per la caccia, in quanto i monili comunicano i gusti di chi li portava e la voglia di curare il proprio aspetto. Inoltre sugli orecchini si vedono tanti microfori che secondo i ricercatori avevano uno scopo. Si ipotizza che servissero, ad esempio, come sistema di conteggio, per osservazioni lunari o per calcolare le uccisioni di animali selvatici. Probabilmente non lo sapremo mai con certezza, ma l'ipotesi è davvero seducente.
La leggenda più antica del mondo
Un'antichissima leggenda australiana narra che uno dei quattro giganti che misero piede nella terra che ora chiamiamo Australia si fermò nelle terre degli aborigeni Gunditjmara e si trasformò in un vulcano, chiamato Budj Bim, in lingua aborigena "alta testa", eruttando lava dalla sua bocca. Ma forse non è solo una leggenda! Geologia, archeologia e mito infatti si incontrano, nelle lande umide dello stato di Victoria. E questa potrebbe essere la storia più antica mai tramandata fino ad ora, perché fondata su una verità storica: i Gunditjmara c'erano, quando il vulcano è nato, quasi 40.000 anni fa (alle 23.55.19). Di sicuro essi abitano quelle zone da almeno 13.000 anni, ma ci sono indizi che li collocano nella regione anche 20.000 anni prima. Il principale indizio consiste in un'ascia trovata negli anni '40 sepolta sotto le rocce vulcaniche portate dall'eruzione del vulcano Tower Hill, distante circa 40 chilometri da Budj Bim. Entrambi i vulcani si formarono circa 37.000 anni fa (alle 23.55.40); quindi quell'ascia di pietra doveva appartenere a genti che erano già presenti all'epoca delle eruzioni e videro l'"alta testa" levarsi dalla Terra.
Per collocare l'evento nel tempo, i ricercatori australiani della School of Earth Science dell'Università di Melbourne, insieme agli esperti di datazione con isotopi della Curtin University di Perth, hanno analizzato le rocce con il sistema di datazione Argon 40-Argon 39, con un margine di errore di circa 3.000 anni. Secondo Erin Matchan, questo tipo di vulcano è in grado di formarsi e crescere dal nulla fino a decine di metri nel giro di poche settimane o mesi. Un fenomeno del genere deve aver impressionato parecchio le popolazioni indigene, come se fosse una testa colossale che si leva dal suolo, tanto da diventare una leggenda da tramandare. La prosperità dei Gunditjmara ebbe inizio proprio con la comparsa del vulcano Budj Bim, che trasformò la loro terra, il panorama ma soprattutto il drenaggio del flusso delle acque. Sorsero paludi e gli abitanti impararono a sfruttarle creando uno dei più antichi esempi di acquacoltura nella storia dell'umanità, con canali e pozze in cui le anguille venivano catturate e poi affumicate, i resti più antichi di queste pratiche risalgono a 6.600 anni fa. Alcuni tratti sono venuti alla luce nel 2019, piccolo effetto positivo dei terribili incendi in Australia di quell'anno; l'area delle acquacolture e del Budj Bim è stato aggiunta alla lista dei siti patrimonio Unesco, mentre l'"alta testa" rimane un luogo sacro di culto per gli aborigeni.
Naturalmente la certezza che "la leggenda più antica del mondo" racconti proprio quei fatti non ce l'abbiamo, perché le popolazioni di tutti i continenti hanno sempre migrato parecchio, prima di diventare stanziali. Tuttavia, secondo un'analisi del genoma pubblicato di recente, gli aborigeni australiani si sono dimostrati piuttosto legati alle proprie regioni, tanto da occuparle anche per 50.000 anni. Matchan e i suoi colleghi, dunque, potrebbero aver fatto qualcosa di simile a ciò che fece Heinrich Schliemann 150 anni fa, quando scoprì la città di Troia e l'incendio che la distrusse: hanno scoperto la base storica di un racconto plurimillenario.
Un cold case di 33.000 anni fa
Nel 2019 è arrivata la certezza che il fossile di Cioclovina, il cranio di un individuo di sesso maschile vissuto circa 33.000 anni fa (alle ore 23.56.09) nell'Aurignaziano (Paleolitico superiore), è appartenuto a qualcuno che è morto di morte violenta per mano di un suo simile che lo ha colpito con violenza con una mazza, forse di pietra, spezzandogli l'osso parietale e occipitale. A confermare la dinamica dell'omicidio del sono state le analisi di gruppo di archeologi di Grecia, Regno Unito, Romania e Germania, guidato dalla Eberhard Karls Universität Tübingen. La ricerca chiude qualche decennio di dibattiti sulle cause della morte di questo nostro antenato, i cui resti sono stati scoperti nel 1941 nel sud della Transilvania e sono ora conservati presso il Bucharest University Laboratory of Paleontology. Il cranio fu ritrovato con segni di fratture nell'osso frontale e parietale durante gli scavi nella miniera di fosforo di Pestera Cioclovina, in Romania.
Almeno tre le fratture: le due più piccole e con segni di rigenerazione ossea indicano che sono state provocate mentre l'uomo era vivo, e dunque hanno avuto il tempo di guarire. Una terza frattura, invece, mostra i segni di un colpo inferto a poca distanza di tempo dal decesso, per cui le ossa non sono riuscite a generare un callo di sutura. Per confermare questa ipotesi i ricercatori hanno verificato la presenza di segni inequivocabili: le ossa del cranio mostrano una deformazione permanente nel punto dell'impatto, con presenza di minuti frammenti ossei aderenti al cranio e linee fratturali che tendono a diffondersi verso aree strutturalmente meno resistenti. Al contrario, se il colpo fosse stato inferto post mortem, i bordi della frattura sarebbero squadrati e perpendicolari alla superficie ossea, con linee fratturali casuali. A confermare l'ipotesi di un colpo letale inferto quando l'uomo era ancora vivo ci sono poi le simulazioni effettuate con sfere ossee artificiali ripiene di gelatina, a simulare il cervello. Le sfere sono state fatte cadere dall'alto, colpite con una pietra o con un bastone, libere di muoversi o bloccate su una superficie. Tutte le prove portano a concludere che il colpo sia stato inferto con una mazza, mentre l'individuo era vivo e in piedi. Purtroppo che quella umana sia una specie bellicosa non è un mistero, ma spiace comunque constatare che, già 33.000 anni fa, i dissidi fra esseri umani finivano talvolta a randellate mortali. Anche dopo la risoluzione di questo cold case, in ogni caso, i nomi dell'omicida e della vittima non li sapremo mai.
Il cane di Razboinichya
I resti fossilizzati di un canide vissuto 33.000 anni fa (ore 23.56.09), secondo uno studio archeozoologico dovuto a Yaroslav Kuzmin, ricercatore presso la Russian Academy of Sciences, apparterrebbero all'esemplare di cane domestico più antico finora ritrovato. Il cranio e la mascella del suddetto canide vennero riportati alla luce negli anni '70 durante gli scavi condotti nella grotta di Razboinichya, nei Monti Altaj della Siberia meridionale. Già da tempo si sapeva che il cane è la specie domestica più antica, e la sua presenza a fianco dell'uomo è ben documentata a partire da 14.000 anni fa (ore 23.58.22), ma esempi più antichi sono estremamente rari, in parte a causa dell'ultima glaciazione avvenuta fra i 26.000 e 19.000 anni fa (dalle 23.56.58 alle 23.57.47). Con i pochi fossili a disposizione è stato quindi assai difficile per gli scienziati comprendere l'inizio del processo di domesticazione del cane, che secondo gli esperti potrebbe essere avvenuto nell'arco di 50-100 anni.
La grotta di Razboinichya, secondo Kuzmin, era frequentata per brevi periodi da gruppi di cacciatori-raccoglitori, come indicherebbero i frammenti di carbone e di ossa bruciate presenti nello stesso livello in cui si trovava il fossile. Il canide, che forse era un loro animale domestico, è morto nella grotta e le sue ossa si sono conservate perfettamente grazie alle rigide temperature e alle condizioni alcaline del terreno. Gli archeozoologi hanno così potuto confrontato la morfologia del canide russo con quella di lupi selvatici moderni e antichi, di cani domestici e con i resti di alcuni esemplari di un antico cane vissuto più di 26.000 anni fa. I risultati mostrano che l'antico cane russo, che doveva assomigliare al moderno Samoiedo, era paragonabile per taglia e forma ai cani domestici che vivevano in Groenlandia mille anni fa. Il canide russo però non era completamente domestico, poiché manteneva ancora alcuni tratti primitivi, come i denti molto simili a quelli del lupo; inoltre non ha niente in comune con altre razze canine russe. Questi risultati consentono così di ipotizzare che questo esemplare si sia evoluto accanto agli esseri umani e indipendentemente rispetto ad altre razze canine. La domesticazione del cane molto probabilmente è avvenuta quindi in luoghi e in momenti diversi, contrariamente da quanto indicato da alcuni studi precedenti sul DNA.
Secondo l'ipotesi proposta da Susan Crockford, zooarcheologa all'Università di Victoria in Canada, durante il Paleolitico alcuni lupi particolarmente "curiosi" si sarebbero avvicinati agli accampamenti umani, attratti dagli avanzi delle prede cacciate dai cacciatori. Questi primi contatti tra uomini e lupi sarebbero avvenuti in in luoghi diversi: in Europa, in Medio Oriente e in Cina. I lupi che avevano più familiarità con gli uomini subirono delle variazioni nei ritmi di crescita, le quali provocarono dei cambiamenti negli schemi di riproduzione, nella morfologia e nelle dimensioni di questi animali, trasformandoli in cani. E i cambiamenti, spiega la Crockford, divennero sempre più evidenti man mano che questi lupi, così curiosi e audaci, si incrociavano tra di loro. I cani rispetto ai lupi infatti sono più piccoli, hanno un cranio più largo e danno alla luce cuccioli più grandi.
Vi é però chi ha idee diverse in proposito. Per chiarire la storia evolutiva del migliore amico dell'uomo, Olaf Thalmann dell'Università di Turku, in Finlandia, ha sequenziato il DNA mitocondriale estratto dai resti fossili di 18 canidi preistorici provenienti dall'Eurasia e dal Nuovo Mondo e ritrovati in siti dove c'erano chiare prove di una sua convivenza con l'uomo, e lo hanno poi confrontato con quello di vari cani e lupi moderni di diverse parti del mondo per determinarne le relazioni genetiche. Grazie a queste analisi essi hanno concluso che le sequenze genetiche dei cani moderni sono correlate molto più strettamente a quelle degli antichi canidi europei (tra cui i lupi), che non alle sequenze di DNA ottenute da lupi al di fuori dell'Europa. Tale scoperta cambierebbe il quadro delle fasi iniziali del processo di domesticazione, contraddicendo l'ipotesi che i progenitori degli attuali cani avrebbero iniziato ad avvicinarsi all'uomo perché attirati dall'abbondanza di cibo dei primi villaggi di agricoltori. Apparirebbe piuttosto probabile che i lupi selvatici siano stati spinti ad avvicinarsi agli insediamenti temporanei dei cacciatori-raccoglitori, e a seguirli nei loro spostamenti, dalle carcasse che i nostri antenati lasciavano dietro di sé.
In ogni caso, la domesticazione del cane è stato un processo lungo e complicato, in cui molte razze si sono evolute e poi sono scomparse. Il cane della grotta di Razboinichya si è estinto molto probabilmente in seguito all'avvento dell'era glaciale, quando i gruppi di cacciatori-raccoglitori ai quali era legato furono costretti a spostamenti sempre maggiori per la ricerca del cibo. Secondo molti studiosi, invece, affinché un lupo possa evolvere in cane domestico deve rimanere nello stesso luogo per diverse decine di anni. « La domesticazione è un processo, non un evento, e quindi serve del tempo perché le modificazioni genetiche si trasmettano di generazione in generazione, e l'antica specie selvatica si evolva in una nuova specie domestica », ha commentato l'antropologo Lee Lyman, dell'Università del Missouri. Quando vediamo scodinzolare il nostro cane di casa, non potrà non tornarci in mente l'antichissimo cane di Razboinichya, forse già chiamato "Fido" dai suoi padroni oltre trecento secoli fa!
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Cranio del cane di Razboinichya (foto di Yaroslav Kuzmin) |
Due lupi nel passato genetico del cane
E non è tutto. Nel 2022 Pontus Skoglund e Anders Bergström del Francis Crick Institute di Londra hanno affermato di aver scoperto che il genoma dei cani moderni contiene i resti di due diversi genomi di lupo. I due ricercatori hanno scritto nel loro studio di aver sequenziato i genomi di 66 lupi risalenti agli ultimi 100.000 anni, e di averli confrontati con quelli dei cani odierni. I più pensano che i primi cani iniziarono a migrare con gli esseri umani in Siberia poco più di 30.000 anni fa, come mostrato dal cane di Razboinichya, ma alcuni spiegano i ritrovamenti archeologici di cani in Eurasia ipotizzando che la storia evolutiva di questi animali possa essere stata più complessa: mentre in Asia orientale le ossa di cane sono molto antiche e lo sono meno via via che ci si allontana da questa regione, anche in Europa si trovano ossa di cane estremamente antiche. Alcuni gruppi di ricerca hanno interpretato questo fatto sorprendente come un possibile indizio del fatto che i cani sono stati domesticati due volte, una in Occidente e una in Oriente. I dati di Skoglund e Bergström possono portare acqua al mulino dell'ipotesi che i cani occidentali portano nel loro corredo genetico le tracce di una domesticazione separata. Tuttavia, c'è una differenza strutturale tra i genomi dei lupi occidentali e la porzione di "lupo occidentale" presente nei genomi dei cani.
Questo dimostra la presenza nei lupi di un forte flusso genetico da est a ovest. I lupi occidentali analizzati nello studio, risalenti al periodo successivo all'ultimo massimo glaciale, hanno quindi un'origine... mista. Il loro materiale genetico è per lo più siberiano, ma contiene anche tracce di una popolazione europea di lupi risalente a decine di migliaia di anni fa. I cani, invece, discendono da una seconda popolazione di lupi dell'occidente, ma non hanno legami con l'antica popolazione di lupi. E l'assenza di tali legami occidentali suggerisce che non discendono dalle popolazioni europee di lupi già analizzate. Tali risultati supportano un altro modo di interpretare i dati, piuttosto che una seconda origine dei cani. Secondo questa ipotesi, i cani potrebbero essersi accoppiati con i lupi europei quando si sono diffusi verso ovest; tuttavia, l'idea di una doppia origine dei cani non è ancora da escludere. Anche se Skoglund e Bergström sono riusciti a dimostrare i legami geografici tra lupi e cani, la loro analisi manca di un punto cruciale: le popolazioni di lupi da cui i cani effettivamente discendono. Secondo i ricercatori, i dati indicano principalmente che sia i cani sia i lupi possano aver ereditato parti del loro genoma da popolazioni ancora sconosciute. C'è dunque ancora molta strada da fare, prima di comprendere appieno la storia genetica dei migliori amici dell'uomo.
La prima farina
Sembra incredibile, ma a quanto pare furono alcune popolazioni garganiche vissute in pieno Paleolitico superiore le prime a produrre e consumare farina, 32.000 anni fa (ore 23.56.16). Finora si riteneva che la capacità di lavorare i cereali in modo da ottenere la farina si fosse affermata molto più tardi, nel corso del Neolitico, in coincidenza con l'avvento dell'agricoltura. Invece alcuni ricercatori italiani delle Università di Firenze e di Siena, della Soprintendenza all'Archeologia della Toscana e dell'Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria hanno analizzato un pestello da macinazione in pietra recuperato nel 1989 in località Grotta Paglicci, presso Rignano Garganico (FG), e i residui di grani di amido trovati su di esso, stabilendo che gli abitanti di quell'insediamentoerano cacciatori-raccoglitori, ma avevano acquisito la sofisticata tecnica di manipolazione delle piante necessaria a ottenere farina.
Come ha spiegato Marta Mariotti Lippi del Dipartimento di Biologia dell'Università di Firenze, l'analisi condotta dal suo team indica che la tecnica adottata prevedeva almeno quattro fasi di preparazione: l'essiccazione della parte da macinare, che veniva accelerata con un trattamento termico, la macinazione, il mescolamento con acqua e la cottura. La prova che prima della macinazione le piante subissero preriscaldamento (utile anche a rendere più agevoli le fasi successive) deriva dal particolare stato di conservazione dei granuli di amido recuperati sul pestello.
Gli abitanti di Grotta Paglicci raccoglievano per lo più chicchi di graminacee selvatiche, con una chiara preferenza per l'avena. In assenza di forme spontanee di altri cereali, domesticati solo in un periodo più tardo nel Vicino Oriente, l'avena poteva comunque rappresentare una buona fonte nutrizionale per quella popolazione. Il fatto che i residui derivino da chicchi di graminacee, e non da tuberi e radici, osserva la Mariotti Lippi, ci dà molte informazioni sullo stile di vita di quei nostri lontani antenati. La raccolta delle piante e le successive fasi di lavorazione e preparazione per la cottura erano infatti attività che richiedevano molto tempo, indicando quindi che lo sfruttamento delle risorse vegetali per l'alimentazione aveva un ruolo importante nelle strategie di sussistenza.
Il primo raffreddore
Proprio in tempi di pandemia Sofie Holtsmark Nielsen dell'Università di Copenaghen e colleghi hanno scoperto che probabilmente il raffreddore è più vecchio dell'umanità. Sono arrivati a questa conclusione analizzando due genomi di virus di oltre 31.000 anni fa (ore 23.56.23), ricostruiti da due denti da latte trovati in Siberia. Tali virus appartengono ai tipi 1 e 2 dell'adenovirus C umano, che tuttora causa raffreddori nei bambini, e differiscono poco dai loro parenti odierni. In base alle differenze genetiche, gli esperti hanno calcolato che le linee evolutive dei due tipi si sono separate l'una dall'altra circa 700.000 anni fa (ore 22.38.14), centinaia di migliaia di anni prima della comparsa dell'Homo sapiens. Evidentemente questi virus infettavano già le specie umane che ci hanno preceduto e i primi esemplari della nostra, e sono giunti fino a noi semplicemente rimanendo a bordo.
I due denti da latte appartengono a due bambini non strettamente imparentati tra di loro, vissuti nel sito di Rhinoceros Horn, lungo il fiume Jana nella Repubblica Autonoma di Sacha (Siberia nordorientale), 500 chilometri a nord del Circolo Polare Artico. Questo sito si trova in uno dei cosiddetti "poli del freddo" dell'emisfero boreale: nella località di Verchojansk, poco lontano, si registrano le temperature medie invernali più basse di tutte le località abitate terrestri. L'intero bacino dello Jana, inoltre, si trova nella zona del permafrost, e il clima rigidissimo ha probabilmente contribuito a preservare il materiale virale. I virus sono entrati nei denti attraverso il flusso sanguigno: siccome la maggior parte delle cellule dei denti non si rinnova, i denti da latte contengono una vera e propria biblioteca dei virus con cui i bambini sono venuti in contatto fino a quando non hanno perso questi denti, all'età di 10-12 anni. Oltre ai virus del raffreddore, il gruppo ha anche identificato i frammenti di quattro diversi Herpesvirus, tra cui il citomegalovirus. Il gruppo ha analizzato i genomi altamente degradati sequenziando singoli frammenti di geni e confrontandoli con i genomi di riferimento dei virus moderni. Questo lavoro ha rivelato che i due adenovirus, strettamente correlati, differivano molto di più l'uno dall'altro che dai rappresentanti moderni dei loro rispettivi tipi. Basandosi sulle differenze tra i virus di Jana e le loro controparti moderne, il gruppo di ricerca ha calcolato il tasso approssimativo di mutazioni casuali nel genoma. Comunque la scoperta che alcuni patogeni sono stati nostri compagni fin dalla preistoria e si sono evoluti insieme a noi non è una sorpresa. Tra gli altri, gli esperti sospettano che diverse specie di plasmodio della malaria colpissero già i primi esseri umani, ma per dimostrarlo occorreranno altri colpi di fortuna.
La prima amputazione
Può sembrare l'argomento di un romanzo di successo di Michael Crichton, eppure è tutto vero: 31.000 anni fa (alle ore 23.56.23) qualcuno amputò il piede di un bambino, che sopravvisse diversi anni dopo l'operazione. Lo ha scoperto un gruppo di ricerca guidato da Tim Ryan Maloney della Griffith University, in Australia, grazie ai ritrovamenti nella grotta chiamata Liang Tebo, nel Borneo orientale. Il piede sinistro è stato reciso sopra la caviglia con un taglio netto e obliquo, e l'osso di nuova formazione ha suturato le superfici tagliate. Le prove anatomiche suggeriscono che l'individuo, che è morto all'età di circa vent'anni, deve aver perso l’arto durante l'infanzia. Il fossile risale a circa 24.000 anni (167 secondi) prima della più antica testimonianza di un'operazione chirurgica su di un essere umano, e dimostra che i gruppi umani possedevano conoscenze anatomiche e mediche già nel Pleistocene. Prima della scoperta dei ricercatori della Griffith University, infatti, la più antica testimonianza di amputazione riuscita era stata identificata in una società di agricoltori di 7.000 anni fa (alle ore 23.59.10), nell'attuale Francia!
Per un'amputazione riuscita, soprattutto in tempi che precedono la scoperta degli antibiotici, il rischio di morire per shock, perdita di sangue o infezione è molto alto. Il fatto che un bambino sia sopravvissuto a una procedura del genere 31.000 anni fa indica che si avevano già conoscenze sulle tecniche per chiudere la ferita e forse su sostanze antibiotiche naturali. Finora, la maggior parte degli esperti riteneva che conoscenze del genere fossero emerse solo nelle società sedentarie. Tra i gruppi di cacciatori-raccoglitori, operazioni chirurgiche così invasive sembravano piuttosto irrealistiche, anche perché le conseguenze di interventi del genere richiedono un notevole sforzo logistico a lungo termine per una comunità nomade che si sposta di continuo. Si doveva infatti garantire che il bambino ferito fosse nutrito e curato nel periodo successivo all'operazione, e la persona operata potrebbe essere dipesa per anni da un supporto speciale del gruppo, perchè, oltre ai segni di guarigione, le differenze nelle ossa delle due gambe mostrano che al momento del decesso era passato un tempo considerevole dall'amputazione. Mentre le ossa della gamba sana si sono sviluppate normalmente, quelle della gamba amputata non sono cresciute ulteriormente. Senza il supporto degli altri membri del gruppo, l'individuo amputato di certo non sarebbe sopravvissuto, avendo trascorso quasi tutta la sua vita con una gamba sola. Il fatto che l’individuo non doveva essere stato emarginato nonostante la sua limitazione è indicato dall'accurata sepoltura: è stato ritrovato in posizione accovacciata e con blocchi di calcare sopra la testa, e la grotta era decorata con pitture rupestri.
L'importanza di essere nonni
Secondo l'antropologa Rachel Caspari della Central Michigan University, l'essere umano si è evoluto anche grazie ai nonni, al loro supporto e al loro sapere da essi tramandato ai giovani. E fu proprio nel momento in cui tre generazioni iniziarono a coabitare che fu possibile il salto nell'evoluzione. Prima di 30.000 anni fa non esistevano i nonni, o meglio l'aspettativa di vita faceva sì che tre generazioni non potessero mai convivere nello stesso momento; da allora in poi, invece, iniziarono ad esserci i primi nonni, anche se avevano appena trent'anni (un'età avanzata, per quei tempi) e proprio grazie a questo elemento inedito si ebbe un'esplosione nell'evoluzione della specie.
Rachel Caspari ha analizzato i denti di resti fossili provenienti da diversi periodi dell'evoluzione umana, dagli australopiteci agli uomini di Neanderthal, fino ai primi Homo sapiens che raggiunsero l'Europa, ed ha ricostruito l'età anagrafica media degli ominidi nei differenti periodi, fissando intorno ai trent'anni l'età in cui era possibile fisiologicamente veder nascere i propri nipotini. In tal modo, solo 30.000 anni fa hanno fatto la loro comparsa i primi nonni. Nella società dei Neanderthal, per esempio, esistevano solo 4 adulti ogni dieci che superavano i 30 anni, mentre presso i Sapiens gli antropologi hanno osservato un rapporto adulti/giovani di 20 a 10. E proprio dalla comparsa dei primi nonni la produzione artistica divenne più raffinata, gli utensili più sofisticati e la produzione di cibo iniziò a crescere. « I due eventi sono in stretta correlazione », ha dichiarato Rachel Caspari, « e la specie umana si è evoluta anche grazie alla longevità, che ha permesso un approfondimento significativo delle conoscenze, un incremento della popolazione e un miglioramento delle interazioni sociali ».
Già in passato l'antropologa Kristen Hawkes, dell'università dello Utah, aveva elaborato la cosiddetta ipotesi della nonna, dopo aver studiato in Tanzania una delle pochissime tribù di cacciatori-raccoglitori ancora esistenti, gli Hazda. Secondo la Hawkes, dietro il passaggio verso l'Homo erectus prima e l'Homo sapiens poi ci sarebbero proprio le nonne, personaggi chiave del processo evolutivo. Fino a che la longevità non ha permesso che esistesse questo ruolo, l'evoluzione umana è andata avanti molto a rilento. Ora Rachel Caspari estende l'intuizione di Kristen Hawkes a tutti i genitori dei genitori, maschi e femmine che fossero, non importa se giovanissimi per i nostri metri di giudizio (la stessa Caspari al momento della scoperta aveva un'età maggiore di quella dei primi nonni!). Avevano comunque già vissuto la loro vita, imparato a cacciare, visto nascere i loro figli. Fu proprio grazie a loro che l'Homo sapiens vinse la sua battaglia.
Il ponte (continentale) sullo Stretto di Messina
Fino a tempi recenti, nessuno era in grado di spiegare come mai la migrazione sulle coste siciliane dell'Homo sapiens e di alcuni grandi mammiferi a ridotta capacità natatoria sia avvenuta in tempi diversi e con ritardo rispetto all'Europa. Ma nel settembre 2013 sono stati presentati i risultati di una ricerca multidisciplinare coordinata dall'Enea assieme alle Università di Roma, Napoli, Palermo, Trieste e Messina, al Max Planck Institut di Lipsia, all'Australian National University di Canberra e all'Iamc-Cnr, ed essi dimostrano come, tra 27 mila e 17 mila anni fa (23.56.50-23.58.00), nel corso dell'ultima glaciazione il mare si sia abbassato fino a creare un ponte continentale tra l'Europa e la Sicilia. La Sella sommersa nello Stretto di Messina, attualmente ad una profondità di 81 metri sotto il livello del mare, ha costituito per l'Homo sapiens l'unica possibilità di collegamento tra l'Italia peninsulare e la Sicilia. Il passaggio naturale ha reso possibile la migrazione sull'isola di mammiferi oggi scomparsi come l'Equus hydruntinus, i cui resti, risalenti a circa 22 mila anni fa (23.57.26), sono stati rinvenuti nella grotta di San Teodoro, nei pressi di Messina.
A differenza di quanto riscontrato nel resto del continente europeo, dove la diffusione dell'Homo sapiens si colloca in un arco di tempo racchiuso tra 40 mila e 35 mila anni fa (23.55.19-23.55.55), le datazioni al radiocarbonio effettuate sulle ossa di Homo Sapiens rinvenute in Sicilia non superano i 17 mila anni di età. La presenza di forti correnti, fino a 16 nodi, nel braccio di mare che separa per circa 4 chilometri la punta meridionale della Calabria dalla Sicilia rende inverosimile ogni ipotesi di traversata a nuoto o tramite natanti rudimentali. Per giungere a tali conclusioni, gli studiosi si sono serviti del calcolo delle variazioni del livello del mare e dell'analisi integrata dei dati più recenti provenienti da discipline come la geologia marina, la tettonica, la geofisica, la modellistica oceanografica, la paleontologia e l'antropologia. Conclusione: il ponte sullo Stretto di Messina, di cui si discute da decenni, è esistito realmente, ma è stato sommerso migliaia di anni fa!
Gli ami degli antichi giapponesi
La pesca è sicuramente una delle attività più longeve della storia dell'uomo: ne siamo certi grazie alla scoperta di un team di archeologi giapponesi che ha trovato sull'isola di Okinawa i più antichi ami da pesca mai rinvenuti fino a oggi. Gli studiosi hanno trovato i due manufatti a Sakitari Cave, una cava di calcare, e da una prima analisi i due oggetti risalirebbero a un'epoca compresa tra i 22.770 e i 22.380 anni fa (tra le 23.57.20 e le 23.57.23). Come si vede nell'immagine sottostante, entrambi i manufatti sono in buone condizioni anche se uno dei due è ultimato, mentre l'altro era da rifinire.
Gli ami di Okinawa |
Essi sono stati realizzati intagliando gusci di lumaca di mare e non a caso il ritrovamento è a Sakitari Cave, luogo occupato stagionalmente dai pescatori per via delle migrazioni di granchi e lumache di acqua dolce. La scoperta avvalora l'ipotesi che i nostri antenati fossero molto avanzati nelle tecniche marinare e anche in grado di sopravvivere su piccole isole geograficamente isolate. Il ritrovamento dei due ami da pesca si colloca in ordine temporale in un'epoca vicina a quelli scoperti a Timor Est datati tra 23.000 e 16.000 anni fa (23.57.19-23.58.08) e a quelli ritrovati nell'isola di New Ireland (Papua Nuova Guinea) e risalenti a un'epoca compresa tra i 20.000 e i 18.000 anni fa (23.57.39-23.57.54). La scoperta avvalora l'affascinante ipotesi che questi nostri antenati fossero molto più avanzati di quanto si pensi nelle tecniche marinare, e quindi in grado di prosperare anche su piccole isole geograficamente isolate.
DNA antico su un ciondolo del Paleolitico
Un piccolo ciondolo a forma di dente di cervo è emerso dalla grotta di Denisova, nel sud della Siberia. Intorno al gioiello, però, nessun indizio aiutava gli archeologi a scoprire qualcosa di più sul manufatto. Ma un gruppo internazionale di ricercatori guidato dal pioniere della paleogenetica e Premio Nobel Svante Pääbo ha trovato chi lo ha avuto per le mani: il pendente apparteneva a una donna di origini eurasiatiche vissuta intorno a 20.000 anni fa. Per risalire alla proprietaria del ciondolo di Denisova, gli autori dello studio hanno sviluppato una tecnica non distruttiva che permette di isolare il DNA umano antico presente sui reperti archeologici. È la prima volta che ricercatori estraggono con successo il DNA umano da manufatti risalenti al Paleolitico, aprendo nuovi scenari nello studio dell’industria e dei comportamenti degli esseri umani preistorici. Sulle società del passato rimangono aperte molte domande. Non sappiamo, per esempio, se sia maschi sia femmine partecipassero alla produzione di strumenti e se entrambi i sessi indossassero ornamenti personali. Ora possiamo rispondere a queste domande e capire meglio la divisione del lavoro e il ruolo degli individui nelle società del Pleistocene. I manufatti in pietra, ossa e denti lasciati nel corso di migliaia di anni forniscono infatti informazioni preziose su abitudini e comportamenti delle prime società umane. Per ricavare le loro deduzioni, però, i ricercatori hanno bisogno di collegare gli oggetti che incontrano negli scavi archeologi a specifici gruppi umani, cosa non sempre possibile perchè in molti siti del Paleolitico spesso non vengono trovati resti scheletrici e i manufatti sono l’unica prova visibile della passata presenza umana.
Per sviluppare il loro metodo, i paleontologi si sono concentrati su oggetti costruiti in ossa e denti in quanto questi, essendo porosi, hanno maggiori probabilità di contenere tracce di DNA dei loro utilizzatori. Questi materiali sono inoltre ricchi di idrossiapatite, un minerale che si lega molto bene con il DNA. La tecnica di indagine prevede di immergere i reperti in una soluzione, contenente fosfato di sodio, che viene riscaldata a diverse temperature. “Lavando” i reperti a temperature fino a 90°, il metodo permette di isolare gradualmente il DNA penetrato in profondità nell’oggetto durante la sua fabbricazione e il suo uso, distinguendolo da quello proveniente dal sedimento circostante. La contaminazione da parte del DNA moderno introdotto durante e dopo lo scavo è uno dei problemi principali da affrontare; ora si scava con più attenzione e in futuro il metodo sarà migliorato per superare questa difficoltà”, dice Essel, sottolineando l’importanza di ridurre al minimo il contatto con i reperti durante e dopo il loro recupero. Ora, Denisova è una grotta fredda, una sorta di congelatore dove il DNA antico si preserva molto bene. E così i ricercatori del Max Planck Institut sono riusciti a estrarre il DNA dell’animale dal quale è stato ricavato il ciondolo, chiarendo che si tratta di un dente di wapiti (Cervus canadensis, cervide diffuso nelle regioni centrali e orientali dell’Asia e in Nord America), e a isolare per la prima volta da un oggetto grandi quantità di DNA umano antico appartenente a un singolo individuo. L’analisi del DNA nucleare ritrovato sul reperto, in base al numero di cromosomi X individuati, ha chiarito che il ciondolo è stato realizzato, usato o indossato da una donna, geneticamente imparentata con le popolazioni antiche dell’Eurasia settentrionale, che in precedenza erano state individuate solo più a est. Usando l’orologio molecolare sul genoma umano e di wapiti, i ricercatori hanno inoltre stimato l’età del reperto, datandolo fra i 25.000 e i 19.000 anni fa (ore 23.57.05-23.57.47). I ricercatori vogliono ora applicare il metodo ad altri oggetti per chiarire l’origine e l’uso di alcuni manufatti del Paleolitico, come quelli delle industrie di transizione: isolare il DNA umano antico presente sui reperti archeologici può aiutarci a capire per esempio se alcuni oggetti sono stati fabbricati dagli umani moderni o dai Neanderthal.
L'invenzione della ceramica
Il ritrovamento nel 2012 di una serie di frammenti di vasellame nel sito cinese di Xianrendong, nella provincia di Jiangxi, e la loro datazione al radiocarbonio porta a collocare fra 20.000 e 19.000 anni fa (23.57.39-23.57.47) l'invenzione della ceramica, spostandola indietro nel tempo di almeno 2000-3000 anni rispetto a quanto finora conosciuto. La ricerca è dovuta ad un gruppo di archeologi delle università di Pechino, di Boston e di Tubinga. Fino a poco tempo fa si riteneva che la produzione della ceramica fosse iniziata nel corso della cosiddetta "rivoluzione neolitica", e che fosse opera di popolazioni già in via di transizione verso un'economia basata sull'agricoltura e sull'allevamento.
Le recenti scoperte però hanno messo in dubbio questa ricostruzione: intorno all'ultimo massimo glaciale, fra 25.000 e 19.000 anni fa, si è progressivamente diffusa una serie di nuove tecnologie, fra cui quelle relative alla produzione di strumenti costituiti da piccole scaglie (microliti) e mole. Inoltre, nel 2009 nell'estremo oriente russo era già stato scoperto un primo frammento di ceramica risalente a 17.000-18.000 anni fa (23.57.54-23.58.00). I manufatti prodotti con le nuove tecnologie avrebbero consentito un miglior sfruttamento di una vasta gamma di piante e animali, e una più efficiente estrazione dei loro componenti nutritivi grazie a un'efficiente macinazione e alla cottura. L'ampliamento della dieta umana, con l'introduzione di alimenti difficili da lavorare e da digerire come il riso in Cina, sarebbe stato lo snodo cruciale che avrebbe portato alla domesticazione delle piante selvatiche e all'introduzione dell'agricoltura.
La volpe di compagnia
A sorpresa, a fine 2010 nel sito archeologico di Uyun-al-Hammam, posto nel nord della Giordania e vecchio di circa 16.500 anni (ore 23.58.04), è stata ritrovata una tomba contenente un essere umano in compagnia di una volpe. I ricercatori dell'Università di Cambridge ritengono che possa trattarsi di un caso senza precedenti di "amicizia" tra l'uomo e questo canide selvatico. L'analisi dei resti della volpe hanno reso possibile identificarne la specie: si tratta di una volpe rossa (Vulpes vulpes), un canide diffuso praticamente in tutto il mondo che conta oltre 45 sottospecie. Questa scoperta, che implica uno stretto rapporto tra l'uomo e la volpe, è più vecchia di almeno 4.000 anni rispetto alle più antiche sepolture note in cui compare un essere umano in compagnia di un cane. Le volpi dunque potrebbero essere state degli animali da compagnia molto prima che i nostri avi cominciassero ad addomesticare il cane. Anche se è improbabile che le volpi siano state addomesticate completamente per via della loro naturale diffidenza, questo ritrovamento è di certo una testimonianza importante sul rapporto dell'essere umano con i canidi selvatici. « Questo sito di sepoltura ci fornisce prove intriganti sulla relazione tra gli esseri umani e le volpi, da datare precedentemente ad ogni altro esempio di addomesticazione animale », ha spiegato Lisa Maher, del Leverhulme Centre for Human Evolutionary Studies. « Sembra che siamo di fronte ad un caso in cui una volpe sia stata uccisa e seppellita con il suo padrone. In seguito, la tomba è stata aperta per qualche ragione, e il corpo umano spostato. Ma dato che la relazione tra la volpe e l'uomo era stata importante, la volpe fu spostata, in modo tale da accompagnare quella persona anche nell'aldilà. »
Il primo popolamento delle Americhe
Che dire a proposito del popolamento umano dell'America? Oggi possiamo affermare con un certo grado di fiducia che gli antenati dei primi nativi americani possono essere rintracciati in Asia, secondo uno studio genetico condotto da Theodore Schurr dalla University of Pennsylvania e da Ludmila Osipova dell'Istituto di Citologia e Genetica di Novosibirsk, in Russia. I due ricercatori suggeriscono che una popolazione della regione montuosa dell'Altai, nel sud della Siberia, potrebbe essere stata la patria genetica di coloro che emigrarono verso ovest, attraversando lo stretto di Bering e diventando i primi nativi americani. Tale regione è situata al confine tra Cina, Russia, Mongolia e Kazakistan: un'area di migrazioni millenarie. Studiando il DNA mitocondriale, Schurr e Osipova hanno scoperto una mutazione comune ai i nativi americani e alla popolazione dell'Altai, concludendo che quest'ultima si è discostata geneticamente dalla linea evolutiva dei nativi americani tra 15.000 e 14.000 anni fa (tra le 23.58.15 e le 23.58.22).
La convinzione più diffusa tra gli scienziati è quella secondo cui quei cacciatori siberiani originari dell'Altai sarebbero stati i primi esseri umani ad entrare nel Nuovo mondo attraversando la Beringia, cioè il ponte continentale che occupava l'attuale Stretto di Bering, emerse grazie all'acqua intrappolata nei ghiacciai delle glaciazioni. 14.500 anni or sono (alle 23.58.18) tra le montagne dell'Alaska si aprì una via che gli antenati degli Amerindi percorsero in cerca di nuovi territori di caccia. Sulle date c'è una profonda incertezza: la cronologia ricavata dai dati genetici è compatibile con migrazioni avvenute durante fasi in cui i ghiacci si erano parzialmente ritirati, ma da un punto di vista archeologico si sa ancora veramente poco. Quasi tutti comunque concordano sulla teoria delle "tre ondate" di migrazione: con la prima arrivarono gli Amerindi propriamente detti, con la seconda i Na-dene (Apaches, Navajos e gli abitanti della costa pacifica a nord della California) e con la terza gli Inuit dell'Alaska e delle Aleutine. Una delle più antiche culture americane conosciute è la cultura Clovis (dall'omonima località del Nuovo Messico), scoperta per caso nel 1929 dal diciannovenne James Ridgley Whiteman; risalente a 11.000 anni fa (alle 23.58.43), un tempo essa era ritenuta la progenitrice di tutte le culture native americane, ma le scoperte recenti hanno contribuito a mettere in soffitta questa ipotesi: ad esempio il sito di Monte Verde, in Cile, risale a ben 14.700 anni fa (alle 23.58.17), ed è finora il più antico insediamento umano ritrovato nel Nuovo Continente. Un altro possibile sito pre-Clovis è quello di Topper, nella South Carolina, dove nel 2004 sono stati rinvenuti attrezzi in pietra che le tecniche al radiocarbonio hanno datato addirittura a 50.000 anni fa, anche se questa datazione è contestata da molti.
Non tutti però sono d'accordo con questa teoria. Studi recenti indicano che i ghiacciai che contribuirono a formare il ponte tra la Siberia e l'Alaska cominciarono ad arretrare tra 17.000 e 13.000 anni or sono (tra le 23.58.00 e le 23.58.29), riducendo drasticamente la possibilità per gli uomini di spostarsi da un continente all'altro. Inoltre il 28 giugno 1996 a Kennewick, una località dello stato di Washington, Will Thomas e David Deacy scoprirono per caso uno scheletro vecchio di 9.000 anni che presentava caratteristiche un po' strane: fattezze del volto chiaramente caucasoidi e non amerinde, e il suo DNA mitocondriale contenente l'aploguppo X, tipicamente euroasiatico. Ammettendo che l'uomo di Kennewick fosse un Na-Dene, potrebbe essere valida l'ipotesi che i Na-dene (e a maggior ragione gli amerindi che li avevano preceduti lungo la via dello Stretto di Bering) siano migrati dalla Siberia prima che nei popoli rimasti là si fissasse quella importante caratteristica che sono gli occhi a mandorla. In effetti, se si eccettuano gli Inuit, pur venendo dall'Asia, nessun nativo americano è caratterizzato dagli occhi a mandorla. La presenza dell'aplogruppo X pose vari interrogativi: fino ad allora era stato osservato solo in Europa e nel Medio Oriente. La sua è comunque una distribuzione strana: gli aplogruppi hanno di solito un'elevata frequenza in una zona geograficamente ben delimitata, mentre l'X è debolmente presente in molte aree: Medio Oriente (con particolare frequenza fra i drusi del Libano), Nordafrica, Italia, Isole Orcadi, Finlandia ed Estonia. Ed è quasi sempre presente in percentuali inferiori al 5 %. Fra i nativi americani lo troviamo fra Na-dene e Algonchini (gli Amerindi del nordest, tra Canada e nord degli USA) con percentuale del 3 %, ma con alcuni picchi oltre il 10 % in alcune tribù. In Sudamerica è presente negli Yanomami. L'aploguppo X americano fu facilmente correlato a incroci con bianchi dopo la venuta degli europei, a cominciare dai Vichinghi nell'XI secolo, ma la distanza genetica tra il tipo nordamericano e quello europeo è troppo alta per dare credito a questa spiegazione.
A complicare il quadro è venuta, a fine 2016, la teoria secondo cui gli esseri umani sarebbero arrivati in Nord America oltre diecimila anni prima del previsto, attraversando lo stretto di Bering già 24.000 fa (ore 23.57.12), e rimanendo poi isolati tra ghiacci e steppe fino alla fine dell'ultima era glaciale, quando è cominciata la loro opera di colonizzazione del continente. Questa teoria è opera da Ariane Burke e colleghi dell'Università di Montréal, che hanno datato i resti di alcuni animali ritrovati nel più antico insediamento umano del Canada, quello della grotta di Bluefish, vicino al confine con l'Alaska. I ricercatori hanno impiegato quasi due anni per esaminare ben 36.000 frammenti ossei ritrovati nel sito archeologico e conservati al Museo di Storia Canadese a Gatineau. Tra questi reperti, soltanto 15 riportavano segni inequivocabilmente riconducibili alla mano dell'uomo. In particolare, i paleontologi hanno trovato sulla superficie delle ossa alcune linee dritte, disposte a V, che sono state tracciate con strumenti di pietra usati per scuoiare gli animali. La datazione al radiocarbonio dei reperti ha mostrato che l'osso più antico, quello di una mandibola di cavallo segnata probabilmente nel tentativo di tagliare la lingua dell'animale, risale a ben 24.000 anni fa. Questo risultato conferma la prima datazione dell'insediamento fatta dall'archeologo Jacques Cinq-Mars, che lavorò nella grotta tra il 1977 e il 1987. Anche Cinq-Mars aveva datato al radiocarbonio alcune ossa di animali trovate nella grotta, ma il suo studio era stato contestato in quanto nulla dimostrava che quelle carcasse fossero finite nella grotta per mano dell'uomo e non per altre cause naturali.
Non è tutto. Studi recenti sul DNA mitocondriale dei nativi americani suggeriscono che le popolazioni del Nuovo Mondo potrebbero essersi separate geneticamente dai siberiani già 20.000 anni fa (alle 23.57.39), cioè molto prima di quanto lascerebbero pensare le testimonianze archeologiche giunte sino a noi. Secondo alcuni paleontologi, la costa pacifica del Nord America potrebbe essere stata libera dai ghiacci, in modo da permettere alle prime genti del Nord America di percorrere questo itinerario assai prima dell'apertura di un corridoio libero da ghiacci tra le montagne dell'Alaska ("ipotesi pacifica"). Nessuna prova archeologica è ancora stata trovata per sostenere questa ipotesi, eccettuato il fatto che l'analisi genetica della vita marina lungo le coste dell'Alaska e della Columbia Britannica indica che durante le ere glaciali del Pleistocene quelle coste pullulavano delle usuali fonti di cibo delle popolazioni aborigene costiere, suggerendo che una migrazione lungo la linea costiera fosse all'epoca praticabile.
Un punto fermo in questa annosa diatriba è stato finalmente posto nel 2021. Infatti nel Parco Nazionale di White Sands, nel New Mexico, sono state rinvenute impronte umane che, secondo i paleontologi che le hanno analizzate, risalgono a un periodo compreso tra 23.000 e 21.000 anni fa (tra le 23.57.19 e le 23.57.33): si tratta della prova che gli umani arrivarono in America alcune migliaia di anni prima rispetto a quanto si pensava nei primi anni Duemila. Tali impronte sono state trovate nel 2009, nel 2016 sono iniziate le analisi e le ricerche su alcune specifiche impronte, e nel 2021 i ricercatori hanno annunciato di essere riusciti a datare alcuni semi e sedimenti trovati nello steso strato in cui sono rimaste impresse quelle orme (in passato era sempre stato piuttosto difficile datare delle impronte e si doveva quindi fare affidamento sulla meno precisa datazione di oggetti o utensili eventualmente trovati nelle vicinanze). Alcune tracce mostrano che qualcuno camminò più o meno in linea retta per circa tre chilometri, e si riesce anche a vedere che alcune impronte sono quelle di una donna che, a un certo punto, appoggia a terra un bambino. Le impronte si formarono in seguito al passaggio su di un terreno umido vicino a un lago, e si sono conservate perché alcuni sedimenti coprirono il loro solco e, in seguito, si consolidarono. Sono poi ricomparse per un processo di erosione. Alcune delle impronte di White Sands appaiono in superficie come "tracce fantasma", visibili cioè solo quando il terreno è umido. Gli scienziati pensano che siano causate dall'evaporazione dell'acqua sopra le impronte fossilizzate che sono sepolte più in profondità nel sottosuolo. Tra 26.000 e 19.000 anni fa (tra le 23.56.58 e le 23.57.47), nel periodo noto come Ultimo Massimo Glaciale, i ghiacci coprivano tutta la parte più a nord dell'America, arrivando fino a dove oggi c'è New York. Il ghiaccio e le temperature avrebbero reso impossibile un passaggio dall'Asia, e questo significherebbe che i primi viaggiatori arrivati in America vi giunsero molto prima, e una volta arrivate riuscirono a spostarsi arrivando fino all'attuale New Mexico. Un'ulteriore conferma del fatto che le impronte del Parco Nazionale di White Sands, in New Mexico, sono state quasi certamente lasciate più di 20.000 anni fa, durante il culmine dell’ultima era glaciale, è arrivata nel 2023 grazie ad un gruppo di ricercatori guidati da Jeff Pigati, geologo della Geological Survey degli Stati Uniti (USGS), il quale ha determinato l’età dei granelli di polline e dei minuscoli cristalli di quarzo nei sedimenti accanto alle impronte, che sono sepolte pochi metri sotto la superficie, confermando i risultati dello studio del 2021. I sedimenti sono stati datati con una tecnica chiamata luminescenza otticamente stimolata, che può determinare quando i minerali sono stati esposti l’ultima volta alla luce del giorno. I campioni adatti all'uso di questa tecnica devono essere analizzati in condizioni di oscurità: i ricercatori hanno perciò effettuato dei carotaggi nei sedimenti sepolti, per poi studiarli sotto una luce rossa, in modo da non influenzare la datazione; hanno quindi misurato il bagliore quasi impercettibile dei granelli di quarzo nei campioni sotto specifiche frequenze di luce, e i dati risultanti corrispondono a quelli ottenuti con imetodo al radiocarbonio. Ora disponiamo di tre diverse tecniche di datazione: la datazione al radiocarbonio dei semi, la datazione al radiocarbonio dei pollini e la datazione con luminescenza del quarzo, che mostrano tutte che lì c’erano delle persone più di venti millenni fa. I ricercatori hanno anche scoperto che il polline proveniva da piante che non crescono più nella zona: polline di pino, abete rosso e conifere, che oggi crescono ad altitudini molto più elevate. Quindi la flora indica che 20.000 anni fa l’ecosistema si estendeva fino al fondovalle, e a quell'epoca cammelli, elefanti e bradipi giganti vagavano intorno a un lago ed erano probabilmente prede di cacciatori umani. E le impronte umane suggeriscono che gli uomini arrivarono lì in un'epoca databile fino a 30.000 anni fa (alle 23.56.29), prima che le calotte glaciali rendessero impossibile la migrazione da nord. Ormai nessuno può più mettere in dubbio la presenza di esseri umani in America più di ventimila anni fa.
Non solo. Un team di biologi dell’Università dell’Alaska a Fairbanks e dell’Università di Ottawa, guidato da Matthew Wooller, tracciando gli spostamenti di una femmina di mammut lanoso (Mammuthus primigenius) vissuta in Alaska durante le fasi finali dell’ultima glaciazione, ha trovato collegamenti fra la distribuzione di questi antichi animali e i campi da caccia allestiti dai primi umani della regione. Ne consegue che le abitudini dei mammut lanosi hanno influenzato gli spostamenti dei primi gruppi di cacciatori-raccoglitori giunti in Nord America: ad esempio, la possibilità di catturare i mammut potrebbe aver attirato gli esseri umani in quest’area. Per ricostruire i viaggi del mammut lanoso e capire quali zone frequentava, Wooller e colleghi hanno condotto nuove analisi isotopiche su una zanna di mammut rinvenuta a Swan Point, il più antico sito archeologico dell’Alaska. Le zanne dei mammut non sono altro che denti incisivi modificati a crescita continua, e forniscono informazioni sull’intera vita dell’animale. Il reperto, scoperto nel 2009 dagli antropologi Charles Holmes e François Lanoë, coautori della ricerca, e datato intorno ai 14.000 anni fa (alle 23.58.22), è attribuito a una femmina ribattezzata "Élmayųujey’eh" in lingua nativa, o più brevemente "Elma”. Le analisi isotopiche, finalizzate a individuare i rapporti degli isotopi di stronzio, ossigeno, zolfo e azoto nella zanna, hanno permesso ai ricercatori di risalire alla dieta e alla provenienza dell’animale: se gli isotopi cambiano, vuol dire che l’animale si è spostato; come succede con gli anelli degli alberi, poi, gli isotopi si accumulano negli strati di accrescimento delle zanne in avorio dei mammut, permettendo oggi ai ricercatori di risalire alla dieta e alle zone frequentate da questi animali. La composizione chimica della zanna ha così rivelato che, al momento della morte, Elma aveva circa venti anni di età e aveva trascorso gran parte della sua vita in un’area relativamente piccola dello Yukon, nell’attuale Canada. Una volta cresciuto, il mammut avrebbe viaggiato per circa mille chilometri in appena tre anni, stabilendosi in un’area interna dell’Alaska. Ora, l’area raggiunta da Elma era frequentata anche dai primi cacciatori-raccoglitori che avevano attraversato lo Stretto di Bering. Secondo gli autori, i risultati indicherebbero che la presenza di mammut lanosi in questo territorio avrebbe attirato gli esseri umani, poiché potevano rappresentare una risorsa di grassi e proteine. Questi risultati forniscono anche nuove informazioni per spiegare l’estinzione dei mammut. Gli esseri umani sembrano essere arrivati in Alaska nel momento in cui il clima stava cambiando verso condizioni più calde e umide, che avrebbero favorito l’espansione delle foreste e reso le cose più difficili per i mammut, abituati a pascolare le distese di prateria; in queste condizioni, i mammut sarebbero stati anche più vulnerabili alla predazione da parte degli esseri umani. I ricercatori stanno applicando ora la stessa tecnica di indagine per capire il comportamento di alcune specie diffuse oggi nell’Artico e le loro risposte ai cambiamenti climatici in corso.
I Solutreani varcarono l'Atlantico nel Paleolitico?
Ed era solo l'inizio. Nel 1999 l'archeologo Dannis Stanford della Smithsonian Institution ha confrontato le punte di freccia americane della cultura Clovis con quelle siberiane, notando differenze considerevoli nelle caratteristiche di entrambe. Le punte nordamericane risulterebbero, secondo Stanford, molto più simili a quelle della Cultura Solutreana, che si sviluppò nelle attuali Francia e Spagna tra 22.000 e 16.500 anni fa (tra le 23.57.26 e le 23.58.04), ed il cui nome deriva dal sito di Solutré, nella Francia orientale, scoperto nel 1866 dal geologo francese Henry Testot-Ferry (1826-1869). La proposta ha suscitato molte perplessità, poiché la traversata oceanica non sembra certo essere alla portata delle fragili piroghe dei Solutreani; ma Stanford ha un'idea del modo in cui quei nostri lontani antenati potrebbero essere approdati in America del Nord. L'arte di quel tempo indica che le popolazioni Solutreane del nord della Spagna cacciavano animali marini come foche, trichechi e tonni. Proprio gli animali potrebbero avere indicato loro la via lungo il bordo della banchisa polare, cacciando foche e vivendo come gli attuali Inuit di Alaska e Groenlandia. All'epoca, infatti, l'Atlantico settentrionale era ricoperto di ghiacci come ora lo è l'Artico: la calotta polare in Europa ricopriva la Scandinavia e la Gran Bretagna, arrivando quasi alle attuali coste tedesche, mentre in America si estendeva almeno fino alla latitudine di New York. Quindi era teoricamente possibile attraversarlo spostandosi sui pezzi di ghiaccio vaganti che univano le immense popolazioni di foche tra Canada ed Europa, proprio come gli Inuit, i quali usano ampie barche aperte, costruite con pelli di animali, per lunghi viaggi e per la caccia grossa. Queste imbarcazioni, chiamate umiaq, possono portare una dozzina di adulti e molti bambini, foche e trichechi cacciati, e perfino squadre di cani da slitta. Gli Inuit hanno costruito imbarcazioni simili per migliaia di anni, e Stanford ritiene che i Solutreani potrebbero aver usato qualcosa del genere. Non è da escludere che alcuni di questi cacciatori si siano avventurati fino all'Islanda, dove potrebbero avere avuto la fortunata combinazione di imbattersi in correnti che li hanno condotti in Nord America.
Le prime civiltà umane nelle Americhe, disegno dell'autore |
Contro questa ipotesi, detta "ipotesi solutreana", sono state mosse due obiezioni principali: la differenza di età fra la cultura solutreana, attiva in Europa fino a 16.500 anni fa, mentre le tracce più antiche in Nordamerica risalgono a 14.700 anni fa, e il fatto che i Solutreani (e i loro successori Magdaleniani) fossero degli abilissimi artisti, visto che le testimonianze di arte rupestre nelle grotte in Francia sono vastissime, mentre non ci sono tracce di arte rupestre in Nordamerica. In realtà l'ambiente tipico della traversata atlantica sui ghiacci non consentiva certo questa attività artistica, e ne potrebbe essere stato perso il ricordo. Inoltre l'ipotesi di Stanford continua ad essere valida a proposito delle punte, ma è probabilmente caduta come spiegazione della presenza americana dell'Aplogruppo X, che è stato recentemente rinvenuto in popolazioni dell'Asia settentrionale. L'ipotesi solutreana è insomma ancora plausibile: secondo i suoi sostenitori l'aplogruppo X si sarebbe diffuso nell'Europa occidentale provenendo dal Nordafrica durante il progressivo miglioramento climatico iniziato 18.000 anni fa, e da qui sarebbe passato in Nordamerica valicando l'Atlantico lungo la calotta glaciale. Se così è, i solutreani, arrivati in America, sarebbero rimasti lungo le coste ma poi, con il progressivo ritirarsi dei ghiacci, si sarebbero addentrati nel continente inseguendo le loro prede. Forse il segreto di quei primi, arditi esploratori transoceanici è sepolto nell'oceano al largo della Nuova Inghilterra, in zone ora sommerse ma che 15.000 anni fa, con il livello marino più basso, erano all'aria aperta. Comunque questa migrazione, se c'è davvero stata, ha avuto pesanti conseguenze culturali, ma scarse genetiche: è chiarissima la provenienza dall'Asia degli aplogruppi A, C e D che sono posseduti dalla stragrande maggioranza dei nativi di tutto il continente americano, mentre non ci sono tracce di altri aplogruppi europei.
La nonna di tutte le battaglie
« Nella profondità del tempo, nel deserto più deserto che si possa immaginare, due gruppi di esseri umani vagano alla ricerca di acqua, di vegetazione, di animali. La prima formazione proviene da Sud: gli uomini hanno lunghi arti, il torso più piccolo e un grande naso leggermente schiacciato. Gli altri scendono da Nord: mani e braccia corte, petto più sviluppato, le mascelle allargate. Sono in marcia da giorni, forse da settimane. Un cammino infinito per raggiungere il Nilo, il fiume misterioso e scorbutico, ma pur sempre l'unica fonte di sopravvivenza nel mondo di sabbia. Quelle strane creature, forti e muscolose, si incrociano, si avvistano a distanza. Il corso d'acqua è ancora lontano; la paura, invece, si avvicina a mano a mano che gli uni distinguono gli archi, le frecce, i bastoni degli altri. Non c'è mediazione, non c'è il modo e neanche il tempo per fuggire. Uomini contro uomini, lo scontro è violento e termina solo quando la morte decide chi debba prevalere e sopravvivere. »
Così il giornalista scientifico Giuseppe Sarcina descrive quella che è stata definita « la nonna di tutte le battaglie », combattuta nel deserto di Jebel Sahaba circa 13.000 anni fa (ore 23.58.29), secondo gli antropologi dell'Università di Bordeaux. Nel 2012 essi hanno riesaminato, con le nuove sofisticate tecnologie a loro disposizione, i resti di un cimitero rinvenuto nel 1964 dall'archeologo americano Fred Wendorf (1925-), nella zona tra il Sahara e la riva est del Nilo, in territorio oggi sudanese. Su quelle ossa e su quei teschi ben conservati furono scoperte le scheggiature provocate da dardi appuntiti, lanciati da lunga distanza. Si presume che le vittime (uomini, donne e bambini) siano state seppellite dai loro compagni, però una corrente di studi, alimentata in particolare dall'Università dell'Alaska, dall'Università Tulane di New Orleans e dall'Università John Moores di Liverpool, pensa che la guerra di Jebel Sahaba vada considerata come l'episodio rivelatore di un'epoca prolungata di scontri razziali, una fase di selezione evolutiva all'interno della stessa specie, la nostra. D'altra parte, però, i curatori del British Museum non condividono questa chiave di lettura e si mostrano molto prudenti: il cimitero di Jebel Sahaba risale a un periodo della storia umana ancora troppo oscuro e segnato da conflitti di ogni tipo, non solo quelli tra razze diverse. Le differenze di interpretazione, però, non mettono in discussione l'impatto culturale della prima battaglia sul pianeta a essere documentata con certezza. Prepararsi alla guerra significa riconoscere un'identità, un'appartenenza. Un « noi » distinto e contrapposto agli « altri »; vuole dire avere una nozione di società, per quanto precaria e volatile; un'idea degli interessi vitali da proteggere o sviluppare. Naturalmente è la coscienza, la consapevolezza che distingue questi concetti dagli analoghi istinti degli animali. Una comunità che ha imparato a seppellire i propri morti, indubbiamente possiede questa coscienza, coltiva questa consapevolezza.
Nel cimitero di Jebel Sahaba sono stati ritrovati 61 individui, alcuni seppelliti da soli, altri in gruppo. Tutti erano sistemati in tombe poco profonde e coperte da lastre di pietra. I corpi venivano adagiati sul lato sinistro, leggermente piegati: una procedura che probabilmente faceva parte di un rituale più complesso: la convinzione religiosa che i corpi dovessero essere pronti per un'altra vita. Più o meno diecimila anni prima delle Piramidi, il culmine del culto religioso nella civiltà egizia. Le analisi di laboratorio sulla dentatura e sulla struttura fisica rivelano che i guerrieri di Jebel Sahaba potevano vivere oltre i 50 anni, e che si procuravano il cibo con la caccia e con la pesca. Erano, quindi, in grado di costruire armi nell'11.000 a.C., mille anni prima che nell'emisfero nord terminasse l'era glaciale, duemila anni prima rispetto alle primitive capanne del Neolitico conosciute finora, seimila anni in anticipo sulla formazione delle rudimentali comunità agricole stanziate lungo le sponde del Nilo. Per quale motivo quegli esseri umani, nostri fratelli, si sono fatti la guerra e si sono massacrati? Probabilmente non lo sapremo mai. Ma le loro ossa sembrano ammonirci a non ripetere ancora una volta il loro tragico errore.
La supergiraffa
Aveva il muso appiattito, corna spesse e ritorte, collo piuttosto corto e gambe massicce. Le dimensioni del Sivatherium giganteum, antenato della moderna giraffa diffuso in Africa, in India e nel Sudest asiatico, erano tali da renderlo probabilmente il più grande mammifero ruminante mai comparso sul pianeta Terra. I resti fossili di questo colosso, risalenti a 12.000 anni fa (alle ore 23.58.36), furono rinvenuti dal geologo scozzese Hugh Falconer (1808-1865) e dall'ingegnere inglese Proby Thomas Cautley (1802-1871) nel corso di una spedizione sui colli Siwalik in India; nel 1836 i due descrissero la scoperta in una pubblicazione scientifica ipotizzando una bestia dal cranio simile a quello di un elefante e probabilmente dotata di proboscide, ma con le corna di una renna. Da allora i suoi resti sono rimasti nel Museo di Storia Naturale di Londra, e questo curioso mammifero estinto da una dozzina di millenni non aveva più attirato particolare interesse. Nessuno si era preso la briga neppure di provare a ricostruirne le sembianze, fino a quando nel 2016 ci ha pensato un gruppo di scienziati britannici guidati da Christopher Basu del Royal Veterinary College di Hertfordshire, utilizzando la ricostruzione digitale tridimensionale.
La ricostruzione è avvenuta mettendo insieme le ossa di tre diverse esemplari. Prima scoperta: il Sivatherium ("Bestia di Shiva") era sì una creatura immensa, indiscutibilmente membro della cosiddetta megafauna del Pleistocene, ma più piccola di un mammut o di un rinoceronte lanoso, dato che era alta 2,2 metri al garrese, e il peso di un adulto poteva aggirarsi tra gli 800 e i 1.800 chili abbondanti (un elefante africano può arrivare fino a 12 tonnellate). Seconda: cornuta la bestia lo era eccome, in particolare dotata di due ossiconi (le protuberanze cartilaginee solidificate tipiche delle giraffe) lunghe fino a 70 centimetri, e due corni più piccoli e appuntiti proprio sopra gli occhi. Terza: il suo muso era corto e appiattito, a differenza della conformazione facciale appuntita della giraffa. Quarta: il collo era decisamente più corto di quello delle sue moderne discendenti. Quinta: anche le zampe erano decisamente più corte e tozze. Insomma, l'aspetto del Sivatherium era forse più simile a quello di un odierno okapi; sia l'okapi che il Sivatherium possono essere considerati geneticamente cugini delle giraffe. Le dimensioni dell'animale preistorico erano in ogni caso notevoli per un ruminante: questa bestia dallo stomaco a scomparti multipli e dalla morfologia bizzarra era sicuramente imponente e dotata di notevole forza. Sicuramente i nostri antenati devono aver sudato sette camice per cacciarla! L'ultimo luogo in cui resistette fu nelle pianure del Nordafrica, allora un'ampia savana, ma si estinse fatalmente circa 8.000 anni fa (alle ore 23.59.04), quando il Sahara tornò ad essere un arido deserto.
Ricostruzione di Sivatherium giganteum |
Il primo barbecue della storia
Se le popolazioni preistoriche che vissero nell'Europa centrale avessero avuto la possibilità di vedere come noi cuociamo il barbecue, molto probabilmente avrebbero sorriso vedendo le fettine di carne che ci mangiamo. Ben 29.000 anni fa (alle 23.56.37), infatti, quegli uomini avevano già messo in piedi delle grosse « cucine » sulle quali arrostivano giganteschi pezzi di mammut, che poi si spartivano allegramente.
Il luogo del ritrovamento si trova nell'attuale Repubblica Ceca, vicino al confine con l'Austria e la Slovacchia. Si tratta di un luogo ritenuto assai importante dagli archeologi, perché permette di ricostruire alcune abitudini delle antichissime popolazioni europee che vissero alcune decine di migliaia di anni fa. Ed oggi ci consente di farlo attraverso lo studio di uno degli ambienti più frequentati da quegli uomini: la cucina.
Mentre alcune popolazioni contemporanee a nord del sito in questione preferivano cibarsi di carne di renna, i suoi residenti amavano cucinare porzioni enormi di carne, che dalle renne non avrebbero mai potuto ottenere. Ed ecco quindi perché cacciavano mammut. "La scoperta è importante perché dimostra come quegli uomini abbiano avuto consuetudini in contrasto con altre popolazioni del Paleolitico superiore, proprio perché dipendevano fortemente dai mammut", spiega Jiri Svoboda, professore presso la Masarykova Univerzita di Brno nonché responsabile delle ricerche che sono apparse sulla rivista scientifica Antiquity. Nell'area di studio Svoboda ha trovato i resti arrostiti di un mammut femmina e di un cucciolo dello stesso animale alto non più di un metro e mezzo. Assieme a queste ossa ne sono state trovate altre appartenenti a una volpe artica, a un ghiottone, a un orso, oltre a fossili di cavalli, renne e lepri. "Il modo con il quale è stato cucinato il mammut ricorda quello dei nostri giorni: una serie di pietre riscaldate da sotto attraverso un fuoco, sulle quali venivano poste varie parti dell'animale", ha spiegato il ricercatore.
Molto probabilmente però esisteva anche un luogo nel quale la carne veniva bollita. Il tutto doveva trovare riparo al di sotto di una struttura a forma di tenda. Come in ogni cucina che si rispetti sono stati trovati numerosi attrezzi, quali spatole, lame, seghetti che dovevano servire per tagliare la carne. Non è chiaro se il tutto venisse farcito con frutti di mare, come indicherebbe il fatto che nella cucina sono state rinvenute numerose conchiglie, lavorate per essere utilizzate come ornamenti dopo che il loro contenuto è stato cucinato assieme a tutto il resto.
Attorno alla cucina sono stati ritrovati anche numerosi sassi e pezzi di argilla lavorati per farne ornamenti. Si suppone che alcuni di questi reperti possano avere avuto anche significati rituali o magici, come una testa di leone ritrovata in ottimo stato. "La testa del carnivoro venne dapprima scolpita in un blocco di argilla", ha spiegato Svoboda, "quindi lavorata con uno strumento da taglio, e infine riscaldata sul fuoco trasformandola in una sorta di ceramica. Appare probabile che essa servisse per complicati riti magici".
I primi flauti
Nel sito israeliano di Ain Mallaha un gruppo di ricerca guidato da Laurent Davin della Hebrew University di Gerusalemme ha scoperto una vera e propria orchestra di strumenti a fiato ricavati da ossa di uccelli risalenti a oltre 12.000 anni fa (alle ore 23.58.36). Il sito, nel nord di Israele, era abitato dalle popolazioni della cosiddetta Cultura Natufiana, che si stabilì in quella zona tra 15.000 e 11.500 anni fa (tra le 23.58.15 e le 23.58.39). Durante questa fase i cacciatori-raccoglitori passarono gradualmente a uno stile di vita sedentario. Durante gli scavi ad Ain Mallaha, gli scienziati hanno estratto più di 1100 ossa di uccelli, soprattutto uccelli acquatici e alcuni rapaci, e tra i reperti c'era un flauto d'osso perfettamente conservato e frammenti di altri sei. In alcune ossa alari di alzavole (Anas crecca) e folaghe (Fulica atra) erano stati praticati fori per le dita, mentre le ance erano state ricavate all'estremità. Inoltre sui flauti, alcuni dei quali sono decorati con ocra, sono state trovate tracce di utilizzo, segno del fatto che questi strumenti venivano effettivamente suonati dal popolo dei Natufiani. Il gruppo di Davin ha anche riscontrato che le ossa di questi uccelli acquatici non sono molto frequenti nell'insieme dei reperti di Ain Mallaha, e sono piuttosto piccole rispetto agli altri pezzi. Il flauto completo, per esempio, misura solo 6,3 centimetri di lunghezza. Forse i flauti erano destinati a produrre una specifica nota.
Davin e il suo gruppo hanno quindi realizzato alcune riproduzioni dei flauti natufiani, simili a quelli chiamati "quena" nella regione andina. Questi flauti sono tenuti in verticale e soffiati come un flauto traverso. Gli esperimenti condotti sulle copie hanno dimostrato che l'altezza tonale e il timbro somigliano ai suoni di alcune specie di uccelli, il gheppio (Falco tinnunculus) e lo sparviero (Accipiter nisus). Ad Ain Mallaha si sono conservati diversi artigli di entrambe le specie, che forse gli abitanti dell'epoca indossavano come gioielli. Dunque i sette flauti potrebbero essere serviti non solo come strumenti musicali ma anche come fischietto di richiamo per uccelli rapaci e falchi. Sulla base di confronti etnologici, si può ipotizzare che i suoni degli uccelli arricchissero la musica di accompagnamento per danze e rituali. Flauti simili sono stati scoperti dagli archeologi anche in Europa centrale: nelle grotte del Giura, durante gli scavi, sono stati trovati diversi flauti fatti di avorio di mammut o di ossa di cigni e grifoni. Gli oggetti risalgono al tardo Paleolitico e hanno fino a 40.000 anni di età (alle 23.55.19). Insieme a circa 50 figure di animali intagliati, sono tra le più antiche opere d'arte e strumenti musicali conosciuti dall'umanità.
Il primo party
E dopo il barbecue, il party preistorico! Sembra infatti che, di tanto in tanto, anche i nostri lontani antenati dessero delle festicciole: la sola differenza è che essi festeggiavano con bue e tartaruga al posto di champagne e tartine A trovarne le prove in una grotta di Hilazon Tachtit in Galilea, risalenti a oltre 11.500 anni fa (alle 23.58.39), sono state le archeologhe Natalie Munro dell'Università del Connecticut e Leore Grosman dell'Università di Gerusalemme. Per preparare il cibo quegli antichi cacciatori, appartenenti alla cosiddetta Cultura Natufiana, considerata da alcuni la prima a risiedere in villaggi permanenti anziché darsi al nomadismo, trascorrevano giorni e giorni a inseguire le prede, e dai resti degli oltre 300 chili di carne che gli archeologi hanno riportato alla luce, si è dedotto che gli invitati alla più antica festa della storia umana fossero tra i 35 e i 40, tutti evidentemente assai affamati. Non era affatto scontato che uomini abituati a una vita dura, fatta di caccia e guerre fra tribù per il possesso del territorio, sentissero il bisogno di ritrovarsi insieme per socializzare. Ma la scoperta getta luce su un delicato passaggio della storia umana, in cui la vita nomade stava lasciando il passo a quella sedentaria, la caccia cominciava a essere affiancata dall'agricoltura, e le prime forme di arte decorativa stavano diventando ingredienti indispensabili della vita di tutti i giorni. Un passaggio di cui la Cultura Natufiana è considerata emblematica.
A quanto pare la festa più antica di cui abbiamo notizia era stata organizzata per onorare la sepoltura di una donna. Zoppa, alta non più di un metro e mezzo e molto anziana per gli standard dell'epoca, la donna era probabilmente la sciamana del villaggio, primo rappresentante noto di una vita spirituale particolarmente intensa in quell'area del Medio Oriente; e l'ultimo saluto ai suoi resti mortali si trasformò in un grande banchetto in suo onore.
Nella grotta di Hilazon Tachtit, situata a 200 metri sul livello del mare a metà strada fra il Lago di Tiberiade e il Mediterraneo, le due archeologhe hanno trovato i resti di tre esemplari di uro, un enorme bovino con grandi corna assai difficile da cacciare, e di almeno 71 tartarughe, probabilmente catturati dopo molti giorni di ricerche. Alcuni dei loro carapaci, alla fine della festa, sono stati ordinatamente sepolti nella tomba della vecchia sciamana insieme a un piede umano, due crani di martora, la punta dell'ala di un'aquila, la coda di un uro, le ossa del bacino di un leopardo, una zampa di cinghiale e un corno di gazzella.
« Davanti ai nostri occhi », hanno spiegato Munro e Grosman, « è apparsa una società umana che si fa sempre più complessa e si avvia a quella rivoluzione neolitica dell'agricoltura. Le feste già all'epoca servivano a consolidare le relazioni fra gli individui, a integrare le varie comunità di uomini e a mitigare lo stress di una società che stava profondamente cambiando. » La densità della popolazione aumentava, la vita nei villaggi rendeva sempre più importante la cooperazione fra gli uomini, la società umana aveva iniziato una corsa verso la complessità che non si sarebbe mai più fermata. E certamente gli invitati al party preistorico non avrebbero mai immaginato a quali generi di feste si sarebbero abbandonati i loro discendenti!
Alla cultura natufiana appartiene un altro primato: alcuni archeologi israeliani hanno portato alla luce diverse tombe nei dintorni del Monte Carmelo di Haifa, datate con il carbonio 14 fra 13.700 e 11.700 anni fa (fra le 23.58.24 e le 23.58.38), che rappresentano la prova più antica in assoluto di fiori utilizzati per onorare i morti. L'archeologo Daniel Nadel dell'Università di Haifa ha rinvenuto al loro interno tracce di piante da fiore, come la menta e la salvia. Tali piante sono state disposte sul fondo della tomba prima che i corpi vi venissero sepolti, e i fiori profumati probabilmente sono stati scelti tanto per i loro aromi che per i loro colori. « Spuntano centinaia di fiori sul Monte Carmelo, durante la primavera, ma solo un piccolo gruppo di essi fornisce forti fragranze. È 'impossibile che i Natufiani li abbiano raccolti a caso e non per il loro profumo », ha spiegato Nadel. Probabilmente la sepoltura fu accompagnata da un cerimoniale elaborato, perché insieme ai corpi sono state trovate anche ossa di animali. « Non è stato sufficiente posizionare i corpi dentro le tombe prima di andarsene: dobbiamo immaginare una cerimonia complessa che forse includeva balli, canti e un banchetto. Forse hanno cacciato alcuni animali e si sono messi a consumare un pasto intorno alle tombe in onore dei defunti, e poi hanno gettato le ossa al loro interno ».
L'alba dell'agricoltura
Non lontano dal sito del primo party, un gruppo di archeologi dell'Università di Notre Dame, in Indiana, Stati Uniti, e del Council for British Research in the Levant, ad Amman, in Giordania, guidato da Ian Kuijt e Bill Finlayson, ha riportato alla luce a Dhra', non lontano dalle coste giordane del Mar Morto, quello che appare il primo granaio della storia, che la datazione al radiocarbonio ha indicato risalire a un periodo compreso fra gli 11.300 e gli 11.175 anni fa (fra le 23.58.42 e le 23.58.40), e quindi alla fine del Pleistocene. La scoperta testimonia un momento cruciale nella storia dell'umanità, quello della lunga transizione dalle comunità di cacciatori-raccoglitori alle società basate sull'agricoltura, come diremo più sotto.
Il granaio aveva una struttura circolare con un diametro di circa tre metri e pareti in fango e pietra, e superiormente era protetto da un graticcio di pali intrecciati con frasche e rami. Il pavimento del granaio era sollevato da terra, in modo da assicurare la circolazione dell'aria ed una migliore protezione dai roditori. Accanto al granaio vi erano poi altri due edifici destinati alla lavorazione dei prodotti e delle piante, edifici che probabilmente servivano anche come abitazione.
L'esistenza di granai così sofisticati e grandi indica che questa popolazione immagazzinava il cibo su scala stagionale, se non addirittura annuale, cercando di mettersi al riparo dal rischio di carestie, creando così i presupposti di notevoli cambiamenti sociali. Probabilmente questo granaio serviva alla conservazione di risorse vegetali ricavate da piante selvatiche, in un'epoca precedente all'adozione dell'agricoltura, ma comunque esso testimonia un intervento attivo sul normale ciclo delle piante: per quanto l'orzo e l'avena che vi erano contenuti appaiano chiaramente selvatici, vi è traccia di una loro selezione attiva, indicando una trasformazione dei comportamenti che fa risalire il ritrovamento ai primissimi stadi della transizione verso la domesticazione delle piante. Il fatto che il granaio avesse una localizzazione esterna rispetto agli altri edifici sembra inoltre indicare che esso dovesse essere di proprietà e di uso della comunità intera. Non può sfuggire il fatto che la scoperta sia stata effettuata in quella che tutti conosciamo come "Mezzaluna fertile", e che fu una delle culle della civiltà nel Vecchio Mondo.
Non posso fare a meno, a questo proposito, di citare l'ipotesi avanzata da Nick Longrich, paleontologo dell'Università di Bath, il quale ha cercato di rispondere a una apparentemente semplice domanda: perché noi abbiamo impiegato cosi tanto tempo a "inventare" l'agricoltura? Come si è visto, i moderni Homo sapiens hanno iniziato a evolversi tra i 350.000 e i 250.000 anni fa (tra le 23.19.07 e le 23.30.48), ma i primi passi verso la raccolta e poi verso la domesticazione delle piante coltivate sono iniziati solo 10.000 anni fa (alle 23.58.49), mentre le prime civiltà urbane sono apparse 6.400 anni fa (alle 23.59.15). Per il 95 % della storia della nostra specie, ha osservato Longrich, non abbiamo coltivato, né creato grandi insediamenti o complesse gerarchie politiche; abbiamo invece vissuto in gruppi nomadi di cacciatori-raccoglitori. Poi qualcosa è cambiato. Sorprendentemente, la transizione verso quella che noi chiamiamo "civiltà" (da "cives, "cittadino") è iniziata solo dopo la scomparsa della megafauna dell'era glaciale: mammut, rinoceronti lanosi, bradipi giganti, cervi giganti e così via. Secondo Longrich proprio la scomparsa degli animali da cui dipendevamo per nutrirci potrebbe aver costretto la nostra cultura all'evoluzione. Prima, semplicemente non ne avevamo bisogno.
Il riscaldamento globale alla fine del periodo dell'ultima glaciazione, 11.700 anni fa (alle ore 23.58.38), ha probabilmente facilitato la coltivazione. Temperature più elevate, stagioni di crescita più lunghe, aumento delle precipitazioni e stabilità climatica di lungo periodo hanno permesso la coltivazione di superfici più vaste. Ma è improbabile che la coltivazione fosse impossibile ovunque. La Terra ha inoltre assistito a molti periodi di riscaldamento simili , ma i primi riscaldamenti non hanno stimolato esperimenti di coltivazione. Il cambiamento climatico non può essere stato l'unico fattore scatenante. Se le opportunità per creare l'agricoltura erano preesistenti, allora il ritardo nella sua invenzione suggerisce che i nostri antenati non dovevano, o non volevano, coltivare. L'agricoltura infatti comporta svantaggi significativi rispetto alla caccia. Richiede sforzi maggiori e offre meno tempo libero e una dieta di qualità peggiore. Se i cacciatori sono affamati al mattino, possono avere cibo sul fuoco alla sera. L'agricoltura richiede un duro lavoro oggi per produrre cibo dopo mesi, e può anche non produrne affatto. Un cacciatore che ha avuto una brutta giornata può tornare a caccia il giorno dopo o cercare altri e più ricchi terreni di caccia; ma gli agricoltori, legati alla terra, sono alla mercè dell'imprevedibilità della natura. Le piogge che arrivano troppo presto o troppo tardi, siccità, gelate, calamità o locuste possono provocare cattivi raccolti e carestie. L'agricoltura presenta anche svantaggi militari: i cacciatori-raccoglitori si muovono e possono percorrere grandi distanze per attaccare o ritirarsi. La continua pratica con lance e archi li ha resi combattenti letali. Gli agricoltori invece sono legati ai propri campi e alle scadenze dettate dalle stagioni. Sono bersagli prevedibili e stazionari, le cui scorte di cibo tentano estranei affamati. E se si fossero evoluti con quello stile di vita, gli uomini avrebbero semplicemente preferito essere cacciatori nomadi. Gli indiani Comanche hanno combattuto fino alla morte per conservare il proprio modo di vivere da cacciatori. I boscimani del Kalahari dell'Africa meridionale continuano a resistere alla trasformazione in agricoltori e pastori. Sorprendentemente, quando gli agricoltori polinesiani hanno incontrato i numerosissimi uccelli incapaci di volare della Nuova Zelanda, hanno abbandonato l'agricoltura in massa, creando la cultura Maori dei cacciatori di moa.
Può darsi che proprio in seguito all'estinzione dei mammut e degli altri animali di grandi dimensioni del Pleistocene, e alla caccia eccessiva delle restanti prede, lo stile di vita dei cacciatori-raccoglitori sia diventato meno praticabile, spingendo le persone a raccogliere e poi coltivare piante. La civilizzazione potrebbe non essere nata per un impulso verso il progresso, ma da una catastrofe ecologica causata da noi stessi, proprio come quella da cui ora ci mettono in guardia i ragazzi come Greta Thunberg. Quando gli uomini hanno abbandonato l'Africa per colonizzare nuovi territori, i grandi mammiferi sono scomparsi ovunque mettessimo piede. In Australia, i canguri giganti e i vombati sono spariti 46.000 anni fa (ore 23.54.38). In Nord America, cavalli, cammelli, armadilli giganti, mammut e i bradipi giganti di terra sono diminuiti e scomparsi tra i 15.000 e i 11.500 anni fa (tra le 23.58.15 e le 23.58.39), seguiti dalle estinzioni in Sud America tra i 14.000 e gli 8.000 anni fa (tra le 23.58.22 e le 23.59.04). In seguito alla diffusione degli uomini nelle isole caraibiche, in Madagascar, Nuova Zelanda e Oceania, si è estinta anche la relativa megafauna. Le estinzioni degli animali di grandi dimensioni seguivano fatalmente gli uomini. Dovunque andassimo, la nostra ingegnosità ha fatto sì che catturassimo i grandi animali più velocemente di quanto loro riuscissero a riprodursi: è stata senza dubbio la prima emergenza ambientale. Non potendo più vivere come una volta, gli uomini sono stati costretti a innovare, concentrandosi maggiormente sulla raccolta e poi sulla coltivazione di piante per sopravvivere, e ciò ha portato alla crescita delle popolazioni umane. Mangiare piante invece di carne rappresenta un uso più efficiente della terra, dato che l'agricoltura può sostenere più persone nella stessa area rispetto alla caccia: ci si è potuti stabilire permanentemente, costruendo insediamenti e poi civilizzazioni. I reperti archeologici e fossili ci dicono che i nostri antenati avrebbero potuto praticare l'agricoltura da millenni, ma lo hanno fatto solo quando non hanno avuto alcuna alternativa. L'agricoltura è stato un disperato tentativo di riparare le cose una volta che avevamo preso più di quanto l'ecosistema avesse potuto sostenere. In questo caso, abbiamo abbandonato la vita di cacciatori dell'era glaciale per creare il mondo moderno, non con lungimiranza e intenzione, ma a causa di una catastrofe ambientale che abbiamo provocato migliaia di anni fa.
Vorrei aggiungere che, secondo Patrick McGovern, direttore del Biomolecular Archaeology Project for Cuisine, Fermented Beverages and Health presso l'Università della Pennsylvania, avrebbero abbandonato la vita nomade e istituito le prime comunità agricole spinti dalla prospettiva di iniziare a preparare la... birra. Per esigenze di sete, insomma, più che di fame. La teoria più largamente accettata dalla comunità scientifica sostiene che i raccolti agricoli di diecimila anni fa fossero usati per la preparazione del pane, ma McGovern ha un'opinione diversa: « La birra ha innumerevoli effetti benefici. Un alto contenuto di vitamina B e lisina, per esempio. Ma anche il fatto che è molta più sicura da bere rispetto all'acqua, perché il processo di fermentazione uccide batteri e virus. Con il suo quattro per cento di contenuto alcolico, era considerata un potente alterante della mente e una sostanza medicinale. » Tanto che, secondo l'archeologo, gli antichi produttori di birra erano considerati medici e sciamani all'interno delle comunità preistoriche. Sempre secondo McGovern, l'uomo preistorico avrebbe imparato a produrre la birra partendo da una specie di "pappa" a base di orzo. Il lievito naturale, forse fornito dagli insetti, avrebbe fermentato tale pappa, creando una sostanza gelatinosa alcolica, l'antenato della birra moderna. Si tratta, in effetti, di una ricetta più semplice di quella del pane, che richiede, oltre alla mietitura, la macinazione e la cottura. Ma c'è dell'altro. Secondo McGovern, la produzione e il consumo di birra aveva anche un forte impatto sociale: la bevanda era largamente utilizzata in cerimonie e celebrazioni, più o meno come accade oggi.
La teoria dell'archeologo statunitense non è del tutto nuova: già negli anni cinquanta Robert Braidwood (1907-2003), esperto di storia antica del Medio Oriente presso l'Università di Chicago, analizzando grano e falci rinvenuti negli insediamenti della già citata Cultura Natufiana, era arrivato a una conclusione analoga, perché la tecnologia di mietitura allora disponibile avrebbe portato a una « produzione di cibo troppo scarsa rispetto al lavoro richiesto »: per questo motivo, secondo Braidwood, i nostri antenati avrebbero preferito "qualcosa di più gratificante e prezioso del cibo: l'alcool. » Non tutti però sono d'accordo con lui, nella comunità scientifica.
L'evoluzione della Salmonella
Uno studio pubblicato nel 2020 da Felix M. Key, Alexander Herbig e Johannes Krause del Max-Planck-Institut per la scienza della storia umana a Jena, in Germania, sulla base dell'analisi di resti umani recuperati in tutta l'Eurasia occidentale, dalla Svizzera alla Russia, ha permesso di esaminare i più antichi genomi batterici mai recuperati prima di allora e di stabilire che il batterio della salmonellosi si è evoluto per adattarsi a un passaggio cruciale della storia umana: la transizione da un sostentamento basato su caccia e raccolta a uno basato sull'agricoltura e l'allevamento. Si tratta di un risultato di grande rilievo, dato che i resti fossili degli esseri umani non conservano segni della maggior parte degli agenti patogeni che hanno infettato l'organismo. Questo ostacolo è stato superato grazie a una nuova tecnica di screening batterico chiamata HOPS (Heuristic Operations for Pathogen Screening), con cui Key e colleghi hanno esaminato 2739 resti umani risalenti a migliaia di anni fa e appartenenti a diversi gruppi culturali, dalle società di cacciatori-raccoglitori, ai pastori nomadi ai primi agricoltori. I ricercatori sono riusciti a isolare dai resti, in particolare da campioni di denti, otto antichi genomi di Salmonella enterica, alcuni dei quali risalgono a 6500 anni fa (alle ore 23.59.14). I sei genomi di salmonella recuperati da pastori e agricoltori, in particolare, sono progenitori di Paratyphi C, un ceppo raro che infetta specificamente gli esseri umani. Quell'antica salmonella, invece, probabilmente infettava sia gli esseri umani sia gli animali.
L'analisi mostra come questo agente patogeno batterico si sia evoluto in un periodo di circa 5000 anni, anche in funzione delle mutate abitudini di vita dei nostri progenitori. Il passaggio ad abitudini stanziali e la nascita di una economia basata su agricoltura e allevamento degli animali, un processo denominato "neolitizzazione", ha portato una maggiore promiscuità e aumentato le occasioni di contatto con feci umane e animali. Di conseguenza, la transizione ha incrementato anche il rischio d'infezione da salmonella, che rappresentava probabilmente una seria minaccia per la salute dei nostri antichi antenati. L'analisi genomica di campioni antichi getta una luce senza precedenti sul passato delle malattie umane: ora disponiamo di dati molecolari per comprendere l'emergere e la diffusione di agenti patogeni di migliaia di anni fa, ed è entusiasmante il modo in cui possiamo utilizzare la tecnologia più moderna per rispondere a domande di lunga data sull'evoluzione microbica.
L'evoluzione del coronavirus
Ma non basta: oggi abbiamo le prove che circa 20.000 anni fa (alle 23.57.39) le popolazioni dell'Asia orientale dovettero affrontare un'epidemia da coronavirus che lasciò nel loro DNA le tracce genetiche di una lunga convivenza forzata: la scoperta, avvenuta dopo la grande pandemia iniziata a fine 2019, dimostra che i coronavirus umani capaci di causare malattie gravi non sono soltanto una minaccia degli ultimi anni. Nei primi due decenni del XXI secolo abbiamo attraversato tre epidemie causate da Betacoronavirus, i coronavirus umani capaci di provocare malattie gravi: il SARS-CoV, che ha avuto origine in Cina nel 2002 e ha ucciso più di 800 persone; il MERS-CoV, il virus della sindrome respiratoria mediorientale da coronavirus, che ha provocato la morte di 850 persone; e infine il SARS-CoV-2, che ha causato finora quasi quattro milioni di decessi (ma c'è chi dice molti di più). Lo studio sull'evoluzione del genoma umano condotto da Università dell'Arizona, Università della California San Francisco e Università di Adelaide (Australia) riporta alla luce un'altra, molto più antica epidemia da coronavirus localizzata in Asia orientale, nell'area oggi occupata da Cina, Giappone, Mongolia, Corea del Nord, Corea del Sud e Taiwan.
«Tutti i genomi accumulano costantemente mutazioni, la maggior parte delle quali è innocua e non porta a cambiamenti di funzione dei geni. Possiamo immaginare la frequenza di mutazioni come un orologio genetico dal ticchettio continuo», ha dichiarato Kirill Alexandrov, tra gli autori dello studio. «Tuttavia, quando c'è una pressione selettiva, l'orologio di alcuni geni inizia a ticchettare più velocemente mentre questi accumulano mutazioni vantaggiose. Il nostro studio ha dimostrato che, oltre 20.000 anni fa, molti geni umani che il SARS-CoV-2 sfrutta per manipolare le cellule dell'organismo iniziarono a ticchettare più rapidamente in modo simultaneo, come a indicare che ci fu una pandemia virale causata da un virus simile ». Gli scienziati hanno usato i dati del 1000 Genomes Project, il più vasto e dettagliato catalogo della variabilità genetica dell'uomo, per osservare come sono cambiati, nel corso del tempo, i geni umani che codificano per le proteine capaci di interagire con il SARS-CoV-2. Separatamente hanno sintetizzato proteine umane e proteine tipiche dei coronavirus, come la spike, e hanno dimostrato che queste interagiscono in modo diretto, e che di fatto il modo di attaccare le cellule dei virus di questa famiglia si è conservato nel tempo. Studiando come si è evoluto il genoma umano che si occupa di codificare le proteine che interagiscono con questi patogeni, il team ha concluso che, più di 20.000 anni fa, gli antenati delle attuali popolazioni dell'Asia orientale dovettero vedersela con un'epidemia causata da un coronavirus che provocava una malattia simile alla covid, o comunque da un virus che aggrediva le cellule con lo stesso meccanismo.
Nel corso dell'epidemia, la selezione naturale operò sul genoma umano favorendo varianti genetiche capaci di portare a una malattia meno grave. Perché è vero che i virus evolvono, ma anche noi lo facciamo. « Il moderno genoma umano contiene informazioni evolutive che permettono di risalire a decine di migliaia di anni fa, come se stessimo studiando gli anelli di un albero per avere informazioni sulle condizioni che ha attraversato in fase di crescita », ha aggiunti Alexandrov. In linea di principio, procedendo con questo tipo di analisi si potrebbe compilare una lista delle famiglie di virus che in passato hanno causato epidemie su larga scala, e che potrebbero farlo di nuovo nel corso della storia.
È inoltre degna di segnalazione, in questo ipertesto, la scoperta della più antica « farmacia » del mondo, ritrovata in Sudamerica e risalente a circa 14 millenni fa. Essa, a quanto pare, era tutta basata su... composti di alghe. I frammenti di alghe, datati fra 14.220 e 13.980 anni fa (dalle 23.58.20 alle 23.58.22), sono stati trovati in un sito archeologico del Cile chiamato Monte Verde, già noto per essere il più antico villaggio delle Americhe, oltre mille anni più vecchio di tutti gli altri scoperti nel Nuovo Continente, come testimoniano i coproliti, cioè i resti di feci umane fossilizzate ivi ritrovati. La scoperta è opera di un gruppo di ricerca cileno-americano guidato dall'antropologo Tom Dillehay, della Vanderbilt University.
Il grande rinnovamento degli europei preistorici
Circa 14.500 anni fa (ore 23.58.18), in un periodo di grande instabilità climatica, la popolazione preistorica europea si è quasi completamente rinnovata, come testimoniano i resti del DNA di 35 cacciatori-raccoglitori che vissero tra 35.000 e 7.000 anni fa (tra le 23.55.55 e le 23.59.10) nelle attuali Italia, Germania, Francia, Repubblica Ceca e Romania, analizzati da Cosimo Posth e Johannes Krause dell'Università di Tubinga, in Germania. Essi hanno studiato in particolare il DNA mitocondriale, che viene ereditato solo dalla madre e che può quindi essere usato per ricostruire le antiche discendenze matrilineari attraverso l'individuazione dei diversi aplogruppi, cioè le famiglie delle diverse varianti genetiche osservabili sui differenti cromosomi. Ebbene, l'analisi ha mostrato che i DNA mitocondriali di tre individui, vissuti prima dell'ultimo massimo glaciale nella regione dove oggi si trovano Belgio e Francia, appartenevano a uno specifico gruppo genetico, l'aplogruppo M, praticamente assente nelle popolazioni europee moderne ma molto comune nelle popolazioni moderne di asiatici, australasiani e nativi americani.
Proprio sulla base dell'assenza dell'aplogruppo M in Europa e della sua presenza in altre parti del mondo, alcuni antropologi avevano ipotizzato che la colonizzazione dell'Eurasia e dell'Australasia da parte di popolazioni non africane fosse avvenuta a più riprese. Secondo Krause e colleghi invece la scoperta dell'aplogruppo M in un antico ramo filogenetico materno europeo indica che tutti i non africani del mondo hanno avuto origine dalla diaspora di un'unica popolazione avvenuta circa 50.000 anni fa (ore 23.54.09). In seguito, l'aplogruppo M è apparentemente scomparso dal Vecchio Continente. « Quando, circa 25.000 anni fa (alle 23.57.05), iniziò l'ultimo massimo glaciale, le popolazioni di cacciatori-raccoglitori si ritirarono verso sud, concentrandosi in alcune zone limitate: ne è risultato un "collo di bottiglia" genetico che ha determinato la perdita di questo aplogruppo », ha aggiunto Posth. Il risultato che ha sorpreso maggiormente i ricercatori è stata la prova di profondo rinnovamento della popolazione europea avvenuto 14.500 anni fa, quando il clima iniziò a riscaldarsi. Ciò indica che, durante questo periodo di cambiamento climatico, i discendenti dei cacciatori-raccoglitori sopravvissuti all'ultimo massimo glaciale furono in gran parte sostituiti da una popolazione di origine diversa. « Abbiamo gettato una luce su un capitolo della storia umana sconosciuto, in corrispondenza dell'ultimo massimo glaciale », ha aggiunto Johannes Krause. « I dati relativi a quel periodo sono sempre stati scarsi, ed è per questo che si finora si sapeva assai poco sulla struttura e sulla dinamica delle prime popolazioni dell'uomo moderno in Europa ».
Il tempio megalitico di Göbekli Tepe, considerato il più antico del pianeta (da questo sito) |
Il primo tempio in pietra
Nel 1994 un pastore curdo scoprì per caso una colonna di pietra sepolta nel sito di Göbekli Tepe (Girê Navokê in curdo), presso la città di Şanlıurfa nell'odierna Turchia, vicino al confine con la Siria. Una missione congiunta di ricerca turco-tedesca scavò nell'area, riportando alla luce il più antico esempio conosciuto di tempio in pietra, la cui erezione dovette interessare centinaia di uomini nell'arco di tre o cinque secoli. Si pensa che il tempio sia vecchio di 12.000 anni (ore 23.58.36), e quindi che risalga alla fine del Pleistocene. Sono stati rinvenuti quattro recinti circolari, delimitati da enormi pilastri in calcare pesanti 12 tonnellate ciascuno. Secondo gli autori dello scavo le pietre, drizzate in piedi e disposte in circolo, simboleggerebbero assemblee di uomini.
Sono state riportate alla luce almeno 40 pietre a forma di T, che raggiungono i sei metri di altezza. Per la maggior parte sono incise e vi sono raffigurati diversi animali (serpenti, anatre, gru, tori, volpi, leoni, cinghiali, vacche, scorpioni, formiche). Alcune incisioni vennero volontariamente cancellate, forse per disporne di nuove. Sono inoltre presenti elementi decorativi, come insiemi di punti e motivi geometrici. Gli scultori devono aver svolto la loro opera direttamente sull'altopiano del santuario, dove sono stati rinvenute anche pietre non terminate. Inoltre le indagini geomagnetiche hanno indicato la presenza almeno di altre 250 pietre ancora sepolte nel terreno.
Lo studio degli strati di detriti accumulati sul fondo del lago Van, in Anatolia, ha permesso di dimostrare una notevole crescita delle temperature intorno al 9000 a.C. (ore 23.58.43). I resti di pollini presenti nei sedimenti inoltre ci hanno aiutato a ricostruire una flora composta da querce, ginepri e mandorli. Fu forse il cambiamento climatico a determinare una progressiva sedentarizzazione delle popolazioni che hanno costruito il sito. La presenza di una struttura monumentale così imponente dimostra che, anche precedentemente allo sviluppo dell'agricoltura e nell'ambito di un'economia di caccia e raccolta, gli uomini possedevano mezzi sufficienti per erigere strutture monumentali. L'archeologo francese Jacques Cauvin (1930-2001) ha ipotizzato che proprio lo sviluppo delle concezioni religiose avrebbe costituito una spinta alla sedentarizzazione, inducendo gli uomini a raggrupparsi per celebrare riti comunitari; l'organizzazione sociale necessaria all'erezione di questa struttura favorì poi uno sfruttamento pianificato delle risorse alimentari e lo sviluppo delle prime pratiche agricole. Il sito si trova infatti sui bordi della famosa Mezzaluna Fertile, dove cresceva spontaneo il grano selvatico.
Nessuna traccia di abitazioni è stata rinvenuta negli scavi. A circa 4 metri di profondità, ossia ad un livello corrispondente a quello della costruzione del santuario, sono stati invece riportati alla luce strumenti in pietra (raschiatoi, punte di frecce), insieme ad ossa di animali selvatici (gazzelle e lepri), semi di piante selvatiche e legno carbonizzato, che testimoniano la presenza in questo periodo di un insediamento stabile. Intorno all'8000 a.C. il sito venne deliberatamente abbandonato e seppellito con terra portata dall'uomo, per motivi affatto sconosciuti. Il famoso giornalista Graham Hancock (1950-vivente) sostiene a spada tratta l'idea che ad erigere i megaliti di Göbekli Tepe, in un'epoca in cui l'Olocene non era ancora neppure iniziato, possano essere stati soltanto dei visitatori alieni, e che i cerchi di pietre siano una sorta di "segnalazione d'atterraggio" per gli UFO. A parte ovviamente l'assoluta assenza di manufatti alieni sul posto, una simile teoria è offensiva nei confronti dell'intera umanità. Essa infatti non ha mai avuto bisogno di "balie asciutte cosmiche" per essere "istruita" ed iniziare il cammino verso una civiltà tecnologica. Il cervello umano ha in sé tutte le potenzialità per erigere monumenti pesanti diverse tonnellate anche con mezzi di fortuna: forse è proprio questo, alla fin fine, il motivo per cui la nostra specie è stata l'unica a sopravvivere, tra tutti gli innumerevoli "cespugli" del nostro albero genealogico!
E non è tutto. Nel 2017 a Göbekli Tepe alcuni ricercatori dell'Istituto Archeologico Tedesco di Berlino guidati da Julia Gresky hanno ritrovato le prove dell'esistenza di un "culto dei teschi" risalente agli inizi del Neolitico. Gli studi antropologici registrano numerosi casi di culto dei teschi, che possono essere venerati per vari motivi, dal culto degli antenati alla credenza nella trasmissione di particolari abilità del defunto al vivente. Questo culto può assumere forme diverse, dalla deposizione dei teschi in luoghi speciali, alla loro decorazione con diversi colori fino alla ricostruzione dei tratti del volto con la malta. A Göbekli Tepe è stato rinvenuto un numero considerevole di ossa umane, gran parte delle quali (408 su 691) sono frammenti di ossa del cranio. La frammentazione dei crani e le tracce e scalfitture presenti su di essi finora erano stati attribuiti a processi di degradazione naturali, ma grazie a una più attenta analisi dei resti Julia Gresky e colleghi hanno identificato in tre crani parziali delle profonde incisioni praticate con utensili litici, dimostrandone cosi l'origine intenzionale. Ulteriori analisi hanno escluso che le incisioni fossero una conseguenza secondaria di un'asportazione dello scalpo. Uno dei crani, inoltre, mostra anche un foro nell'osso parietale sinistro e residui di ocra rossa. Secondo gli autori, probabilmente i teschi furono scolpiti, e forse adornati, per venerare gli antenati o per esibire nemici uccisi.
Coloro che costruirono le rovine megalitiche di Göbekli Tepe vissero appena prima di quella che fu una transizione fondamentale nella nostra storia: la rivoluzione del Neolitico, con la quale gli esseri umani iniziarono a dedicarsi all'agricoltura e a domesticare piante e animali. Però a Göbekli Tepe non c'è traccia di cereali domesticati, il che suggerisce che coloro che vi abitavano non erano ancora divenuti agricoltori. Le tante ossa animali trovate tra le rovine dimostrano che quegli esseri umani erano abili cacciatori, e vi sono anche tracce di enormi banchetti. Gli archeologi hanno ipotizzato che tribù nomadi di cacciatori-raccoglitori di tutta la regione si riunissero qui di tanto in tanto per realizzare enormi "grigliate", e che furono queste feste a base di carne a spingerli a costruire quelle possenti strutture in pietra. Laura Dietrich del Deutsches Archäologisches Institut di Berlino ha invece scoperto che quegli antichissimi costruttori si alimentavano con intere vasche di pappe di cereali che gli antichi residenti del luogo avevano macinato e trasformato su scala quasi industriale. Nel 2016 la Dietrich ha ritrovato vicino al tempio più di 10.000 macine e quasi 650 vassoi e recipienti in pietra, alcuni dei quali abbastanza grandi da contenere fino a 200 litri di liquido, un numero impressionante. Secondo lei servivano per preparare pappe di cereali e birra. Purtroppo è molto più facile trovare prove del consumo di carne che di alimenti a base di cereali o altre piante, perché le ossa degli animali macellati fossilizzano molto più facilmente rispetto ai resti di un banchetto vegetariano, ma i paleobotanici hanno ritrovato minuscole particelle di materiale organico, come semi, legno carbonizzato e resti di alimenti, che confermano l'ipotesi di Laura Dietrich. Sono stati analizzati persino pezzetti di alimenti bruciati, risultato degli errori di cottura del passato: stufati e pappe di cereali lasciati sul fuoco troppo a lungo, pezzi di pane lasciati cadere nel focolare o bruciati nel forno. Qualcuno ha provato addirittura a cucinare i cereali con quegli antichi strumenti in pietra e a lasciarli bruciare apposta, confrontandoli poi con i resti ritrovati, e senza trovare sostanziali differenze Le informazioni raccolte a Göbekli Tepe rivelano insomma che gli esseri umani si nutrivano di cereali molto prima del momento in cui, stando alle prove disponibili, li domesticarono, e dunque assai prima di quanto si pensasse. Le prove archeologiche indicano che alcuni esseri umani consumavano piante ad alto contenuto di amidi più di 100.000 anni fa! Nell'insieme, queste scoperte distruggono l'idea a lungo condivisa secondo cui gli uomini preistorici si nutrissero soprattutto di carne, come mostra lo stereotipo rappresentato da Fred Flintstone; un'idea che ha ispirato la cosiddetta "paleodieta" diffusa negli Stati Uniti, che raccomanda di evitare cereali e altri amidi, a volte con gravi danni alla salute. Invece è ormai chiaro che i primi esseri umani iniziarono a cucinare e a consumare carboidrati non appena impararono ad accendere un fuoco. L'analisi di tracce di cibo bruciacchiato in un sito archeologico in Giordania ha poi dimostrato che si trattava nientemeno che di pane. La maggior parte degli archeologi supponeva che il pane non fosse comparso sul menù prima della domesticazione dei cereali, avvenuta 5000 anni dopo l'errore di cottura in Giordania: a quanto pare quei primi panificatori usavano frumento selvatico. Insomma, il lavoro di Laura Dietrich colma una grossa lacuna nella nostra conoscenza del tipo di alimenti che costituivano la dieta dell'antichità, e ha anche cambiato il modo in cui gli archeologi interpretano Göbekli Tepe e il periodo in cui fu costruito. Le prime interpretazioni lo facevano somigliare ad un sacco di cacciatori maschi che stavano su una collina a mangiare antilope alla griglia accompagnata da birra tiepida per feste occasionali, e nessuno pensava veramente alla possibilità di consumo di piante su larga scala. E invece, tutto va riscritto da capo.
Ma non è finita: a lungo o genetisti hanno tentato di individuare le origini del frumento domesticato, ma sembra proprio che almeno una variante, il farro monococco, è originaria dei Monti Karaçadag, a soli 30 km da Göbekli Tepe. Solo una coincidenza? Difficile da credere. Appare probabile che quel centro di culto edificato nella notte dei tempi fosse in qualche maniera connesso con l'inizio della domesticazione dei cereali da parte dell'Homo sapiens: per poter alimentare coloro che costruirono e poi usarono quelle strutture monumentali era necessaria un'immensa quantità di cibo, e forse in quella circostanza i nomadi passarono dalla semplice raccolta del farro selvatico spontaneo alla sua coltivazione intensiva. Forse, dunque, fu proprio a Göbekli Tepe che iniziò il Neolitico, l'età in cui gli uomini scoprirono l'agricoltura e smisero di essere nomadi. Dunque non è vero la costruzione di società complesse, di una cultura cittadina e delle religioni furono una conseguenza dell'inizio dell'agricoltura che costrinse gli uomini a diventare stanziali; è vero piuttosto il contrario, cioè prima vennero esigenze di natura culturale e religiosa, e poi quelle legate al sostentamento alimentare ed economico della società. Una vera rivoluzione copernicana!
Gli antenati caucasici
Ai tre grandi flussi genetici che hanno dato origine alle popolazioni europee moderne se ne aggiunge un quarto, dovuto ad antichissime popolazioni del Caucaso rimaste isolate per decine di migliaia di anni. La scoperta è stata compiuta da un gruppo di ricercatori del Trinity College di Dublino e del Museo Nazionale della Georgia a Tbilisi, ed è stata possibile grazie all'analisi del genoma di due individui vissuti 13.300 e 9700 anni fa (tra le 23.58.27 e le 23.58.52), il cui DNA si è conservato in modo eccezionalmente buono grazie al clima freddo e asciutto del Caucaso. Già in precedenza vari studi avevano rivelato che agli europei contemporanei hanno contribuito, in vari gradi, tre popolazioni ancestrali: i cacciatori-raccoglitori dell'ovest che, arrivati sul continente durante il Mesolitico, si spinsero dalla Spagna verso est fino all'Ungheria; i primi gruppi di agricoltori provenienti dal Vicino Oriente, che circa 10.000 anni fa (alle 23.58.49) iniziarono a espandersi dall'area mediterranea in tutto il continente; e infine, circa 5000 anni fa (alle 23.59.25), i pastori Yamnaya, noti per aver poi dato vita alla cosiddetta cultura della ceramica cordata, provenienti dalle steppe centroasiatiche. L'analisi genetica dei resti fossili di antichi soggetti Yamnaya aveva però mostrato che questa popolazione doveva circa metà del proprio patrimonio genetico a qualche altra popolazione rimasta finora sconosciuta.
Lo studio condotto da Eppie Ruth Jones e colleghi ha scoperto ora questa misteriosa componente nelle antiche tribù di cacciatori-raccoglitori del Caucaso. Le analisi indicano che questa popolazione si separò dai cacciatori-raccoglitori occidentali circa 45.000 anni fa (ore 23.54.45), per migrare verso il Caucaso, ricevendo un parziale contributo genetico dalle tribù che poi avrebbero dato origine ai primi agricoltori europei. Questo flusso genetico però si interruppe del tutto circa 25.000 anni fa (ore 23.57.05), poco prima dell'ultimo massimo glaciale. Per quasi 15.000 anni (per 100 secondi), l'espansione dei ghiacciai isolò completamente le popolazioni caucasiche da qualsiasi mescolanza con altre popolazioni, fino a quando, tornate agibili le vie di comunicazione, si mescolarono con le tribù nomadi provenienti dall'Aia centrale, dando origine alla popolazione Yamnaya. Ma non è tutto: Jones e colleghi hanno anche scoperto che, in corrispondenza del ritiro dei ghiacci, una parte dell'antica popolazione caucasica iniziò una migrazione verso est, arrivando fino in India, dove contribuì al profilo genetico degli abitanti dell'India settentrionale. Jones ha dichiarato: « L'India è un mix perfetto di componenti genetiche asiatiche ed europee. Quella dei cacciatori-raccoglitori del Caucaso è la componente genetica che corrisponde nel modo migliore alla componente genetica europea che si trova nelle moderne popolazioni indiane ».
Abbiamo cominciato presto, purtroppo
Serve un viaggio nella preistoria per capire cosa ci riserva il futuro? Se potessimo davvero scoprire cosa è accaduto 13.000 anni fa (alle 23.58.29) potremmo evitare di ripetere gli stessi errori compiuti dai nostri antenati preistorici? Il cambiamento climatico che si sta verificando assomiglia ai rapidi cambiamenti che hanno interessato la terra nel suo passato? A queste domande sta tentando di rispondere un gruppo di paleontologi americani impegnati sullo studio dei resti fossili scoperti a La Brera Tar Pits, un sito archeologico nel sud della California. Secondo loro l’estinzione di alcuni membri della megafauna pleistocenica come le tigri dai denti a sciabola, sarebbe stata causata dalle alte temperature dovute agli incendi causati dall’uomo. Infatti negli ultimi 50.000 anni il nostro pianeta è andato incontro ad una serie di cinque estinzioni di massa successive, e in quella avvenuta alla fine dell'ultima era glaciale gli scienziati hanno trovato parallelismi con quanto sta accadendo al nostro clima: l’estinzione delle megafaune secondo questi studi sarebbe da attribuire alle alte temperature causate dagli incendi causati dall’uomo.
Nel sito di La Brera, rinchiusi in enormi fosse di catrame, sono stati trovati circa cinque milioni di fossili provenienti da 3.000 felini preistorici, alcuni dei quali risalenti a 55.000 anni fa. Questi animali dai lunghi denti canini che cacciavano nel Continente americano durante il Pleistocene sono spariti quasi improvvisamente. Robin O'Keefe, biologo evoluzionista della Marshall University (Huntington, West Virginia), ha analizzato i fossili di otto grandi specie di mammiferi che vivevano tra 15.600 e 10.000 anni fa (tra le 23.58.10 e le 23.58.49). Utilizzando la datazione al radiocarbonio, il team ha determinato che sette di queste specie si sono estinte circa 13.000 anni fa. Per capire le cause sono state analizzate le tracce lasciate sui fossili dal clima, i pollini e gli incendi. I paleontologi hanno poi incrociato i dati con quelli della crescita della popolazione umana, scoprendo che la presenza dell’uomo ha iniziato a salire rapidamente più o meno nello stesso periodo in cui la California meridionale è entrata in un periodo di grave siccità e riscaldamento. A causa di incendi violentissimi la vegetazione, un tempo ricca di ginepri e querce, è stata sostituita da erba e arbusti. Sarebero stati proprio gli esseri umani i principali motori di questi incendi, sia attraverso l'accensione diretta che a causa dell'eliminazione via via dei grandi erbivori, il che ha permesso al sottobosco infiammabile di diffondersi. Alla fine di quel periodo, l’ecosistema era completamente diverso e tutta la megafauna era sparita. Ovviamente non tutti sono d'accordo, ma quella che sembra poco più di una disputa accademica prende tutta un’altra piega guardando le riprese TV degli incendi che nelle ultime estati hanno devastando vasti territori dal Canada alle isole Hawaii, mettendo a rischio molte specie selvatiche. Siamo sicuri di voler ripetere su scala ancora maggiore gli errori di 130 secoli fa?
Per una volta (forse) non è colpa dell'uomo
Restiamo sull'argomento. Anche se l'Africa è l'unico continente in cui sono ancora presenti più tipi di mammiferi erbivori giganti (elefante, giraffa, rinoceronte e ippopotamo), per milioni di anni la sua megafauna erbivora è stata molto più ricca e varia. E poiché ci sono solide prove che la nostra specie ha dato un contributo determinante alla riduzione o alla scomparsa della megafauna avvenute fra 50.000 e 10.000 anni fa (tra le 23.54.09 e le 23.58.49), anche le precedenti estinzioni di questo tipo di animali erano state messe in relazione alla comparsa dei primi ominidi e al perfezionamento delle loro tecniche di caccia. Invece, secondo una ricerca condotta da un gruppo di paleoantropologi e paleoecologi diretti da J. Tyler Faith dell'Università dello Utah a Salt Lake City, l'estinzione dell'antica megafauna erbivora dell'Africa orientale sarebbe stata determinata da cambiamenti ecologici e non dall'impatto della comparsa dei primi ominidi. Faith e colleghi infatti hanno analizzato una serie di reperti fossili provenienti dall'Africa orientale risalenti fino a sette milioni di anni fa e rappresentativi di 28 lignaggi estinti di megafauna erbivora, allo scopo di ricostruire la cronologia della loro estinzione, scoprendo che l'inizio del loro declino è iniziato circa 4,6 milioni di anni fa (alle 15.00.43). Hanno poi confrontato il risultato con i passaggi fondamentali dell'evoluzione umana, della fabbricazione dei primi utensili in pietra e della macellazione di mammiferi, iniziate circa 3,4 milioni di anni fa (alle 17.22.53), e con la comparsa, circa 1,9 milioni di anni fa (alle 20.18.05), di Homo erectus, una specie che è nota per aver consumato grandi quantità di carne. Ma l'unico ominide vissuto 4,6 milioni di anni fa, per quanto finora noto, era l'Ardipithecus, che non disponeva di strumenti di pietra: tutt'al più poteva cacciare piccole prede come gli scimpanzè odierni, ma non certo grandi erbivori.
Ma c'è di più: il tasso di estinzione dei grandi mammiferi erbivori è rimasto costante da 4.6 milioni di anni in poi, senza mostrare alcun cambiamento in coincidenza dei progressi evolutivi e tecnologici degli ominidi. Se gli ominidi fossero responsabili dell'estinzione dei megaerbivori, ci aspetteremmo che il loro declino segua le tappe comportamentali o adattive dell'evoluzione umana. E' invece graduale e si sviluppa su quasi cinque milioni di anni, da molto prima della comparsa di qualsiasi ominide lontanamente in grado di abbattere una preda della dimensione di un rinoceronte o di un elefante. La causa della scomparsa di quella megafauna sarebbe dunque un'altra, che Faith e colleghi identificano nei cambiamenti ambientali e in particolare nella diminuzione dell'anidride carbonica atmosferica e nella conseguente sostituzione delle foreste e dei grandi arbusti con praterie. Le piante erbacee tropicali hanno infatti una maggiore capacità di sopportare bassi livelli di CO2 atmosferica rispetto agli alberi e ai grandi arbusti, le cui foglie costituivano il principale alimento della megafauna erbivora.
Tuttavia René Bobe e Susana Carvalho, dell'Università di Oxford, sostengono invece che non è detto che si possa escludere un ruolo degli ominidi nella scomparsa di questi animali, sia perché le documentazioni fossili e archeologiche disponibili sono comunque molto limitate, sia perché la predazione degli esemplari molto giovani, teoricamente alla portata di diversi ominidi già prima di Homo erectus, potrebbe aver avuto gravi effetti su specie in cui le femmine generano un numero ridotto di piccoli che dipendono per un periodo relativamente lungo dalla protezione degli adulti. Inoltre, gli ominidi hanno iniziato a usare il fuoco circa 1,5 milioni di anni fa (alle 21.00.48), e questo può essere stato all'origine di numerosi incendi che hanno facilitato l'espansione degli ecosistemi a savana.
Le prove a favore della tesi di Faith però vanno accumulandosi. Ad esempio, non fu solo la caccia intensa da parte dell'uomo, ma anche un rapido cambiamento climatico a determinare nella parte più meridionale del Sudamerica, durante l'ultima glaciazione, la fine delle specie che costituivano la cosiddetta megafauna: l'orso sudamericano, il giaguaro gigante, la tigre dai denti a sciabola e il megaterio, una sorta di bradipo terricolo grande come un elefante. Lo ha dimostrato un gruppo di ricercatori dell'Università di Adelaide, in Australia, secondo i quali l'estinzione di queste specie, allora molto diffuse nella regione, avvenne rapidamente, circa 12.300 anni fa (alle ore 23.58.34), quindi molto dopo l'arrivo dei primi esseri umani. « La Patagonia si sta rivelando una Stele di Rosetta per questo tipo di studi: i dati dimostrano che la colonizzazione umana non ebbe come effetto immediato le estinzioni, che si verificarono più di mille anni dopo, e nell'arco di un centinaio di anni », ha spiegato Alan Cooper, che ha coordinato lo studio. Cooper e colleghi hanno studiato il DNA estratto da resti fossili di antichi animali vissuti in Patagonia e nella Terra del Fuoco per ricostruire la storia genetica delle loro popolazioni, confrontandola con la cronologia della colonizzazione umana delle Americhe. Ciò ha consentito di separare il contributo della presenza umana da quello del cambiamento di temperatura.
« Le Americhe hanno una
caratteristica unica: gli esseri umani si mossero lungo i due continenti,
dall'Alaska alla Patagona, in soli 1500 anni », ha aggiunto
Chris Turney, che ha partecipato allo studio.
« Così facendo hanno attraversato differenti condizioni
climatiche: caldo al nord, freddo al sud: per questo, possiamo confrontare gli
impatti umani nelle differenti
condizioni climatiche. » Le uniche grandi specie a sopravvivere, pur con
una forte riduzione del loro numero, furono il guanaco
e la vicuna, cioè rispettivamente gli antenati
degli attuali lama e alpaca.
Gli antichi dati genetici mostrano che solo l'arrivo successivo in Patagonia di
esemplari di guanaco provenienti dal nord salvò la specie, mentre tutte le altre
popolazioni si estinsero. « Nel 1936 la grotta di Fell, in
Patagonia, fu il primo sito al mondo a mostrare che gli esseri umani, durante
l'ultima glaciazione, cacciavano la megafauna », ha concluso
Fabiana Martin, coautrice dello studio;
« perciò sembra appropriato utilizzare ora le ossa
scoperte nell'area per ricostruire il ruolo cruciale del riscaldamento climatico
e degli esseri umani nelle estinzioni della megafauna. »
La grande testuggine siciliana
Oggi potrebbe sembrare incredibile, eppure testuggini di grande taglia hanno abitato l'Europa continentale e insulare per milioni di anni: alcune avevano una taglia comparabile o anche superiore a quella delle testuggini che ancora abitano le Isole Galapagos, nell'Oceano Pacifico. La Sicilia ha ospitato testuggini giganti con una lunghezza del guscio di circa un metro durante il Pleistocene medio, fino a circa 200 mila anni fa (alle 23.36.38). Sono conosciuti resti sia nel Ragusano sia nella zona di Alcamo, esposti rispettivamente al Museo Civico di Storia Naturale di Comiso e al Museo Geologico Gemmellaro di Palermo. Allora era già presente la testuggine di Hermann, Testudo hermanni, che è attualmente l'unica testuggine terrestre autoctona presente in Sicilia e di cui sono presenti numerosi resti fossili in giacimenti paleontologici e archeologici. Il suo guscio però è molto più piccolo di quello delle testuggini giganti, e in Sicilia supera di poco i 20 centimetri. Grazie agli scavi condotti dal gruppo di lavoro di Luca Sineo dell'Università di Palermo in un'area funeraria a circa 15 metri di profondità nella grotta chiamata Zubbio di Cozzo San Pietro (nel comune di Bagheria, presso Palermo), sono stati portati alla luce alcuni resti di una enorme testuggine il cui guscio raggiungeva probabilmente i 50-60 centimetri. Analisi al radiocarbonio dei resti della testuggine hanno rivelato che l'animale era in vita circa 12.500 anni fa (alle 23.58.32), molto prima che la grotta fosse interessata dalle attività funerarie.
La presenza di un femore molto ben conservato ha consentito di confrontare le caratteristiche morfologiche della testuggine di Bagheria con quella di tutte le testuggini viventi e fossili del Mediterraneo e di stabilire che si tratta di una nuova specie, ed anzi di un nuovo genere. Il materiale è stato attribuito a Solitudo sicula, un nome simile a quello dell'unica testuggine terrestre attualmente vivente in Sicilia, Testudo, ma che allude alla "solitudine" delle ultime testuggini di grandi dimensioni del Mediterraneo. Secondo Gianni Insacco, Direttore Scientifico del Museo di Comiso, che ha consacrato la vita al del salvataggio dei resti fossili delle testuggini giganti della Sicilia orientale, il ritrovamento di questi resti rappresenta una sorpresa veramente inaspettata che apre nuove prospettive per la ricerca scientifica e quindi per la conoscenza del patrimonio naturale e culturale siciliano. Il ritrovamento di un femore nello Zubbio di Cozzo San Pietro ha consentito un confronto accurato con le altre testuggini di grandi dimensioni. Sebbene non sia possibile dimostrarlo sulla base dei dati oggi disponibili, non è escluso che Solitudo sia stata portata all'estinzione dagli esseri umani che hanno abitato la Sicilia nell'antichità, e le prove di interazioni fra Solitudo e gli esseri umani potrebbero essere ancora racchiuse nei depositi fossiliferi dello Zubbio di Cozzo San Pietro o in altri giacimenti archeologici dell'isola. Del resto, la scomparsa delle testuggini di grandi dimensioni in numerose isole della Terra è stata regolarmente determinata dall'uomo. Purtroppo l'estrazione del DNA antico non ha dato risultati utili a comprendere le relazioni di parentela di Solitudo sicula con le specie attualmente viventi. Inoltre, i resti fossili sono estremamente scarsi e non includono elementi del cranio e del guscio che potrebbero consentire di fare confronti più dettagliati e ottenere delle informazioni relative all'ecologia di questa specie. Speriamo in ulteriori campagne di scavo.
La prima fumata
« Intorno a 12.300 anni fa, una famiglia si accampò in un paesaggio paludoso e verdeggiante in quello che oggi è lo Utah nord-occidentale. Per arrivarci avevano camminato un centinaio di chilometri, probabilmente attratti dalla promessa di prede di caccia (oggi estinte) come mammut e cammelli, portando con sé un'abbondante scorta di anatre per nutrirsi tra una caccia e l'altra. Accesero un fuoco e intagliarono alcuni uccelli usando pietre scheggiate e affilate. Finito il pasto, fecero quello che molti fanno tutt'oggi: si godettero un po' di tabacco. » Così ha sintetizzato Daron Duke, direttore del Far Western Anthropological Research Group a Henderson, in Nevada, che ha studiato una manciata di semi di tabacco di 12.300 anni fa (ore 23.58.34) recuperati in un antico focolare, spingendo indietro di 9.000 anni la data del primo uso conosciuto del tabacco. Prima di questa scoperta, infatti, le più antiche prove dell'uso del tabacco risalivano a circa 3.300 anni fa (ore 23.59.37), e provenivano da residui trovati in pipe da fumo nel sud-est degli Stati Uniti. Questo ritrovamento indica che gli esseri umani hanno imparato ad apprezzarne gli effetti inebrianti già poco dopo l'arrivo nelle Americhe, stimato intorno a 20.000 anni fa. Questa scoperta dei semi ci offre un raro, intimo sguardo sulle abitudini dei popoli preistorici, e mostra quanto poco queste abitudini siano cambiate nei millenni.
Duke ha trascorso vent'anni a setacciare il deserto gessoso del Great Salt Lake, contando sull'erosione causata dal vento nel sito di Wishbone. Nel 2015 si è imbattuto in una piccola macchia nera da cui spuntavano alcune ossa di uccello: un antico focolare, insomma. Le ossa di anatra e gli strumenti scoperti intorno al focolare indicavano che probabilmente era stato utilizzato per alcune notti da un piccolo gruppo di persone, ed esso si è rivelato la più antica struttura all'aperto di questo tipo scoperta finora nel deserto occidentale statunitense. Dopo aver raccolto i sedimenti dal focolare e averli portati in laboratorio, i ricercatori hanno immerso la miscela in acqua per separare il materiale organico da quello inorganico. Da quel materiale hanno identificato i resti carbonizzati di quattro semi di tabacco. La datazione al radiocarbonio del carbone di legno di salice, recuperato anch'esso dal focolare, ha rivelato che l'intero contenuto, compresi i semi, aveva circa 12.300 anni. I semi non erano resti dell'ultimo pasto delle anatre; i ricercatori hanno trovato nel sito il contenuto degli stomaci degli uccelli, e le analisi hanno rivelato che si trattava soprattutto di vegetazione degli stagni, il cibo preferito delle anatre. Ovviamente non sappiamo come venisse usato il tabacco, ma Duke pensa che possa essere stato fumato o messo dietro il labbro e succhiato. Inoltre, nel focolare egli ha recuperato anche altri tipi di semi già noti per essere consumati dai nostri antenati, il che implica che le persone che hanno costruito il focolare avevano portato con sé scorte delle piante che per loro erano importanti: un assortimento di semi dalla forte connotazione culturale, insomma.
Il tabacco fa parte di una lunga lista di prodotti naturali come caffé, tè, alcool, oppiacei e molte piante e funghi psichedelici che gli esseri umani hanno utilizzato nei secoli per alterare deliberatamente il proprio stato mentale. Le prime popolazioni che arrivarono nelle Americhe però non avevano più a disposizione le sostanze preferite a cui erano abituate in Asia, e probabilmente si misero subito a cercare tra le piante locali quelle con proprietà interessanti che andassero oltre il semplice valore alimentare. Una volta scoperto, il tabacco divenne parte integrante della loro nuova vita nel continente. Per molti versi non è così sorprendente che gli uomini usassero il tabacco migliaia di anni prima della sua coltivazione, se si considerano le proprietà inebrianti e il significato culturale del suo uso: anzi, la domesticazione delle piante potrebbe essere stata in parte guidata dalle preferenze culturali per quelle che avevano un buon sapore o effetti importanti sul corpo e sulla mente.
Il "bisonte di Higgs"
L'incrocio fra i dati genetici e le pitture rupestri lasciate dai nostri antenati ha permesso di scoprire l'origine del bisonte europeo (Bison bonasus), un'origine finora così sfuggente da aver indotto i paleontologi a soprannominare la specie ancestrale "bisonte di Higgs", alludendo alla particella elementare scoperta nel 2012 dopo oltre cinquant'anni di ricerche a vuoto. Il mistero dell'origine del bisonte europeo moderno era dovuto alla completa assenza di reperti di questo animale risalenti a prima di 11.700 anni fa (ore 23.58.38), quando i suoi fossili compaiono di colpo, senza che vi siano forme intermedie fra di esso e il bisonte delle steppe, scomparso dall'Europa poco prima. Julien Soubrier dell'Università di Adelaide, in Australia, e colleghi hanno invece scoperto che il bisonte europeo, specie ben diversa dal bisonte americano, è frutto di un incrocio avvenuto circa 120.000 anni fa (alle 23.45.59) fra l'antico ed estinto bisonte delle steppe (Bison priscus) e l'antenato degli attuali bovini (Bos primigenius), noto anche come uro, di dimensioni considerevoli (poteva superare i due metri al garrese).
I ricercatori hanno condotto un'analisi sistematica del DNA mitocondriale estratto da ossa e denti attribuibili ad antichi bisonti rinvenuti nelle caverne di tutta Europa, dalla Francia fino alla Russia e al Caucaso, per confrontarlo con quello di Bison priscus e dei bisonti moderni. L'analisi dei dati ha rivelato che alcuni campioni mostravano dei caratteri distintivi molto differenti sia dal bisonte europeo sia da qualsiasi altra specie conosciuta, facendo ipotizzare l'esistenza di un'altra misteriosa specie, indicata come "CladeX". Confrontando le datazioni al radiocarbonio dei reperti, Soubrier e colleghi hanno scoperto che questa specie è stata più volte dominante in Europa, alternandosi con il bisonte delle steppe in coincidenza con i cambiamenti climatici via via succedutisi. Ora, le pitture rupestri dell'epoca glaciale mostrano due diverse raffigurazioni di bisonti: una (per esempio a Lascaux, a sinistra in alto) con corna lunghe e grandi quarti anteriori, più simile al bisonte delle steppe e al suo diretto discendente bisonte americano, e una (per esempio a Pergouset, a sinistra in basso) con le corna più corte e gibbosità meno marcate, che ricorda il bisonte europeo moderno. Il raffronto fra le età delle pitture rupestri e quelle dei periodi di dominanza delle due specie ha mostrato che coincidono, facendo pensare ai ricercatori l'idea che "CladeX" fosse in realtà un ibrido. « Non avremmo mai immaginato che gli artisti delle caverne avrebbero dipinto immagini di entrambe le specie, per noi ora così utili », ha dichiarato Soubrier. « Una volta formata, la nuova specie ibrida sembra essersi ricavata con successo una nicchia ecologica, dominando durante i periodi più freddi, con un paesaggio prevalentemente a tundra e senza estati calde. Questa è stata la specie europea più grande che sia riuscita a sopravvivere alle estinzioni della megafauna. »
E le differenze genetiche rispetto al bisonte contemporaneo? Il bisonte europeo moderno sembra geneticamente molto diverso perché ha dovuto superare un drammatico collo di bottiglia genetico che negli anni venti del Novecento, quando sfiorò l'estinzione, lo ridusse a soli 12 individui. Ecco perché la forma antica ci sembrava una nuova specie differente.
L'Età del Fuoco?
Chiudiamo il nostro discorso sul Pleistocene segnalando l'esistenza di una teoria che fino a poco tempo fa sarebbe rientrata nel Catastrofismo tipico di ogni fine di secolo (nel nostro caso, del ventesimo), ma che grazie a scoperte recenti sembra aver trovato nuova sostanza. Infatti alla fine dell'ultima era glaciale, circa 13.000 anni fa, il Nord America vantava una ricca megafauna, per lo più erbivori di grande stazza come mammut, mastodonti, tigri dai denti a sciabola, bradipi giganti. Nel giro di breve tempo tuttavia tutti questi animali scomparvero, e a lungo gli scienziati hanno dibattuto sulle cause e le modalità di questa estinzione. Fra le teorie più accreditate, l'intensa caccia da parte delle popolazioni della già nominata cultura Clovis, fino a poco tempo fa considerata la più antica presente sul suolo americano, o qualche mutamento climatico locale di portata tale da modificare drasticamente il loro ambiente.
È tuttavia andato crescendo il sospetto che 12.900 anni fa (alle 23.58.29) un oggetto extraterrestre sia esploso nell'atmosfera terrestre sopra il Canada, con la potenza di migliaia di bombe atomiche, proprio quando il clima cominciava a riscaldarsi alla fine dell'ultima era glaciale. L'esplosione provocò immensi incendi, devastò l'ecosistema del Nord America e le culture preistoriche, e a causa della polvere sollevata in cielo innescò una mini era glaciale durata circa 1300 anni, causando l'estinzione della megafauna e quasi sterminando gli antichi abitanti del Nord America. Poiché gli scienziati non hanno scoperto "un ampio cratere fumante" lasciato dall'evento, si pensa che l'oggetto che attraversò la nostra atmosfera fosse una cometa, chiamata per l'appunto "cometa di Clovis". Il calore dall'evento potrebbe avere innescato incendi su tutta la superficie del continente nordamericano, oltre a rompere porzioni del foglio di ghiaccio e a soffocare il Canada orientale di quel tempo: per questo qualcuno usa il termine colorito di "Età del Fuoco", coniato dallo scrittore e politico americano Ignatius Donnelly (1831-1901) nel suo libro "Ragnarok: The Age of Fire and Gravel", pubblicato nel 1883. Donnelly identificò tale catastrofe con quella che avrebbe distrutto la mitica Atlantide di Platone, nella cui esistenza egli credeva fermamente, e nella quale (travisando peraltro completamente i dialoghi platonici "Timeo" e "Crizia", che descrivono una civiltà ideale mai esistita, come l'"Utopia" di sir Thomas More) ravvisava la superciviltà originaria, da cui sarebbero derivate tutte le altre, da quelle della valle dell'Indo fino a quelle del Perù (leggete qui per saperne di più). Oggi la teoria di Donnelly è stata dimostrata sicuramente falsa, nonostante i tentativi di Charles Berlitz e di Graham Hancock di sostenerne la veridicità nei loro bestseller, per cui anche l'ipotesi della cometa che pose fine all'era pleistocenica era caduta nel più completo dimenticatoio.
Di recente tuttavia alcune stupefacenti scoperte effettuate da Richard Firestone del Lawrence Berkeley National Laboratory hanno riportato in vita la teoria di Donnelly. Infatti otto zanne di mammut dell'Alaska da lui studiate hanno mostrato segni di scheggiature che, secondo lui, possono essere interpretati solo come il risultato di un bombardamento da parte di frammenti di meteorite, o comunque provenienti da un impatto al suolo di un oggetto celeste. Firestone sostiene poi di aver rilevato gli stessi frammenti anche su di un cranio di bisonte siberiano, segno del fatto che l'evento catastrofico interessò tutto l'emisfero boreale. I test suggeriscono che le scheggiature sono ricche di ferro e nichel ma povere di titanio, e da ciò Firestone inferisce l'origine extraterrestre dell'oggetto esploso nell'atmosfera. Almeno 20 siti nel Nordamerica recherebbero tracce di materiali esotici provenienti dallo spazio (in analogia con la Crisi dell'Iridio di fine Mesozoico). A sostegno di quest'ipotesi è venuta anche una ricerca dell'Università dell'Oregon, sulla base del ritrovamento di milioni di nanodiamanti della grandezza di un milionesimo di millimetro nella fascia che dall'Arizona al South Carolina risale il continente fino agli stati canadesi dell'Alberta e di Manitoba. Per ottenere queste pietre servono altissime temperature e una pressione fortissima, situazioni generate da una serie di esplosioni simile a quella verificatasi il 30 giugno 1908 a Tunguska in Siberia (vedi foto soprastante), a causa dell'impatto di un meteorite che polverizzò oltre 2000 chilometri quadrati di foresta. Doug Kenneth, il capo del team, ha spiegato che questi nanodiamanti sono stati ritrovati in gran quantità negli strati di terra corrispondenti a 12.900 anni fa, un periodo in cui nei sedimenti non si trovano più tracce dei grandi animali e minime degli indiani Clovis. Sarebbe stato anche identificato il sito principale dell'impatto: un deposito di sedimenti nel Michigan. Non tutti naturalmente sono d'accordo con Firestone e con Kenneth; ma, se essi hanno ragione, il calore dell'impatto potrebbe spiegare alcuni fenomeni incontestabilmente avvenuti alla fine del Pleistocene. Infatti il riversarsi di acque fresche nel Nord Atlantico che ne risultò avrebbe interrotto le correnti oceaniche che portano calore alla regione, e le spesse nuvole di fumo e fuliggine nell'aria avrebbero intensificato il raffreddamento dell'Emisfero Settentrionale, il che spiegherebbe l'origine di un periodo di freddo di 1300 anni che nei suoi primi decenni vide le temperature nell'emisfero settentrionale scendere fino a 10°. "The Day after Tomorrow", per capirci!
C'è però da dire che alcuni ricercatori dell'Università del Wisconsin a Madison, dell'Università del Wyoming e della Fordham University di New York hanno scartato l'ipotesi catastrofista dopo aver analizzato pollini, resti di carbone di legna e spore di un fungo (Sporormiella) del letame che richiede un passaggio nell'intestino di mammifero per poter completare il proprio ciclo vitale, in modo da ricostruire con estrema precisione i cambiamenti nei materiali di scarto organici dell'ambiente dell'era glaciale. Dalle analisi dei ricercatori è risultato che il declino della megafauna è iniziato nel sito di Appleman Lake fra 14.800 e 13.700 anni fa, e che esso precedette i principali cambiamenti nella composizione delle comunità vegetali e l'aumento degli incendi. Intorno a 13.800 anni fa il numero di spore crolla vistosamente. La circostanza che la diffusione degli incendi sia stata successiva al declino escluderebbe l'ipotesi cometaria, ed anzi secondo loro sarebbe stata proprio l'assenza di ampie popolazioni di grandi erbivori a favorire il cambiamento del paesaggio e a favorire l'aumento degli incendi, non viceversa. D'altra parte la datazione degli eventi escluderebbe la responsabilità delle popolazioni della cultura di Clovis nella sparizione della megafauna, ma non quella di altre popolazioni pre-Clovis, come invece hanno subito ribadito i sostenitori della teoria che imputa ai cacciatori la scomparsa della megafauna nordamericana. Inoltre, nel 2012 Jeffrey S. Pigati e colleghi dello US Geological Survey hanno studiato la presenza di marcatori da impatto in strati sedimentari che coprono un arco di tempo compreso fra 40.000 e 6.000 anni fa, depositatisi in varie aree paludose degli Stati Uniti sudoccidentali e nel deserto di Atacama del Cile settentrionale. Analizzando i campioni prelevati, essi hanno trovato concentrazioni degli indicatori di impatto più elevate del normale in 10 dei 13 siti presi in esame, fra i quali diversi campioni che non risalgono all'epoca del brusco raffreddamento. La presenza dei marcatori in sedimenti di epoche e località diverse secondo loro indicherebbe che non sono stati prodotti da un singolo evento catastrofico, ma da una serie di processi di tipo geochimico di origine terrestre. Tutto questo farebbe tramontare definitivamente l'ipotesi catastrofista del grave impatto cometario.
Vale la pena comunque di citare un'altra ipotesi in proposito. Nel 1955 l'astronomo australiano Colin Gum (1924-1960) scoprì, attraverso analisi all'infrarosso, la più estesa nebulosa del cielo, ampia quasi 2400 anni luce e fatta di una polvere diffusa e quasi invisibile che copre una porzione immensa del firmamento nell'emisfero meridionale, tra la costellazione delle Vele e quella della Poppa. Oggi è nota come Nebulosa di Gum in suo onore. In seguito si comprese che la sorgente di tanta materia, equivalente a duecento volte la massa del Sole, era la Pulsar Vela X, ultimo resto di una supernova esplosa circa 12.000 anni fa. Si trattò di un evento apocalittico: nei cieli terrestri brillò per settimane una stella grande come la Luna piena, visibile in pieno giorno e che forse portò sulla terra una tale quantità di radiazioni da provocare gravissimi danni alla flora ed alla fauna. Insomma, l'origine dei cataclismi che posero fine al Pleistocene avrebbero un'origine ben più remota di qualunque bolide appartenente al Sistema Solare. Questa reviviscenza dell'antica Teoria delle Catastrofi è oggi tornata di moda, forse in coincidenza con il fatidico "duemila e non più duemila": chi avrà ragione? Il mistero per ora resta aperto, e la discussione tra gli esperti prosegue.
L'epoca olocenica, detta anche Postglaciale o Alluvionale, deriva il suo nome dal greco "del tutto recente". Inizia infatti alla fine della glaciazione würmiana, in corrispondenza con il progressivo ritiro delle coltri di ghiaccio che ricoprivano gran parte delle regioni settentrionali della Terra. Comprende un tempo brevissimo dell'era Neozoica; infatti l'Olocene è ancora in corso, dopo essere iniziato soltanto 11.700 anni fa. Ci troviamo negli ultimi 77 secondi dell'Anno della Terra, poiché esso va dalle 23.58.43 alla mezzanotte di San Silvestro. Il 26 giugno 2018 l'Olocene è stato ulteriormente suddiviso in tre periodi: Groenlandiano (da 11.700 a 8.200 anni fa, cioè dalle 23.58.38 alle 23.59.03), Nordgrippiano (da 8.200 a 4.200 anni fa, cioè dalle 23.59.03 alle 23.59.30) e Meghalayano (da 4.200 anni fa a oggi, cioè dalle 23.59.30 alla mezzanotte in punto del 31 dicembre).
La "piccola glaciazione"
L'Olocene è quanto resta della storia della Terra dopo la fine dell'ultima glaciazione. In seguito al ritiro dei ghiacciai si formarono estesi depositi morenici e per lo scorrere impetuoso delle acque di fusione presero origine grandi torbiere ed estese formazioni di travertino. Il clima si mitigò definitivamente, giungendo alle condizioni odierne, e la flora si stabilizzò nelle forme attuali. Scomparvero gli uccelli giganteschi nonché i proboscidati mastodontici. Mammut, rinoceronti lanosi, orsi delle caverne, cervi giganti, tigri dai denti a sciabola vennero spazzati via dal mutamento climatico al termine delle glaciazioni, ma soprattutto dall'intensa caccia operata dall'uomo moderno. Gli animali si accasarono nei biomi dove noi li abbiamo conosciuti e classificati. Sicuramente fu un periodo di clima più caldo rispetto ai precedenti periodi glaciali, tant'è vero che il climatologo Brian Fagan, dell'Università della California a Santa Barbara, ha affermato: "Tutta la storia dell'umanità si è finora svolta nel corso di una lunga estate calda".
Per capire meglio il significato di tale affermazione, vale la pena di citare i recenti risultati di un gruppo internazionale di ricerca, coordinato dall'Università di Pisa, il quale avrebbe scoperto che la fine dell'Era glaciale non iniziò come si pensava fino ad oggi dall'emisfero Nord, ma da quello Sud. Una scoperta eccezionale, pubblicata da Science e che, secondo gli esperti, può cambiare non solo la storia della paleoclimatologia, ma anche il metodo delle predizioni climatiche con l'elaborazione di modelli più accurati. Anche se non ci crederete, la scoperta è stata possibile grazie allo studio delle stalagmiti di una grotta carsica detta Antro del Corchia, la più grande d'Italia, tra le Alpi Apuane e la Versilia; in esse infatti sono conservati isotopi di carbonio e ossigeno studiati dai ricercatori. « La base di queste concrezioni », ha spiegato Giovanni Zanchetta, il ricercatore pisano a capo del team, « contiene il registro completo delle variazioni climatiche degli ultimi 800.000 anni, e il suo studio ha permesso di ricostruire e datare i più importanti eventi climatici degli ultimi millenni, fissando con esattezza l'inizio dell'ultima glaciazione a 112 mila anni fa. Adesso le analisi, ci dicono che la penultima glaciazione terminò intorno a 140 mila anni fa, molto prima di quanto fino ad ora si era ipotizzato, e il riscaldamento del Pianeta iniziò dall'emisfero Sud (...) Insieme ai sedimenti lacustri e marini, questi archivi fatti di pietra ci consentono di ricavare informazioni su larga scala e ricostruire la variabilità climatica a lungo termine. La variazione climatica è una costante del nostro pianeta, non un'eccezione. Gli ultimi 10 mila anni sono stati caratterizzati da numerosi cambiamenti e l'area mediterranea ha subito evoluzioni che ci possono dare indicazioni utili su come muterà il clima a livello mondiale ».
Le parole di Zanchetta sono particolarmente illuminanti. Circa 20.000 anni fa, quando il pianeta era in piena era glaciale e vaste aree dell'Europa erano ricoperte da una spessa coltre di ghiaccio, l'asse terrestre mutò inclinazione esponendo l'emisfero nord a un maggior irraggiamento solare. Con lo scioglimento dei ghiacci, enormi masse d'acqua dolce a bassa temperatura raggiunsero l'oceano Atlantico settentrionale. Tale processo arrestò la Corrente del Golfo e portò a una diffusione dei ghiacci marini in tutto l'Atlantico, ridisegnando gli schemi globali dei venti. In particolare, i venti tropicali si spostarono più a sud, portando a fenomeni di siccità in gran parte dell'Asia e precipitazioni intense in regioni del Brasile normalmente aride. Oltre a ciò, il fenomeno portò aria e acqua ad alta temperatura verso sud, determinando a sua volta un cambiamento nei venti dell'emisfero australe diretti a ovest, che si spostarono verso sud, amplificando il riscaldamento in entrambi gli emisferi. Infine, il rimescolamento delle acque oceaniche intorno all'Antartide portò alla liberazione di biossido di carbonio in atmosfera, come testimoniato dai carotaggi dei ghiacci antichi, che mostrano come tra 18.000 e 11.000 anni fa i livelli di biossido di carbonio salirono da 185 parti per milione a 265 parti per milione. Al termine di questo periodo, l'inclinazione dell'asse terrestre mutò ancora, ma la presenza di così tanto biossido di carbonio in atmosfera impedì l'inizio di una nuova era glaciale.
Tutto questo porta con sé un insegnamento profondo: non si deve credere che tutto l'Olocene sia stato un'epoca di clima mite. Anzi, all'interno dell'Interglaciale nel quale noi viviamo si sono alternati periodi caldi ad altri decisamente gelidi. Ad esempio, il periodo a cavallo tra l'Alto e il Basso Medioevo conobbe un clima eccezionalmente mite, ed infatti i Vichinghi poterono attraversare l'Atlantico del Nord e colonizzare la Groenlandia (da essa battezzata appunto "terra verde" perchè la vedevano in gran parte sgombra dai ghiacci) ed alcune isole canadesi. Poi però sulla Terra si abbatté la cosiddetta « piccola glaciazione », durata dal XIV al XIX secolo, con un generale regresso delle temperature, e le colonie vichinghe d'oltremare furono abbandonate. Nel famoso dipinto di Emmanuel Leutze (1816-1868) visibile qui sotto, il generale George Washington (1732-1799) è ritratto mentre attraversa in barca il fiume Delaware nella notte di Natale del 1776, alla vigilia della battaglia di Trenton, episodio cruciale della guerra d'indipendenza americana; ma oggi il Delaware non ghiaccia più. Dalla fine del settecento in poi, l'immissione di anidride carbonica nell'atmosfera in seguito alla rivoluzione industriale ha causato un aumento dell'effetto serra e di conseguenza un deciso innalzamento delle temperature, che dura tuttora con tutti i problemi ad esso connessi (tifoni tropicali, innalzamento del livello del mare, ecc.)
Stereotipi paleolitici
Purtroppo gli stereotipi di genere si annidano ovunque, anche nella ricerca scientifica. Negli ultimi due secoli gli archeologi, studiando le società del Paleolitico, hanno tramandato il paradigma dell’uomo dedito alla caccia e della donna dedita alla raccolta (di frutti, foglie, radici) e alla cura dei figli. Questa divisione sessuale del lavoro avrebbe condizionato l’attività di ricerca di numerose discipline sociali fino a plasmare i ruoli di uomo e donna all’interno della famiglia e della comunità e a consolidare specifiche caratteristiche di genere che attribuiscono al primo una maggiore aggressività e una minore emotività, e alla seconda una tendenza all’accudimento e all’interesse per i bambini. Stereotipi di genere duri a morire, che si sono trascinati fino ai giorni nostri.
Tuttavia un gruppo di ricercatori della Seattle Pacific University ha scardinato finalmente il mito dell’uomo cacciatore e della donna raccoglitrice attraverso una rilettura dei resoconti etnografici dell’ultimo secolo. Dalla documentazione relativa a 63 società di cacciatori e raccoglitori di tutto il mondo, tra le 391 registrate in un database etnografico che raccoglie più di 1400 gruppi umani (perché solo per quelle 63 esistono espliciti riferimenti alla caccia), emerge che in 50 di queste le donne andavano a caccia. Per 41 gruppi ci sono dati riferiti anche alla motivazione che spingeva la donna a cacciare: in quasi nove contesti su dieci era una scelta intenzionale, mentre in 5 casi le ragioni erano opportunistiche: nelle società in cui la caccia rappresentava la principale attività di sostentamento, le donne vi partecipavano sempre. In circa la metà dei gruppi inseguendo prede piccole, nel 15% prede di taglia media, nel 33% di taglia grande e nel restante 2% di ogni dimensione. Quando le donne cacciavano, spesso lo facevano accompagnate dai cani o dai bambini, mentre gli uomini preferivano muoversi da soli. Tra le armi utilizzate c'erano coltelli, arco e frecce, reti, lance e machete.
Come ha scritto Elisabetta Camussi, docente di psicologia sociale all’Università di Milano-Bicocca, « anche le ricerche in ambito psicologico per decenni sono state interessate a dimostrare l’esistenza delle differenze tra uomini e donne molto più che l’eventuale somiglianza di atteggiamenti e comportamenti, spesso trascurando la variabilità interna a questi stessi gruppi. Sebbene oggi nella società occidentale non si voglia più parlare di aspettative stereotipate legate ai generi, credendo che siano superate, e gli studi di psicologia sociale si siano prevalentemente concentrati su altri aspetti, le discriminazioni e le asimmetrie di genere maschile e femminile esistono e sono ancora di portata notevole. In sostanza, uno stereotipo è una estrema semplificazione di tratti che vengono generalizzati a un intero gruppo di individui. È un principio di categorizzazione del pensiero, e quindi di organizzazione delle informazioni nella nostra mente: agisce in maniera automatica e si impara con la socializzazione, e dunque in famiglia, a scuola, nel rapporto con i coetanei, attraverso vecchi e nuovi media. Gli stereotipi non possono essere eliminati in quanto tali perché sono un processo cognitivo molto semplice, utile, che richiede uno sforzo mentale minimo, che funziona bene e per tutta la vita, dando rassicurazioni rispetto a quanto possiamo aspettarci dagli altri e dalle relazioni. Ma sono pregiudizi, semplificazioni banalizzanti e non certo dei buoni descrittori della realtà. Sono delle costruzioni sociali, dunque legate alla cultura; non hanno base scientifica né statistica; ma aiutano le persone a dare senso alla complessità della realtà e a comunicare con gli altri. Per esempio, la maggior propensione per la cura attribuita alle donne come una dimensione naturale, un "istinto", deriva invece da una storia millenaria. » Siamo consapevoli degli stereotipi, inclusi quelli di genere, quando li usiamo? «No, proprio perché funzionano automaticamente, impedendoci di guardare la realtà per quella che effettivamente è. Per questo occorre divenirne consapevoli. Va detto, innanzitutto, che quelli di genere producono un impatto maggiore di altri stereotipi perché noi passiamo tutta la vita appartenendo tendenzialmente a un solo genere, mentre interagiamo sistematicamente con l’altro. E dagli stereotipi derivano aspettative che ci portano a valutare gli altri attraverso i ruoli di genere in tutte le sfere dell’agire umano. Che si tratti di lavoro, famiglia, scuola, relazioni. Queste aspettative stereotipiche sono fortemente collegate all’idea che al femminile appartengano in modo esclusivo la dimensione della cura, della gentilezza, dell’accoglienza e della dedizione, mentre al maschile la razionalità, la determinazione e il controllo delle emozioni. Essendo l’esito della socializzazione e che i più piccoli li acquisiscono dall’osservazione degli atteggiamenti e dei comportamenti quotidiani degli adulti, oltre che dai messaggi culturali complessivi, e di conseguenza non essendo innati, potrebbero essere articolati diversamente. Per ridurre l’impatto di uno stereotipo è necessario creare una consapevolezza del suo automatismo e degli effetti che produce, in modo da riconoscere l’influenza delle aspettative stereotipiche quando valutiamo qualcuno. » Quanto tempo serve per cambiare mentalità? « I tempi di cambiamento di atteggiamenti e comportamenti sono molto più lunghi di quello che ci piacerebbe pensare e dipendono molto da quanto le diverse componenti della società interagiscono tra loro. Il cambiamento se portato avanti soltanto da singoli gruppi emancipati ma minoritari non incide nella comunità a breve termine. » Aveva ragione Lev Tolstoj: « L'uomo vuole sempre cambiare il mondo, ma mai sé stesso: per questo il mondo non cambia mai! »
Neve, la neonata vissuta diecimila anni fa
Ha fatto molto rumore, nel 2017, la scoperta della tomba della piccola Neve, una neonata vissuta circa 10.000 anni fa i cui resti sono stati ritrovati in una grotta presso Arma Veirana, in provincia di Savona. Questo grande successo è dovuto a una collaborazione internazionale di ricerca coordinata da Fabio Negrino, dell'Università di Genova, Stefano Benazzi, dell'Università di Bologna, e Marco Peresani, dell'Università di Ferrara: si tratta della più antica sepoltura nota finora nel continente europeo.
A rivelare molte informazioni biologiche sulla bambina è stata l'approfondita analisi delle sue gemme dentali fossili, i denti embrionali che si sviluppano tra la quinta e la sesta settimana di gestazione. Grazie alle immagini al sincrotrone prodotte presso il Centro Elettra di Trieste e alle analisi genomiche, i ricercatori del BONES Lab dell'Università di Bologna hanno potuto effettuare un'indagine istologica virtuale dei resti e fornire così un identikit dell'individuo. Oltre al sesso, gli autori sono riusciti a determinare l'età al momento del decesso, stimata tra 40 e 50 giorni, e l'appartenenza a un ramo filogenetico noto come aplogruppo U5b2b. Inoltre, la crescita delle gemme dentali sembra essersi interrotta 47 giorni prima del parto, probabilmente per uno stress fisiologico della madre. Alcuni dati sulla madre di Neve sono emerse anche dallo studio dell'azoto e del carbonio contenuto nelle stesse gemme dentali: le misurazioni indicano che la madre, con tutta probabilità, si nutriva prevalentemente di animali cacciati sulla terraferma, non di pesci e frutti di mare.
Importante anche il contributo dell'analisi del corredo funerario, composto da quattro pendenti ricavati dai gusci di bivalvi, un artiglio di gufo reale, e soprattutto più di 60 perline ottenute dalla lavorazione di conchiglie, che probabilmente si trovavano cucite su un abitino o un fagotto in pelle. Ciò indicherebbe una notevole cura della sepoltura da parte della popolazione di appartenenza della bambina. Inoltre le perline erano consumate, forse perché indossate a lungo da altri individui prima di essere poste all'interno della sepoltura. Invece i quattro pendenti con tutta probabilità erano al collo della neonata. Probabilmente alla nascita della bambina le era già stato preparato un abito con il quale poi è stata sepolta, usando quello che il gruppo aveva con sé. Tutto questo aiuta a completare il quadro, finora deficitario, sulla cultura di queste popolazioni in un periodo, quello del Mesolitico, tra circa 11.000 e 7.500 anni fa (tra le 23.58.43 e le 23.59.07), caratterizzato da profonde trasformazioni ambientali dovute alla fine dell'ultima glaciazione, che spinsero le comunità di cacciatori-raccoglitori a nuovi adattamenti comportamentali. Capire come i nostri antenati curassero i loro morti ha un enorme significato culturale, e ci consente di indagare sia i loro aspetti comportamentali che quelli ideologici. Questa scoperta ad esempio permette di indagare un eccezionale rito funerario della prima fase del cosiddetto Mesolitico, un'epoca di cui sono note poche sepolture, e testimonia come tutti i membri della comunità, anche i neonati, erano riconosciuti come persone a pieno titolo e godevano in apparenza di un trattamento egualitario, a differenza di ciò che si osserva per le epoche successive, dal Neolitico in poi, in cui si osserva una certa diversificazione sociale con assunzione di diversi ruoli all'interno dei gruppi.
La catastrofe del lago Agassiz
Un forte raffreddamento dell'Oceano Atlantico settentrionale era avvenuto del resto anche 8.200 anni fa (alle 23.59.03 del 31 dicembre), e già lo si sapeva da tempo, grazie allo studio delle carote di ghiaccio estratte dalle calotte polari e dagli anelli di accrescimento degli alberi (vedi). Nel gennaio 2006, tuttavia, un gruppo di ricercatori della Columbia University di New York e dell'Istituto Goddard di studi spaziali della Nasa ne ha trovato in via definitiva le prove geologiche. Tanto per cominciare, è stato utilizzato un modello climatologico al calcolatore. Secondo le ricostruzioni, lo scioglimento dei ghiacci dovuto alla fine delle glaciazioni provocò improvvisamente il riversarsi nell'Oceano Atlantico di un'immensa quantità di acqua dolce, interferendo con la circolazione delle correnti che ridistribuiscono il calore in tutto il globo. In particolare sarebbero state le acque di due antichi laghi del Nordamerica, l'Agassiz e l'Ojibway, a causare l'improvviso cambiamento climatico. Oggi questi due laghi non esistono più, o meglio ne restano alcuni rimasugli fossili sotto forma di laghi pur sempre vasti, ma sempre assai più piccoli dei loro genitori, come il lago Winnipeg, il lago Manitoba e il Red Lake, ai confini tra Canada ed USA (vedi cartina). Essi si erano formati circa 12.000 anni fa, scavati dai ghiacciai della glaciazione di Würm che si stavano progressivamente ritirando, ed alimentati dai ghiacci in via di scioglimento. È lo stesso motivo per cui il mar Caspio era molto più vasto in epoca glaciale che oggi, essendo alimentato dai fiumi che scendevano dall'immenso ghiacciaio nordeuropeo. Il lago Agassiz, che trae il nome dal geologo e naturalista svizzero naturalizzato americano Jean Louis Rodolphe Agassiz (1807-1873), si trovava nel Canada centrale, tra Saskatchewan, Manitoba, Ontario e Minnesota, e nella fase finale della sua esistenza, durata circa 4.000 anni, si fuse con il lago Ojibway, che prende nome da una tribù indiana, formando un gigantesco specchio d'acqua dolce con un volume di 163.000 Km3 ed una superficie di 841.000 km2: sicuramente il maggiore del pianeta, se si pensa che oggi il mar Caspio, che peraltro ha acque salse, copre una superficie di "soli" 371.000 km2! Per vederne una mappa (fonti: Minesota DNR; MTG Climate) cliccate sulla miniatura a fianco.
Utilizzando il modello al computer GISS Model E-R, gli studiosi hanno stimato che almeno per quattro o cinque volte i due laghi fossili riversarono le proprie acque nel mare di Tyrrel, posto più o meno nell'area dell'attuale baia di Hudson; tenendo conto di una portata d'acqua compresa tra 20 e 50 volte quella del Rio delle Amazzoni, si trova un notevole accordo tra le ipotesi del gruppo di ricercatori ed i dati paleoclimatologici acquisiti. Questo enorme afflusso di acqua dolce modificò il percorso delle correnti oceaniche, in modo particolare la corrente del Golfo, che con le sue acque tiepide rende temperato il continente europeo. Secondo la ricostruzione, a subire la più pesante diminuzione delle temperature (anche di 2 o 3° C) furono le regioni dell'Atlantico del Nord e della Groenlandia, mentre l'Europa e il Nordamerica risentirono del fenomeno in misura assai minore. Pare siano occorsi tra i 50 e i 150 anni affinché la circolazione oceanica riprendesse l'andamento precedente. Appare fondamentale studiare queste brusche variazioni climatiche del passato, per prevenirne di simili nel futuro.
La Terra Perduta di Doggerland
Durante la glaciazione di Würm, il Mare del Nord e quasi tutte le isole britanniche erano ricoperte di ghiaccio, e il livello del mare era di circa 120 metri inferiore a quello attuale. Ne consegue che molte zone oggi sommerse erano al di sopra del livello del mare, ed anzi ricche di flora e di fauna. Tra queste vi era una vasta porzione della parte meridionale del Mare del Nord, che costituiva un'ampia pianura la quale collegava tra loro Inghilterra, Germania e Danimarca. Le prime indagini archeologiche in quest'area risalgono al 1913, e furono effettuate dal paleobiologo Clement Reid (1853-1916), che studiò resti di animali e di selci lavorate di età neolitica ai margini della zona. Nel 1915, nel suo famoso saggio "L'antichità dell'uomo", l'anatomista Sir Arthur Keith sottolineò il potenziale archeologico di quel territorio. Nel 1931 il peschereccio Colina a 40 km ad est di Norfolk issò a bordo della torba, e in essa fu trovato un arpione d'osso di 220 mm di lunghezza, successivamente datato ad un periodo compreso tra 10.000 e 4.000 anni or sono (tra le 23.58.49 e le 23.59.32); l'oggetto è ora esposto al Museo del Castello di Norwich. Oggi tale zona è detta Doggerland per via dei banchi di sabbia presenti nella zona (Dogger Bank); tale nome è stato proposto nel 1990 dalla professoressa Bryony Coles dell'Università di Exeter, che ha anche tentato di ricostruire la mappa della zona utilizzando i dati topografici ricavati con i sonar e le prospezioni effettuate dall'industria petrolchimica nel Mare del Nord.
Il fiume Reno a quell'epoca era molto più lungo di oggi, e scorreva verso nord attraversando il Doggerland. Si pensa che un deposito di limo del Cenozoico nell'East Anglia rappresenti proprio l'antico letto del Reno. Gran parte del Mare del Nord e nel canale della Manica era una distesa di bassa tundra; la parte settentrionale del Doggerland presentava lagune, coste e spiagge, mentre la parte interna era una vasta pianura ondulata ricca di corsi d'acqua, fiumi, paludi e laghi. Nella parte settentrionale vi è un imponente cratere meteoritico, il cratere di Silver Pit, risalente a 65 milioni di anni fa. L'innalzamento del livello del mare, dovuto allo scioglimento dei ghiacci, causò la graduale sommersione di Doggerland, che divenne un'isola nella sua zona più elevata, l'attuale secca detta Dogger Bank, mentre la Gran Bretagna si staccò dal continente intorno al 5000 a.C. L'isola era molto estesa (circa 17.000 km²), ma estremamente bassa e priva di montagne.
Doggerland era probabilmente un habitat ricco di insediamenti umani nel periodo Mesolitico. Particolarmente importante è il ritrovamento nel Middeldiep, una regione del Mare del Nord circa 16 km al largo della costa della Zelanda, di un cranio di Neanderthal, datato oltre 40.000 anni fa. Le ricostruzioni archeologiche fanno pensare che nel Mesolitico Doggerland potrebbe essere stata la zona europea in assoluto più ricca di fauna e flora, habitat ideale per la caccia e la pesca degli antichi cacciatori-raccoglitori, forse discendenti della Cultura Magdaleniana. Nel 6200 a.C. (ore 23.59.17) un'immensa massa di ghiaccio si staccò dalle coste della Norvegia, forse a causa dell'esplosione degli idrati di metano sottomarini, e provocò un catastrofico tsunami che devastò l'isola allora ancora emersa (il cosiddetto Tsunami di Storegga), con un impatto enorme sulle popolazioni mesolitiche. L'isola venne rapidamente sommersa per il rapido aumento del livello del mare dovuto alla fusione dell'enorme ghiacciaio Agassiz in Canada, di cui si è detto sopra. Secondo alcuni, la sommersione di Doggerland fu alla base del mito degli Ipeborei, ed ispirò a J.R.R. Tolkien il racconto della distruzione del Beleriand nella Guerra d'Ira, combattuta nella notte dei tempi.
Vulcani e glaciazioni
Uno studio condotto dall'Osservatorio Vesuviano dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, in collaborazione con Giuseppe Aiello e Diana Barra dell'Università Federico II di Napoli, ha dimostrato che il comportamento del Vesuvio e della caldera Somma all'interno della quale si trova, è stato influenzato dall'andamento delle glaciazioni, mettendo in relazione i movimenti verticali del suolo su cui poggia con le variazioni del livello marino riscontrate nell'ultimo ciclo glaciale, iniziato 120.000 anni fa (23.45.59). Infatti lo scioglimento dei ghiacci, cominciato 20.000 anni fa (23.57.39), ha determinato un peso maggiore dell'acqua su due bolle di afflusso magmatico poste nella crosta profonda al confine con il mantello: la differenza di pressione venutasi a creare ha facilitato la risalita di masse magmatiche. Il Vesuvio sta dunque risalendo! L‘analisi, per mezzo di carote di sedimenti marini depositatisi negli ultimi 20.000 anni, ha confermato che l'edificio vulcanico si è sollevato di 100 metri, giustificando l'eruzione di Pompei del 79 d.C. e prima ancora quelle avvenute 8.900 (23.58.58) e 4.300 anni fa (23.59.29). Ma non è stato sempre così.
« In piena era glaciale, cioè 60 mila anni fa, e prima del più recente sollevamento, il Vesuvio si è abbassato di circa 100 metri al netto delle sue variazioni di volume e della tettonica regionale », ha spiegato Aldo Marturano, geofisico dell'Osservatorio Vesuviano. « La formazione dei ghiacci infatti aveva diminuito il livello del mare che, pesando meno sulla crosta profonda, aveva creato stress sfavorevoli alla risalita del magma intrappolato negli strati più bassi ».
I ricercatori hanno appuntato la loro attenzione sul pozzo di Camaldoli della Torre, presso Torre del Greco, che arriva fino a 126 metri sotto il livello del mare. A 110 metri di profondità sono stati ritrovati dei microfossili marini. « Tra di essi vi erano gli ostracodi, dalle dimensioni di un millimetro, presi come riferimento dai paleontologi perché cambiano in specie e genere a seconda della salinità e delle profondità marine », ha aggiunto Marturano. Con opportune rilevazioni si è stabilito che questi organismi erano vecchi di 60.000 anni (23.52.59), e si erano depositati lì quando il livello del mare di allora era circa 50 metri meno profondo dell'attuale, confermando l'abbassamento del Vesuvio.
Anche ai giorni nostri, caratterizzati da un massimo interglaciale come 120.000 anni fa, si registra una favorevole tendenza alla risalita del magma che noi esseri umani stiamo perpetuando. Agendo infatti sul clima e contribuendo al riscaldamento totale, allunghiamo il periodo di interglaciazione e modifichiamo le risposte all'interno della terra. In altre parole, favoriamo le attività vulcaniche. « È tuttavia affascinante constatare che effetti legati a grandi eventi a carattere globale che producono movimenti verticali del suolo di decine di centimetri all'anno nelle aree circumpolari possano essere registrati anche alle nostre latitudini », ha affermato Marturano. « Questo legame ribadisce quanto i vulcani in genere siano i più sensibili rivelatori dei cambiamenti tettonici profondi ». Dobbiamo dunque aspettarci un'eruzione del Vesuvio in un prossimo futuro? « Certamente, anche se non sappiamo quando. L'ultima è avvenuta a marzo del 1944 e gli ha tolto il pennacchio », ha ricordato Marturano. Ma poi il vulcano è diventato quiescente e l'area ai suoi piedi è stata ampiamente antropizzata: la “zona rossa” ad alto rischio di eruzione è stata recentemente ampliata a 25 territori comunali. Cosa succederebbe se fosse necessaria una rapida evacuazione? Secondo gli scenari elaborati dalla Protezione civile si dovrebbero mobilitare 700.000 persone. « Una possibile politica sarebbe quella di abbassare il rischio promuovendo un'opportuna diminuzione della densità abitativa », suggerisce Marturano. Il vero consiglio resta dunque quello di approfittare della pausa di respiro concessaci dal Vesuvio. Ne saremo capaci?
L'archeomagnetismo
Un team internazionale di ricercatori dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), dell'Università di Tel Aviv, del Council for British Research in the Levant e dell'Università della California a San Diego ha analizzato ceramiche e selci provenienti da quattro siti archeologici in Giordania, scoprendo che tra 10.000 e 8.000 anni fa (tra le 23.58.49 e le 23.59.04) l'intensità del campo magnetico nella regione del Medio Oriente era tra le più deboli dell'Olocene, e più bassa o simile al campo magnetico attuale. Un campo magnetico debole implica un indebolimento dell'effetto di schermatura delle radiazioni solari con una maggiore penetrazione delle particelle energetiche solari e dei raggi cosmici verso la superficie terrestre. L'importanza di questo risultato risiede nel fatto che il campo magnetico terrestre è cambiato in modo significativo in passato, ed oggi si rileva un suo marcato indebolimento.
Anita Di Chiara, ricercatrice dell'INGV e coautrice dello studio, ha spiegato che sono state esaminate ceramiche e selci datate attraverso il metodo del Carbonio 14 e studiate attraverso tecniche di paleointensità volte a definire l'intensità del campo magnetico del passato. Dalla selce, infatti, venivano ricavati oggetti di uso quotidiano come le punte di freccia o le lame, utili per la caccia. Per far ciò, gli uomini antichi li lavoravano con il fuoco per renderli appuntiti, e quando questi materiali si sono raffreddati, i minerali magnetici in essi contenuti si sono orientati con il campo magnetico all'epoca esistente che, in tal modo, si è ‘registrato' negli utensili analizzati. La loro analisi ha permesso di appurare che nel sito più antico, risalente a 10.000 anni fa, il campo magnetico era simile o più basso del campo magnetico attuale. La metodologia di ricerca impiegata fornisce uno strumento di datazione molto potente, perché qualunque oggetto di cui non sappiamo l'età archeologica, può essere analizzato con la tecnica del paleomagnetismo e dell'archeointensità: con la definizione di una curva di variazione di intensità del campo magnetico per le ultime migliaia di anni, è possibile ascrivere gli oggetti ad un determinato periodo archeologico. Tale aspetto è particolarmente utile ai ricercatori del clima e dell'ambiente, perché l'intensità del campo magnetico attuale mostra una tendenza decrescente.
Il ruolo dei virus
E ora, una vera e propria notizia bomba, annunciata nel 2016 da un gruppo di biologi della Stanford University. Se siamo come siamo, lo dobbiamo in parte significativa alla pressione selettiva esercitata dai virus: almeno il 30 % delle differenze che distinguono le nostre proteine e la loro funzionalità da quelle degli altri mammiferi sarebbero una conseguenza di infezioni virali. « Quando a un certo punto dell'evoluzione si verifica una pandemia o un'epidemia, la popolazione colpita dal virus si adatta, o si estingue, come è noto da tempo », ha dichiarato David Enard, coautore dello studio, « ma questa è la prima volta che si dimostra che i virus hanno avuto un impatto così forte sull'adattamento. » Le precedenti ricerche sulle interazioni tra virus e proteine si erano infatti concentrate su un numero molto ristretto di proteine, cioè quelle direttamente coinvolte nella risposta immunitaria. Invece per la prima volta Enard e colleghi hanno cercato le tracce degli effetti delle infezioni virali su tutti i tipi di proteine, sulla scorta dell'osservazione che qualsiasi tipo di proteina che entri in contatto con i virus può partecipare all'adattamento dell'organismo contro di essi, in risposta al fatto che quando i virus penetrano in una cellula cercano di piegarne ogni funzione alla propria replicazione e diffusione,
I ricercatori hanno preso in esame in particolare 9900 proteine i cui geni sono presenti in tutte le specie di mammiferi di cui è stato finora sequenziato il genoma. Grazie alle informazioni dei data base genomici che hanno permesso di ricostruirne la storia evolutiva, sono poi riusciti a identificarne 1300 che avevano subito interazioni con i virus, scoprendo che in questo sottogruppo di proteine gli adattamenti si sono verificati tre volte più frequentemente che nelle altre. Questo tasso di mutazione più elevato, osservano gli autori, ha un senso biologico: è più che verosimile che l'evoluzione del macchinario cellulare, toccato in ogni sua funzione, sia più marcata di quella legata ad altri fattori di pressione selettiva, come la predazione o le condizioni ambientali. In realtà, i virus potrebbero avere avuto un impatto ancora maggiore di quello emerso finora perché, come dicono gli autori, « abbiamo potuto lavorare solo con proteine che interagiscono con virus ancora attivi nella popolazione umana attuale. Ciò significa che un numero potenzialmente elevato di proteine che nel nostro studio sono classificate come non interagenti con i virus può avere interagito con essi in qualche lontano momento dell'evoluzione umana o di altri lignaggi di mammiferi. » Questa evoluzione accelerata dovuta all'interazione con i virus potrebbe anche spiegare perché specie strettamente correlate abbiano a volte evoluto macchinari cellulari diversi per eseguire funzioni identiche, come la replicazione del DNA o la produzione di membrane.
E l'uomo iniziò ad antropizzare la Terra
Sembrerà incredibile, ma proprio 11.000 anni fa (ore 23.58.43), cioè in coincidenza con l'inizio dell'Olocene, una popolazione umana ha iniziato a trasformare per sempre il paesaggio in cui viveva: la scoperta è stata fatta sulla collina di Kaizer, a 35 chilometri da Gerusalemme, da un gruppo di archeologi della Hebrew University of Jerusalem. Secondo quanto riferito da Leore Grosman e Naama Goren-Inbar, che hanno guidato la ricerca, i segni prodotti nella roccia del sito, situato sulle pendici di una collina a una quota di 300 metri, nei pressi della città di Modi'in, documentano un'attività di estrazione su ampia scala della selce e della pietra calcarea, utilizzate come materiali per la fabbricazione di utensili. « In cima alla collina abbiamo trovato superfici rocciose danneggiate, che forniscono la prova di un'attività di scavo allo scopo di estrarre la selce e di sfruttare gli spessi strati di caliche, una roccia sedimentaria nota localmente con il termine arabo di Nari », ha spiegato Leore Grosman. « L'antico popolo che abitava queste zone trattava la pietra con utensili di selce, per esempio asce ».
Le regioni meridionali del Medio Oriente furono il contesto naturale in cui, nell'Olocene, per la prima volta fu introdotta l'agricoltura, compiendo una svolte più significative della storia dell'umanità. La cava sulla collina di Kaizer, che risale alla stessa epoca, è la prima di queste dimensioni a essere scoperta. La concomitanza di attività agricole e attività estrattive ha portato gli autori a ipotizzare che la transizione alla sussistenza basata sull'agricoltura, grazie alla quale l'uomo ha imparato come produrre il cibo invece di raccoglierlo, è stata accompagnata da un più generale mutamento di approccio al paesaggio e alle pratiche di sfruttamento delle risorse naturali. « La transizione da un'economia basata sulla caccia e sulla raccolta a quella basata sull'agricoltura è stata accompagnata da numerosi cambiamenti nell'ambito sociale e in quello tecnologico », ha concluso Goren-Inbar. « Diversi segni presenti nella cava dimostrano che l'estrazione delle rocce presupponeva diverse strategie, quali l'identificazione delle vene di selce, l'apertura di un fronte di scavo nelle rocce, la rimozione di blocchi di pietra, la creazione di discariche delle pietre di scarto, nonché l'uso della perforazione e dello scalpello come tecniche primarie per l'estrazione di selce ».
Informazioni ulteriori sono venute dal progetto ArcheoGLOBE, coordinato da Lucas Stephens dell'University of Pennsylvania, che riunisce ed elabora i dati forniti nel periodo maggio-luglio 2018 da oltre 250 tra archeologi, geomorfologi, geoarcheologi sulle conoscenze attuali riguardo all'evoluzione ed ai cambi di sfruttamento del territorio in tutto il globo dall'8.000 a.C. (dalle 23.58.49) al 1850 d.C., cioè all'incirca dall'Olocene all'epoca industriale. I dati e le loro interpretazioni, a cui hanno partecipato ricercatori da tutto il mondo, tra cui il Professor Gilberto Artioli del Dipartimento di Geoscienze dell'Università di Padova, sono stati pubblicati nel 2019. Il progetto riunisce per prima volta informazioni globali e coordinate sull'utilizzo della superficie terrestre: sia come estensione geografica che cronologica. Le informazioni elaborate derivano dai dati archeologici e geoarcheologici disponibili, quali le evidenze archeologiche dirette, i dati derivati dalla micromorfologia e dalla geochimica dei suoli che dimostrano uso fuoco e di allevamento, o le informazioni paleopalinologiche riguardo alla presenza di vegetazione naturale e alle colture collegate con le attività agricole. I dati sono stati poi interpretati in rapporto alle principali modalità di trasformazione del territorio da parte delle attività umane: dall'uso esteso della deforestazione tramite incendi (in analogia con quanto sta succedendo nelle foreste Amazzoniche in questi giorni) a dallo sfruttamento nomade delle risorse animali e vegetali dei cacciatori-raccoglitori fino alla implementazione di forme intensive di agricoltura, che implicano modifiche estese dell'ambiente naturale, erosione del suolo ed immissione di CO2 nell'atmosfera, fino all'instaurarsi di comunità sociali stabili ed infine urbanizzazione.
I risultati mostrano che l'impatto esteso dell'uomo sulla superficie terrestre, in special modo l'inizio dell'agricoltura intensiva, è molto precedente rispetto ai modelli comunemente utilizzati per descrivere l'evoluzione della distribuzione della vegetazione nel tempo ed i cambiamenti climatici. La superficie terrestre infatti risulta largamente modificata dall'agricoltura già 3.000 anni fa. Lo studio induce quindi a ritenere che i cambiamenti climatici attuali e le quotidiane conseguenze ben evidenti sull'ambiente e le infrastrutture umane non siano collegate solo a processi derivati dalle attività industriali e post-industriali moderne, e quindi fenomeni recenti, ma che possano avere avuto una origine antecedente, derivata dall'utilizzo diffuso e continuativo delle risorse naturali. La modifica degli equilibri ambientali, iniziata in modo modesto già 10.000 anni fa, ha avuto una crescita improvvisa intorno al 6.000 a.C. (alle 23.59.04) ed ha poi conosciuto un'accelerazione incontrollata negli ultimi centocinquant'anni. I dati pubblicati mostrano anche chiaramente che le conoscenze attuali su certe zone del pianeta, soprattutto su parti dell'Africa Equatoriale, del Sud America e del Sud-Est Asiatico, sono scarse o nulle, e quindi richiedono in futuro ricerche mirate per poter avere una visione ed una comprensione ancora più completa e dettagliata delle trasformazioni passate e possibilmente una efficace capacità predittiva delle future interazioni uomo-ambiente.
Il massacro di Nataruk
Il senso della guerra è presente nell'uomo fin dall'età preistorica. Un gruppo di ricercatori del Centro Leverhulme dell'Università di Cambridge, ha infatti ritrovato in Kenya i resti parziali di 27 individui, che sarebbero stati vittima di un massacro avvenuto circa diecimila anni fa. Le ossa fossilizzate erano sotterrate nel villaggio di Nataruk, 30 chilometri a ovest del lago Turkana. Dodici degli scheletri sono in buono stato di conservazione, mentre altri dieci mostrano i chiari segni di una morte violenta, fra cui lesioni sul collo causate da frecce e punte di proiettili di pietra nel teschio e nel torace di due uomini. Dei 27 individui ritrovati, 21 erano adulti, otto maschi, otto femmine e cinque di cui non si è riusciti a individuarne il sesso. I resti parziali di sei bambini sono stati trovati mischiati insieme o nelle immediate vicinanze dei resti di quattro donne adulte, una delle quali era in stato di gravidanza molto avanzato.
La scoperta suggerisce che i resti ritrovati apparterrebbero a un gruppo di cacciatori-raccoglitori, forse membri di una famiglia, che sono stati attaccati e uccisi da un gruppo rivale. I ricercatori sono convinti che questa sia la più antica prova di conflitto umano databile storicamente. « I morti di Nataruk testimoniano che la guerra e la violenza fra gruppi diversi sono sentimenti antichi », ha detto la dottoressa Marta Mirazon Lahr, del gruppo di ricerca di Cambridge, che dirige il Progetto In-Africa e ha condotto lo studio su Nataruk. « Questi resti umani mostrano l'uccisione intenzionale di un piccolo gruppo di raccoglitori, che non sono intenzionalmente stati seppelliti, e forniscono una prova unica che la guerra era parte del repertorio delle relazione infra-gruppo di alcuni cacciatori e raccoglitori preistorici » ha affermato Mirazon Lahr. I ricercatori hanno datato i resti, fra cui scheletri e campioni di conchiglie e i sedimenti intorno ad essi, stimando che il massacro si sarebbe verificato tra 10.500 e 9.500 anni fa (tra le 23.58.46 e le 23.58.53). « Il massacro di Nataruk », continua la dottoressa Mirazon Lahr, « potrebbe essere il risultato di un tentativo di impadronirsi di risorse (territorio, donne, bambini, cibo conservato in vasi) il cui valore era simile a quello di alcune società di agricoltori produttori di cibo, tra i quali gli attacchi violenti contro gli insediamenti erano frequenti. » « Non ho dubbi che è nel nostro DNA essere aggressivi e letali, così come essere profondamente premurosi e amorevoli: molto di ciò che abbiamo capito di biologia evolutiva umana suggerisce si tratti di due facce della stessa medaglia. »
Il paleoinquinamento
Secondo alcuni paleontologi, più che Homo sapiens noi dovremmo definirci "Homo inquinans", perchè già 7000 anni fa (alle 23.59.10) avvelenavamo i fiumi con le scorie derivanti dalla lavorazione dei metalli. Un gruppo di antropologi e archeologi inglesi e canadesi ha trovato inusitate concentrazioni di rame negli antichi sedimenti sul letto di un fiume oggi essiccato nel sud della Giordania, nel sito archeologico di Tell Wadi Faynan. « Questa è la prima prova di inquinamento di un fiume dovuto ad attività umane », ha spiegato Christopher Hunt, docente di archeologia alla John Moores University di Liverpool e coautore dello studio. « Tutta l'area è stata caratterizzata da estrazione e lavorazione di rame attraverso i millenni, ma siccome tra lo strato di terra corrispondente a 7000 anni fa e quelli più recenti esistono strati privi di contaminazione, possiamo dedurre che le tracce di rame nello strato più antico siano proprio dovute ad attività di quel tempo. D'altra parte abbiamo trovato anche coincidenza, in alcuni siti, tra particelle di rame e segni di antichi focolari, usati con ogni probabilità per estrarre il rame dalle rocce minerali ».
« Retrodatando la lavorazione del rame già a 7000 anni fa, ossia molto prima dell'Età del Bronzo, questo studio conferma un fatto: siamo soliti attribuire delle date d'inizio alle grandi conquiste dell'umanità, come l'uso del metallo o l'invenzione dell'agricoltura, basandoci sui dati archeologici. Ma in realtà queste conquiste sono precedute da lunghi periodi di tentativi ed errori », ha osservato Telmo Pievani, epistemologo e docente di filosofia delle scienze biologiche all'Università di Padova. « Le tracce trovate in Giordania suggeriscono che 7000 anni fa i nostri antenati armeggiassero con le rocce minerali, forse perché attratti dal loro colore insolito, e avessero imparato a fonderle con rudimentali calderoni in pietra, o tramite buche nel terreno, per estrarne il rame e realizzare piccoli ornamenti ».
E gli effetti di tanta attività sulla salute? « Gli archeologi non hanno trovato nel sito di Wadi Faynan ossa umane di 7000 anni fa, ma sappiamo che in tempi successivi le ossa di chi viveva in quella stessa area ed è stato sepolto in un cimitero d'epoca romana vicino al sito contenevano tracce di metalli pesanti, come rame e piombo », ha continuato Pievani. « Questo perché, per le innaturali concentrazioni causate dal lavoro metallurgico, i metalli pesanti erano assorbiti dalle piante, che erano mangiate dagli animali da allevamento, a loro volta consumati dall'uomo. Abbiamo trovato livelli di inquinamento che se si riscontrassero al giorno d'oggi in Europa scatenerebbero un allarme sanitario. » Che le prime tecnologie fossero nemiche della salute, del resto, lo avevamo intuito studiando un antenato dell'uomo molto più antico degli improvvisati fabbri di Wadi Faynan: già nelle ossa e nei denti dei Neanderthal sono stati trovati segni che gli individui più anziani avessero respirato tantissimo fumo di carbone. Usavano ripari di roccia, e in questi ambienti chiusi l'uso del fuoco li portava ad autointossicarsi col fumo già tra 170.000 e 40.000 anni fa (tra le 23.40.09 e le 23.55.19). Un recente studio di Gary Perdew della Pennsylvania State University mostra che è stata una mutazione oggi presente nel genoma dell'Homo sapiens, ma assente nel DNA dei Neanderthal, ad averci reso meno vulnerabili al fumo: quella nel gene AHR, che regola la risposta del corpo agli idrocarburi policiclici aromatici, carcinogeni, emessi dal legno che brucia. Senza di esso, la storia della razza umana avrebbe potuto essere molto diversa.
I grandi mammiferi ci mancano!
L'alta densità di mammiferi ha avuto un grande impatto nel modellare l'ecosistema nel periodo interglaciale, come ha rivelato uno studio firmato da Christopher Sandom e colleghi dell'Università di Aarhus, in Danimarca, grazie a un'approfondita analisi di coleotteri fossili ritrovati in Gran Bretagna. Il risultato chiarisce il ruolo dei grandi erbivori nel mantenimento di un alto livello di biodiversità nei climi temperati, tanto che la loro reintroduzione potrebbe rappresentare una delle politiche più efficaci per la conservazione degli ecosistemi in Europa.
Uno dei fenomeni ecologici più evidenti in tutto il mondo è la scomparsa della megafauna, categoria in cui rientrano le specie animali con un peso corporeo maggiore di 44 chilogrammi, verificatasi negli ultimi 50.000 anni (gli ultimi 5 minuti e 51 secondi dell'Anno della Terra). Questa incredibile perdita di biodiversità, collegata dagli studiosi all'espansione delle attività umane a partire dalla preistoria, non consente di stabilire quale impatto avessero i grandi erbivori nel modellare gli ecosistemi presenti in Europa prima dell'avvento dell'agricoltura. In proposito sono state avanzate due ipotesi. Secondo la prima, il paesaggio dell'Europa era dominato da foreste fitte, intervallate da zone aperte relativamente piccole; la seconda invece propone che queste zone aperte fossero in realtà molto più estese, al punto da creare un mosaico di coperture vegetali diverse tra loro, proprio grazie al contributo degli erbivori.
Sandom e colleghi hanno analizzato i dati disponibili riguardanti diverse specie coleotteri, alcuni dei quali associati alla presenza di foreste, e altri, come gli scarabei stercorari delle specie Copris lunaris, Onthophagus vacca e Caccobius schreberi, che si nutrono di sterco, associati alla presenza di grandi erbivori. Misurando l'abbondanza relativa dei due tipi di coleotteri, i ricercatori sono risaliti all'abbondanza dei grandi erbivori vissuti nella stessa epoca e hanno ricostruito la struttura della vegetazione della Gran Bretagna prima e dopo le estinzioni della megafauna. È stato così appurato che gli scarabei stercorari erano molto più abbondanti nel periodo interglaciale, tra 132.000 e 110.000 anni fa (tra le 23.44.35 e le 23.47.09), che nella prima parte dell'Olocene, tra 10.000 e 5.000 anni fa (tra le 23.58.49 e le 23.59.25), cioè prima dell'avvento dell'agricoltura. « Uno dei risultati più sorprendenti è che i coleotteri delle foreste erano molto meno abbondanti nel precedente periodo interglaciale che nella prima fase dell'Olocene: questo dimostra che gli ecosistemi temperati non erano costituiti solo da una densa foresta, come spesso si ritiene, quanto piuttosto da un mosaico di foreste e praterie », ha spiegato Sandom. La presenza dell'uomo avrebbe prima causato l'estinzione della megafauna, e con ciò l'espansione delle foreste, e poi la distruzione delle stesse foreste per lasciare spazio all'agricoltura. « I grandi animali erano presenti in gran numero ed erano parte integrante della natura nel periodo preistorico: le abbondanze relative dei coleotteri nei siti fossili ci svelano però che essi diminuirono drasticamente dopo la comparsa dell'uomo moderno », ha aggiunto Jens-Christian Svenning, coautore della ricerca. Secondo lui, un modo efficace per mantenere ecosistemi con un alto livello di biodiversità potrebbe essere proprio quello di creare lo spazio per i grandi erbivori nel territorio europeo, e possibilmente di reintrodurre bovini selvatici come il bisonte, o addirittura gli elefanti. Fantascienza? Solo il futuro potrà dirlo.
L'albero più antico
Ottomila anni fa, come detto, l'Europa era ancora quasi completamente stretta dalla morsa dei ghiacci dell'ultima glaciazione da poco terminata, ma qua e là alcune aree particolarmente esposte al sole davano modo alla vegetazione di conquistare propri spazi. In un angolo sperduto al confine tra le attuali Svezia e Norvegia alcuni semi di conifera attecchirono tra le rocce, e da essi nacquero grandi alberi destinati ad una vita molto lunga. Tanto lunga che Leif Kullman, botanico all'università di Umeå in Svezia, sostiene di averne rintracciato uno ancora in vita, incredibilmente sopravissuto fino ai nostri giorni. In un'intervista Kullman ha spiegato: "Abbiamo trovato il gruppo di alberi nel centro della Svezia, in un luogo che solo per puro caso non è stato interessato dal taglio che interessa le foreste della regione. L'intento era quello di capire come quelle piante fossero in grado di resistere alle severe condizioni invernali dell'area. Tra gli studi eseguiti abbiamo fatto datare le radici più antiche di una delle piante con il carbonio-14 da un laboratorio specializzato di Miami, in Florida. Con sorpresa abbiamo appreso che esse hanno un'età di 8.000 anni" (insomma, sono nate alle 23.59.04 del 31 dicembre). La scoperta fa di questo albero il più antico organismo vivente oggi conosciuto.
Fino ad oggi l'albero più antico noto ai botanici era "Matusalemme", un pino Bristlecone che vive vicino Las Vegas, sulle pendici della White Mountains, il quale ha un'età che si aggira attorno ai 5.000 anni. Altri alberi monumentali vecchi di migliaia di anni sono noti in Iran, dove un cipresso ha superato i 4.000 anni d'età, e in Cile, dove un'altra pianta simile ha compiuto i 3.600 anni. Alberi da due a tremila anni di vita sono poi numerosi e presenti un po' in tutto il mondo. Invece l'albero più antico della nostra penisola è l'oleastro di San Baltolu di Luras, in provincia di Sassari, un Olea europaea oleaster con 15 metri di altezza e 11 metri di circonferenza: avendo un'età che si aggira attorno ai 3.000 anni, esso vide gli uomini che costruirono i nuraghi sardi, mentre nel Parco dell'Etna, nel comune di Sant'Alfio, è nota l'esistenza del vecchissimo "Castagno dei cento cavalli", che secondo alcune analisi sarebbe addirittura ancora più antico dell'oleastro sardo. Nulla di paragonabile comunque alla conifera scandinava, i cui rami si protendono gloriosi ormai da un tempo doppio dell'età della grande piramide di Cheope!
Purtroppo invece l'oleastro di Tanca Manna, dal nome della località vicina a Cuglieri (Oristano) in cui si trovava, un altro degli alberi millenari d'Italia, è stato distrutto dagli incendi, probabilmente dolosi, che hanno devastato la Sardegna nel luglio del 2021.
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L'oleastro di San Baltolu (foto tratta da questo sito) |
Diari di legno
Antichi tronchi d'albero, rinvenuti nelle torbiere del Trentino, potranno svelare il clima del passato a sud delle Alpi con molta precisione, anno per anno, fino a 9.000 anni fa. « Tutto parte da un tronco di abete rosso (Picea abies) rinvenuto durante uno scavo in una torbiera al passo del Tonale », ha raccontato Mauro Bernabei dell'Ivalsa-CNR, l'Istituto per la Valorizzazione del Legno e delle Specie Arboree di San Michele all'Adige, che ha coordinato la ricerca insieme al Servizio foreste e fauna della provincia di Trento. « In un primo momento, tanto era ben conservato, sembrava un albero morto e sepolto dai detriti pochi anni fa. Invece, quando abbiamo voluto approfondire lo studio per conoscerne l'età, ci siamo accorti che la serie dendrocronologica dei suoi anelli non corrispondeva a nessuna di quelle note per gli ultimi 1.500 anni. Con il metodo del carbonio-14 abbiamo appurato che in realtà quel tronco aveva 6.700 anni! » (ore 23.59.13) Da allora sono stati fatti molti altri ritrovamenti, sia nei pressi del passo del Tonale che in altre località del Trentino occidentale. « Ora abbiamo 360 campioni, poiché in molte torbiere della regione è stato rinvenuto materiale legnoso databile fino a oltre 8.000 anni fa. Finora in Italia le serie dendrocronologiche più lunghe si fermavano a circa duemila anni fa, che per il Trentino si limitano alle tre principali specie: abete rosso, larice e pino cembro ».
Tutti sappiamo che gli anelli annuali delle piante sono come un diario che registra tutti i cambiamenti climatici, le oscillazioni della temperatura, l'ecologia della specie. Nei periodi freddi o con eventi sfavorevoli infatti l'accrescimento rallenta. Gli antichi tronchi costituiscono un prezioso archivio naturale di informazioni sull'ambiente naturale e antropologico, e la loro analisi scientifica interessa discipline come l'ecologia, la geomorfologia, la climatologia, l'archeologia e la tecnologia del legno. « Questi tronchi si sono così ben conservati sopratutto per la mancanza di ossigeno che caratterizza le torbiere, un po' come le mummie rinvenute in condizioni ambientali simili », ha aggiunto il ricercatore del CNR. « Finora esistevano per il centro-nord Europa serie dendrocronologiche lunghe fino a oltre 12.000 mila anni come quella della quercia della Germania e di circa 9.000 anni per le conifere (larice, pino cembro e abete rosso), ma solo sul versante nord delle Alpi. Il versante sud delle Alpi però è completamente diverso per condizioni climatiche e ambientali, e le informazioni si fermavamo a 1.500 anni fa. Ora avremo a disposizione uno strumento potentissimo per poter datare, confrontando gli anelli di accrescimento, molti manufatti in legno di interesse archeologico (...) Il database che stiamo realizzando sarà una vera e propria stele di Rosetta, una scala temporale applicabile a qualsiasi reperto con grande precisione, che permetterà la ricostruzione di nuovi scenari della nostra storia. »
Il Paleolitico
In questo periodo l'economia è basata sulla caccia e sulla raccolta di vegetali. L'uomo vive in accampamenti o in grotte ed è nomade: si sposta continuamente per poter trovare il cibo. Il clima è molto freddo, perché si alternano periodi di glaciazione a periodi di interglaciazione; la flora e la fauna sono legate al clima. Il Paleolitico in Italia si divide in tre periodi:
1) Paleolitico inferiore, che in Italia va da 1.000.000 a 120.000 anni a.C. In termini di Anno della Terra, andiamo dalle 22.02.58 alle 23.45.45 del 31 dicembre. Questo periodo è caratterizzato dalla comparsa dell'Homo erectus che arriva dall'Africa orientale, fabbrica strumenti in selce usati sia come arma di difesa che di offesa, ed è in questo periodo che viene introdotto l'uso del fuoco.
2) Paleolitico medio, che va da 120.000 a 45.000 anni a.C. In termini di Anno della Terra, andiamo dalle 23.45.45 alle 23.54.30 del 31 dicembre. In questo periodo la presenza umana è rappresentata dall'Homo neanderthalensis. L'industria è quella Musteriana, basata su schegge ritoccate ai margini. I neanderthaliani furono i primi uomini a seppellire i morti.
3) Paleolitico superiore, che va da 45.000 a 10.000 anni a.C. In termini di Anno della Terra, andiamo dalle 23.54.30 alle 23.58.35 ed 88 centesimi del 31 dicembre. È in questo periodo che dall'Africa giunge l'Homo sapiens. L'industria è ora basata sulla lavorazione di lame sottili e strette; vengono lavorati anche l'osso e il corno. L'uomo inizia a dedicarsi all'arte, come rivelano i ritrovamenti di pitture rupestri e graffiti, ma anche le statuine che spesso rappresentano una divinità femminile della fertilità (ad es. la Venere di Savignano sul Panaro).
Alla fine del Paleolitico si distinsero chiaramente tra loro le quattro razze degli uomini: europoide o caucasica, negroide, mongolica ed australoide; naturalmente, onde evitare atroci errori commessi nel passato recente, quando si parla di "razza" è bene tenere a mente che, allorché ad Albert Einstein fu chiesto a quale razza appartenesse, egli rispose: "Alla razza umana"...
Cuore di cavernicolo
« Romito 8 » era forte e robusto, con un fisico ideale per sopravvivere di caccia e raccolta nel Paleolitico. A vent'anni, però, subì un trauma, probabilmente una caduta che gli provocò uno schiacciamento delle vertebre, una lesione del plesso brachiale e una paralisi delle braccia. Non poté più andare in cerca di cibo, ma sopravvisse. Come? Grazie a qualcuno che lo accudì e gli trovò persino un "lavoro". « Le ossa delle gambe ci raccontano che rimaneva a lungo accovacciato, mentre i suoi denti, l'unica cosa sana e forte che gli era rimasta, mostrano segni di usura fino alla radice », ha spiegato Fabio Martini, archeologo all'Università di Firenze: « e questo fa pensare che li abbia usati per masticare materiale duro come legno tenero o canniccio per costruire manufatti come cestini o stuoie. Quelle lesioni non trovano nessun'altra giustificazione ».
Ancora più eclatante è il caso di « Romito 2 », che soffriva di una grave patologia congenita, una forma di nanismo chiamata displasia acromesomelica (il primo caso riconosciuto nella storia umana); era alto un metro e dieci e aveva gli arti molto corti, non era in grado di cacciare, ma nonostante questo è sopravvissuto fino a vent'anni, assistito dalla sua comunità. « Romito 2 è stato sepolto con una donna della stessa età in una posizione particolare », ha detto il dottor Martini, « con l'uomo che appoggia la testa sulla spalla della donna. Questo è inusuale dal momento che, nelle sepolture doppie, i cadaveri sono semplicemente avvicinati. Se questa specie di abbraccio abbia un significato protettivo nei confronti di chi è disabile è difficile dire, ma certamente la suggestione è da prendere in considerazione ».
I casi di « Romito 2 » e di « Romito 8 » dimostrerebbero che anche gli uomini preistorici si prendevano cura di malati e disabili: già in quelle epoche remote un individuo, incapace di provvedere a se stesso, poteva rendersi utile alla comunità e ripagare con il suo lavoro chi lo aiutava a sopravvivere. « Romito 2 » e « Romito 8 » sono due dei nove individui vecchi di dodicimila anni e ritrovati nella grotta del Romito, nel comune calabrese di Papasidero (CS), all'interno del Parco del Pollino. La scoperta risale al 1961, ma gli studi sui reperti continuano ancora oggi, coordinati da Fabio Martini con la collaborazione di due antropologi, Pierfranco Fabbri dell'Università di Lecce e Francesco Mallegni dell'Università di Pisa.
Le ossa possono raccontare molto sulla salute dei nostri antenati: possono indicare l'età e il sesso di una persona, le malattie di cui ha sofferto, i lavori che ha svolto (perché lo stress muscolare lascia segni sullo scheletro), l'alimentazione che ha seguito. Oggi gli archeologi non si limitano a ricostruire la storia clinica degli uomini primitivi, ma cercano di capire come i malati o i disabili erano accuditi dalla comunità e di risalire, attraverso queste osservazioni, anche ai modelli culturali della società: è la bioarcheologia della sanità, come la definiscono Marc Oxhenam e Lorna Tilley dell'Australian National University di Canberra. I due autori propongono una metodologia, in quattro fasi, per studiare gli scheletri di individui malati o disabili: la prima punta a formulare la diagnosi clinica, la seconda a descrivere il significato che la malattia o la disabilità assumono nel contesto culturale della società di appartenenza, la terza a individuare il tipo di assistenza che potevano richiedere. Per esempio, per una persona paralizzata è indispensabile un'assistenza di tipo infermieristico, mentre le condizioni di « Romito 2 » presupponevano soltanto tolleranza da parte della comunità e un aiuto generico. Il quarto stadio è quello della formulazione di ipotesi sulle culture preistoriche.
I due ricercatori hanno applicato questo metodo a uno scheletro rinvenuto nella provincia di Ninh Binh, a un centinaio di chilometri da Hanoi nel Nord del Vietnam, in un cimitero del Neolitico. M9 era un uomo di 20 o 30 anni e il suo scheletro, ritrovato in posizione fetale, mostrava un'atrofia delle braccia e delle gambe, un'anchilosi di tutte le vertebre cervicali e delle prime tre vertebre toraciche, nonché una degenerazione dell'articolazione temporo-mandibolare. Gli studiosi australiani, dopo un'attenta analisi delle ossa, hanno formulato la loro diagnosi: sindrome di Klippel Feil di tipo III, e hanno ipotizzato che la paralisi degli arti (nel migliore dei casi una paraplegia, nel peggiore una tetraplegia) fosse sopravvenuta quando era adolescente e che M9 fosse sopravvissuto in queste condizioni per altri dieci anni. Oxhenam e Tilley sono così arrivati alla conclusione che gli individui della sua comunità, prevalentemente cacciatori e pescatori, spendevano del tempo per prendersi cura di lui e soddisfacevano tutti i suoi bisogni, da quelli più semplici, come il mangiare, il vestirsi, il muoversi, a quelli più complessi, come il mantenimento dell'igiene personale o la somministrazione di vere e proprie cure. Dopotutto ci consola sapere che l'altruismo ha radici tanto antiche nella storia dell'uomo: forse, senza questa generosità, la razza umana stessa non avrebbe potuto sopravvivere...
Diffusione della cultura della ceramica lineare |
La prima decapitazione rituale
Purtroppo c'è anche il rovescio della medaglia: nella grotta di Lapa do Santo in Brasile è stato rinvenuto il più antico esempio di decapitazione rituale nelle Americhe. Lo studio è stato effettuato da André Strauss dell'Istituto Max Planck di antropologia evolutiva sui resti trovati nel 2007 nella zona di Lagoa Santa, nel Brasile centrorientale. Finora la decapitazione rituale più antica nelle Americhe risaliva a 5.000 anni fa (ore 23.59.25). Nella tomba 26 sono stati rinvenuti un cranio, una mandibola, le prime sei vertebre cervicali e due mani; queste ultime deposte sul viso, una con le dita rivolte verso l'alto e l'altra verso il basso. L'analisi rispetto alle altre deposizioni rinvenute ha portato gli studiosi a ritenere che l'individuo decapitato appartenesse al gruppo che viveva in quelle zone, e che non si sia trattato della decapitazione di un nemico per l'esposizione del macabro "trofeo", bensì di un rituale funerario della cultura della popolazione di cacciatori-raccoglitori di quel periodo. La datazione precisa sulle ossa fa risalire il reperto a un periodo compreso tra 9.428 e 9.127 anni fa (tra le 23.58.54 e le 23.58.56).
La decapitazione rituale è ampiamente documentata in tutto il Sudamerica, sia in tempi remoti (Nazca, Moche, Wari, Tiwanaco, Chimus) che in epoca più recente. Non mancano casi nel Nord America, il più antico dei quali è stato rinvenuto in Florida (Windover Pond) e risale all'VIII milllennio a.C. (ore 23.59.04-23.59.10). Gli archeologi interpretano le decapitazioni rituali del Sudamerica in modo variabile a seconda del contesto e delle diverse culture: da "punizione" del nemico vinto a trofeo di guerra, da avvertimento alle tribù ribelli a cerimoniale nei riti di fertilità e rinascita. A Lapa do Santo sono stati rinvenuti in tutto 37 scheletri. I primi conquistatori europei rimasero scioccati di fronte alle teste mozzate dei nemici trasformate in trofei e in coppe dalle quali bere, e questa fu purtroppo una delle scuse da essi addotte per giustificare l'etnocidio, cioè il tentativo di azzerare del tutto la cultura precolombiana delle popolazioni indigene: un crimine certo non meno grave del genocidio.
L'alfabeto paleolitico?
Vale la pena di menzionare un articolo pubblicato sulla rivista "New Scientist" del 20 febbraio 2010, intitolato « Il codice dell'età della pietra. Come non ci eravamo accorti dell'origine della scrittura », il quale annuncia una scoperta che, se fosse confermata, risulterebbe veramente rivoluzionaria. Secondo Jean Clottes, già direttore delle ricerche nella grotta Chauvet, Genevieve von Petzinger e April Nowell, dell'Università di Victoria in Canada, i dipinti sulle pareti delle grotte preistoriche erano accompagnati da un codice ricorrente di segni, ben 25.000 anni prima delle più antiche testimonianze alfabetiche. Infatti i petroglifi avrebbero tra i 13.000 e i 30.000 anni di età e sarebbero simboli astrologici che poi avrebbero dato origine alla moderna scrittura. Ciò implicherebbe l'esistenza di una codificazione astratta nel Paleolitico superiore, tradizionalmente ritenuto privo di testimonianze grafiche diverse dai grandi affreschi a soggetto animale sulle pareti delle grotte. Ciò che appare più sbalorditivo è però la diffusione del medesimo insieme di segni in tutto il mondo, dalla Francia all'Australia, il che ha fatto pensare al professor Iain Davidson dell'Università del New England ad una improvvisa "emersione", circa 40.000 anni fa, di una trasformazione cognitiva strutturale nella razza umana. Ecco un campionario di questi simboli tratto dal sito di New Scientist.
Gli studiosi hanno confrontato i 25-30 segni ricorrenti sulle pareti di antiche grotte australiane, asiatiche, europee, americane ed africane, sostenendo che l'ordinamento e la forma delle lettere alfabetiche ricalcherebbe sostanzialmente i disegni celesti delle costellazioni, che come si è detto in precedenza avrebbero influenzato la decorazione delle splendide pareti dipinte di Lascaux e di Altamira. Sempre secondo gli autori dello studio, esse sarebbero composizioni collettive, perfezionate in un interminabile lasso di tempo (almeno 20.000 anni) dal lavoro di centinaia di generazioni che, con una costanza davvero encomiabile, sono tornati a ricolorare e a modificare periodicamente i dettagli degli affreschi, man mano che la precessione degli equinozi veniva ad alterarne i movimenti. Come ha scritto Stefano Serafini, « le generazioni dei pittori delle grotte tennero dietro religiosamente agli asterismi, spostando concordemente le raffigurazioni secolo dopo secolo, in un coro di muggiti stellari e canti umani, dei quali oggi la scienza raccoglie i segni muti come inizio dell'era delle lettere ». A chi obietta loro che quelle pitture rupestri sono già state studiate in lungo e in largo, i tre ricercatori replicano che l'attenzione verso le grandiose pitture a soggetto animale e venatorio avrebbe "distratto" i ricercatori precedenti dal riconoscere l'importanza dei piccoli e costanti segni che le accompagnavano. In realtà quella della « scrittura paleolitica » è una teoria avanzata già nel lontano 1978 da Alessandro Bausani per conto della Società Italiana di Archeoastromia, e secondo alcuni sarebbe suffragata da un gran numero di studi di storia comparata delle mitologie. Ma non tutti danno credito a questa scoperta, sostenendo l'impossibilità di contatti culturali tra tribù disperse tra Nord America, Europa ed Australia. Il dibattito ovviamente prosegue.
Il Mesolitico
Questo periodo va da 10.000 a 6.000 anni a.C. In termini di Anno della Terra, andiamo dalle 23.58.35,88 alle 23.59.10,92 del 31 dicembre. In realtà la sua durata varia da luogo a luogo, poiché i nuovi tipi di industria impiegavano un certo tempo a diffondersi: il Mesolitico inizia nel 10.000 a.C. in Mesopotamia ed intorno all'8.000 a.C. nell'Europa settentrionale. Nel corso del Mesolitico finisce l'era glaciale, e cambiando il clima cambiano conseguentemente la flora e la fauna e quindi gli strumenti usati dall'uomo. Le forme di associazione tribale non si discostavano ancora da quelle del Paleolitico, però il miglioramento del clima permise migliori condizioni di vita; l'alimentazione era basata sulla caccia e sulla pesca, ma siccome i grandi banchi di mammiferi sono migrati o si sono estinti, la scarsità di risorse permetteva solo associazioni di piccoli gruppi che cambiavano frequentemente sede di stanziamento. Caratteristica del Mesolitico era la lavorazione della pietra focaia; importanti innovazioni tecniche furono la scure e le prime forme di trasporto su barche e su slitte, ma anche l'allevamento degli animali domestici, a partire dal cane. Si trattò di un processo lungo e difficile, che presupponeva la capacità di allevare i cuccioli e di abituarli a vivere assieme all'uomo, fino a farli riprodurre in cattività, così da poter selezionare esemplari sempre migliori. I vantaggi derivati dall'allevamento furono enormi: vi fu una maggior disponibilità di cibo, di lana e di pelli, mentre risultarono assai ridotti i rischi legati alla caccia.
Melissa Gray e Robert Wayne, dell'Università della California a Los Angeles, hanno proposto di recente che i cani domestici di piccola taglia potrebbero aver avuto origine in Medio Oriente oltre 12.000 anni fa, quindi ancor prima del Mesolitico. Per arrivare a questa conclusione essi hanno esaminato vari esemplari delle popolazioni di lupo (Canis lupus), ritenuto l'antenato comune di tutte le razze di cane domestico. L'estrema variabilità di taglie, pelame, caratteristiche fisiche, ecc. delle varie razze di cani portano a pensare che vi siano stati numerosi eventi distinti di domesticazione e di incrocio fra cane domestico e lupo, al punto che l'epoca e il luogo d'origine delle razze odierne risultano ancora in larga parte misteriosi. Gli studi di sequenziamento del DNA mitocondriale suggeriscono per esempio un'origine posta nell'Estremo Oriente fra i 6000 e i 5000 anni fa, ma i dati archeologici di epoca ancora precedente indicano invece come possibili aree di origine il Medio Oriente, la Russia occidentale e l'Europa, dove sono stati portati alla luce resti di cani di piccola taglia risalenti a 12.000 anni fa (in alcuni siti del Belgio, della Germania e della Russia orientale sono stati trovati reperti ancora più antichi, risalenti addirittura a 31.000 anni fa, ma si trattava di resti appartenuti ad animali di grossa taglia). Ora, gli autori della ricerca hanno ricostruito la storia evolutiva del gene IGF1, che determina la taglia dell'animale, dimostrando che la versione di questo gene che si rinviene nei cani di piccola taglia è strettamente correlata a quella che si trova nel lupi del Medio Oriente, ed è consistente con l'origine posta in questa regione. La riduzione della taglia è una caratteristica comune nelle specie addomesticate, e il fenomeno riguarda molti altri animali, compresi suini, bovini e capre. « Una piccola taglia doveva essere un tratto desiderabile nelle nascenti società agricole in cui si aveva una coabitazione sempre più stretta, e nelle quali i cani vivevano in parte nelle case o in spazi comunque confinati », ha dichiarato la Gray.
Alla fine del Mesolitico si ebbero inoltre i primi esempi di vasellame, mentre dalla raccolta di piante spontanee si cominciò a passare all'agricoltura. Dopo migliaia di anni in cui gli esseri umani si erano limitati a raccogliere i vegetali commestibili che crescevano spontanei, essi impararono a coltivarli. Nella Mezzaluna Fertile si cominciò a coltivare il grano, l'orzo, l'ulivo e la vite fin dall'8000 a.C. (la Bibbia attribuisce la prima coltivazione della vite addirittura a Noè!); il riso fu coltivato in Cina e in India a partire dal 7000 a.C., mentre il mais venne coltivato nella Mesoamerica a partire dal 4000 a.C. Furono necessari secoli per affinare le tecniche di selezione dei semi, gli incroci per ottenere risultanti via via migliori, l'individuazione dei terreni adatti e delle stagioni di semina e di raccolto; il lavoro agricolo stimolò perciò l'osservazione del cielo e lo studio, oltre che dei fenomeni atmosferici, anche del moto degli astri per distinguere meglio le stagioni ed i ritmi dell'agricoltura. Nacquero così i primi calendari. Fu inoltre necessario inventare nuovi attrezzi da impiegare per il dissodamento dei terreni, per la vangatura e per la mietitura: zappe, falci e, più tardi, gli aratri. Sempre per la conservazione e la cottura dei frutti della terra vennero affinate le tecniche per la lavorazione e la cottura dell'argilla, con cui vennero fabbricati vasi sempre più raffinati. Con la coltivazione del lino e del cotone si poterono realizzare indumenti diversi da quelli confezionati fino a quel momento con le pelli e la lana degli animali. Non è perciò esagerato parlare di rivoluzione agricola; ed infatti è proprio in questo periodo che nacque la prima vera città della Terra: Gerico in Palestina, risalente al IX millennio a.C., con vere case di mattoni ed utensili di pietra focaia.
Abbiamo visto che alle grandi ere geologiche del passato in genere posero fine altrettanti disastri naturali, che modificarono la faccia della terra causando l'estinzione di un gran numero di specie viventi. È possibile dire altrettanto per il Mesolitico? Sì, secondo alcuni ricercatori che, nel 2006, hanno riportato alla luce le tracce di una catastrofe avvenuta nel Mediterraneo circa 8.000 anni fa, cioè proprio al limite tra Mesolitico e Neolitico. Una frana colossale di almeno 35 chilometri cubici di materiale lavico, circa un decimo del cono dell'Etna, ed abbastanza per colmare il Lago Maggiore, si staccò improvvisamente dal fianco orientale del vulcano e si inabissò nel Mar Ionio, causando uno tsunami a confronto del quale quello avvenuto il 26 dicembre 2004 nel Sudest asiatico appare solo come un innocuo maroso: forse fu il più grande tsunami dalla comparsa dell'uomo sulla Terra. Durante i dieci minuti in cui la frana precipitò lungo i fondali dello Ionio, si sollevò in mare una muraglia di acqua a forma di anfiteatro alta fino a 50 metri che, viaggiando ad una velocità compresa tra i 200 e i 700 km all'ora (più lenta nei fondali bassi e più veloce nel mare profondo), si propagò in tutto il Mediterraneo investendo, in rapida successione, Sicilia Orientale, Calabria, Puglia, Albania, Grecia, Creta, Turchia, Cipro, Siria, Israele e l'Africa Settentrionale, dalla Tunisia fino all'Egitto, come mostra l'animazione in alto a sinistra. Naturalmente gli insediamenti preistorici costieri del Mediterraneo Orientale e Meridionale furono spazzati via: si sospetta che il villaggio costiero di Atlit-Yam, nell'attuale Israele, sia stato abbandonato subito dopo l'immane ondata. Le prove di quell'antica catastrofe sono state scoperte dai ricercatori dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), grazie a una serie di prospezioni sottomarine e a un'analisi al computer della forma dei depositi abissali. Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale Geophysical Research Letters con il suggestivo titolo di « Lost tsunami » ("lo tsunami dimenticato"), essendosi ormai perse le tracce di quell'evento sulle coste emerse. « Non sappiamo quale fu la causa di quell'immane collasso: forse un'eruzione più abbondante del solito, forse un terremoto », ha spiegato il professor Enzo Boschi, presidente dell'Ingv e autore dello studio assieme ai geofisici Maria Teresa Pareschi e Massimiliano Favalli. « Fatto sta che un'enorme quantità di depositi di lava che si erano accumulati per millenni sul ripido versante dell'Etna affacciato sul Mar Ionio precipitò giù e finì in parte sulla costa ai piedi del vulcano, e per la maggior parte sul fondo del mare, fino a circa 20 km dalla costa stessa. Sull'Etna, quella che oggi chiamiamo la Valle del Bove, una grande concavità sul fianco orientale del vulcano che raccoglie gli attuali flussi di lava diretti verso Est, è la cicatrice residua di quel lontano evento, in gran parte colmata dalle successive eruzioni. »
Questa probabilmente non è l'unica testimonianza di una disastro mesolitico. Infatti nel sito di Çatalhöyük, nella Turchia centrale, è stata ritrovata una pittura parietale databile al 6600 a.C. (ore 23.59.14), il quale raffigurerebbe un'antica eruzione del vicino vulcano Hasan Dagi. Lo sostiene uno studio dell'Università della California che, per determinare se l'Hasan Dagi era attivo a quell'epoca, ha raccolto e analizzato campioni di roccia vulcanica dalla vetta e dai fianchi del vulcano utilizzando la datazione geocronologica Uranio-Torio-Piombo. Le stime ottenute sono state successivamente confrontate con l'età del murale. I risultati supportano l'ipotesi che gli abitanti di Çatalhöyük abbiano vissuto l'esperienza di un'eruzione esplosiva dell'Hasan Dagi; le datazioni delle rocce testimoniano l'avvenimento di un'eruzione intorno al 6900 a.C. (ore 23.59.12), non molto distante dal periodo in cui si ritiene sia stato dipinto quell'affresco. Un vero messaggio in bottiglia dalla Preistoria!
Il passaggio dei nostri antenati da cacciatori-raccoglitori ad agricoltori potrebbe poi essere stato molto più graduale di quanto ritenuto finora, secondo quanto afferma uno studio condotto su antichi vasellami, eseguito da alcuni ricercatori dell'Università di York e dell'Università di Bradford. Essi hanno analizzato i residui di cottura in 133 vasi di ceramica ritrovati in 15 siti nelle regioni del Baltico occidentale, per stabilire se tali residui fossero di origine terrestre, marina o di organismi di acqua dolce. I reperti sono datati al 4000 a.C. circa (ore 23.59.32), epoca in cui sono cominciate, secondo le prove archeologiche, le domesticazioni di animali e piante in quella regione. Essi hanno così accertato che il pesce e altre risorse ittiche continuarono a essere sfruttate in prevalenza anche dopo l'avvento dell'agricoltura e della domesticazione: i vasellami delle zone costiere contengono infatti residui arricchiti di una forma di carbonio tipica degli organismi marini. Circa un quinto di essi contengono altre tracce biochimiche di organismi acquatici, compresi grassi e oli assenti in animali e piante terrestri.
« Questa ricerca fornisce una chiara evidenza del fatto che le popolazioni del Baltico occidentale continuarono a sfruttare risorse marine e di acqua dolce nonostante l'arrivo di animali e piante domesticati. Sebbene si sia diffusa rapidamente in questa regione, l'agricoltura può non essere stata all'origine del drastico abbandono dell'economia tipica dei cacciatori-raccoglitori, come ritenuto finora. » Così si è espresso Carl Heron, professore di Scienze archeologiche dell'Università di Bradford. « I dati raccolti rappresentino il primo studio su larga scala che combini un ampio spettro di prove molecolari e dati isotopici di un singolo composto per discriminare le risorse terrestri, marine e delle acque dolci che sono state cucinate in ceramiche ritrovate in siti archeologici e forniscono un punto di riferimento per i futuri studi di come gli esseri umani abbiano utilizzato le ceramiche nel passato. »
I primi "turisti" nel Mar Egeo!
Uno studio genetico pubblicato nel 2014 da Peristera Paschou, dell'Università della Tracia "Democrito" ad Alexandroupolis e colleghi ha dimostrato che le popolazioni del Mesolitico e del Neolitico europeo potrebbero essere migrate nel nostro continente provenienti dal Medio Oriente, passando per diverse isole del Mediterraneo. Paschou & C. hanno analizzato il DNA di soggetti europei, mediorientali e nordafricani ricostruendo la distribuzione geografica di specifiche varianti genetiche note come polimorfismi a singolo nucleotide, e deducendone quindi le rotte seguite nelle migrazioni dei loro lontani antenati. Il genoma degli europei mostra infatti i segni di un mescolamento di geni delle antiche popolazioni paleolitiche, che colonizzarono il Vecchio Continente circa 35.000 anni fa (ore 23.55.55), con quelli delle popolazioni mesolitiche, originarie del Medio Oriente, che arrivarono in Europa circa 9000 anni fa (ore 23.58.57). Ancora incerte sono le stime del contributo dei geni neolitici al genoma europeo, variabili tra il 10 e il 70 %, secondo il tipo di analisi usata. Gli studiosi tuttavia concordano sul fatto che queste popolazioni mediorientali abbiano portato in Europa trasformazioni epocali, come le prime tecniche agricole e forse anche le lingue indoeuropee. Ma quali rotte migratorie seguirono questi agricoltori mesolitici?
Le ipotesi sono tre. La prima, via terra, parte dal Vicino Oriente e passa per l'Anatolia, nell'attuale Turchia, e poi da lì attraverso il Bosforo e i Dardanelli verso la Tracia, nell'attuale Grecia, verso i Balcani. Una seconda via, marittima, passa per le coste turche e attraversa le isole del Mediterraneo, arrivando alle coste dell'Europa meridionale. La terza via parte dalle coste del Medio Oriente, attraversa invece le isole dell'Egeo e arriva in Grecia. Per verificare quale di queste ipotesi fosse la più verosimile, Paschou e colleghi hanno raccolto campioni di DNA da circa 1000 individui appartenenti a 32 popolazioni diverse, provenienti da Europa, Medio Oriente e Nord Africa, e hanno cercato specifiche varianti denominate polimorfismi a singolo nucleotide, che riguardano differenze nei singoli “mattoni elementari” che costituiscono la catena del DNA. Grazie a questo tipo di analisi, è possibile ricostruire come le caratteristiche possano variare con la geografia: le differenze tra il DNA di un europeo e quello di un africano aumentano andando da est verso ovest. In particolare, l'analisi dettagliata è compatibile con l'ipotesi che la maggior parte delle migrazioni del Neolitico abbiano seguito la rotta marittima, e nello specifico quella che collega la regione costiera dell'Anatolia, in Turchia, ed Europa meridionale, passando per Creta e per le isole del Dodecaneso. Da qui, le popolazioni di agricoltori del Medio Oriente si sparpagliarono per tutta l'Europa del sud.
La prima risaia
La prima domesticazione dei riso (Oryza sativa) sarebbe avvenuta tra 9.400 e 9.000 anni fa (tra le 23.58.54 e le 23.58.57). A determinarla con la tecnica del radiocarbonio sono alcuni ricercatori dell'Accademia Cinese delle Scienze guidati da Naiqin Wu, analizzando i resti di riso scoperti nel sito di Shangshan, lungo il basso corso del fiume Yangtze, in Cina. Il loro studio, pubblicato nel 2017, mette così un punto fermo nella lunga serie di studi che negli ultimi decenni hanno cercato di chiarire l'origine l'origine e l'evoluzione di questa importante pianta coltivata, essenziale per il sostentamento di più della metà della popolazione mondiale. Le ricerche in proposito sono risultate particolarmente difficili e hanno prodotto risultati frammentari. I più antichi resti di Oryza sativa sono stati scoperti nei siti di Diaotonghuan e Xianrendong, nella provincia di Jiangxi, in Cina, e sono stati collocati cronologicamente alla fine del Pleistocene, cioè tra 12.000 e 9.000 anni fa (tra le 23.58.36 e le 23.58.57). Il problema è che, insieme a questi reperti, sono stati recuperati pochi manufatti riconducibili a un'attività umana di manipolazione delle piante, come le pietre usate per la macinatura. La maggior parte degli utensili scoperti, fatti di osso, corna di cervo e conchiglie, probabilmente serviva per la caccia e la raccolta e questo, insieme alla loro datazione, ha suggerito che il riso trovato assieme a essi fosse ancora una specie selvatica.
A candidarsi come primi esempi di riso domesticato sono stati i resti scoperti nel sito di Shangshan, risalenti a un periodo compreso tra 11.000 ed 8.600 anni fa (tra le 23.58.43 e le 23.58.59). Anche in questo caso, però, la datazione effettuata analizzando i materiali organici estratti da frammenti di vasellame è risultata incerta, poiché potrebbero non riflettere direttamente l'epoca in cui gli alimenti erano stati manipolati. Wu e colleghi hanno invece datato con la tecnica del carbonio-14 i fitoliti presenti nei resti di riso. I fitoliti sono microscopiche particelle di silice amorfa che si trovano nelle piante: la loro utilità nella datazione dei reperti antichi è dovuta al fatto che, durante la loro formazione, possono includere carbonio organico derivato dall'anidride carbonica catturata dalle piante durante il processo di fotosintesi clorofilliana. La concentrazione di carbonio-14 all'interno dei fitoliti dovrebbe quindi rappresentare le condizioni dell'anidride carbonica atmosferica in cui si sono formati. Secondo i risultati dell'analisi, i resti del riso scoperti a Shangshan risalirebbero a un periodo variabile per l'appunto tra 9.400 e 9.000 anni fa. La morfologia dei fitoliti indica inoltre che si tratta di specie vegetali simili a quelle moderne, il che suggerisce che la domesticazione del riso potrebbe essere iniziata proprio a Shangshan durante il Mesolitico.
Il primo salumificio
Già novemila anni fa i pescatori che vivevano lungo le rive del Nilo, all'altezza dell'attuale Sudan centrale, praticavano la salatura del pesce a scopo di conservazione. La scoperta di resti di pesci e tracce di cloruro di sodio è stata effettuata nel sito di Al Khiday da Donatella Usai e Sandro Salvatori del Centro Studi Sudanesi e Sub-Sahariani, in collaborazione con le Università di Milano, di Padova e di Parma, e rappresenta la più antica testimonianza dell'uso del sale per la conservazione del cibo. Il risultato suggerisce che la capacità di stoccare gli alimenti abbia favorito il passaggio da una vita nomade a una più stanziale, con importanti riflessi sull'organizzazione sociale e la crescita demografica delle comunità.
I ricercatori hanno portato alla luce tracce di un insediamento delle popolazioni che vissero nella regione di Al Khiday durante il Mesolitico. Nel sito sono stati ritrovati i resti di un villaggio di capanne, un cimitero con oltre 200 sepolture e vari pozzetti usati come focolari, discariche di rifiuti e altro. In molti di questi pozzetti i ricercatori hanno rinvenuto lische e altri resti di pesci, ma anche significative tracce di cloruro di sodio, tali da suggerire che quel sale fosse stato aggiunto appositamente per conservare il pesce nei contenitori di ceramica dalle elaborate decorazioni prodotti da queste popolazioni. Il pesce conservato poteva così essere usato nei mesi di magra del fiume, per integrare l'alimentazione durante la stagione della caccia, o in occasione di attività sociali o rituali.
Ma è solo l'inizio. In Europa, le società di cacciatori-raccoglitori del Mesolitico iniziarono ad addomesticare il maiale nel 4600 a.C. (ore 23.59.14), cioè 500 anni prima di quanti ritenuto in un primo momento, come hanno dimostrato Ben Krause-Kyora e colleghi dell'Istituto di Biologia molecolare della Christian-Albrechts-University di Kiel, in Germania, sulla base di analisi genetiche di resti di suini ritrovati in un sito tedesco. Noi sappiamo che l'Europa è stata abitata, a partire dal 12.000 a.C. (ore 23.58.22), da cacciatori-raccoglitori indigeni del Mesolitico, che sopravvivevano cacciando prede selvatiche. Per contro, le prime comunità di allevatori del Neolitico che migrarono nella regione provenendo da sud, tra il 5500 e il 4200 a.C. (tra le 23.59.07 e le 23.59.17), si nutrivano di piante coltivate e di animali allevati quali pecore, capre, bovini e maiali. Molti studi archeologici hanno documentato un lungo periodo di coesistenza tra le comunità Mesolitiche e Neolitiche e anche una comunicazione con tra le due, testimoniata dal ritrovamento di resti di vasellame a di altri utensili. Tuttavia apparentemente, i cacciatori-raccoglitori mantennero il loro stile di vita, distinto dai vicini coltivatori.
Krause-Lyora e colleghi hanno condotto un'approfondita analisi del DNA di campioni risalenti al Mesolitico ritrovati a Ertebølle, nella Germania settentrionale, per verificare se queste popolazioni acquisirono in effetti animali domestici dai loro vicini Neolitici del sud. L'analisi dei denti di 63 campioni ha documentato la presenza di due tipi di DNA mitocondriale, uno tipico dei maiali del vicino oriente e l'altro europeo. Le analisi hanno anche evidenziato una variante genica denominata MC1R, che è associata al colore del manto in molte varietà domestiche moderne e che viene usata come marker di ibridizzazione tra maiali selvatici e domestici. Proprio questo gene ha portato gli autori a concludere che le popolazioni mesolitiche di cacciatori-raccoglitori iniziarono a sfruttare maiali domestici di diverse dimensioni e colori del manto circa 500 anni prima di quanto stimato in precedenti studi.
La prima latteria
La capacità di digerire il lattosio si è evoluta per la prima volta in alcune comunità di allevatori dell'Europa centrale durante il Mesolitico, circa 7500 anni fa (alle 23.59.07). A stabilirlo è stato uno studio condotto da ricercatori dell'University College of London. La mutazione genetica che ha consentito ai primi europei di bere latte senza risentire di conseguenze negative si sarebbe verificata in particolare nelle popolazioni che vivevano fra i Balcani e l'Europa Centrale, mentre in precedenza si riteneva che la selezione naturale avesse favorito i bevitori di latte solo nelle regioni più settentrionali dell'Europa, a causa del loro maggior fabbisogno di vitamina D nella dieta. La maggior parte dei popoli del mondo sintetizzano la vitamina D grazie all'esposizione al sole, ma alle latitudini più alte per buona parte dell'anno essa è del tutto insufficiente per assicurarne una adeguata produzione.
« A livello globale », ha spiegato Mark Thomas, direttore dello studio, « la maggior parte degli adulti non produce l'enzima lattasi che è indispensabile per digerire il lattosio, a differenza di quanto avviene per la maggioranza degli europei. In Europa, una singola variazione genetica è fortemente associata alla persistenza della lattasi. Dato che il consumo di latte da adulti non era possibile prima della domesticazione degli animali, è verosimile che la persistenza della lattasi sia evoluta con la pratica della produzione di latticini, anche se non si sa con precisione quando questa fece la sua prima comparsa in Europa e quali fattori ne abbiano stimolato la rapida diffusione. Il nostro studio ha preso in considerazione la diffusione della persistenza della lattasi in Europa, scoprendo che essa è apparsa circa 7500 anni fa fra i Balcani e l'Europa centrale, probabilmente fra persone della cosiddetta Cultura della Ceramica Lineare. Ma, contrariamente a quanto comunemente ritenuto, abbiamo anche scoperto che il bisogno di vitamina D assunta nella dieta non è necessario per spiegare perché la persistenza della lattasi è oggi divenuta comune in Nord Europa ». Oltre a fornire vitamine, il latte è infatti un alimento calorico ricco di proteine, è disponibile in maniera relativamente costante, a differenza degli alimenti vegetali, e può essere meno contaminato da batteri rispetto all'acqua.
Altri studi hanno indicato che tracce di proteine di latticini su antico vasellame ritrovato in Ungheria e in Romania ne testimoniano l'uso già fra i 7.900 e i 7.450 anni fa (tra le 23.59.05 e le 23.59.08), mentre in Inghilterra le prime tracce di grassi di origine latticina risalgono a 6.100 anni fa (alle 23.59.17). Tuttavia con tutta probabilità all'epoca il latte non era consumato crudo, ma veniva prima fermentato per produrre yogurt, burro e formaggio. La prima latteria della storia!
La persistenza della lattasi
A questo proposito, un mistero a lungo dibattuto riguarda il fatto che la nascita dell'allevamento di bovini da latte in Europa è avvenuta migliaia di anni prima che la maggior parte delle persone evolvesse la capacità di bere latte nell’età adulta senza ammalarsi. Ma nel 2022 forse Shevan Wilkin, archeologa molecolare dell'Università di Zurigo, e colleghi scoperto il perché: la tolleranza al lattosio era abbastanza vantaggiosa da influenzare l'evoluzione solo durante occasionali episodi di carestia e malattia, il che spiegherebbe perché ci sono voluti migliaia di anni prima che si diffondesse questa caratteristica. La teoria è sostenuta dall'analisi di migliaia di cocci di ceramica e di centinaia di genomi umani antichi, oltre che da una sofisticata modellizzazione, e spiega la capacità di digerire il latte, nota come persistenza della lattasi, che era quasi inesistente nei primi allevatori. Questa capacità deriva da un enzima che scompone lo zucchero del latte e che di solito si inattiva dopo lo svezzamento dei bambini.
La capacità di digerire il latte si è evoluta in modo indipendente nelle popolazioni antiche di tutto il mondo. I ricercatori hanno mappato il tratto su varianti geniche che istruiscono le cellule a produrre alti livelli di lattasi. La variante di cui è portatrice la maggior parte delle persone di origine europea è uno dei più forti esempi di selezione naturale sul genoma umano. Tuttavia, gli scienziati hanno faticato a spiegare le cause dell'alta prevalenza della persistenza della lattasi in Europa. Molti hanno ipotizzato che la variazione si sia rivelata vantaggiosa solo dopo che le popolazioni antiche hanno iniziato a consumare abitualmente prodotti caseari. Un'altra teoria influente sosteneva che le prime vacche, capre e pecore, domesticate circa 10.000-12.000 anni fa (tra le 23.58.36 e le 23.58.49), fossero utilizzate principalmente per la loro carne, e che il consumo di latte fosse seguito millenni dopo. Ma Richard Evershed, biogeochimico dell'Università di Bristol, e il suo gruppo hanno trovato residui di grasso del latte su antichi cocci risalenti agli albori della domesticazione animale. Gli studi di genomica antica, nel frattempo, hanno dimostrato che questi primi allevatori erano intolleranti al lattosio e che la tolleranza al latte è diventata comune in Europa solo dopo l'Età del bronzo, 4.000-5.000 anni fa (tra le 23.59.25 e le 23.59.32). Per determinare i probabili fattori che hanno portato alla capacità degli europei di digerire il latte, sono stati raccolti dati archeologici e genomici. I ricercatori hanno poi elaborato un modello del modo in cui vari fattori, come l'uso del latte e le dimensioni della popolazione, spiegano l'aumento della persistenza della lattasi, basandosi sui genomi di oltre 1700 antiche popolazioni eurasiatiche. Il gruppo ha osservato una scarsa sovrapposizione tra l'aumento della tolleranza al lattosio e l'incremento del consumo di latte, dedotto dalla presenza di residui di grasso di latte in circa 13.000 cocci provenienti da oltre 550 siti archeologici in tutta Europa. Tutte le precedenti ipotesi su quale fosse il vantaggio di selezione naturale della persistenza della lattasi si basavano sull'entità del consumo di latte, in virtù dei presunti benefici nutrizionali derivanti dalla possibilità di consumare latte senza ammalarsi.
Scartata questa ipotesi, i ricercatori hanno esaminato il rapporto tra la tolleranza al lattosio e il consumo di latte negli europei moderni. In un archivio di dati sanitari e genomici di mezzo milione di abitanti del Regno Unito, hanno scoperto una scarsa correlazione tra il consumo di latte e la tolleranza al lattosio, con il 92 per cento dei partecipanti intolleranti al lattosio che preferiva il latte fresco alle alternative. Inoltre, la tolleranza al lattosio non ha mostrato un chiaro beneficio per la salute o la fertilità, che potrebbe essere un elemento fondamentale per la selezione naturale. Ciò suggerisce che, per la maggior parte delle persone intolleranti al lattosio, gli inconvenienti del consumo di latte non sono così pesanti oggi, e probabilmente non lo erano nemmeno nell'antichità. Se si è sani, si ha un po' di diarrea, crampi e aerofagia. È spiacevole, ma non si muore!
Raschiatoio del Mesolitico |
L'effetto serra nella Preistoria?
Alcuni ricercatori dell'Università della Virginia e dell'Università del Maryland, analizzando come gli esseri umani possono avere influenzato il clima nel corso degli ultimi millenni, hanno affermato che oggigiorno 6 miliardi di persone usano circa il 90 per cento del territorio in meno per persona per la coltivazione di cibo, di quanto è stato utilizzato da popolazioni di gran lunga inferiori di numero al principio della storia della civiltà. Quelle società probabilmente ricorrevano alla comune tecnica di bruciare le foreste abbattute al suolo per concimare i campi, e così facendo cancellarono grandi estensioni di foresta per ottenere livelli relativamente piccoli di produzione agricola. « Hanno usato così tanta foresta per l'agricoltura, perché avevano uno scarso incentivo a massimizzare la resa e perché c'era abbondanza di foreste a bruciare », ha dichiarato il paleoclimatologo William Ruddiman, l'autore principale dello studio. « Così facendo, possono avere inavvertitamente alterato il clima. »
Secondo Ruddiman i primi coltivatori avrebbero usato un grande appezzamento fino a quando la resa cominciava a declinare, e quindi avrebbero bruciato un'altra area di foresta per proseguire le piantagioni. Avrebbero continuato questa rotazione, aumentando sempre più le aree spianate man mano che la popolazione cresceva. Probabilmente essi bruciavano cinque o più volte più terra di quanto in realtà avevano bisogno. Solo quando le popolazioni crebbero molto e ci fu meno foresta disponibile, che la civiltà mesolitiche adottarono tecniche di agricoltura più intensive e lentamente imparò a ricavare più cibo da meno terra.
Con la rotazione altamente efficiente di oggi, la superficie pro capite dedicata all'agricoltura va diminuendo e le foreste stanno crescendo in molte parti del mondo, compreso il nord-est degli Stati Uniti, Europa, Canada, Russia e persino parti della Cina. Gli effetti positivi sull'ambiente di questa riforestazione, tuttavia, sono stati annullati dall'uso su larga scala di combustibili fossili dopo l'avvento della rivoluzione industriale, iniziata circa 150 anni fa. Tuttavia Ruddiman ha sostenuto che gli esseri umani cominciarono alterare il clima globale già migliaia di anni fa, non solo a partire dalla rivoluzione industriale, anche se la sua teoria è stata criticato da alcuni climatologi, secondo cui le popolazioni primitive erano troppo esigue di numero per riversare nell'atmosfera terrestre sufficiente anidride carbonica per alterare il clima. Ma Ruddiman e il suo coautore Erle Ellis hanno ribattuto: « Molti modelli climatici danno per scontato che l'utilizzo del suolo nel passato è stato simile all'attuale, e che la grande esplosione della popolazione degli ultimi 150 anni è aumentato proporzionalmente all'uso del suolo. "Invece in precedenza popolazioni molto più piccole utilizzavano una superficie pro capite molto maggiore, terreni molto più per persona, e ciò può avere inciso sul clima più di quanto risulta dai modelli attuali. »
Ruddiman e Ellis basano la loro ricerca su diversi studi di antropologi, archeologi e paleoecologisti, i quali sono concordi nell'indicare che le antiche civiltà utilizzavano una grande quantità di terra per la ottenere dall'agricoltura quantità relativamente modeste di cibo. « La nostra popolazione è cresciuta a dismisura per migliaia di anni, e aveva bisogno di quantità immense di cibo, ed è per questo che noi abbiamo migliorato le tecnologie agricole tanto da ridurre la superficie necessaria e da innalzare il rendimento », ha dichiarato Ruddiman. E certo la sua proposta non è da scartare a priori.
Un boom demografico prima dell'agricoltura
La prima grande espansione della popolazione umana avvenne subito dopo la fine dell'ultima era glaciale, ma prima dell'inizio del Neolitico, e non dopo l'avvento dell'agricoltura, come finora si era ritenuto. È quanto risulta da uno studio filogenetico sul DNA mitocondriale, condotto da un gruppo di ricercatori della Fudan University a Shangai e dell'Accademia Cinese delle Scienze, guidati da Hong-Xiang Zheng, secondo i quali sarebbe stato l'aumento della popolazione a indurre i cacciatori-raccoglitori a passare all'agricoltura, e non viceversa.
Si ritiene che l'agricoltura sia comparsa nella famosa "Mezzaluna Fertile" circa 12.000 anni fa, e che si sia poi affermata in modo indipendente nel corso dei successivi mille anni in altre regioni. La conseguenza di maggior rilievo dell'introduzione dell'agricoltura fu la forte espansione demografica nel corso del Neolitico, testimoniata da dati di carattere linguistico, archeologico e di biologia molecolare. I dati ora ottenuti dai ricercatori cinesi indicano inaspettatamente che la prima espansione della popolazione umana avrebbe avuto inizio fra 15.000 e 11,000 anni fa in Africa, circa 13.000 anni fa in Europa e fra 12.000 e 8.000 anni fa in America, dunque prima dell'inizio del Neolitico.
Sulla base di questi risultati gli autori ipotizzano l'esistenza di un circolo virtuoso fra pratiche agricole e crescita demografica: un circolo innescato proprio dell'aumento della popolazione. Il clima progressivamente più mite dopo il massimo glaciale avrebbe permesso di fuoriuscire dai "rifugi" alle basse latitudini in cui buona parte delle popolazioni si erano ritirate, e di fruire di maggiori risorse di caccia e raccolta, la cui consistenza era anch'essa aumentata grazie al miglioramento delle condizioni ambientali. Ciò avrebbe determinato un aumento delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori, costringendole a trasformare i frutti della terra da fonte alimentare complementare a fonte principale. Per arrivare alle loro conclusioni i ricercatori hanno compiuto un'analisi globale delle variazioni nel DNA mitocondriale "a stella" (ossia con un particolare tipo mitocondriale al centro e condiviso da altre popolazioni) su un ampio gruppo di campioni del 1000 Genomes Project, un consorzio internazionale di ricerca destinato a definire un dettagliato catalogo delle variazioni genetiche umane.
In settemila anni siamo ingrassati di parecchio!
Alison Macintosh, dottoranda presso il dipartimento di archeologia e antropologia dell'Università di Cambridge, afferma che lo stile di vita sempre più sedentario ha cambiato, nel corso dei secoli, lo scheletro umano. Per dimostrare questo suo assunto, la Macintosh ha preso in considerazione resti di individui vissuti in Europa centrale tra il 5300 a.C. e la metà del IX secolo dopo Cristo (tra le 23.59.23 e le 23.59.54): in questo intervallo di tempo, sarebbe riscontrabile il progressivo indebolimento della capacità di carico degli arti inferiori, riconducibile all'abitudine a sforzi fisici inferiori. L'area geografica presa in considerazione dalla Macintosh comprende la fertile valle del Danubio, e il cambiamento riscontrato riguarda soprattutto gli individui di sesso maschile. La portata della variazione, sostiene la ricercatrice, è paragonabile a quella individuata in un precedente studio che aveva messo a confronto la mobilità degli studenti di Cambridge che corrono la corsa campestre con quelli classificati come sedentari. Le ragioni sarebbero molteplici. Su tutte, il passaggio da una società agricola e dedita alla pastorizia a un'organizzazione più complessa, in cui crescevano la produttività dei raccolti e la complessità degli oggetti in metallo assieme all'innovazione tecnologica, all'estensione del commercio e alla rete di scambi.
Secondo la Macintosh, « pare che questi sviluppi abbiamo portato a grandi cambiamenti nella divisione del lavoro, dettati dal genere, dall'organizzazione socio-economica e dalla specializzazione in attività specifiche come la lavorazione dei metalli, della ceramica, della cura del raccolto e del bestiame ». La ricerca indaga le due direzioni: si vuole capire come, dall'avvento dell'agricoltura in poi, lo scheletro ha saputo adattarsi ai comportamenti dell'individuo nel corso della sua vita; in senso opposto, come l'analisi dei resti scheletrici possa essere d'aiuto per ricostruire i cambiamenti avvenuti negli schemi di comportamento e di mobilità nelle società analizzate. Per tenere traccia di queste trasformazioni, Macintosh ha effettuato scansioni laser a scheletri ritrovati in sepolture situati oggi in Germania, Ungheria, Austria, Repubblica Ceca e Serbia. Le scansioni a laser hanno analizzato tibie; queste ultime, negli uomini, si sono indebolite. L'ipotesi è che, nel corso delle generazioni, gli individui abbiano percorso distanze sempre più ridotte, e abbiano trasportato pesi sempre più leggeri, o che abbiano svolto attività meno impegnative dal punto di vista fisico dei loro predecessori. Il fatto che il declino della mobilità sia meno evidente nelle femmine viene spiegato dalla Macintosh con l'ipotesi che le donne si occupassero di una gran varietà di compiti, o per lo meno che svolgessero meno attività che comportavano un intenso sforzo degli arti.
Dai dati raccolti sulle popolazioni attualmente dedite all'agricoltura emergono molte differenze: nelle comunità agricole indiane e nepalesi, ad esempio, si rileva nei maschi un'attività fisica più intensa; in Alto Volta e Gambia la situazione è esattamente opposta. « Per questo, cioè per comprendere la variabilità nella divisione sessuale del lavoro nelle comunità agropastorali », ha precisato la studiosa, « studi come questo devono prendere in considerazioni regioni di dimensioni ridotte ». Una curiosità: tra i resti ossei esaminati, di particolare interesse sono risultati quelli appartenenti a donne di popolazioni scite ritrovate nell'attuale Ungheria e vissute tra l'età del bronzo e l'età del ferro. La particolare resistenza dei loro femori potrebbe ricondursi al fatto che in quella popolazione, oltre a dedicarsi all'allevamento di grandi animali, all'equitazione e al tiro con l'arco, le donne svolgevano molti lavori fisici, e partecipavano ai combattimenti. Un riferimento al mito delle Amazzoni?
Il fascino dell'agricoltore
Gran parte dei maschi europei discenderebbe dai primi agricoltori che nel Mesolitico, fra 10.000 e 7.500 anni fa, portarono l'agricoltura in Europa dalla "Mezzaluna fertile" nel Vicino oriente. A proporre questa suggestiva teoria è una ricerca condotta da Mark Jobling, dell'Università di Leicester, Chris Tyler-Smith del Wellcome Trust Sanger Institute e Guido Barbujani dell'Università degli Studi di Ferrara. I tre ricercatori e i loro collaboratori hanno studiato la diversità relativa al cromosoma Y, che passa di padre in figlio. « Ci siamo concentrati sul più comune lignaggio relativo al cromosoma Y, di cui sono portatori circa 110 milioni di europei », ha osservato Jobling. « Esso segue un percorso da sudest a nordovest, raggiungendo una frequenza vicina al 100 % in Irlanda. Abbiamo esaminato come il lignaggio si è distribuito, com'è diverso nelle differenti parti d'Europa e quanto è antico. »
In particolare, la ricerca si è concentrata sullo studio dell'aplogruppo R1b1b2, contraddicendo studi precedenti che, sulla base di una sua maggiore frequenza nelle regioni più occidentali, avevano desunto che esso traesse origine dalle popolazioni paleolitiche di cacciatori-raccoglitori. Nello studio sopra citato si mostra invece come, tenendo conto della distribuzione delle diversità all'interno dell'aplogruppo, la sua distribuzione geografica può venire spiegata molto meglio ipotizzando la sua diffusione a partire da un' unica fonte giunta dal Vicino oriente attraverso l'Anatolia.
Ciò significherebbe che oltre l'80 % dei cromosomi Y europei deriverebbero dagli agricoltori immigrati. Invece, buona parte del lignaggio genetico materno sembra derivare dai cacciatori-raccoglitori. « Questo - ha aggiunto Patricia Balaresque, che ha partecipato allo studio - ci suggerirebbe un vantaggio riproduttivo per gli agricoltori rispetto ai cacciatori-raccoglitori, nel corso del passaggio dalla cultura della caccia e raccolta a quella agricola. Forse allora appariva molto più "maschio" essere un agricoltore! »
Prima di passare al Neolitico vorrei far notare come la leggenda del fratricidio di Caino, contenuta nel capitolo 4 del libro della Genesi, rappresenti in realtà in forma di parabola il secolare scontro fra i pastori nomadi, incarnati da Abele, ed i coltivatori ed allevatori stanziali, incarnati da Caino. La morte di Abele adombra quindi la vittoria delle prime civiltà cittadine sulle tribù rimaste allo stato nomadico e quindi tecnologicamente più arretrate. Infatti dopo il delitto Caino fugge e cosa fa? Fonda la prima città della storia, dandole il nome di suo figlio. Tutto torna.
E non è tutto. In una tomba scoperta nel 1996 a Herxheim, nel lander tedesco della Renania-Palatinato, un gruppo di archeologi guidato da Bruno Boulestin, dell'Università di Bordeaux, ha scoperto tracce di cannibalismo di massa. In essa infatti egli ha rinvenuto almeno 500 resti umani « mutilati intenzionalmente », alcuni appartenenti a bambini, come ha dichiarato il ricercatore. Le ossa, stando alle sue analisi, sono state staccate, rotte intenzionalmente e addirittura arrostite allo spiedo. « Si tratta di una chiara prova di cannibalismo compiuto in Europa agli inizi del Neolitico. In quel periodo nell'Europa centrale le popolazioni soffrivano di carestie », ha aggiunto Boulestin. Altri paleontologi però rifiutano l'idea del massacro rituale, e sostengono che lavare le ossa dopo averle staccate dalla carne faceva parte di un particolare rituale di sepoltura. In effetti è tutt'altro che facile dimostrare che le ossa ritrovate sono state effettivamente arrostite per il pasto, però su alcuni di questi resti Boulestin avrebbe trovato segni di masticazione. Se Boulestin ha ragione, Caino non si è limitato ad ammazzare Abele...
Addomesticati due volte
Alcuni ricercatori del Centro Nazionale di Ricerca Scientifica (Cnrs) a Parigi, guidati da Jean-Denis Vigne, hanno affermato nel 2016 che l'amicizia plurimillenaria tra uomo e gatto potrebbe avere alla base non uno, ma ben due momenti e luoghi di incontro indipendenti l'uno dall'altro. Si tratta di una notizia importante per ricostruire le origini di uno degli animali domestici più amati e diffusi al mondo, che conta attualmente più di 500 milioni di esemplari in tutto il pianeta. Le evidenze scientifiche raccolte mostrano che il noto felino amico dell'uomo è stato addomesticato circa 10.000 anni fa (ore 23.58.49) in alcune regioni dell'Asia sudorientale, a partire dal gatto selvatico della sottospecie Felis silvestris lybica. Secondo i dati genetici attualmente disponibili, spiegano gli autori dello studio, tale sottospecie rappresenta l'antenato di tutti i gatti moderni (Felis catus). Tuttavia, recenti risultati hanno evidenziato che gatti domestici di dimensioni inferiori rispetto a quelle del Felis silvestris lybica vivevano in alcune regioni della Cina in un periodo che risale a circa 5.000 anni fa (ore 23.59.25), dunque molto più recente rispetto alla domesticazione asiatica. Questi piccoli felini cinesi derivano dai gatti addomesticati 10.000 anni fa in Asia sudorientale, oppure sono il risultato di una seconda domesticazione del tutto indipendente dalla precedente?
Per comprendere meglio le origini di questi gatti domestici in Cina, i ricercatori hanno effettuato analisi strutturali su resti ossei di piccoli felini vissuti nelle regioni delle province cinesi di Shaanxi e di Henan dai 5.500 ai 4.800 anni fa (tra le 23.59.21 e le 23.59.26). Le indagini morfometriche hanno "fotografato" la struttura di diversi campioni di mandibola appartenenti ai gatti: attraverso l'esame della forma ossea dei felini, queste metodiche hanno permesso di ricostruire un identikit del muso degli animali, riuscendo ad individuare a quale specie fossero appartenuti. I risultati confermano l'ipotesi di una seconda domesticazione, indipendente dalla prima, avvenuta in Cina cinque millenni fa. A suffragio della tesi dell'assenza di un collegamento tra le due domesticazioni, i ricercatori hanno osservato che le parti ossee esaminate non appartengono al Felis silvestris lybica, ma a un'altra specie, il Prionailurus bengalensis o "gatto leopardo".
Il gatto leopardo è caratterizzato da un pelo con disegno a macchie di leopardo e da una forte somiglianza con il nostro felino domestico. Nella letteratura scientifica, il gatto leopardo è noto per la sua abilità ad adattarsi agli ambienti naturali modificati dall'uomo; in particolare, il suo ingresso nel "mondo umano" sarebbe stato favorito dall'elevata presenza di roditori (soprattutto di topolini Mus cypriacus/domesticus) nelle zone agricole. Un'adattabilità che potrebbe essere alla base dell'intesa storica, raffigurata anche ad esempio nei dipinti egiziani intorno al 2000 a.C. (ore 23.59.46), e ormai consolidata nei millenni, tra l'essere umano e il piccolo felino. Naturalmente occorreranno ulteriori indagini per comprendere l'origine della diffusione del gatto leopardo all'interno di queste regioni orientali. Inoltre, il gatto leopardo addomesticato ha avuto vita breve: infatti oggi in Cina tutti i gatti domestici sono collegati, a livello genetico, con il Felis silvestris e non con il Prionailurus bengalensis.
In aggiunta a ciò bisogna aggiungere che, durante la loro complessa storia evolutiva, i gatti domestici si sono incrociati più volte con diverse sottospecie selvatiche, e proprio per questo il processo di domesticazione non ha alterato profondamente le caratteristiche morfologiche, fisiologiche, comportamentali ed ecologiche dei gatti, a differenza di quello che è accaduto per esempio ai cani. A scoprirlo è stato un gruppo di ricercatori dell'Università di Lovanio, in Belgio. Claudio Ottoni, Eva-Maria Geigl e colleghi hanno analizzato il DNA di 352 gatti arcaici e 28 gatti selvatici moderni, riuscendo a ricostruire ciò che è avvenuto in un arco di tempo di oltre 9000 anni, dalla fine del Neolitico fino ad oggi. I gatti selvatici (Felis silvestris) erano diffusi in tutto il mondo fin dalla più remota antichità, vivendo, a fianco degli esseri umani per migliaia di anni ben prima che iniziasse il processo di domesticazione, molto probabilmente in una relazione di reciproco vantaggio: i gatti predando i roditori attirati dal cibo degli umani, e gli esseri umani conservando meglio le proprie scorte. Solitario e territoriale il gatto selvatico, infatti, non si prestava facilmente alla domesticazione. Attualmente si distinguono cinque sottospecie di gatti selvatici (Felis silvestris silvestris, lybica, ornata, cafra e bieti), una sola delle quali è stata alla fine addomesticata: Felis silvestris lybica. Questa sottospecie è a sua volta divisa in cinque sottogruppi, o cladi, due dei quali hanno contribuito in misura massiccia all'eredità genetica del gatto domestico odierno. Un sottogruppo, indicato con la sigla IV-A, è apparso per la prima volta nell'Asia sudoccidentale, in particolare nella penisola anatolica, per poi diffondersi in Europa già nel 4400 a.C. Il secondo sottogruppo, chiamato IV-C, è quello di una linea di gatti africani presente in Egitto, che costituisce anche la maggioranza delle mummie di gatto egizie. Questo secondo lignaggio si è poi diffuso in tutto il Mediterraneo nel primo millennio a.C. lungo le rotte commerciali, probabilmente grazie al fatto che i gatti si rendevano utili tenendo sotto controllo i roditori sulle navi. Nelle località di approdo, questi gatti si sono poi mescolati in più riprese sia con quelli del lignaggio IV-A, sia con i gatti selvatici locali. Proprio questa ripetuta ibridazione ha consentito ai gatti domestici di conservare i caratteri originali. Gli autori hanno anche scoperto che la mutazione recessiva associata al mantello tabby, cioè a strisce ben distinte, è apparsa solo nel Medioevo ed è comparsa prima in Asia sudoccidentale, per poi diffondersi in Europa e in Africa.
Gli antichi inglesi dalla pelle scura
Altro che celti dalla pelle chiara e dai capelli biondi, come sono ritratti nelle avventure a fumetti di Asterix: i primi abitanti dell'Inghilterra avevano la pelle scura e i capelli neri e ricci come quelli dei popoli a sud del Sahara, ma gli occhi chiari. È la ricostruzione basata sul DNA dei reperti rinvenuti all'interno della grotta di Gough, nella Gola di Cheddar, contea di Somerset. Profonda 115 metri e lunga quasi tre chilometri e mezzo, nel 1903 vi vennero trovati i resti del cosiddetto Uomo di Cheddar. Si tratta dei resti di un uomo deceduto oltre 9 mila anni fa (alle ore 23.58.57) per cause incerte: è lo scheletro completo di Homo sapiens più antico trovato nelle isole britanniche. L'Uomo di Cheddar era alto 166 centimetri e quando morì aveva circa vent'anni. Faceva parte di una popolazione di cacciatori-raccoglitori e, come tutti quelli della sua epoca, da adulto era intollerante al lattosio: come si è detto, secondo stime genetiche, la tolleranza al lattosio incominciò a diffondersi nell'Europa centro-orientale non prima di 7.500 anni fa (alle 23.59.07). Una nuova analisi del DNA nel 2018 ha portato a risultati sorprendenti. Si sapeva già che la nostra specie uscì dall'Africa a più riprese. L'evoluzione dell'Homo sapiens nell'Africa sub-sahariana fa ritenere che i nostri progenitori avessero la pelle scura e che, per successivi adattamenti evolutivi in aree più a nord dove la luce solare è minore, avessero perso circa 45 mila anni fa (alle 23.54.45) la colorazione più scura a favore della pelle chiara. Avere la pelle chiara nelle zone settentrionali è infatti un vantaggio, perché assorbe più raggi ultravioletti che consentono la sintesi della vitamina D.
Il risultato genetico, in linea con altri ritrovamenti in varie parti d'Europa che risalgono allo stesso periodo, mostra che il colore chiaro degli occhi (azzurri o verdi) si è evoluto e diffuso nelle popolazioni europee prima della pelle bianca e dei capelli biondi. Questi tratti si diffusero nel Vecchio continente solo molto più tardi, con l'arrivo di popolazioni che conoscevano l'agricoltura. La lezione che se ne desume è la seguente: non dobbiamo credere che la gente che nel passato viveva in una determinata area avesse le stesse caratteristiche di quella che la popola oggi. Gli inglesi attuali hanno ereditato circa il 10 % del proprio patrimonio genetico dalle popolazioni europee alle quali apparteneva l'Uomo di Cheddar, anche se non ne sono i loro diretti discendenti (le isole britanniche in epoca glaciale erano collegate al continente europeo). Si pensa, infatti, che quelle prime popolazioni furono rimpiazzate e assorbite (in parte) dai primi agricoltori che arrivarono molto tempo dopo nelle isole britanniche.
Il Neolitico
È l'età della pietra levigata, e va dal 6.000 al 3.500 a.C. In termini di Anno della Terra, andiamo dalle 23.59.10,92 alle 23.59.21,43 del 31 dicembre. Siamo nell'ultimo minuto! Nel corso del sesto millennio prima di Cristo, in Europa centrale la caccia e lo stile di vita nomade lasciarono il posto a uno stile di vita sedentario dominato da allevamento e agricoltura; questa svolta nella storia del genere umano è stata definita "rivoluzione neolitica". L'uomo divenne sedentario, viveva in capanne con i tetti di fango, si dedicava all'agricoltura e all'allevamento. A queste innovazioni si accompagnava un miglioramento delle abilità tecnologiche, poiché vennero costruiti nuovi attrezzi in selce, come rudimentali zappette per dissodare il terreno e telai per la tessitura. L'uomo ottenne anche la ceramica, mediante la cottura dell'argilla, e ne fece dei recipienti: vari frammenti sono stati rinvenuti in Italia centrale. E' questa l'era della cultura megalitica.
Un dolmen, disegno della mia allieva Francesca Piotti (IV C ginn. 2004/05) |
Essa comprende Portogallo, Spagna, Francia. Svizzera, Inghilterra, Irlanda e parte dell'Italia. Nel corso di essa vennero elevati i menhir, probabilmente delle steli sacre o dei simboli fallici, e i dolmen, specie di "grotte artificiali" fatte con un lastrone sovrapposto ad altre due o tre verticali, forse camere tombali o aree di culto. In seguito si svilupparono le tombe con corridoio di accesso e quelle a volta. A Carnac, in Bretagna, centinaia di menhir sono allineati in file lunghe da 200 a 1500 metri; a Stonehenge in Inghilterra sono invece disposti in cerchio, a formare un vero e proprio osservatorio solare; un sito simile, ma meno imponente, si trova ad Avebury, sempre in Inghilterra. Il menhir più grande si trova nel sito di Locmariaquer: un fulmine lo ha spezzato in quattro tronconi, ma in origine pesava 400 tonnellate, e certamente ci sono voluti migliaia di uomini per rizzarlo in piedi. Anche la Sardegna abbonda di resti megalitici: oltre a parecchi menhir e dolmen, che in lingua sarda vengono chiamati rispettivamente "pedras fittas" e "pedras accovaccadas", sono da segnalare le "tombe dei giganti" e le "domus de ianas" (case delle fate), queste ultime scavate nella roccia con lunghi corridoi di accesso. Ma gli impianti più affascinanti sono a Malta: pilastri ciclopici che svettano verso il cielo, travi di marmo orizzontali che formano porte e mura fatte con lastre di marmo, innalzate duemila anni prima che gli egiziani pensassero alle loro piramidi. Fra menhir, dolmen, cerchi di pietre, allineamenti e altri edifici o templi megalitici, in tutta Europa sono note circa 35.000 strutture di questo tipo. Queste strutture megalitiche condividono tutte caratteristiche architettoniche simili; per esempio, l'orientamento delle tombe è costantemente diretto verso est o sud-est, nella direzione da cui sorge il sole. Ciò ha indotto gli archeologi, fin dalla metà del XIX secolo, a ritenere che la loro costruzione fosse legata a una religione che si sarebbe diffusa dal Vicino Oriente prima nel Mediterraneo e quindi sulle coste atlantiche della Spagna, della Francia e della Gran Bretagna, a seguito della migrazione di membri della casta sacerdotale. Questa ricostruzione resistette incontrastata fino ai primi anni settanta del secolo scorso, quando le prime datazioni al radiocarbonio la misero fortemente in dubbio, portando la maggior parte degli studiosi verso l'ipotesi di una nascita indipendente nelle diverse regioni e imputando le somiglianze alla relativa "semplicità" delle strutture architettoniche. Da allora le datazioni al radiocarbonio dei megaliti si sono moltiplicate a dismisura, ma senza che si tentasse di tracciare un quadro cronologico complessivo su cui testare l'ipotesi della nascita indipendente.
Nel 2019 tuttavia Bettina Schulz Paulssonin, ricercatrice all'Università di Göteborg in Svezia, ha annunciato di aver analizzato 2410 datazioni al radiocarbonio relative a siti megalitici e pre-megalitici e a siti non megalitici coevi di tutta Europa. L'analisi ha mostrato che le prime strutture, piccole costruzioni chiuse o dolmen realizzati con lastre di pietra solo in superficie e coperti da un cumulo di terra o di pietra, sono emerse nella seconda metà del quinto millennio a.C.; la struttura più antica è databile fra il 4794 e il 4770 a.C.. Questa architettura si sarebbe diffusa nel giro di 200 o 300 anni dalla Francia nordoccidentale alle isole del Canale, alla Catalogna, alla Francia sudoccidentale fino alla Corsica e alla Sardegna. A questa prima ondata sono poi seguite altre due principali, rispettivamente fra il 4000 e il 3500 a.C. e nel mezzo millennio successivo, caratterizzate da altrettante variazioni strutturali delle costruzioni megalitiche, che hanno portato alla massima diffusione di questa cultura. L'ultimo episodio di espansione, minore si verificò infine fra il 2500 e il 1200 a.C. con la comparsa di megaliti alle Baleari, in Sicilia e in Puglia. Strutture di questo periodo si trovano anche in Sardegna, che però era stata interessata in misura molto significativa anche dalle espansioni precedenti.
Più tardi dal sud si diffonde la cosiddetta cultura del bicchiere campaniforme, caratterizzata da recipienti a forma di campane rovesciate, che dalla Spagna si diffonde verso l'Europa centrale. È in questo periodo che si diffonde l'uso dell'arco. Ignoti i motivi della sua invenzione; secondo il filosofo José Ortega y Gasset (1883-1955), l'uomo preistorico vedeva le prede sfuggirgli rapidissime; pensando che un uccello potesse raggiungerle, prese un bastone, vi mise da una parte un becco e dall'altra delle piume, e così inventò la freccia. Ma è una spiegazione più poetica che altro.
Successivamente si diffusero la cultura della ceramica decorata a nastro, a partire dalla Moravia, mentre da nord si diffondeva la cultura dell'ascia da combattimento, utilizzata negli scontri tribali. Si diffuse l'agricoltura, a partire dalla Mesopotamia e dalla regione del Mar Nero. Di conseguenza nasceva un nuovo sistema economico in cui trovava posto il commercio, basato sul baratto. L'agricoltura estensiva richiede stabilità, e così i nostri antenati abbandonarono il nomadismo per creare le prime culture agricole stanziali, nella fascia temperata che va dal Mediterraneo fino alla valle del Fiume Giallo attraverso la Mezzaluna Fertile e le valli dell'Indo e del Gange. I grandi clan familiari diedero vita a villaggi stabili, che successivamente si trasformarono in città cinte di mura per difendersi dai nomadi delle steppe, la cui fascia circondava a nord e a sud l'area delle culture agricole, e dove essi erano rimasti nomadi e razziatori (archetipo degli Unni). Le testimonianze dell'epoca parlano di religioni piuttosto evolute e basate sul culto degli antenati e della fecondità. Il dio supremo è sempre il dio del cielo, le cui armi invincibili sono il lampo e il tuono (come Zeus e Odino, per capirci). A Eridu, Tepe Gawra ed Uruk (la città di cui fu re Gilgamesh) sorsero le prime costruzioni sacre, sotto forma di tempietti e santuari; è l'inizio dell'era dei grandi templi, accompagnati dalla formazione di una potente casta sacerdotale. Dallo sciamano del Paleolitico e del Mesolitico, depositario della scienza e delle tradizioni, il potere politico passò ad un grande capo assistito da una casta nobiliare, ed ebbero così inizio le organizzazioni monarchiche.
Un abbraccio lungo seimila anni
Il Neolitico è attestato anche nella regione di chi scrive grazie ad alcuni spettacolari ritrovamenti avvenuti a Valdaro, in provincia di Mantova. Nel febbraio 2007, durante lavori di bonifica archeologica sui resti di una immensa villa romana del I secolo d.C., furono dissepolti due scheletri del Neolitico, presumibilmente di sesso diverso, tumulati faccia a faccia ed abbracciati fra di loro. Gli "amanti di Valdaro", come è stata subito battezzata la coppia, rappresentano a detta degli scopritori l'unico esempio di doppia sepoltura documentata in Italia settentrionale, e la singolarità del ritrovamento si è prestata alle interpretazioni più fantasiose, dato che le sepolture parentali si presentano sempre allineate e parallele. La datazione è risultata immediatamente certa, attestata dagli oggetti di pietra lavorata che corredano la sepoltura, salvata dal terreno argilloso che ha protetto i reperti millenari dalle radici e dalla lama degli aratri: si parla di seimila anni fa, in pieno Neolitico. Sulla giovane età della coppia non vi sono dubbi, visto che i denti ci sono tutti e sono perfetti: probabilmente i due innamorati della Preistoria avevano un'età compresa fra i 20 e i 25 anni. Lo scheletro di sinistra, ritenuto di sesso maschile, a livello delle vertebre cervicali ha una punta di freccia in selce, mentre quello a destra, che potrebbe essere della sua compagna, è stato trovato con una lama di selce molto lunga nel fianco. Si tratta di oggetti rituali per accompagnare il viaggio nell'aldilà, o sono i resti di una morte violenta, come se ci trovassimo di fronte ad un delitto passionale del Neolitico? O invece, secondo una versione altrettanto drammatica, la giovane donna è stata sacrificata dopo la morte del marito, secondo un rito analogo a quello delle vedove indiane?
Che ci sia ancora molto da scoprire nell'immensa area archeologica di Valdaro lo testimonia l'ulteriore, sensazionale scoperta degli scheletri di un uomo e di un cane, risalenti almeno a cinquemila anni fa, annunciata sempre da Elena Maria Menotti nel luglio 2009. « È una scoperta eccezionale », ha dichiarato a caldo Elena Maria Menotti, direttrice del Nucleo Operativo della Soprintendenza Archeologica di Mantova, spiegando che « si tratta di un cacciatore, come testimoniano le punte delle frecce in selce trovate lì vicino. Abbiamo voluto chiamarlo il cacciatore Orione con il suo cane Sirio: in estate, in cielo, c'è la costellazione di Orione con il canis maior, la stella di Sirio ». Lo scheletro dell'uomo, una persona di alta statura, è stato trovato in posizione rannicchiata con ai piedi il cane, proprio come nella costellazione di Orione! Questi ritrovamenti a dir poco eccezionali sfatano le approssimazioni leggendarie su una Mantova preetrusca e preromana occupata da una palude invivibile e popolata solo in epoca storica: in realtà, molto prima di Virgilio, le genti della pietra e del rame erano attivissime nella Bassa Padana, e fondavano la propria economia su pesca, caccia e agricoltura. « Era una zona assai vitale e ricca », ha spiegato la Menotti, « proprio in virtù della palude. Gli abitanti si spostavano sulle vie d'acqua con facilità, e oltre alla prima agricoltura erano al centro di vivaci scambi commerciali. Per esempio le selci rinvenute arrivavano dai Monti Lessini ». Altro che notte della Preistoria...
Massacri neolitici
Purtroppo però, a dispetto degli "amanti preistorici", guerre e conflitti violenti contrassegnati da terribili efferatezze hanno segnato la vita dei nostri antenati fin dagli inizi del Neolitico. Lo dimostra tristemente l'analisi dei resti di una fossa comune risalente a circa 7000 anni fa (ore 23.59.10), scoperta nelle vicinanze della cittadina tedesca di Schöneck-Kilianstädten da un gruppo di ricercatori delle Università di Mainz e di Basilea. La diffusione, la frequenza e le cause dei conflitti nel Neolitico sono da tempo argomento di dibattito, che finora si era basato sulle analisi di due altre fosse comuni (ad Asparn/Schletz, in Austria, e a Talheim, in Germania), nelle quali i corpi non erano deposti in modo accurato, come nei normali siti funerari del tempo. Questi due siti risalgono a un periodo compreso fra il 5600 e il 4900 a.C. (tra le 23.59.07 e le 23.59.12) ed appartengono alla cosiddetta Cultura della Ceramica Lineare, sviluppatasi nell'Europa centrale all'epoca della prima diffusione dell'agricoltura. Alcuni resti di Asparn/Schletz mostrano inoltre segni di ferite prodotte da frecce.
L'analisi dei reperti di Schöneck-Kilianstädten sembra invece inequivocabile. Esaminando i resti di almeno 26 persone, Christian Meyer e colleghi hanno trovato i segni che le vittime erano state brutalmente torturate e mutilate. Oltre alle tipiche tracce di frecce, infatti, spesso mostravano anche gravi lesioni al cranio, alle ossa della faccia e ai denti, alcune delle quali inflitte poco prima o poco dopo la morte. Inoltre, gli autori del massacro avevano sistematicamente spezzato le gambe delle loro vittime, indicando chiaramente che brutalità e torture furono intenzionali. La mostruosità di questo scenario è aggravata dal fatto che una dozzina dei corpi erano di bambini di età non superiore ai nove anni. La presenza di pochissimi resti femminili indica inoltre che le donne non erano state coinvolte attivamente nei combattimenti, e suggerisce che le più giovani venissero rapite dagli aggressori. Meyer e colleghi ne concludono che l'obiettivo di questa violenza massiccia e sistematica fosse l'annientamento di intere comunità rivali. Inoltre, considerato che i siti di Schöneck-Kilianstädten, Asparn/Schletz e Talheim sono molto distanti uno dall'altro, si può supporre che simili massacri non fossero fatti isolati, ma una caratteristica frequente del primo Neolitico dell'Europa centrale. Insomma, l'uomo ha imparato davvero presto ad essere crudele, come testimonia efficacemente il racconto di Caino ed Abele.
La famigliola neolitica
Grazie al Cielo, quello tra Caino e Abele non è il solo rapporto di parentela neolitico a noi noto. Nel 2005 alcuni archeologi ritrovarono un sito di sepoltura a Gurgy "Les Noisats", circa 150 chilometri a sud-est di Parigi, e si trovarono di fronte un mistero di 6500 anni fa. Tra i resti di oltre 120 individui, infatti, vi era uno scheletro femminile quasi completo e alcune ossa assortite che sembravano essere state estratte e spostate da un'altra tomba. Il DNA di questi enigmatici resti ha dimostrato che appartengono all'antenato maschio di decine di altre persone sepolte nelle vicinanze: insomma, la moderna genomica sci ha permesso di ricostruire il più grande albero genealogico noto di una famiglia preistorica, fornendo un'istantanea della vita in una comunità agricola primitiva. Secondo Wolfgang Haak, archeogenetista al Max-Planck-Institut per l'antropologia evolutiva a Lipsia, essendo e tombe prive di monumenti o di ricchi corredi funerari, esse potrebbero essere appartenuti a persone comuni e non ad individui di alto rango. Il suo gruppo di Haak ha analizzato i genomi di 94 dei 128 individui recuperati dal sito e ha scoperto con somma sorpresa che circa due terzi di essi appartenevano a un unico albero genealogico che abbracciava sette generazioni. Più le persone erano sepolte vicine, più erano strettamente imparentate, e in cima all'albero genealogico c'è l'uomo della tomba misteriosa. L'ammasso di ossa era unico nel sito, ma nessun corredo funebre o altra prova indicava la sua posizione o il motivo per cui i suoi resti erano stati riesumati. Finora i ricercatori non sono riusciti a estrarre il DNA dalla donna sepolta accanto a lui, ma se, come la maggior parte delle altre donne adulte del sito, non era strettamente imparentata con nessun altro, potrebbe essersi unita alla famiglia da un'altra comunità. Ciò indica una struttura sociale simile a quella scoperta in altri siti preistorici, in cui i discendenti maschi tendevano a rimanere nei dintorni, mentre le donne si spostavano altrove.
Il complesso albero genealogico ha rivelato altri aspetti finora sconosciuti della vita neolitica. Tutti i fratelli condividevano la stessa madre e lo stesso padre, senza la presenza di fratellastri, e questo suggerisce che nessun individuo aveva più di un partner. Ciò suggerisce una società piuttosto semplice, caratterizzata dalla monogamia, che forse era tipica delle persone comuni, mentre la poligamia era riservata ai notabili che se lo potevano permettere. Invece in una sepoltura neolitica del Regno Unito, Hazleton North, altri ricercatori hanno identificato un uomo che si era unito a quattro donne. Ovviamente sarebbe bello sapere che cosa ha reso così importante l'uomo in cima all'albero genealogico di Gurgy, ma questo purtroppo resterà verosimilmente un mistero per sempre. Tuttavia il dottor Guido Borghi, ricercatore presso l'Università degli Studi di Genova ed amico personale dell'autore di questo ipertesto, ha avanzato in proposito un'ipotesi che vale davvero la pena di riportare qui. Come egli stesso ci ha spiegato, i nomi in -y (corrispondenti a quelli lombardi in àgo), dal gallico *-ākŏ-, sono di solito ritenuti derivati di nomi di persona in epoca galloromana. La persona il cui nome è (o sarebbe) servito come base per il toponimo sarebbe stata un proprietario appunto galloromano. Nello specifico, Gurgy (il sito dove è stata dissotterrata la famigliola neolitica) si presta a essere analizzato al meglio come continuatore di *Gūtūrīgi̯ākŏ-n ‘(territorio) di quelli (= dei discendenti) di *Gūtūrīχs’ per la sincope della vocale lunga nella sequenza -rīg- cfr. Bourges < Bĭtŭrīgĕs. Qui ci troviamo di fronte a una necropoli di un villaggio neolitico, utilizzata dal 5000 al 4200 a.C. (tra le 23.59.25 e le 23.59.17), allorché si sono fissati gli insediamenti stanziali in Europa centro-occidentale. Abbiamo la prova della comune discendenza da un unico capostipite; dunque sarebbe più logico che mai che il villaggio – prima inesistente – si chiamasse *G̑ʱŭhₓtŭ-h₃rēg̑-i̯-ăhₐkŏ-m ‘il territorio dei discendenti di *G̑ʱŭₓtŭ-h₃rēg̑-s (l’antecedente indoeuropeo del gallico *Gūtūrīχs)’. Questo *G̑ʱŭₓ-tŭ-h₃rēg̑-s, etimologicamente ‘re della voce’, sarebbe il capostipite. Si noti che “re”, a questa quota cronologica, è da intendere come ‘colui che guida’, quindi ‘colui che guida la voce o le voci’, il che potrebbe essere una risposta alla domanda sul perchè quell'individuo fu trattato con tanto onore. Se tutto ciò cogliesse nel segno, ci troveremmo di fronte ai resti di una persona che, al momento, risulterebbe la più antica – indubitabilmente esistita e materialmente conservata – al Mondo della quale (forse) conosciamo il nome!!
I progetti neolitici
In vaste trappole per animali in Giordania e Arabia Saudita sono state portate alla luce antiche incisioni su pietra, che potrebbero essere i primi "progetti tecnici" mai scoperti! Le incisioni, che risalgono a circa 8000 anni fa (alle ore 23.59.04), sono piani precisi di strutture vicine che gli archeologi chiamano "aquiloni del deserto": linee convergenti di pietre accatastate, spesso più grandi di due campi da calcio, che probabilmente venivano usate per spingere mandrie selvagge di gazzelle e antilopi in fosse ai loro angoli. Le pietre accatastate sono spesso poco più che linee sulla superficie del deserto e gli animali avrebbero potuto facilmente saltarle, ma erano abbastanza visibili da far sì che le mandrie in preda al panico se ne allontanassero e corressero nelle fosse. Secondo i ricercatori, ogni animale avrebbe fornito a una persona carne sufficiente per settimane. Non siamo in grado di stimare quanti cacciatori lavorassero agli "aquiloni", ma si ritiene che essi avessero con loro dei cani. Il gruppo di studio aveva inizialmente pensato che i cacciatori nomadi si spostassero tra "aquiloni" distanti con le migrazioni delle mandrie di gazzelle e antilopi, ma ora prevale l'idea che gli animali in migrazione tendessero a rimanere all'incirca nella stessa area, quindi una serie di "aquiloni" potrebbe essere stata usata ogni volta per mesi di seguito. Gli archeologi hanno scoperto più di 6000 "aquiloni" del deserto in tutto il Medio Oriente e in Asia centrale; in alcune zone della Siria, della Giordania e dell'Arabia Saudita c'è fino a un aquilone per chilometro quadrato! Gli "aquiloni" mediorientali sono i più antichi, e ci sono prove che alcuni siano stati usati per migliaia di anni. Spesso gli "aquiloni" sono associati a grandi monumenti cerimoniali costruiti ammassando pietre, e chiamati mustatil, che probabilmente venivano usati per processioni e riti religiosi, come le nostre Stazioni della Via Crucis.
I progetti ritrovati mostrano una comprensione degli enormi "aquiloni" che non sarebbe stata eguagliata per millenni, e che possono essere apprezzati appieno solo osservandoli dall'alto. Rémy Crassard, archeologo del Centro Nazionale Francese per la Ricerca Scientifica (CNRS), ha scoperto che i progetti sono in scala, e di conseguenza mostrano un approccio sofisticato agli "aquiloni" vincolato dalla forma, dalla simmetria e dalle dimensioni: nessuno aveva idea che all'epoca i nostri antenati fossero in grado di farlo con tanta precisione. In precedenza erano già noti alcuni progetti architettonici di edifici e imbarcazioni, la maggior parte dei quali proveniva dall'antico Egitto e dalla Mesopotamia e potrebbe risalire a 7000 anni fa. Esistono anche alcuni schemi approssimativi risalenti al Paleolitico, ma nulla di così antico e preciso è mai stato visto prima. Ad esempio, su una roccia lunga circa 80 centimetri e larga 32 è scolpita un'incisione che raffigura un "aquilone", trovata nel 2015 in un antico accampamento accanto a un "aquilone" nella regione di Jibal al-Khashabiyeh, nel deserto giordano. I ricercatori hanno effettuato test al radiocarbonio su campioni prelevati dai siti giordani e hanno scoperto che l'incisione e gli "aquiloni" sono stati realizzati all'incirca nello stesso periodo, circa 8000 anni fa. Un'interpretazione ovvia è che le incisioni siano piani per la costruzione degli aquiloni, il che li renderebbe i primi "progetti" di qualsiasi cosa mai scoperta, ma potrebbero anche essere mappe degli aquiloni già costruiti per pianificare le cacce, o rappresentazioni simboliche di essi che potrebbero essere usate nei rituali; anche in questo caso, la ricerca continua.
Il letame neolitico
Alcuni ricercatori dell'Università di Oxford guidati da Amy Boogard sostengono che già gli agricoltori del neolitico europeo avevano scoperto le qualità del letame per fertilizzare i campi, quindi molto prima dell'età del ferro finora indicata come la più antica nella quale furono sparse le feci degli animali domestici nei campi. Gli archeologi infatti hanno trovato elevati livelli di azoto-15 (15N), un isotopo stabile dell'azoto abbondante nel letame, in grani di cereali e semi di legumi carbonizzati recuperati in tredici siti risalenti al neolitico in varie parti d'Europa. Ciò suggerisce che gli agricoltori neolitici utilizzassero il letame prodotto dai loro animali d'allevamento come bovini, ovini e suini.
L'utilizzo del letame implica un uso duraturo della terra arabile da coltivare, e quindi gli studiosi ipotizzano anche una società in grado di lasciare le terre lavorate ai propri discendenti: l'opposto di quanto fino a poco tempo fa ritenuto dagli esperti di quel periodo, cioè che gli agricoltori neolitici fossero seminomadi che disboscavano e bruciavano i terreni per creare spazi dove coltivare solo per breve tempo, per poi trasferirsi da un'altra parte e proseguire con lo stesso metodo.
Questo differente metodo di coltivazione ha profonde implicazioni sul tipo di società esistente in Europa già nel 6.000 a.C. (ore 23.59.25): « risale infatti a quel tempo la differenza sociale ed economica tra chi possedeva qualcosa e chi no », ha spiegato Bogaard. La territorialità dei primi gruppi di agricoltori potrebbe spiegare anche eventi documentati di quel periodo che mostrano episodi di notevole violenza, come le sepolture di massa di Talheim, in Germania, risalenti al VI millennio a. C., dove sono stati rinvenuti 34 corpi di una comunità massacrata da assalitori con asce di pietra simili a zappe come quelle utilizzate per bonificare i campi. Sembra quasi una conferma di un passo della Genesi: « Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male » (Gen 6, 5)!
La passione per la guerra
Vi è però un altro studio che sembra smentire questa visione biblica, che spiega lo scatenarsi del diluvio universale in base alla "teoria della retribuzione". Le guerre infatti sono generalmente considerate l'espressione più evoluta e organizzata di un'innata tendenza umana all'aggressività, già presente tra i nostri antenati. Uno studio apparso su "Science" nell'estate del 2013 però ha provato a ribaltare questa teoria, sostenuta tra gli altri da studiosi del calibro di Edward Wilson (1929-), Jared Diamond (1937-) e Steven Pinker (1954-), suggerendo invece che i combattimenti tra tribù siano comparsi in tempi relativamente recenti. Il riferimento antropologico esatto è costituito dalle cosiddette società di bande, la prima organizzazione sociale di cacciatori-raccoglitori nomadi secondo una classificazione classica proposta nel 1938 dall'evoluzionista Julian Steward (1902-1972): piccoli gruppi non più ampi di una decina di famiglie. È a questo tipo di organizzazione che risalirebbe la nascita dei primi scontri letali tra gruppi per risolvere le controversie.
Douglas Fry (1953-) e Patrick Söderberg, dell'Åbo Akademi University di Vasa, in Finlandia, hanno analizzato 148 casi di aggressione letale documentati nello Standard Cross-Cultural Sample (SCCS) il più ampio database disponibile di documentazione etnografica sui cacciatori-raccoglitori nomadi. In particolare, i due ricercatori finlandesi si sono concentrati su 21 società di cacciatori-raccoglitori, tra cui Aranda e Tiwi (Australia), Kaska, Copper Inuit e Montagnais (Nord America), Botocudo, Kung, Hadza e Mbuti (Africa), e Vedda e Andamanese (Asia meridionale). È così emerso che la maggior parte degli scontri ha avuto come protagonisti singoli individui: secondo i ricercatori, quasi tutti gli eventi letali documentati andrebbero classificati come omicidi commessi da una sola persona. Circa l'85 % dei casi analizzati ha coinvolto vittime e aggressori che appartenevano allo stesso gruppo. Inoltre, circa i due terzi di tutte le aggressioni letali sono da attribuire a faide familiari, competizioni per un partner (in nove casi si è trattato di mariti che hanno ucciso le mogli, un fatto purtroppo di grande attualità), o esecuzioni decretate dal gruppo (per esempio punizioni in seguito a un furto).
Al contrario, le prove di comportamenti di tipo bellico sono limitate, il che smentirebbe l'ipotesi che i primi uomini fossero costantemente impegnati nell'attaccare gli altri gruppi: uccisioni che coinvolgevano due o più aggressori sono state rilevate solo in sei società, e la maggioranza di esse riguarda i Tiwi australiani. Fino a che punto le odierne società di cacciatori-raccoglitori siano rappresentative dei comportamento dei primi esseri umani è però tutto da stabilire. Comunque, secondo Fry e Söderberg esse costituiscono il miglior modello disponibile, il che suggerisce come la guerra, intesa come scontro organizzato tra gruppi, non avrebbe radici evolutive ma sarebbe un'acquisizione recente della storia umana. Un'acquisizione che non ci rende certo fieri di noi stessi...
Sperequazioni neolitiche
Timothy A. Kohler della Washington State University a Pullman, negli Stati Uniti, e colleghi hanno stabilito che, nella storia dell'umanità, le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza hanno iniziato ad accentuarsi durante il Neolitico e sono poi aumentate con la domesticazione di piante e animali e con la complessità delle strutture sociali. Queste disuguaglianze, inoltre, sono state decisamente più marcate nelle società euroasiatiche che in quelle dell'America settentrionale e centrale. In verità, monitorare le differenze di accesso alle risorse nelle società più antiche mediante opportuni parametri non è facile: le offerte collocate nelle tombe, per esempio, non sono un buon parametro, dato che le tumulazioni che possiamo ritrovare oggi erano riservate in genere a persone di stato sociale elevato e non sono certo rappresentative di tutta la popolazione. Kohler ha però dimostrato che un parametro relativamente semplice e universale della capacità economica di una famiglia sono le dimensioni delle case all'interno di una comunità. Nelle società in cui gran parte delle persone hanno una posizione economica simile, le abitazioni tendono ad avere le stesse dimensioni, mentre per i gruppi in cui alcuni hanno una ricchezza maggiore di altri, si osserva di solito la coesistenza di case piccole e grandi.
Sulla base dei dati raccolti, i ricercatori hanno rilevato una maggiore disparità economica nei siti agricoli rispetto a quelli occupati da cacciatori-raccoglitori o da popolazioni con un'economia "mista", cioè costituite da piccoli gruppi che integravano piccole colture con le risorse ottenute con la caccia o la pesca, e questa disparità era tanto maggiore quanto più era importante la domesticazione di grandi mammiferi e l'estensione delle coltivazioni agricole. A questo si sovrappone poi il livello di strutturazione e complessità della società, con la creazione di élite politiche. I risultati ottenuti hanno dimostrato che i siti eurasiatici avevano raggiunto livelli di disuguaglianza significativamente più elevati rispetto a quelli nordamericani, anche quando le rispettive economie agricole erano durate per periodi di tempo equivalenti. Per realizzare i confronti i ricercatori hanno adattato un classico strumento socioeconomico, il cosiddetto coefficiente di Gini, introdotto nel 1912 dallo statistico e sociologo italiano Corrado Gini (1884-1965). In pratica, un paese in cui vi è una distribuzione della ricchezza perfettamente equa avrebbe un coefficiente di Gini pari a 0, mentre un paese in cui tutta la ricchezza è concentrata in una sola famiglia avrebbe un coefficiente pari a 1. Come confronto, il coefficiente di Gini attribuito al Giappone oggi è 0,25 e quello dell'Italia è 0,36: valori decisamente bassi, se confrontati con quelli degli Stati Uniti d'America (0,41) e della Cina (0,45). Il Messico raggiunge quota 0,55, la Repubblica Centrafricana arriva a 0,61 e la Namibia addirittura a 0,70!
Ebbene, Kohler ha scoperto che il coefficiente di Gini delle società di cacciatori-raccoglitori è tipicamente pari a 0,17, il che segnala una bassa disparità nella distribuzione delle risorse, coerente con l'elevata mobilità che rende difficile l'accumulazione della ricchezza. Nel caso delle antiche economie miste, il coefficiente sale a 0,27 e cresce ulteriormente fino a 0,35 nelle società in cui l'agricoltura predomina nettamente. Questa media nasconde però forti differenze: se nel Nuovo Mondo il coefficiente difficilmente superava lo 0,30, nel Vecchio Mondo si raggiunse anche un indice pari a 0,59.
Le più antiche costruzioni in legno al mondo
Un gruppo di ricercatori guidati da Willy Tegel e Dietrich Hakelberg, dell'Università di Friburgo, è riuscito a datare con precisione quattro pozzi costruiti nella regione di Lipsia dalle prime comunità di agricoltori dell'Europa centrale. Questi pozzi furono costruiti in legno di rovere dalla cosiddetta Cultura della Ceramica Lineare, presente in Europa all'incirca tra il 5.600 e il 4.900 a.C. (tra le 23.59.20 e le 23.59.26), e sono al momento le più antiche costruzioni in legno di tutto il mondo. Le scoperte dei Tegel, Hakelberg e compagni ci offrono una nuova visione della tecnologia neolitica. Oltre al legno, sono sopravvissuti per millenni sotto il livello delle acque sotterranee molti altri materiali organici, come resti di piante, manufatti in legno, corde di fibra di corteccia e recipienti di ceramica riccamente decorati.
Con l'aiuto della dendrocronologia, gli archeologi sono stati in grado di determinare l'epoca esatta dall'abbattimento degli alberi. I test hanno rivelato che il legno proviene da enormi querce secolari abbattute dai primi agricoltori neolitici con asce di pietra tra gli anni 5.206 e 5.098 a.C., nel pieno dunque della Rivoluzione Neolitica e dell'epoca della sedentarizzazione degli antichi cacciatori-raccoglitori. Uno stile di vita sedentario richiedeva abitazioni permanenti, e le case sono inconcepibili senza una tecnologia di lavorazione del legno assai avanzata; in altre parole, i primi agricoltori erano anche i primi falegnami. Finora, però, gli archeologi erano riusciti a portare alla luce solo i segni sul suolo lasciati dalle case. Questi pozzi consentiranno agli scienziati di condurre studi più dettagliati sull'importante ruolo delle tecniche di costruzione in legno per l'adozione da parte del genere umano di uno stile di vita sedentario.
I primi gatti domestici
Nell'immaginario collettivo, il gatto è tradizionalmente associato all'antico Egitto. Non è però d'accordo un team internazionale di ricercatori guidato da Yaowu Hu, dell'Accademia Cinese delle Scienze, secondo il quale i cinesi tennero l'amico felino in casa ben prima dei faraoni. L'addomesticamento cinese risalirebbe al 5.300 a.C. (ore 23.59.09) e sarebbe avvenuto nella zona dell'attuale villaggio di Quanhucun, nella provincia cinese di Shaanxi. Il motivo è sempre lo stesso: combattere i topi. Gli agricoltori dell'antica Cina avrebbero cercato l'aiuto dei gatti per dare la caccia ai roditori che saccheggiavano il frutto dei loro raccolti nei depositi. E i gatti sarebbero stati nutriti dall'uomo con quei cereali che voleva proteggere dall'attacco dei roditori. È stato proprio questo particolare a fornire la chiave di comprensione a Hu e colleghi. Gli studiosi hanno analizzato le ossa di gatto ritrovate a Quanhucun, scoprendo che le bestie mangiavano il miglio coltivato dai contadini locali: la dimostrazione che erano nutriti dall'uomo, a differenza dei cervi, che vivevano non lontano e le cui ossa sono state ugualmente analizzate. Uno dei resti di felino rinvenuti dimostra inoltre che il micio era già un gatto anziano, che aveva dunque con tutte le probabilità vissuto nel villaggio per lungo tempo.
« Il villaggio era una fonte di cibo per i gatti oltre 7.000 anni fa, e la relazione tra uomini e felini era vantaggiosa per questi ultimi. E anche se i gatti non fossero ancora stati addomesticati, le prove confermano che vivevano vicino agli agricoltori e che la relazione aveva reciproci vantaggi », ha spiegato Fiona Marshall, della Washington University di Saint Louis, coautrice della ricerca. Nell'antico Egitto, dove i gatti erano venerati, l'addomesticamento risalirebbe invece a "soli" 4.000 anni fa (ore 23.59.32). Altri studiosi però non sono d'accordo, e sostengono l'esistenza di prove che il rapporto degli esseri umani con questo animale è ancora più antico: a Cipro è stata scoperta una tomba risalente al 7.500 a.C. (ore 23.58.53), nella quale fu seppellito un gatto selvatico accanto a un essere umano. La storia dell'addomesticamento dei gatti rimane dunque in gran parte controversa, soprattutto perché è raro trovare resti di felino nei siti archeologici. Una cosa è certa: oggi nel mondo vivono circa 600 milioni di gatti addomesticati, e il micio resta uno dei più amati tra gli animali domestici, sia che ad addomesticarlo per primi siano stati i cinesi, sia che siano stati i ciprioti.
Bessé, la ragazza di Sulawesi
La scoperta, avvenuta nel 2015 del fossile quasi completo di una ragazza di circa 18 anni vissuta 7000 anni fa (alle ore 23.59.10) a Sulawesi, in Indonesia, rappresenta una pietra miliare nella comprensione delle migrazioni umane verso l'Australasia. Infatti Sulawesi, l'undicesima isola al mondo per estensione, nota in epoca coloniale con il nome di Celebes, fa parte di una regione nota come Wallacea, costituita dalle isole centrali dell'arcipelago indonesiano ed attraversata dalla cosiddetta Linea di Wallace. Essa prende il nome dal naturalista gallese Alfred Russel Wallace (1823-1913), contemporaneo di Darwin, il quale osservò per primo le differenze tra i mammiferi e gli uccelli delle isole presenti dalle due parti della linea, e in onore del quale è stata così chiamata anche la stessa Wallacea. Sumatra, Giava, Bali e il Borneo, a ovest della linea, condividono una fauna di mammiferi simile a quella dell'Asia Orientale, che include tigri, rinoceronti e scimmie, mentre la fauna di mammiferi dell'isola di Lombok e dell'area che si estende a est di quest'isola è popolata principalmente da marsupiali e uccelli simili a quelli presenti nell'Australasia. L'isola di Sulawesi, curiosamente, mostra specie appartenenti a entrambi i tipi di fauna. Secondo un'ipotesi la forma inconsueta dell'isola, che presenta quattro lunghe penisole, è dovuta al fatto che essa nacque dalla collisione di due isole, inizialmente ai lati opposti della Linea di Wallace: quando esse entrarono in collisione e si fusero, provocando l'incurvamento caratteristico della penisola settentrionale e la formazione di una catena di rilievi montuosi, le differenti specie animali già presenti sulle due isole si mescolarono, dando origine ad un patrimonio faunistico inconsueto e in parte ancora da scoprire.
Lo scheletro è stato trovato sepolto in posizione fetale in una grotta calcarea dell'isola, e gli indonesiani la hanno battezzata Bessé´, una parola che nella lingua Bugis significa "giovane donna". Il suo DNA suggerisce che essa condividesse antenati con i neoguineani e gli aborigeni australiani. Gli scopritori pensano che essa possa essere la prima rappresentante mai scoperta di un'antica e misteriosa cultura, quella toaleana, la cui esistenza è nota da alcuni reperti archeologici, tra cui degli strumenti in pietra caratteristicamente dentellati. I resti dell'adolescente sono infatti stati trovati accanto a strumenti di tipo toaleano. L'importanza della scoperta risiede nel fatto che la Wallacea ha costituito la via privilegiata verso l'Australasia per gli antenati dei moderni Papua e degli aborigeni australiani, ma in quella regione sono stati scoperti pochissimi resti umani antichi, uno dei quali è il famoso Homo floresiensis. L'ambiente tropicale caldo e umido fa sì che il DNA dei fossili si degradi rapidamente, rendendo il materiale genetico molto raro: presumibilmente è stata la sepoltura dello scheletro all'interno della grotta calcarea di Leang Panninge ad aver permesso la conservazione di una quantità di DNA sufficiente da poter essere analizzata. Ebbene, il genoma della ragazza suggerisce un analogo legame di parentela con gli attuali aborigeni australiani e i neoguineani, e questo implica che il suo lignaggio si è separato prima che uno di questi gruppi divergesse dall'altro circa 37.000 anni fa (alle 23.55.40). Appare probabile che gli antenati della donna della Wallacea facessero parte di un gruppo di cacciatori-raccoglitori in migrazione verso l'Australia e la Nuova Guinea passando per Sulawesi circa 50.000 anni fa (alle 23.54.09), una parte dei quali, per motivi sconosciuti, è rimasta stabilmente a Sulawesi; oppure, i suoi antenati facevano parte di una successiva ondata migratoria di ritorno nella Wallacea dall'Australia e dalla Nuova Guinea, anche se quest'ipotesi appare meno probabile.
Il genoma di Bessé´ conteneva anche DNA denisoviano, trovato anche negli abitanti di Australia e Nuova Guinea, il che suggerisce che la Wallacea potrebbe essere stata una regione in cui denisoviani e uomini moderni si sono mescolati e incrociati. Si apre così anche la questione di un possibile collegamento con le pitture rupestri di 44.000 anni fa (alle 23.54.52) scoperte nel 2019 a Sulawesi, considerate fra le più antiche pitture rupestri figurative conosciute al mondo: che siano opera dei Toaleani è finora solo un'ipotesi, per quanto affascinante. Invece il DNA della donna della Wallacea non mostra alcuna traccia di DNA austronesiano, perché visse molto prima che gli esponenti delle culture Bugis e Makassar dell'Indonesia migrassero nell'isola di Sulawesi circa 3500 anni fa (alle 23.59.21,43), si pensa provenienti da Taiwan. Nessuna traccia della linea genetica della donna è stata trovata finora in campioni prelevati dagli abitanti odierni di Sulawesi, tuttavia la popolazione dell'isola è molto variegata, ed essa potrebbe non essere stata campionata abbastanza a fondo da scoprire i "nipotini" di Bessé´ e dei popoli Toaleani.
La prima città europea
Vicino a Provadia, nell'estremo nordest della Bulgaria, è stata trovata quella che potrebbe essere la più antica città europea. L'insediamento ospitava circa 350 abitanti e venne eretto tra il 4.700 e il 4.200 avanti Cristo, favorito dal fatto che la località era ricca di sale. La popolazione si dedicò alla sua produzione e, sfruttando sorgenti calde, fabbricò mattoni di sale che poi sarebbero stati barattati: si trattava dunque di un centro produttivo e commerciale legato a una risorsa naturale che ha segnato la storia dell'uomo (anche Venezia doveva parte della propria ricchezza al commercio del sale ).
Infatti, quando i nostri antenati diventarono allevatori e agricoltori, dovettero risolvere il problema della conservazione degli alimenti. Si pensa che circa 6.000 anni fa si riuscì a scoprire come il sale potesse conservare soprattutto le carni, e questo portò una vera rivoluzione nell'alimentazione umana. Ciò reso il sale straordinariamente prezioso, e infatti anche la nuova città scoperta era circondata da alte mura di pietra, proprio per difendersi dagli attacchi dei predoni. Gli archeologi hanno individuato un insediamento complesso nella sua organizzazione , comprendente edifici a due piani e una serie di piattaforme utilizzate a scopo rituale. Altri insediamenti analoghi, ma meno estesi, erano stati trovati vicino a Tuzla in Bosnia-Erzegovina e a Turda in Romania, e sempre legati alle risorse locali come le miniere di rame e oro nei Carpazi e nei Balcani.
La prima guerra europea
Per i ricercatori, i conflitti fra le antiche popolazioni europee durante il Neolitico rimangono ancora poco compresi. Tuttavia l’analisi di 338 resti scheletrici datati intorno ai 5000 anni fa (alle 23.59.25) e provenienti dal sito di sepoltura di massa di San Juan ante Portam Latinam, un riparo roccioso funerario nella regione della Rioja Alavesa nel nord della Spagna, condotta da un gruppo di archeologi dell’Università di Valladolid e dell’Università di Oxford, guidato da Teresa Fernández-Crespo, fornirebbe le prove della prima guerra combattuta in Europa. In quel sito infatti è stato rtrovato un gran numero di individui, principalmente maschi adulti e adolescenti, che presentavano segni di violenza. Questo fa pensare a uno scontro su larga scala, di lunga durata e condotto in modo organizzato. In precedenza il più antico conflitto su larga scala in Europa era uno scontro avvenuto fra i 4000 e i 2800 anni fa (tra le 23.59.32 e le 23.59.40) nella Valle del Tollense, in Germania, durante l’Età del Bronzo.
Gli autori della ricerca hanno scoperto che oltre il 23 per cento degli individui sepolti nel sito presenta segni di lesioni scheletriche riconducibili a traumi guariti e colpi fatali, un tasso di lesioni assai superiore alle stime per l’epoca. La presenza di traumi guariti escluderebbe inoltre l’ipotesi di un episodio di violenza di massa isolato, al quale sono associati principalmente segni di lesioni fatali. A indicare che i resti rinvenuti nel sito funerario spagnolo appartengano alle vittime di un conflitto bellico, concorrono anche altri due indizi. Già in passato, presso lo stesso sito, i ricercatori avevano trovato 52 punte di frecce in selce, 36 delle quali presentano danni provocati dall’impatto con un bersaglio. Più del 70 per cento delle ferite è stato poi riscontrato su individui maschi, adulti e adolescenti, con una percentuale molto più bassa resti scheletrici di donne che presentano segni di violenza. Questa differenza non è mai stata osservata prima in altri siti europei di sepoltura di massa del Neolitico, confermando che si tratterebbe delle vittime di una guerra. La prevalenza del solo genere maschile è infatti indicativa di un evento bellico, mentre i casi di violenza di massa isolati, come i massacri, coinvolgono una fascia più ampia della popolazione. Le rapide incursioni contro altri gruppi, frequenti durante la preistoria, causavano un numero di vittime più basso e indiscriminato fra uomini, donne e bambini.
In precedenza si pensava che i conflitti consistessero principalmente in incursioni rapide, della durata di pochi giorni, combattute da piccoli gruppi, composti al massimo da una trentina di persone. Gli indizi raccolti da Fernández-Crespo e colleghi suggeriscono invece l’uso di diverse strategie di combattimento. Oltre a coinvolgere un numero maggiore di persone, le ferite da punta di freccia e da colpi di fionda sono indicative di una violenza a distanza. I traumi da corpi contundenti invece supportano l’idea di scontri corpo a corpo. I risultati indicano una capacità organizzativa negli scontri inaspettata e una maggiore complessità sociale per le popolazioni del Neolitico: le guerre fra gruppi diversi potrebbero dunque essere state più sistematiche di quanto si pensasse in precedenza. Secondo gli autori della ricerca, lo scontro potrebbe essere nato dalla competizione per le risorse fra due gruppi locali, dovuto all’aumento della pressione demografica durante il Neolitico. Alla base del conflitto ci sarebbe però anche il nuovo modello di società che si andava affermando nelle ultime fasi dell’Età della pietra, quando si passò da un’economia di caccia e raccolta a un’economia produttiva e di accumulo delle risorse, innescando meccanismi di controllo del proprio territorio e di conquista di nuovi spazi. In base agli indizi raccolti, i ricercatori non sono ancora in grado di definire le reali dimensioni del conflitto che causò le vittime sepolte a San Juan ante Portam Latinam. Di sicuro la Rioja Alavesa è la regione d’Europa dove è stato riscontrato il maggior numero in assoluto di ferite causate da punte di freccia, datate nello stesso periodo: il conflitto, quindi, potrebbe aver coinvolto più siti della regione. Per risalire alle popolazioni coinvolte nello scontro, gli autori sono ora impegnati in nuove indagini isotopiche e genetiche, in grado di indicare la provenienza geografica dei reperti. Purtroppo sembra che avesse proprio ragione Fulton John Sheen (1895-1979), quando affermò che « l'uomo ammise di discendere dalla bestia, affrettandosi a provarlo immediatamente con una guerra bestiale! »
Il chewing-gum neolitico
5.700 anni fa (alle 23.59.20), in un'isola della Danimarca nel Mar Baltico, un gruppo di cacciatori-raccoglitori stava sistemando delle pietre su dei bastoni per farne delle frecce. Per fissare la punta usavano una sorta di pece di betulla, materiale particolarmente appiccicoso: una volta solidificati, quei resti di betulla furono masticati come fossero chewin-gum da una donna del luogo. Oggi, da quella singola "gomma da masticare", per la prima volta tramite un esperimento che non coinvolge resti di ossa umane, un team di ricercatori è riuscito a ricostruire il genoma completo di quella donna, chiamata Lola, dandole perfino un volto. Questo risultato straordinario è stato ottenuto da un gruppo di ricercatori guidati dalla danese Københavns Universitet. Essi hanno recuperato il chewing-gum ritrovato durante gli scavi realizzati dagli archeologi del Museo Lolland-Falster a Syltholm che stavano prelevando campioni mentre era in corso la costruzione di un tunnel che collegherà Lolland con Fehmarn.
Tra i reperti rivenuti è spuntata anche una sostanza marrone, pece di betulla, che veniva prodotta riscaldando la corteccia e usata per realizzare armi già dal Paleolitico. Un successivo esame in laboratorio della pece usata come gomma da masticare ha permesso poi agli esperti di ricostruire il genoma dell'antica donna. Si è scoperto che faceva parte di un gruppo di cacciatori-raccoglitori forse dell'Europa continentale, aveva pelle e capelli scuri e occhi blu, tratti molto diversi da quelli scandinavi di oggi che si sono sviluppati più in là nel tempo. Grazie alla betulla masticata sono stati recuperati anche i DNA di microbi orali e diversi importanti agenti patogeni umani. Questa fonte preziosa di DNA antico ci permette di scoprire di più sulle popolazioni di allora. Essendo poche le ossa umane del Neolitico rinvenute in Scandinavia, il DNA ottenuto dalla gomma fornisce indizi preziosi su aspetto, ma anche dieta e batteri del passato.
Non è chiaro perché la pece di betulla venisse masticata, ma in più occasioni sono state ritrovate impronte dentali. Forse, una volta raffreddata e solidificata, veniva masticata per essere più malleabile e riutilizzabile o forse, ipotizzano alcuni archeologi, poteva alleviare il mal di denti dato che aveva proprietà antisettiche. Un'altra teoria è che fosse usata come un gomma da masticare per contenere la fame. Nell'antico chewing-gum sono state trovate inoltre tracce di DNA vegetale e animale, probabilmente di nocciole e anatre che potevano far parte della dieta. Lo studio degli antichi microbiomi orali e dei batteri individuati grazie alla gomma potrebbe essere prezioso per capire come si sono evolute alcune malattie nell'area. Il team danese per esempio ha osservato la presenza di batteri che potevano causare malattie gengivali, ma anche streptoccoccus e virus che forse influirono sulla salute di Lola.
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Il volto di Lola (disegno di Tom Björklund) ed il chewing.gum preistorico |
Il fertile Sahara
A quei tempi il Sahara, come abbiamo detto anche sopra, non era la distesa immensa di sabbia che va dall'Oceano Atlantico fino al Mar Rosso, ed anzi somigliava ad una sorta di savana con fiumi e laghi. Logico pensare che questa savana fosse anche abitata: a trovarne le prove nell'ottobre 2000 è stato Paul Sereno, paleontologo della National Geographic Society, il quale stava perlustrando il deserto del Niger alla ricerca di dinosauri, ed invece ha trovato le tracce di una delle più antiche civiltà umane. Egli ha battezzato il sito con il nome di Gobero, dal nome Tuareg della zona; esso si trovava sulla riva di un antico lago ora completamente inaridito, e due popoli diversissimi tra loro decisero di frequentarlo e farsi seppellire lì, a oltre mille anni di distanza l'uno dall'altro. Sereno è poi tornato nel 2005 e nel 2006, dopo aver chiamato a codirigere la missione l'archeologa Elena Garcea dell'Università degli Studi di Cassino: assieme hanno esplorato e scavato più di 200 sepolture, ma è probabile che ve ne siano molte di più. I due archeologi hanno dissepolto tra l'altro una donna che tende le braccia verso due bambini, tutti e tre adagiati sopra un letto di fiori, forse una madre con i suoi figli; un uomo rannicchiato entro un carapace di tartaruga; un altro incorniciato da ossa umane disarticolate; uno sepolto con una zanna di cinghiale e l'osso di un coccodrillo, e con la testa appoggiata sopra un vaso di ceramica; e persino una fanciulla che indossa all'avambraccio uno splendido bracciale di zanna di ippopotamo.
Queste persone appartenevano tutte alla cosiddetta cultura Teneriana, che ha frequentato le rive del lago tra 6.500 e 4.500 anni fa: erano di statura bassa e corporatura gracile, presumibilmente dei pastori nomadi che, mentre il Sahara inaridiva sempre più, trovarono di che sopravvivere sulle rive di quel lago. Garcea li ha individuati grazie alle tipiche ceramiche decorate a puntini che costellano il sito. Invece i loro predecessori, i Kiffiani che frequentarono Gobero tra 10.000 e 8.000 anni fa, decoravano i loro vasi con motivi a zig zag e ondulati; al contrario dei Teneriani, erano alti fino a due metri e molto robusti. Le loro sepolture sono più povere, ma ami e arpioni trovati in riva al fiume rivelano la loro occupazione preferita: erano pescatori nelle acque di quel lago fossile, e forse cacciavano coccodrilli e ippopotami. Del resto, il sito è ricchissimo di ossa di animali di ogni tipo, anche elefanti, giraffe, antilopi, gazzelle, facoceri, pitoni. « Anche per questo Gobero è unico nel Sahara », ha spiegato Garcea: « Lì tutto è concentrato in un'area limitata, di non più di 5 chilometri quadrati, e le sepolture spettacolari coesistono con le tracce di vita quotidiana ». D'altra parte lo studio dei reperti fossili ha ribadito la presenza nell'area di bovini, ovini e caprini addomesticati a partire dall'inizio del sesto millennio a.C. e la loro diffusione a partire dal quinto. Purtroppo, nel Sahara gli scavi sono difficili a causa di difficoltà logistiche, ma anche per motivi di sicurezza: nel Niger le incursioni dei predoni sono all'ordine del giorno, e le ostilità tra il governo e i Tuareg del deserto hanno costretto gli archeologi ad annullare le spedizioni già previste per il 2007 e il 2008, mentre il vento continua incessantemente a erodere le dune e a disperdere le ossa. "Gobero e le sue preziosissime tombe stanno scomparendo", ha denunciato Garcea: "il rischio di perderle per sempre è enorme". Speriamo che, per una volta, non l'abbia vinta la follia umana.
Bisogna aggiungere la scoperta di un team di geografi e archeologi della University College London (Ucl) e del King's College londinese, secondo cui l'attività umana della pastorizia avrebbe ritardato di circa 500 anni la nascita del Sahara come lo conosciamo adesso e non avrebbe quindi accelerato, come si credeva in precedenza, il declino del "fertile Sahara", cioè il periodo africano "umido", caratterizzato dalla presenza di laghi e vegetazione dove oggi c'è solo deserto. Circa 8.000 anni fa (ore 23.59.10,92) l'area dell'odierno Sahara non era desertica ma costituiva invece un ecosistema vitale, popolato da cacciatori, raccoglitori e pescatori. Non appena l'orbita della Terra lentamente si modificò, la pioggia cominciò a diminuire e per la vegetazione iniziò un processo di declino. Circa 5.500 anni fa (alle 23.59.21,43) l'ecosistema nel Sahara andò incontro al deperimento finale che aprì le porte al deserto di adesso. La pastorizia, esercitata in modo nomade o semi-nomade, si sviluppò nel Sahara a partire da circa 1.000 anni prima di quell'esito finale.
Sulla base di variabili come la vegetazione, la pioggia, e altri processi come l'aumento dell'energia proveniente dal Sole e dell'anidride carbonica nell'atmosfera, riunite in un modello, i ricercatori hanno concluso che il "fertile Sahara" sarebbe dovuto scomparire prima. Questo suggerisce che i pastori rimasero attivi più a lungo di quanto creduto e le tecniche adoperate li aiutarono ad adattarsi ai cambiamenti ambientali. Nonostante le condizioni molto inospitali del Sahara oggi, non è difficile trovare prove di un'occupazione umana da 11.000 anni a questa parte. È possibile che le tipiche strategie utilizzate dai pastori, come le migrazioni stagionali e i pascoli selettivi, abbiano aiutato a conservare un ecosistema altrimenti in deterioramento.
Da uno studio condotto nel 2020 dai ricercatori dell'Università di York, i quali hanno analizzato le scogliere fossili vicine alle coste del Mar Rosso che hanno segnato le rotte migratorie preistoriche dall'Africa all'Arabia, è poi emerso che i nostri antenati potrebbero aver percorso le rotte migratorie dall'Africa facendo affidamento su crostacei e frutti di mare per sopperire alle carenze di cibo e di acqua durante i periodi di siccità. In particolare il team ha analizzato i resti di 15.000 conchiglie originarie delle isole Farasan in Arabia Saudita e risalenti a cinquemila anni fa (alle 23.59.25), quando la regione ha attraversato un periodo di aridità, scoprendo che, quando le altre fonti di alimentazione erano scarse, quell'area potrebbe essere stata determinante fornendo le risorse necessarie. Il fatto è che la disponibilità di risorse alimentari svolge un ruolo importante nella comprensione della fattibilità delle passate migrazioni umane, dato che i periodi di aridità avrebbero potuto limitare i movimenti migratori. Questo studio suggerisce che le coste del Mar Rosso erano adatte per consentire il passaggio delle popolazioni preistoriche, che avrebbero potuto nutrirsi di crostacei e molluschi. In un momento in cui le risorse da terra scarseggiavano, le persone potevano fare affidamento sui molluschi disponibili. Studi precedenti hanno dimostrato che gli abitanti del Mar Rosso si sono nutriti di molluschi per diverse migliaia di anni. Sappiamo che i modelli climatici del passato possono essere utili per conoscere le risorse alimentari di cui si nutrivano i nostri antenati, ma è importante distinguere ciò che accadeva sulla terraferma e in acqua, e il lavoro degli archeologi di York dimostra che le risorse marine erano abbondanti nonostante la scarsa disponibilità di quelle derivanti dalla terraferma.
Il diluvio nel Mar Nero
Ancora una parola sul Neolitico europeo: dato che poco sopra si è accennato alla leggenda di Caino e Abele, vale la pena di accennare come sia possibile storicizzare anche la leggenda del diluvio universale. Proprio all'inizio di quest'epoca sarebbe avvenuta infatti una catastrofe epocale: il sommergimento delle coste del mar Nero. Pare che, attorno al 5000 a.C., il mar Nero fosse isolato dal resto del Mediterraneo, che fosse riempito di acqua dolce e che il suo livello fosse anche 100 metri al di sotto di quello dei mari salati del pianeta. Logico pensare che sulle sponde di un lago d'acqua dolce così vasto siano fiorite diverse comunità protostoriche. Ma, appunto circa 7000 anni fa, sarebbe ceduta la diga naturale in corrispondenza dell'attuale Bosforo, che isolava il Mar Nero dal Mediterraneo salato: un'immensa cascata durata un anno si sarebbe riversata nel lago, il cui livello si sarebbe sollevato con estrema rapidità, sommergendo tutti gli abitati umani. I loro occupanti sarebbero fuggiti disperatamente di fronte al ruggire delle acque, per disperdersi poi nella valle del Danubio ed in quella del Tigri e dell'Eufrate, portando con sé il ricordo delle acque distruttrici, da loro interpretate tramite una tremenda punizione divina, che poi andò a confluire nel poema di Gilgamesh e nella Bibbia. L'ipotesi apparirebbe stravagante, se non fosse per la scoperta, avvenuta nel settembre 2000, dei resti di un edificio che sembrerebbe essere stato sommerso proprio 70 secoli fa dall'innalzamento del Mar Nero. L'eccezionale scoperta è stata effettuata da un team di ricercatori statunitensi del National Geographic, tra cui quel Robert Ballard che nel 1985 individuò i resti del Titanic, impiegando la sonda Argo munita di telecamera. Essa ha ripreso a 90 metri di profondità e a circa 12 km dalla coste turche una serie di manufatti in pietra ed un edificio rettangolare di quattro metri per quindici, con mura costruite mediante un impasto di fango e canne, e grandi tavole lavorate che forse coprivano l'edificio, perfettamente conservato date le particolari condizioni prive d'ossigeno di tale mare. Se venisse confermata, si tratterebbe davvero di una scoperta di rilevanza eccezionale!!
Prima di procedere oltre, però, voglio fare cenno alla straordinaria scoperta, di cui ha dato notizia il 10 giugno 2005 il quotidiano inglese "The Independent", delle vestigia della più antica civiltà europea, sviluppatasi circa 7000 anni fa nell'Europa centrale. Le tracce di oltre 150 templi, edificati tra il 4800 e il 4600 avanti Cristo, sono state localizzate lungo una fascia lunga oltre 640 chilometri, attraverso le attuali Germania, Repubblica Ceca, Slovacchia ed Austria. E' possibile che tale scoperta rivoluzioni letteralmente lo studio dell'Europa Neolitica, dal momento che finora si riteneva che l'architettura monumentale si fosse sviluppata più tardi ed altrove, come si vede nella cartina soprastante. I primi rilievi parlano di una serie di complessi templi in legno e in terra; la scoperta più notevole è stata compiuta nel sottosuolo della città di Dresda, dove gli archeologi hanno portato alla luce i resti di un tempio di 150 metri di diametro, circondato da ben quattro fossati. Sono stati anche trovati utensili in legno, oltre a statuine rappresentanti personaggi o animali, che ci parlano di un popolo profondamente religioso e dedito all'agricoltura e all'allevamento del bestiame. È possibile che il « tempio di Dresda » e le altre costruzioni monumentali appena scoperte siano state realizzate dai discendenti dei nomadi giunti nella piana del Danubio, e che siano state utilizzate per due o tre secoli, dopodichè gli edificatori sembrano essere scomparsi nel nulla senza lasciare discendenti. Solo 3000 anni dopo, durante l'età del bronzo, si sarebbe ripreso a costruire in questa zona d'Europa. Del resto, come mi ha segnalato un amico sardo, anche in Sardegna si trova una ziggurat di tipo mesopotamico, paradossalmente datata tra il IV e il III millennio a.C., e quindi più antica di quelle sumeriche (vedi "La Civiltà dei Sardi, dal Paleolitico all'età dei Nuraghi", di Giovanni Lilliu, ed. Il Maestrale). Che i costruttori di questi edifici fossero fuggiti dal Mar Nero in seguito alla catastrofe descritta poco sopra? Se fosse così, si spiegherebbe la "parentela" tra le piramidi di terra centroeuropee e quelle di pietra (ziggurat) elevate dalle civiltà mesopotamiche, i cui antenati proverrebbero dalla stessa area, portando nel proprio DNA culturale il ricordo del grande diluvio...
La birra preistorica
In una grotta a Panish in Can Sadurní (presso Barcellona) nel 2013 sono stati scoperti quattro scheletri umani risalenti a circa 6.400 anni fa (ore 23.59.15), ma anche le più antiche prove di fabbricazione di birra in Europa, birra il cui consumo potrebbe essere stato parte del rituale funebre. I quattro individui non sono stati sepolti, ma sono stati collocati intorno alla parete nord della grotta a circa un metro l'uno dall'altro.
Nelle vicinanze sono state anche trovate tracce di un incendio, forse anch'esso parte del rituale di sepoltura. Si stima anzi che questi rituali di sepoltura simili siano stati ripetuti per di più di duecento anni in questo sito. Nel 1999 era già stato ritrovato un frammento di coppa su cui erano state ritrovate tracce di ossalato ed erano stati identificati fitoliti di orzo-mais. Questa era la prima prova scientifica di birra fermentata mai trovata in Europa, che fa risalire l'assunzione della birra in maniera diffusa al 4.400 a.C.
Il cioccolato preistorico
La domesticazione della pianta del cacao (Theobroma cacao) e il suo uso a fini alimentari risale ad almeno 5300 anni fa (alle 23.59.23), e fu realizzata dalle popolazioni amazzoniche dell'Ecuador sudorientale, e non in America Centrale, come finora ritenuto. Gli inizi della produzione della materia prima alla base del cioccolato, che muove un mercato di oltre 120 miliardi di dollari all'anno ed è il prodotto dolciario più apprezzato al mondo, va dunque anticipata di oltre 1400 anni. A dimostrarlo è stata una ricerca condotta da un gruppo internazionale di archeologi e genetisti. L'idea che Theobroma fosse stata domesticata per la prima volta in America Centrale circa 3900 anni fa si basava sulla ricchezza di prove archeologiche, etnografiche e iconografiche che testimoniano la grande importanza, sia rituale che alimentare, attribuita a questo alimento dalle popolazioni di quell'area. Tuttavia, recenti ricerche genomiche hanno dimostrato che la maggiore diversità genetica della pianta, ben superiore a quella presente in America centrale, si trova nelle foreste umide della regione degli affluenti del Rio delle Amazzoni superiore. In questa zona, nella regione compresa fra i fiumi Chinchipe e Marañón, si era sviluppata, a partire da 5450 anni fa, la cultura Mayo-Chinchipe, che solo di recente ha iniziato a essere studiata con attenzione, ed è caratterizzata dalla costruzione anche di edifici in pietra e da un fiorente artigianato della ceramica.
Analizzando alcuni recipienti in ceramica venuti alla luce nel 2002 nel sito di Santa Ana-La Florida, e risalenti a 5500-5300 anni fa, Sonia Zarrillo, Claire Lanaud e colleghi dell'Università di Vancouver hanno ritrovato al loro interno microscopici grani di un amido tipico di Theobroma; residui di teobromina, un alcaloide amaro presente nei semi di Theobroma cacao, ma non nei suoi parenti selvatici; e frammenti di DNA antico con sequenze uniche di Theobroma cacao, sequenze per di più molto simili a quelle della cultivar Criollo, che discende direttamente dalla varietà coltivata dai Maya e da altre popolazioni precolombiane del Centro America. La datazione al carbonio-14 dei reperti è stata poi confermata anche dall'analisi dei danni al DNA riscontrati nei residui organici. Poiché esistono prove archeologiche di scambi commerciali fra le popolazioni Mayo-Chinchipe dell'interno con quelle della cultura di Valdivia, una delle più antiche del Sudamerica, fiorita sulla costa del Pacifico dell'Ecuador, gli autori ipotizzano che questa sia stata la prima tappa del lungo viaggio che avrebbe poi portato il cacao in America centrale. Qui invece la nostra pianta ricevette il nome che ha ancor oggi. Theobroma infatti in greco significa "la bevanda degli dei", ed era riservata ai monarchi Maya e Aztechi.
Gli ultimi mammut
A fine 2021 un gruppo di ricerca guidato da Tyler Murchie ed Hendrik Poinar della McMaster University di Hamilton, in Canada, ha studiato tracce di DNA rimaste intrappolate nel permafrost ed ha concluso che i mammut lanosi potrebbero aver vagato nel nordovest del continente nordamericano fino a 5700 anni fa (alle 23.59.20), cioè migliaia di anni dopo i resti fossili più recenti, e in quel periodo anche i cavalli selvaggi probabilmente vivevano ancora nella regione. Questo risultato è stato ottenuto attraverso una serie di carotaggi lungo il fiume Klondike, nel territorio canadese dello Yukon. Dai sedimenti del permafrost i ricercatori hanno raccolto frammenti di DNA datati tra 30.000 e 4.000 anni fa (tra le 23.56.29 e le 23.59.32). Usando i frammenti genetici hanno identificato numerose specie animali e vegetali come mammut, bisonti, cavalli selvaggi e anche alcuni predatori come i lupi grigi e le martore.
Circa 20.000 anni fa (ore 23.57.39), la megafauna iniziò ad essere sempre meno numerosa e in particolare i mammut lanosi sembrano essere diminuiti rapidamente. Un crollo delle popolazioni animali del periodo glaciale avvenne tra circa 14.000 e 10.000 anni fa (tra le 23.58.22 e le 23.58.49), quando il clima cambiò. Durante quel periodo, la vegetazione cambiò decisamente: la steppa erbosa lasciò il posto agli arbusti, ma nei carotaggi il gruppo di ricerca ha continuato a scoprire tracce di mammut e cavalli selvaggi, anche se in numero ridotto. Gli ultimi hanno circa 5700 anni, mentre i fossili che vanno ancora più indietro nel tempo hanno circa 7.000 anni in più (risalgono alle 23.58.30). È possibile che piccole popolazioni siano sopravvissute in nicchie remote, con dimensioni troppo piccole per essere documentate dai fossili. La scomparsa della megafauna fu probabilmente dovuta a diversi fattori, tra cui i cambiamenti climatici e la caccia spietata da parte dei primi esseri umani giunti nel continente americano. Anche altrove sono state registrate popolazioni isolate di mammut lanosi: l'isola russa di Wrangel, nell'Oceano Artico, e l'isola di Saint Paul, nel Mare di Bering, ospitavano mammut rispettivamente 4.000 (alle 23.59.32) e 5.500 anni fa (alle 23.59.21), ed entrambi i luoghi a un certo punto vennero isolati dalla terraferma a causa dell'innalzamento dell'acqua del mare. Insomma, mentre Cheope innalzava la sua superba piramide, gli ultimi mammut ancora combattevano per la propria sopravvivenza in alcuni tra i posti più remoti ed isolati del nostro pianeta.
L'antico colore dei blue jeans
Non l'antico Egitto, ma le coste del nord del Perù sono state la prima "tavolozza" dove ha preso forma ed è stato usato il colore indaco, tipico dei moderni blue jeans, che sarebbe dunque molto più antico del previsto. Risale infatti a 6.200 anni fa (alle 23.59.17), e non a 4.400 (alle 23.59.29) come da molti pensato, come emerge dai tessuti ritrovati dagli archeologi nel paese sudamericano. Lo hanno scoperto Jeffrey C. Splitstoser, del Columbian College of Arts & Sciences di Washington e i suoi collaboratori. Sulle Ande già 7800 anni fa (alle 23.59.05) si coltivava il cotone: grazie al clima arido di quella parte del Perù, diversi tessuti decorativi si sono conservati intatti per migliaia di anni.
I reperti studiati dagli esperti della George Washington University sono stati rinvenuti durante una campagna di scavi realizzata tra il 2015 e il 2017 nel sito peruviano di Huaca Prieta, vicino alla città di Trujillo, cui ha partecipato anche l'archeologo italiano Duccio Bonavia. Erano così ben preservati che i ricercatori ancora potevano vedere la tintura blu in maniera vivida e sono riusciti ad analizzare le quantità di indigotina e indirirubina, componenti chiave dell'indaco. Con la datazione al radiocarbonio si è stabilito che risalgono a 6.200 anni fa. In precedenza l'utilizzo più antico accertato risaliva a 4.400 anni fa in Egitto.
La più antica Sindrome di Down
Nel 2020 un gruppo di ricercatori del Trinity College di Dublino guidato da Lara Cassidy ha diagnosticato per la prima volta la presenza di un cromosoma 21 extra, e quindi la Sindrome di Down, a un bambino vissuto 5500 anni fa (alle 23.59.21). La Cassidy e i suoi colleghi volevano studiare la composizione sociale nell’Irlanda del Neolitico e hanno campionato 44 genomi. A fare notizia è stata soprattutto l’identificazione di un individuo adulto, nato da incesto di primo grado e ribattezzato dalla stampa "il Faraone Irlandese", perché le unioni tra genitori e figli o tra fratello e sorella tendono a presentarsi solo in contesti molto particolari, come le dinastie i cui re hanno uno status divino e non possono accoppiarsi con comuni mortali. Ma dalle analisi è emerso anche il caso del maschietto di Poulnabrone, morto quando aveva appena sei mesi, e caratterizzato da un eccesso di sequenze appartenenti al cromosoma 21. Si tratta del caso più antico di questa anomalia mai identificato in archeologia, e non desta sorpresa che si tratti di un bambino molto piccolo. Oggi i malati con Sindrome di Down raggiungono l’età adulta e vivono pienamente integrati nella società, ma nel passato remoto le loro aspettative di vita erano molto più brevi. Quando le cellule si dividono per dare origine a ovociti e spermatozoi, o nelle prime fasi dello sviluppo embrionale, può accadere che il set dei cromosomi non sia diviso equamente; l’eccesso di produzione delle proteine codificate nel cromosoma extra ha delle conseguenze sullo sviluppo e sulla salute, che la medicina moderna è in grado di mitigare; ma una volta era tutto un altro discorso.
Riconoscere questa sindrome dalle caratteristiche scheletriche, naturalmente, non è affatto semplice. Diagnosticare una trisomia nei campioni di DNA moderno è facile, basta contare il numero dei cromosomi. Ma quando si ha a che fare con il DNA antico è tutto più laborioso, perché i cromosomi si rompono e i frammenti si mescolano. Sequenziare genomi antichi rispettando standard qualitativi elevati è costoso, perciò nell’Istituto Max-Planck di Antropologia Evolutiva Lipsia si applica un metodo più approssimativo: questo sequenziamento, chiamato shotgun, viene eseguito sul grosso dei genomi, poi solo alcuni vengono sottoposti a indagini più raffinate. Le banche dati di sequenze shotgun sono come la "cantina della genomica": rovistando tra i materiali accumulati è sempre possibile trovare qualche pezzo pregiato, l’importante è sapere cosa cercare e trovare un modo efficiente per farlo. Quando lo statistico Adam Rohrlach ha saputo che la banca dati dell’istituto di Lipsia conteneva i genomi di quasi 10.000 persone, ha pensato di setacciarlo alla ricerca di cromosomi extra con l’aiuto di un programma scritto appositamente per riordinare i frammenti a seconda del cromosoma di appartenenza. Ha così individuato ben sette portatori di trisomie, tutti bambini morti poco prima di nascere o poco dopo, il più grande dei quali non ha fatto in tempo a raggiungere l’anno e mezzo di età. Si tratta di sei casi di sindrome di Down, più un caso in cui il cromosoma in più non era il numero 21 ma il 18 (Sindrome di Edwards). Un individuo riposava dal XVIII secolo nel cimitero di una chiesa, sotto quella che oggi è la Piazza del Senato di Helsinki, mentre gli altri casi sono decisamente più antichi. Uno era stato sepolto circa 3300 anni fa con un sofisticato ornamento, presso un’abitazione nell’isola di Egina (Grecia). Un altro è stato sepolto in un’urna 4800 anni fa sotto il pavimento di un insediamento in Bulgaria. Quattro individui rinvenuti in Spagna, nei siti di Alto de la Cruz e Las Eretas, risalgono approssimativamente a 2500 anni fa. Probabilmente non sono sopravvissuti alla nascita, ma sono stati sepolti con cura. Questa concentrazione di anomalie cromosomiche in due siti contemporanei e vicini ha sorpreso i ricercatori e solleva una serie di domande: erano stati riconosciuti come "bambini speciali" e sepolti con particolare attenzione proprio per questo? La morte tanto prematura può aver celato differenze fisiche e bisogni speciali, che sarebbero diventati più evidenti col passare dei mesi e degli anni. Insomma, le antiche sepolture sembrano indicare l’assenza di stigma e discriminazioni, ma per saperne di più saranno necessari ulteriori ritrovamenti di feti e infanti con sindromi rare. Solo così potremo capire davvero come i nostri antenati vedevano questo tipo di diversità e come accudivano chi nasceva con problemi di natura genetica.
In generale però le evidenze di comportamenti solidali nei confronti delle persone disabili o malate sono numerose sin da tempi remoti, nonostante la scarsità di risorse con cui l’umanità doveva fare i conti. Un esempio eclatante è quello di un uomo con una patologia genetica invalidante chiamata Sindrome di Klippel-Feil, vissuto circa 4000 anni fa in Vietnam. Doveva essere tetraplegico da un decennio quando è morto a circa 25 anni di età. E un individuo vissuto 45.000 anni fa in Iraq, oggi noto come Shanidar I, deve aver ricevuto molte cure protratte nel tempo; era parzialmente cieco, aveva una mobilità estremamente ridotta e per di più un braccio amputato, eppure riuscì a raggiungere la vecchiaia, arrivando ad aggiungere l’artrite all’elenco dei suoi acciacchi. Fa piacere constatare che la solidarietà e l'inclusione accompagnano la nostra specie fin da tempi veramente remoti.
La morfologia linguistica ha origini biologiche?
« Maria mangia una mela », « Luca guarda una partita ». L'ordine delle parole non cambia mai: prima il soggetto, poi il verbo e infine il complemento oggetto. È questo, infatti, l'ordine delle parole tipico dell'italiano che, come l'inglese, il greco o l'indonesiano, nella costruzione delle frasi segue l'ordine chiamato SVO, ossia soggetto-verbo-oggetto, a differenza di altre lingue, come il giapponese, il turco, il basco o il coreano, in cui l'oggetto è anteposto al verbo, denominate SOV, ossia soggetto-oggetto-verbo. Circa l'85 % delle lingue parlate nel mondo rientra nell'una o nell'altra di queste due categorie.
Perché la struttura sintattica delle circa 6000 lingue parlate sul nostro pianeta non è uguale per tutte? I ricercatori del Massachusetts Institute of Technology di Boston ritengono di poter spiegare queste differenze ricorrendo alla teoria dell'informazione elaborata negli anni Cinquanta da Claude Shannon (1916-2001). Edward Gibson, docente di scienze cognitive al MIT, sostiene che il linguaggio umano sia un esempio di quello che Shannon chiamava un « canale disturbato », e che le lingue, di conseguenza, avrebbero elaborato determinate regole, relative all'ordine delle parole, in modo da ridurre al minimo il rischio di errori nella comunicazione. Secondo Shannon, infatti, l'efficacia comunicativa può essere compromessa da eventuali « disturbi », fattori del contesto che possono impedire al messaggio di arrivare correttamente il destinatario.
La prova decisiva è venuta da un esperimento molto particolare. I ricercatori del dipartimento di scienze cognitive del MIT hanno chiesto a parlanti di madrelingua inglese (tipo SVO), giapponese e coreano (tipo SOV) di descrivere, a gesti, semplici azioni illustrate in alcuni video. Hanno così riscontrato che, nel riprodurre il significato delle immagini attraverso i gesti, anche i parlanti la lingua inglese prima riproducono il complemento oggetto e poi illustrano l'azione, se questa è diretta verso un oggetto inanimato, come per esempio una bambina che calcia un pallone. « La tendenza dei parlanti ad esprimersi con i gesti secondo un ordine diverso da quello della propria grammatica può essere un esempio di una preferenza linguistica innata: ricapitolare le vecchie informazioni prima di introdurne di nuove », ha spiegato Gibson. Se l'azione, però, è rivolta verso un altro essere umano (una bambina tira calci a un bambino), i parlanti in genere mimano prima il verbo e poi il complemento oggetto.
Perché in questo caso prevale l'ordine SVO? « Perché esso ha una maggiore possibilità di preservare le informazioni se il canale di comunicazione è disturbato », ha proposto Gibson. In particolare, il passaggio all'ordine SVO è funzionale, secondo i ricercatori, alla descrizione di eventi semanticamente reversibili, in cui la presenza di due referenti animati rende più difficile individuare l'agente dell'azione, come nel caso della frase « Maria ama Luca ». Se il verbo è inserito alla fine della frase, può esserci ambiguità nell'individuare chi agisce e chi subisce l'azione. Soprattutto se, a causa del contesto comunicativo, non arriva al destinatario il messaggio completo: quindi, potrebbe non essere chiaro chi colpisce chi.
Secondo Gibson, la maggior parte delle lingue conosciute discende da un proto-linguaggio caratterizzato dall'ordine soggetto-oggetto-verbo (SOV). Poi, alcune sono approdate all'ordine soggetto-verbo-oggetto (SVO). Come è successo, per esempio, alle lingue derivanti dal latino, italiano compreso. A cosa sono imputabili allora le differenze strutturali tra le lingue del mondo? Se una lingua possiede i casi morfologici (accusativo, nominativo ecc.), allora dispone di altri indizi (la morfologia dei casi, appunto), indipendenti dalla posizione degli elementi nominali rispetto al verbo, per assegnare il ruolo di soggetto e di oggetto a un sostantivo. Nelle lingue, invece, che non prevedono i casi, questo compito viene affidato all'ordine delle parole: il soggetto dunque è tendenzialmente prima del verbo, all'inizio della frase, e l'oggetto dopo, come in italiano. « Le differenze possono avere un'origine biologica », ha fatto però notare Gibson. « Sistemi cognitivi diversi sono infatti responsabili del diverso modo di ordinare le parole nelle varie lingue del mondo. L'ordine SOV, in cui la funzione logica dei nomi è indicata dai casi morfologici, è quello preferito dal sistema di base cognitivo della comunicazione per la sua efficacia. Sappiamo però che la morfologia dei casi è difficile da apprendere, ragione per cui un ordine fisso senza morfologia è preferito. Da cui il cambiamento dalla lingua ancestrale SOV alle numerosissime lingue SVO ».
L'antenata di tutte le lingue
A questo proposito, il dottor Guido Borghi, ricercatore presso l'Università degli Studi di Genova ed amico personale dell'autore di questo ipertesto, ha voluto contribuire ad esso con il testo che segue.
Quali “lingue” parlavano i nostri remoti antenati? Senz'altro prima del linguaggio il “verso” degli Ominidi erano comunque quelli che oggi sono i foni, e la comunicazione avveniva anche attraverso la fonazione, non solo a gesti (anzi, mentre il gesto implica che gli arti anteriori siano liberi dalla funzione ambulatoria, la voce no, per cui la comunicazione vocale dovrebbe essere filogeneticamente più antica). Gli Antenati degli Ominidi e perciò a maggior ragione anche i più antichi fra questi ultimi utilizzavano già una forma di comunicazione completa vocale oltre che – dalla liberazione delle mani in poi – pure gestuale. Entro questo quadro etologico comparativo e in fondo abbastanza intuitivo, è ipotesi comune e diffusa, in base alle implicazioni ergonomiche e cognitive dei manufatti, al più tardi un milione di anni orsono Hŏmō ērēctŭs trasmettesse nozioni culturali (a parte che con gesti) attraverso sequenze foniche vocali (orali e nasali) la cui complessità è più vicina a quella delle lingue storico-naturali che ai livello massimo della comunicazione vocale fra Primati non umani. Questa è la definizione pratica di Protolinguaggio e purtroppo non so – data la mia ignoranza in materia – se la Ricerca corrente sia andata molto più in là.
La seconda prospettiva per avvicinarsi al Protolinguaggio è la ricostruzione a ritroso nel tempo a partire dalle lingue storico-naturali. Questo è un metodo molto solido, ma ahinoi di gittata relativamente corta, per cui non siamo neppure sicuri di arrivare al “protomondiale” (inteso come lingua – ammesso che sia stata una sola – da cui discendono tutte quelle note e che poteva avere centocinquanta fonemi, come alcune lingue Khoi-San), tantomeno all'antenato – sempre ammesso che sia stato uno solo – di tutte le lingue di Hŏmō săpĭēns (comprese dunque le non più note), figuriamoci se alla lingua dei primi Hŏmĭnĕs săpĭĕntēs: prima ancora, neanche a parlarne (letteralmente!)...
In ogni caso, possiamo ricostruire – questo sì – come poteva suonare più o meno nel tardo Musteriano (alla fine del Paleolitico medio), circa 50˙000-40˙000 anni orsono, la classica frase ‘la penna è sul tavolo' che si insegna per cominciare una lingua straniera; la scrivo in Alfabeto Fonetico Internazionale:
*[ˈpʰæːtʰæːsæmænæːʁætæ tʰæbʱæˈlæːʁætæsæːpæ]
dove *pʰæːtʰæːsæmænæːʁætæ significa ‘questi sono molti oggetti usati per compiere l'azione in cui un soggetto si muove nell'aria senza appoggiarsi a terra' (poi lessicalizzato nel Paleolitico superiore fino ad assumere la forma indoeuropea *pĕth₁-năhₐ ‘[insieme di] strumenti con cui si vola') e *tʰæbʱælæːʁætæ ‘questi sono molti oggetti che nel passato (con conseguenze nel presente) hanno compiuto l'azione per cui un soggetto rende stabile un oggetto' (poi lessicalizzato in *tu̯əₓbʱ-lăhₐ ‘[insieme di oggetti] che hanno reso stabile'), mentre *sæːpæ indica un rapporto di esteriorità con contatto sulla parte superiore (in indoeuropeo *h₁ĕp).
Da qui si dovrebbe risalire al protomondiale (antenato di tutte le lingue note), dal protomondiale all'antenato di tutte le lingue esistite, da questo alla prima lingua di Hŏmō săpĭēns; con questi tre ulteriori passaggi (forse caratterizzati da trasformazioni altrettanto profonde) saremmo arrivati a 200˙000-150˙000 anni fa, dopodiché dovremmo ripetere l'operazione per coprire un arco tempo quattro volte più lungo dell'intera vicenda fino ad allora ricostruita.
La sequenza *tʰæbʱælæːʁætæ dovrebbe essere nata in concomitanza con la fabbricazione di oggetti designabili in questo modo (‘questi sono molti oggetti che nel passato (con conseguenze nel presente) hanno compiuto l'azione per cui un soggetto rende stabile un oggetto'); la sequenza *pʰæːtʰæːsæmænæːʁætæ (‘questi sono molti oggetti usati per compiere l'azione in cui un soggetto si muove nell'aria senza appoggiarsi a terra'), invece, potrebbe esistere in teoria da sempre (dacché si è [filo]geneticamente sviluppata la Facoltà del Linguaggio), in pratica da quando l'Uomo ha avuto la capacità cognitiva di segmentare la Realtà fino alla precisione di individuare la penna.
Linguistica e genetica
Sempre Guido Borghi ha poi proposto una soluzione alla sempre vessata corrispondenza tra genetica e famiglie linguistiche; per il momento secondo lui resta in cima alla graduatoria di economicità il seguente schema:
A = popolazioni del Sudan e popolazioni di lingua Khoi-San
B = Pigmei
C = Australiano + popolazioni arcaiche del versante pacifico della Siberia nordorientale (fino in
Nordamerica)
D = avanguardia orientale non africana - non australiana; frantumatasi in tre tronconi:
uno isolato andamanese / indopacifico,
uno centrale (Tibetani) linguisticamente sino-tibeto-birmano (quindi inglobato
nell'austrico?) ma vicino all'indoeuropeo,
uno nordorientale (Ainu) completamente assorbito dall'eurasiatico
E = estremità nordoccidentale dell'umanità
antica; distribuito fra:
Niger-Congo
Nostratici occidentali (prevalentemente
Afroasiatici, una piccola parte Indoeuropei)
F = nucleo del nostratico (futuri
Afroasiatici, Indoeuropei,
Caucasici) e progenitori del futuro austrico (incl.
sino-tibeto-birmano); da F nascono G, H,
I, K (quest'ultimo è il più antico)
G = nostratico a cavallo del
Caucaso; distribuitosi fra:
Indoeuropei (futuri Osseti)
Caucasici settentrionali
Caucasici meridionali
H = nostratico dell'India
centrale; distribuitosi fra:
Indoeuropei (futuri Indoarî)
Dravidici
I = nostratico
nordoccidentale, divenuto quasi totalmente indoeuropeo (anatolico-balcanico e da lì centro-nordeuropeo)
J = nostratico centro-nordoccidentale, distribuitosi fra:
Indoeuropei (Anatolici
orientali)
Afroasiatici nordorientali (Semiti)
K = il più antico dei mutanti di F (nostratico +
austrico), anch'esso quindi nostratico (orientale) + austrico; da K nascono
L, M, N,
O (il più antico), P
L = nostratico centro-sudorientale (India
Nordoccidentale), distribuitosi (come H) fra:
Indoeuropei (Indoarî e
Burusho)
Dravidici
M (molto recente) = estremità sudorientale di K =
superstrato neolitico della Nuova Guinea (linguisticamente
indopacificizzatosi)
N = nostratico settentrionale =
eurasiatico settentrionale = uralico e
altaico (quest'ultimo sovrappostosi ad antichissimi Siberiani del Pacifico
(C)
O = Sino-Tibeto-Birmani (che però inglobano demograficamente preesistenti popolazioni
D, anch'esse di lingua non africana - non australiana; solo insieme a queste sviluppano il
sino-tibeto-birmano) e in generale Austrici (che invece si sovrappongono a popolazioni
C)
P = nostratico centro-nordorientale =
eurasiatico centro-nordorientale, distribuitosi fra:
Indoeuropei (dell'Asia Centrale); da questi nasce
R
Jenisejani e antenati degli Amerindî
Q = Jenisejani + Paleosiberiani-Eskimoaleutini +
Amerindî
R = Indoeuropei centro-settentrionali e occidentali (dall'estremità sudoccidentale una migrazione verso il 2000 a.C. raggiunge il Camerun settentrionale)
Secondo il dottor Borghi le corrispondenze linguistico-genetiche sarebbero le seguenti:
Khoi-San: A
Pigmei: B
Nilo-Sahariani: A, B
Niger-Congo: E
Australiani: C
Indopacifici: D; in Nuova Guinea anche
C (sostrato) e M (superstrato neolitico)
Austrici: O (su superstrato
C);
Sino-Tibeto-Birmani: O, in Tibet
D, in Cina O con D e su
C
Caucasici settentrionali: F,
G
Afroasiatici: E, F; Camiti e Semiti:
J, in parte I
Caucasici meridionali: F,
G, in parte I
Dravidici: H (in gran parte),
L (in parte)
Indoeuropei: E (solo una piccola parte),
F, G (Osseti), H (in India),
I (Anatolia, Balcani, Germani), J (nel Vicino Oriente), L (in India),
P, R (tutto; in Camerun assimilati
linguisticamente)
Uralici: N
Altaici: N (sovrapposti a
C in Siberia orientale)
Paleosiberiani: Q (sovrapposti a
C)
Eskimo-Aleutini: Q
Jenisejani: Q
Amerindî: Q
È del 4 febbraio 2010 purtroppo la notizia della morte di Boa Sr, 85 anni, l'ultima indigena delle isole Andamane che ancora parlava il Bo, l'idioma di una delle 10 tribù di cui si componeva il popolo dei Grandi Andamanesi, probabilmente una delle popolazioni più antiche del pianeta. Si stima infatti questa gente abbia vissuto nelle Isole Andamane per almeno 65.000 anni (7 minuti e mezzo dell'Anno della Terra). Certamente un tesoro perduto che non potrà essere recuperato mai più.
L'alba della paleoecologia
Il nostro impatto sull'ambiente e sul clima cominciò a verificarsi molto prima di quanto stimato finora: anche se l'inizio del riscaldamento globale viene fatto risalire all'ottocento ed è associato alla rivoluzione industriale, in realtà abbiamo cominciato a influenzare l'assetto ecologico (anche se con un peso molto minore rispetto ad oggi) probabilmente già circa quattromila anni fa (alle 23.59.32). A suggerirlo è stata una ricerca condotta dall'Università di Bergen, grazie ad un'analisi delle variazioni della vegetazione a partire da 18.000 anni fa (alle 23.57.54), in varie zone del globo terrestre. I ricercatori hanno potuto datare l'inizio del nostro impatto sull'ecosistema studiando resti di fanghi estratti in zone lacustri e paludose: in tutto hanno raccolto più di mille campioni da altrettante regioni del globo, in tutti i continenti ad esclusione dell'Antartide. Mediante l'analisi dei fossili dei pollini e di altri resti vegetali contenuti nei campioni, hanno potuto ricostruire come sono cambiati il terreno e la vegetazione nei secoli e nei millenni. Si tratta di uno studio di paleoecologia, che da disciplina minore sta diventando una scienza globale in grado di aiutarci a comprendere molti aspetti, ancora poco chiari, di come i nostri comportamenti hanno effetti sul pianeta.
Infatti i ricercatori si sono accorti di un'accelerazione, a livello globale, nei cambiamenti della vegetazione in un periodo compreso fra 4.600 e 2.900 anni fa (fra le 23.59.28 e le 23.59.39). Questa accelerazione, secondo gli autori, è senza precedenti sia per la sua estensione a livello complessivo sia per l'intensità con cui si è manifestata: supera infatti i cambiamenti associati all'ultima era glaciale, terminata fra i 16.000 e i 14.000 anni fa (fra le 23.58.08 e le 23.58.22). Gli spostamenti umani e l'agricoltura, la cui nascita si fa risalire a circa 10.000 anni fa (alle 23.58.49) e il cui sviluppo intensivo inizia probabilmente 6.000 anni fa, e l'allevamento, ancora precedente, hanno contribuito a queste trasformazioni a discapito della vegetazione spontanea, che veniva eliminata per acquistare spazio. Questi risultati mettono in luce l'importante ruolo e la forza degli esseri umani nel guidare le trasformazioni dell'ambiente e del clima anche assai prima dell'era industriale. Ciò che è interessante, secondo me, è il fatto che i cambiamenti della biodiversità che osserviamo oggi potrebbero essere frutto di un processo iniziato, magari con ritmi diversi, migliaia di anni fa. Alcune di queste variazioni, dunque, potrebbero almeno in parte trovare le radici in un passato lontano, legato al primo uso del terreno, e poi essere state fortemente incrementate dalle attività e dallo sfruttamento delle risorse negli ultimi decenni. In questo campo la paleoecologia ci dà una mano, ripartendo dalle origini per comprendere quale e quanto grave è l'impatto delle nostre azioni.
L'ultima grande estinzione
La più grande estinzione animale recente è avvenuta nelle isole dell'Oceano Pacifico e dell'Oceano Indiano, e la causa fu proprio l'arrivo dell'uomo, che ha distrutto il fragile ecosistema delle isole oceaniche con la deforestazione, e ha contribuito all'estinzione con la predazione diretta di esemplari e uova e l'introduzione di specie aliene (per esempio ratti e gatti). Come risultato sono scomparse almeno 160 specie diverse di uccelli "di terra", cioè non in grado di volare, come i moa della Nuova Zelanda (scomparsi nel XVI secolo), alle quali vanno aggiunte altre centinaia di specie più piccole, come i passeriformi, e gli uccelli di mare, per un totale di oltre mille specie. Lo studio che ha portato a questa conclusione è stato effettuato sui reperti fossili dell'Olocene recuperati in 41 isole del Pacifico; gli autori avvertono però che la scarsità dei reperti fossili non consente di stabilire l'esatta ampiezza e portata dell'estinzione. Una cosa è certa: due terzi delle popolazioni di uccelli di terra di queste isole è scomparsa nell'intervallo di tempo tra l'arrivo delle prime popolazioni umane e la scoperta da parte degli esploratori europei, quindi un intervallo compreso tra 3.500 e 500 anni fa circa (tra le 23.59.35 e le 23.59.56).
La vittima più celebre è il dodo (Raphus cucullatus), un grosso uccello di circa 30 chili, goffo e incapace di volare, che viveva sull'isola di Mauritius, nell'oceano Indiano, e che si estinse nel 1662, dopo l'arrivo dei coloni europei. « Se noi tenessimo conto », ha fatto notare Tim Blackburn, uno degli autori dello studio, « di tutte le isole del Pacifico e dell'Indiano e anche degli uccelli marini e canori, il bilancio totale dell'estinzione è stato probabilmente di circa 1.300 specie di uccelli ». Si tratta di quasi il 10 % di tutte le specie viventi di uccelli, stimate in circa 10.000!
Il Calcolitico o età del Rame
Dal greco "età del rame e della pietra", va dal 3500 al 2300 a.C. In termini di Anno della Terra, andiamo dalle 23.59.21,43 alle 23.59.29,84 del 31 dicembre. Essa coincide con il sorgere delle culture urbane, e quindi con l'avvio dell'epoca storica. Le prime "civiltà monumentali", cosiddette per le grandi costruzioni in pietra che ci hanno lasciato, sorsero sulle rive dei grandi fiumi: in Egitto sul Nilo, in Mesopotamia sul Tigri e sull'Eufrate, in India sull'Indo e in Cina sul Fiume Giallo (Hwang-ho). Per il loro nascere fu determinante il mutamento di clima che aveva avuto inizio nel Mesolitico e che portò all'inaridimento di grandi territori, con la creazione di una "fascia dei deserti" accanto a quelle delle coltivazioni e delle steppe, dal Sahara fino alla steppa dei Kirghisi. Con il crescere della popolazione, mentre il suolo si inaridiva progressivamente, gli abitanti delle zone colpite dalla siccità emigrarono in prossimità dei fiumi: è quanto è accaduto in Egitto. Probabilmente gli antenati neolitici degli egiziani vivevano nel Sahara, come dimostrano le incisioni rupestri ed i complessi megalitici scoperti nel suo cuore, in zone oggi assolutamente inabitabili; ma, quando esso si desertificò, essi prima si spostarono sul Nilo Giallo, un ramo sudanese del Nilo oggi disseccato, ed infine nel Delta e nella vallata alle sue spalle (pare che il trucco degli occhi tipico degli Egizi derivasse da un linimento per proteggere gli occhi dalla sabbia del deserto).
Grazie al nuovo sistema economico connesso all'agricoltura, una parte della popolazione si liberò dagli obblighi imposti dalla sussistenza e si dedicò ad altre occupazioni: artigianato, culto, amministrazione e difesa. E così, oltre alla casta sacerdotale già ricordata, nacque un esercito di mestiere (nelle antiche tribù il contadino, se necessario, doveva improvvisarsi soldato), e soprattutto una burocrazia con tutta una classe sociale dedicata ad essa, fatta di segretari e di scribi. Conseguenza immediata fu l'invenzione della scrittura, di tipo ideografico in Egitto e in Cina, cuneiforme in Mesopotamia (lo stilo lasciava impronte a forma di cuneo sull'argilla fresca, poi cotta in forni). Con questa invenzione la memoria dell'uomo comincia ad essere fissata su steli e papiri e non è più soggetta a venire deformata dalla fantasia dei cantastorie. E' finita la preistoria ed è iniziata la storia.
Uno dei primi esempi di scrittura è rappresentato dalla cosiddetta tavoletta di Narmer, illustrata qui a destra e risalente all'incirca al 3000 a.C. Essa mostra il fondatore della prima dinastia egizia, e dunque il primo Faraone della storia, intento a percuotere i suoi nemici. Su di essa per ben due volte il nome del Faraone è scritto associando il simbolo di un pesce (in egizio NAR) a quello di uno scalpello (MER), in modo che NAR + MER = NARMER. Geniale, no? Oltre al primo esempio di scrittura, è anche il primo esempio di rebus...
Ma la scoperta della scrittura era stata anticipata da quella della lavorazione metallurgica, per cui si parla anche di età dei metalli. Il primo metallo ad essere fuso fu appunto il rame (qualcuno dice però l'oro, lavorato senza fonderlo grazie alla sua grande malleabilità). Anche la ceramica cominciò ad essere caratterizzata da vasi con superficie monocromo rossa che imitava il metallo. Sopravviveva tutavia l'industria litica, caratterizzata da asce a martello in pietra levigata, cuspidi di frecce in selce, lame a foglia e grandi pugnali.
Caratteristiche comuni a tutte le civiltà monumentali del tempo erano la lavorazione del rame, l'uso del mattone e della pietra squadrata, i muri poligonali, la scrittura e la scultura. Tutte le civiltà sentirono la necessità di un'espansione territoriale per difendere meglio il proprio territorio; i primitivi stati monarchici si trasformarono così in imperi. In Egitto il Faraone ("signore della grande casa") era venerato come divinità (si ebbe l'inizio del "potere carismatico"), ed il suo potere era fondato su una religione di stato il cui dio supremo (in via del tutto eccezionale) era il dio dei morti Osiride; ma si pensa che in origine fosse un dio dell'agricoltura. In Mesopotamia il potere era invece esercitato da un patesi o re-sacerdote, rappresentante in Terra della divinità cui la città era consacrata; inizialmente non si formò un impero unitario ma una federazione di città-stato. L'analisi linguistica ed i ritrovamenti archeologici purtroppo non ci ha ancora detto nulla circa l'origine dei Sumeri, i fondatori di queste città-stato. Verso il 2350 a.C. Sargon di Accad, detto "il signore delle quattro parti del mondo", conquistò la Mesopotamia, la Siria e l'Elam e creò il primo impero sovranazionale della storia, grazie alla superiorità del suo esercito e delle sue tattiche di movimento. In India nel 2500 a.C. iniziò la cultura di Harappa, con città situate ai piedi di un colle fortificato e dotate di vere e proprie fognature. Non dovunque nella fascia temperata, però, si svilupparono civiltà monumentali. In Italia i calcolitici erano sopratutto pastori e agricoltori, avevano carattere bellicoso e vivevano in villaggi fortificati, come a Conelle di Arcevia nel fabrianese. Il rito funerario più usato era l'inumazione.
Ma non è tutto: a quanto pare, anche la Cina sorse dalle acque. Fu infatti dopo un diluvio di immani proporzioni che si impose il primo imperatore. Nel 2016 il geologo cinese Qinglong Wu della Nanjing Normal University ha pubblicato le prove geologiche che sarebbero in relazione a una catastrofica inondazione avvenuta attorno al 1900 a.C. (ore 22.59.32,63) lungo il Fiume Giallo. Secondo antiche cronache, nel II millennio a.C. la civiltà che stava nascendo proprio lungo le rive del Fiume Giallo fu spazzata via da onde alte come palazzi. « L'inondazione sovrasta colline e montagne, continua a crescere e minaccia il cielo stesso », sono le parole riportate dalla tradizione. Ma a quel disastro qualcuno reagì: l'eroe che fermò le acque e scavò canali fu Yu il Grande (大禹), fondatore della semileggendaria dinastia Xia che tradizionalmente avrebbe regnato sul paese dal 2195 al 1675 a.C. Il geologo Wu ha trovato depositi di sedimenti lasciati da una grande alluvione: nel sito neolitico di Lajia (nella provincia di Qinghai) sono stati rinvenuti, all'interno di caverne crollate, depositi da inondazione misti a frammenti di ceramiche dell'epoca. Secondo la ricostruzione, un terremoto sconvolse l'area 4.000 anni fa e ostruì il fiume, sul quale si formò una diga che poi cedette improvvisamente, riversando un diluvio d'acqua sulla valle sottostante. I danni si estesero su un'area vastissima, ma da quei detriti nacque un nuovo, grande regno. La Cina, appunto.
Prima di passare oltre, mi sembra giusto citare una notizia battuta dalle agenzie di stampa nell'aprile 2008. Una tavoletta d'argilla scoperta dall'archeologo inglese Herny Layard nel 1845 tra i resti della libreria del palazzo reale di Ninive ed oggi custodita nel British Museum, dove è catalogata con il nome d'archivio di Planisfera K8538, descriverebbe una delle più antiche catastrofi naturali avvenute sulla Terra e osservate dall'occhio umano. Alan Bond, direttore di "Reaction Engines", una compagnia inglese specializzata nello sviluppo di sistemi di propulsione spaziale, e Mark Hempsell, docente di astronautica alla Bristol University, nel loro volume "A Sumerian Observation of Köfels", sostengono che sulla tavoletta, risalente al 700 a.C., sarebbero stati copiati alcuni appunti di un anonimo astronomo sumero che avrebbe avvistato un grande asteroide avvicinarsi alla Terra e poi schiantarsi su di essa prima dell'alba del 29 giugno 3123 a.C. (alle 23.59.24). Le conseguenze di questo tremendo impatto sarebbero state catastrofiche e decine di migliaia di persone sarebbero morte. Il luogo dello schianto si troverebbe oggi in territorio austriaco, appena oltre la frontiera italiana, dove oggi sorge la città di Köfels. E, guarda caso, a Köfels vi è un cratere da impatto di 1,5 km di diametro (non ci ricorda la fine dei dinosauri?). Nel corso degli anni sono state formulate le più assurde spiegazioni per dare senso all'oscuro contenuto della tavoletta: secondo uno storico dell'Azerbaigian queste iscrizioni narrerebbero addirittura l'arrivo di un'astronave aliena sulla Terra! La ricerca di Bonde e di Hempsell spazzerebbe via tutte queste bizzarre teorie ufologiche: secondo loro, alcuni simboli presenti sulla tavoletta descrivono con precisione la traiettoria di « una enorme pietra bianca che si avvicina », cioè un corpo celeste che attraversa la costellazione dei Pesci per poi piombare sulla Terra. « È una perfetta testimonianza scientifica », ha affermato entusiasta Mark Hempsell alla stampa britannica: « l'esplosione produsse un'enorme nuvola a forma di fungo, mentre il fumo si diffuse nell'aria e poteva essere visto per centinaia di chilometri. » Se i due traduttori hanno ragione, la tavoletta Planisfera K8538 porta testimonianza di una tragedia degna dell'11 settembre, che ha mietuto un incredibile numero di vittime in quella lontana notte di cinquemila anni fa.
I primi cavalli domestici
Per millenni la mobilità e la capacità bellica degli esseri umani si è basata sullo sfruttamento del cavallo, per cui la domesticazione di questo animale va considerata uno degli eventi epocali della storia umana. Nel 2021 Ludovic Orlando dell'Université Paul Sabatier a Tolosa, in Francia, e collaboratori hanno proposto di collocare la prima domesticazione degli equidi nella regione del Caucaso verso il 3000 a.C. (alle ore 23.59.25). Già nel 2019 nel sito di Botai, nell'Asia centrale, erano stati scoperti i più antichi resti archeologici di cavalli domestici, risalenti a 5500 anni fa. L'analisi dell'antico DNA recuperato da questi reperti ha però escluso che si trattasse dei progenitori diretti dei cavalli domestici moderni. Altrettanto deludenti si sono rivelati altri siti candidati alla prima domesticazione in Anatolia, in Siberia e nella Penisola iberica. Gli autori hanno perciò deciso di estendere la loro analisi all'intera Eurasia, considerando i genomi di 273 esemplari di cavalli vissuti tra 50.000 e 200 anni prima di Cristo, confrontati con i genomi dei cavalli domestici moderni. Dai dati così ottenuti è emerso un quadro in cui le popolazioni di cavalli dell'Anatolia, dell'Europa, dell'Asia centrale e della Siberia avevano un'ampia varietà di genomi distinti. Tra 4900 e 4300 anni fa circa (tra le 23.59.26 e le 23.59.29) è però avvenuto un cambiamento significativo: un singolo profilo genomico, rimasto confinato per lungo tempo nella regione del Caucaso settentrionale, ha preso il sopravvento, rimpiazzando le popolazioni selvatiche di cavalli dall'Atlantico alla Mongolia. I dati genetici indicano anche una demografia esplosiva all'epoca, senza equivalenti negli ultimi 100.000 anni. Ciò fa pensare che questo sia stato il momento in cui abbiamo preso il controllo della riproduzione di questi animali e li abbiamo fatti moltiplicare di numero.
Dalla ricerca sono emerse altre indicazioni interessanti. In primo luogo sulle differenze genetiche tra questa popolazione domesticata e quelle che ha rimpiazzato: un carattere più docile e una colonna vertebrale più robusta. Queste caratteristiche, che ne favoriscono la cavalcata e che sono legate alla selezione dei due geni GSDMC e ZFPM1, avrebbero decretato il successo delle varianti caucasiche sulle altre. Inoltre le analisi mostrano il rapporto della domesticazione con altri importanti eventi della storia umana. La migrazione delle popolazioni indoeuropee dalle steppe verso l'Europa, per esempio, è anteriore alla domesticazione dei cavalli caucasici, il che fa concludere che non si sia basata sulla domesticazione del cavallo. Un rapporto molto stretto sembra esserci stato invece con la diffusione in tutta l'Asia dei carri trainati da animali e delle lingue indoiraniche. Peraltro, forse nessuno se ne rende conto, ma probabilmente, senza questo evento di domesticazione, gli equidi si sarebbero con tutta probabilità estinti, perché abbiamo le prove genetiche che i cavalli erano una specie in declino quando l'Uomo arrivò. La loro domesticazione come animali da soma, da trasporto e da cavalcata assicurò la loro sopravvivenza. La serie della BBC « I Predatori della Preistoria » ha dedicato, nel capitolo dedicato ai primi cavalli dell'Eocene, un breve articolo che illustra la storia dei cavalli, il loro passaggio da animali di foresta ad abitanti delle praterie, la migrazione attraverso lo Stretto di Bering dall'America all'Asia, l'estinzione completa dei cavalli americani e la quasi totale estinzione del genere, prima che l'arrivo dell'Uomo ne sancisse la sopravvivenza. Per una volta l'uomo ha salvato una specie, anziché sterminarla! Pensate se avesse fatto la stessa cosa con i mammut...
L'Eneolitico o Età del Bronzo
Dal greco "età del bronzo e della pietra", essa va dal 2300 al 900 a.C. In termini di Anno della Terra, andiamo dalle 22.59.29,84 alle 23.59.39,65 del 31 dicembre. Il bronzo, utile per fabbricare armi ed attrezzi molto più vantaggiosi rispetto a quelli in pietra, cominciò ad essere lavorato in Mesopotamia verso il 2300 a.C., poi si diffuse verso nord (in Anatolia), verso l'Egitto, nell'area dell'Egeo e a Creta, che divenne sede della civiltà minoica, embrione di quella greca: un importante centro di irradiazione, con le sue veloci navi, della civiltà del bronzo verso l'Europa occidentale. Ma soprattutto, nel corso dell'Eneolitico, l'Europa ed una parte dell'Asia furono interessate da massicce ondate migratorie. Le tribù seminomadi stanziate nell'Asia centrale si spostarono in massa, percorrendo talvolta enormi distanze, mosse dalla necessità di trovare nuove risorse alimentari a causa dell'irrigidirsi del clima, oppure a loro volta costrette a sloggiare sotto la spinta di altri popoli nomadi che invadevano le loro terre. Si trattava di popolazioni assai eterogenee, accomunate non dall'appartenenza ad un ceppo etnico comune o da tradizioni e culture che invece erano assai differenti tra loro, ma dal fatto di avere lingue molto simili tra loro. Siccome questi popoli invasero la lunga fascia che va dall'Europa occidentale sino alla Persia e all'India, nell'ottocento essi furono chiamati Indoeuropei. Erano Indoeuropei gli Ittiti (gli Etei della Bibbia), che per primi fondarono un fiorentissimo impero guerriero sugli altopiani della penisola anatolica; i Medi e i Persiani, che sarebbero succeduti loro nell'Età del Ferro; i Traci e gli Achei, che occuparono la penisola balcanica assieme agli Illiri; gli Italici, che presero il controllo dell'Italia, affiancandosi agli indigeni Etruschi; i Celti, che invasero quasi tutta l'Europa occidentale e le isole britanniche; i Germani, che occuparono la Scandinavia; i Baltici, che vissero sulle coste del mar Baltico; e gli Slavi, stanziati tra le attuali Russia e Polonia. In seguito i Germani migrarono nell' Europa centromeridionale soppiantando i Celti e creando la nazione tedesca (i Longobardi, penetrati nella Gallia Cisalpina, avrebbero dato il nome alla mia regione, la Lombardia), ed il loro posto al di là del fiume Elba fu preso dagli Slavi, che si imposero anche nella penisola Balcanica, generando l'attuale distribuzione dei popoli europei. Peraltro, che gli Etruschi siano indigeni dell'Italia centrosettentrionale, e non immigrati da qualche lontana regione, lo ha provato in maniera definitiva nel 2021 il più esteso studio genomico mai realizzato su questo popolo sul quale sappiamo ancora troppo poco. Esso è stato condotto da un team internazionale coordinato dalle Università di Firenze, Tubinga e Jena, ed ha esaminato il DNA di 82 individui vissuti in Italia dall'800 a.C. al 1.000 d.C., in dodici siti tra Toscana e Alto Lazio. Risultato: gli Etruschi condividono il profilo genetico dei Latini della vicina Roma. Resta intatto invece il mistero sull'origine della loro lingua non indoeuropea.
Ma intanto altre tribù nomadi lasciavano l'altopiano arabico, ormai completamente desertificatosi, e dilagarono in Mesopotamia e nel Vicino Oriente: erano questi i popoli del ceppo semitico, dal nome di Sem, leggendario figlio di Noè che avrebbe originato la stirpe ebraica, meno numerosi degli Indoeuropei ma comunque destinati ad incidere fortemente sulla storia culturale, politica e religiosa del mondo, fino al presente. I primi Semiti ad avere successo furono gli Accadi di Sargon, già nominato subito sopra, ma coloro che più a lungo affermarono il loro dominio furono gli Amorrei (da Amurru, nome con cui li designavano i Sumeri), i quali occuparono la Mesopotamia centrosettentrionale e vi eressero la loro capitale, Babilonia (divenuta nella Bibbia l'ipostasi della superbia umana attraverso la leggenda della Torre di Babele). Semiti erano anche gli Hyksos (dall'egiziano Hekau-khesut, « re dei paesi stranieri »), che invasero l'Egitto dominandolo per oltre due secoli; gli Assiri che succederanno ai Babilonesi nel controllo della Mezzaluna Fertile; i Fenici che per primi inventarono e diffusero nel mondo l'alfabeto, spinti da ragioni di praticità commerciale; ed ovviamente gli Ebrei, il cui capostipite Abramo con il suo clan lasciò le civiltà dell'area mesopotamica verso il 1900 a.C. (22.59.32,63) e si trasferì in Palestina, dando vita al primo monoteismo della storia, che poi avrebbe originato ebraismo, cristianesimo ed islamismo.
All'inizio dell'Età del Bronzo si colloca anche la cultura di Jamna o "cultura della tomba a fossa", nella regione del Dnestr (la steppa pontica), una civiltà prevalentemente nomade, con l'agricoltura praticata in alcune zone vicino ai fiumi, secondo alcuni da identificare con la prima cultura indoeuropea della storia. Peculiari della cultura sono le inumazioni nei kurgan (in turco "tumuli"), tombe a fossa con il corpo del morto in posizione supina e ricoperto di colore ocra. Intanto in Cina nell'Età del Bronzo regnò la prima dinastia storica, la dinastia Shang. Il re vi esercitava soprattutto funzioni a carattere religioso, mentre il popolo si dedicava alla coltivazione del riso, alla caccia ed alla guerra. La primitiva lingua cinese trovò espressione in una scrittura ideografica derivata da pittogrammi primitivi, mentre l'artigianato produsse squisite manifestazioni artistiche, ed in particolare vasi policromi di straordinaria bellezza. Nell'America centrale la prima civiltà del bronzo a svilupparsi fu invece quella degli Olmechi, caratterizzata da città con templi in muratura, da un calendario e da un sistema di numerazione efficiente; sicuramente Aztechi e Maya sono culturalmente tributari degli Olmechi.
Per venire a regioni più vicine a noi, le migrazioni dei popoli Indoeuropei nell'Europa meridionale provocarono la conquista da parte degli Achei della Grecia e di Creta, la cui civiltà venne letteralmente annientata dallo tsunami seguito all'esplosione del vulcano sull'isola di Santorini attorno al 1500 a.C. Ne seguì la fondazione in Grecia di tutta una serie di città-stato, le stesse che verso il 1280 a.C. assediarono e distrussero Troia, come cantano l'"Iliade" e nell'"Odissea", i primi poemi del mondo occidentale. La città-stato dominante era Micene, la leggendaria capitale di Agamennone. In tal modo all'influsso cretese sull'Europa si sostituì quello miceneo, il quale interessò l'intera penisola balcanica, e da qui la Germania e le isole britanniche. Le fiorenti culture danubiane dell'età del Bronzo ne furono fortemente influenzate (i grandi giacimenti di stagno e rame necessari per la produzione del bronzo si trovavano proprio nei Balcani, a Varna e a Vinca); i manufatti dell'importante cultura di Unetice (oggi nella Repubblica Ceca) sono stati trovati addirittura in Scandinavia! Certamente questo rigoglio culturale e tecnologico si estese fino all'area alpina ed appenninica; e così in Italia durante quest'epoca si distinguono diverse culture:
a) Cultura delle Terramare (metà del II millennio a.C.), caratterizzata da insediamenti nella pianura padana di dimensioni comprese tra 1 a 20 ettari, munite di fortificazioni artificiali, in genere costituite da alti terrapieni, palizzate lignee, fossati pieni d'acqua. Le tipiche capanne, di dimensioni variabili tra i 40 e gli 80 metri quadrati, erano spesso costruite su piattaforme sostenute da pali, simili a quelle delle palafitte, ma collocate sulla terraferma; erano inoltre disposte secondo un impianto stradale a forma di reticolo, che permetteva uno sfruttamento razionale dello spazio ed includeva anche la presenza di silos, pozzi e altre infrastrutture: si parla per questo di "protourbanesimo".. I rifiuti venivano gettati sotto le piattaforme, su letamai dove si trasformavano in concime; quei depositi organici sono stati sfruttati in tempi abbastanza recenti dai contadini padani, che chiamarono quelle zone "terre-marne", cioè terre nerastre e grasse, da cui il nome di Terremare. La società di quell'epoca era decisamente moderna, essendo caratterizzata da differenziazioni sociali e un certo grado di specializzazione del lavoro con capi e guerrieri, artigiani, contadini e pastori. Veniva inoltre praticata un'agricoltura già piuttosto evoluta: era noto l'aratro trainato dai buoi, venivano coltivati frumento, farro, orzo e leguminose. Bovini, maiali e pecore erano allevati in grande quantità, mentre i cavalli venivano utilizzati per il trasporto o la guerra. Queste attività permettevano un buon livello di vita, tanto che nelle Terramare poterono svilupparsi forme di artigianato specializzato, come la metallurgia, che ci hanno lasciato prodotti artigianali di altissimo livello: vasi ceramici decorati, ornamenti e utensili in osso e in corno di cervo, strumenti per filare e tessere, armi e materiali in bronzo, oggetti d'oro provenienti dagli scavi effettuati ci descrivono questo popolo come già altamente civilizzato.
b) Cultura Appenninica (1600 - 1300 a.C.) con economia agricolo-pastorale, ma soprattutto pastorale per via del clima umido e freddo che favoriva la vegetazione. Negli abitati sono stati rinvenuti scrematoi, fornelli per la bollitura del latte, bollitori, tutti in ceramica. Le popolazioni vivevano in villaggi in pianura, ma praticavano anche la transumanza con spostamenti stagionali. La ceramica eraè nera decorata con incisioni a fasce meandriformi, a spirale, a cerchi a rombi, riempiti con puntini.
c) Con i Sub-Appenninici (1300 - 1150 a.C.) si ritornò ad un economia agricola dovuta al clima più mite. Vi fu un forte aumento demografico, per cui numerosi sono gli insediamenti rinvenuti. Nella ceramica scomparvero le decorazioni; caratteristiche erano le anse verticali dei vasi, con appendici laterali o ad ascia. Appartiene a questa famiglia la cosiddetta "cultura di Rinaldone" nell'area tosco-laziale.
d) La fase finale dell'età del Bronzo in Italia vide il fiorire della cultura Villanoviana (1150 - 900 a.C.), da Villanova di Castenaso, in provincia di Bologna, dove nel 1853 sono stati effettuati i primi ritrovamenti archeologici grazie al lavoro di Giovanni Gozzadini (1810-1887); essa si sviluppò in tutta l'Italia a partire da quella delle Terramare, ma il villaggio villanoviano era diverso rispetto a quelli della prima età del bronzo. Gli abitati si fecero più sparsi, privi di strutture imponenti, senza fossati, senza argini, senza palizzate, e costituiti da agglomerati di piccole capanne rotonde o ovoidali con il tetto conico di paglia o a spioventi Emerse una classe gentilizia proprietaria di mandrie e greggi, mentre la maggior parte della popolazione era dedita all'agricoltura: gli antenati, insomma, dei Patrizi e dei Plebei di Roma. La necropoli, periferica rispetto all'abitato, era costituita da tombe singole, quasi sempre a cremazione; infatti la civiltà dei villanoviani fu caratterizzata dal rito dell'incinerazione in vasi biconici, posti in buche e ricoperti da lastre di pietra. Si tratta quindi della propaggine italiana della "cuiltura a campi di urne", irradiatasi verso sud a partire dal medio Danubio.
Lo stufato dell'Età del Bronzo
« La colpa forse è del lockdown, ma comunque sia, per qualche motivo, ho deciso di cucinare il mio primo pasto babilonese, traendo le ricette da una tavoletta in caratteri cuneiformi. Risalgono al 1750 a.C. e sono le più antiche attualmente esistenti. Alla fine è stato il miglior pasto mesopotamico che abbia mai mangiato. » Questo è il tweet di Bill Sutherland, professore di biologia dell'Università di Cambridge, che durante il lockdown dovuto alla pandemia da Covid-19 nella primavera 2020 ha avuto l'idea di condividere sui social questa sua piccola avventura culinaria dal sapore storico. Risultato: oltre 20.000 retweet e 62.000 like, numeri che hanno creato un vero e proprio caso mediatico, portando la notizia curiosa in tutto il Web. Intervistato da alcune testate online, Sutherland si è dichiarato incredulo del fatto che quasi 4 milioni di persone avessero visualizzato su varie piattaforme la sua storia di quarantena. Una storia nata con tanto tempo a disposizione, come lo hanno avuto molti di noi, e un libro. Quello di Moudhy Al-Rashid, vera esperta di cultura mesopotamica dell'Università di Oxford, dedicato all'antica cucina della terra dei due fiumi. Nonostante la stranezza e la particolarità delle ricette in questione, Sutherland ha pensato che sarebbe stato divertente provare a cucinarle, e non c'è voluto neanche molto tempo: circa un'ora di pianificazione e un paio d'ore di cottura, come un pranzo tradizionale di più portate.
Il pranzo mesopotamico, la cui ricetta era scritta in lingua accadica, era costituito da una pagnotta, due stufati, uno sformato di cipolle ante litteram e un brodo che ancora oggi, con delle modifiche, è preparato dai popoli di quelle zone. Ricetta per ricetta, le ha raccontate in tutti i suoi vari tweet, tra perplessità e aggiustamenti. Le ricette sono particolarmente concise e ristrette nella spiegazione, e questo lo ha costretto a ricorrere a piccoli escamotage di fantasia. Nel caso dello spezzatino di agnello, ha ritenuto per esempio di non dover soffriggere aglio e porro, perché nella ricetta non era specificato, e li ha usati come semplice guarnizione, mentre per il brodo degli Elamiti ha sostituito un ingrediente: il sangue di agnello, per ovvie ragioni, è stato sostituito con una più moderna e sostenibile salsa di pomodoro. Porro, cipolle, aglio e coriandolo sono gli ingredienti che più di tutti risaltano dallo studio di questo piccolo e strambo menu, e tornano anche in uno sformato assolutamente attuale: porro e cipolle con pangrattato. Nient'altro che un antenato del nostro moderno gratin, insomma. « Questi piatti non vi sembrerebbero così strani, se vi venissero serviti al ristorante », ha dichiarato Sutherland, e ha ragione se si pensa all'aspetto del Tu'hu, il piatto finale del pasto, ovvero uno spezzatino con rucola, coriandolo, cipolla, birra e barbabietola per un risultato esteticamente non molto dissimile da alcuni piatti della cucina nordica che siamo abituati a vedere nei ristoranti contemporanei!
Pestilenze dell'Età del Bronzo
Ma c'è di più. A quanto pare, l'infezione da Yersinia pestis, il batterio responsabile della peste, iniziò a colpire l'umanità almeno 3000 anni prima di quanto ricostruito in base alle documentazioni storiche. È quanto emerge dal sequenziamento del DNA ottenuto da campioni di denti risalenti all'età del Bronzo e appartenuti a individui europei e asiatici vissuti tra 5000 e 2800 anni fa (tra le 23.59.25 e le 23.59.40), come accertato da Eske Willerslev dell'Università di Copenhagen e colleghi. Tuttavia, per sviluppare i suoi terribili effetti patogeni, il batterio ha impiegato altri mille anni, quando due mutazioni chiave gli hanno permesso di usare le pulci dei ratti come vettori e di eludere l'attacco del sistema immunitario dell'ospite.
Com'è ben noto, la storia dell'umanità è stata caratterizzata da numerose epidemie letali, chiamate genericamente pestilenze, di cui sono rimaste tracce nelle testimonianze storiche. Basti citare la Peste di Atene del 430 a.C. in cui morì Pericle; la Peste Antonina che decimò le legioni romane tra il 165 e il 180 d.C.; la Peste di Giustiniano, che si diffuse nell'Impero Bizantino nel VI secolo; la Morte Nera, che uccise un terzo della popolazione europea tra il 1347 e il 1353; e la Peste del Manzoni, che nel 1630 colpì Milano con effetti apocalittici, descritti efficacemente nei "Promessi Sposi". I risultati di alcuni studi hanno però suggerito che le epidemie fossero comuni già molti secoli prima: i profili genomici delle popolazioni dell'età del Bronzo hanno un'elevata variabilità, indice probabilmente di migrazioni su larga scala, responsabili in gran parte dell'attuale struttura demografica europea e asiatica. Una delle possibilità, secondo gli studiosi, è che queste migrazioni siano state provocate da epidemie di grandi dimensioni.
Per verificare questa ipotesi, Willerslev e colleghi hanno analizzato 89 milioni di sequenze di DNA grezze, ottenute da 101 individui dell'età del Bronzo, i cui resti sono stati scoperti in Europa e in Asia. In sette di questi individui, risalenti a un'epoca compresa tra il 2794 a.C. e il 951 a.C. (tra le 23.59.26 e le 23.59.39), è stato trovato il DNA di Yersinia Pestis. Inoltre si è scoperto che il più recente antenato comune a tutti i ceppi noti del batterio risale a 5783 anni fa (ore 23.59.19). Willerslev ha scoperto che i genomi dell'età del Bronzo mancavano di un gene, chiamato YMT (Yersinia Murine Toxin), che protegge il patogeno all'interno dell'intestino delle pulci, i vettori della peste, permettendone la successiva propagazione nell'organismo umano. Lo stesso gene era però presente nei soggetti risalenti all'età del Ferro, corrispondente all'incirca al primo millennio a.C., indicando che la trasmissione mediata dalle pulci si sviluppò tra 3700 e 3000 anni fa (tra le 23.59.34 e le 23.59.39). L'altro tratto cruciale per la patogenicità della peste è emerso sempre nell'età del Ferro, grazie a una mutazione che ha impedito la sintesi della proteina flagellina, che viene riconosciuta dal sistema immunitario dell'ospite.
Il collasso dell'Età del Bronzo
Più o meno improvvisamente, intorno al 1200 a.C. (ore 23.59.37), accadde una vera e propria catastrofe, oggi nota come « collasso dell'Età del Bronzo ». L'intero mondo dell'Età del Bronzo crollò: l'impero ittita, l'Egitto dei faraoni, la civiltà micenea in Grecia, il regno di Cipro, celebre per la produzione del rame, la grande città-mercato di Ugarit sulla costa siriana, le città-stato cananee scomparvero, e solo dopo qualche tempo furono rimpiazzate dai regni dell'Età del Ferro. Il mistero fa discutere gli storici da decenni: si è pensato a guerre, pestilenze, disastri naturali improvvisi. Tra le varie ipotesi va citata quella di Israel Finkelstein, archeologo dell'Università di Tel Aviv: studiando particelle di polline estratte dai sedimenti depositati sul fondo del lago di Tiberiade nel corso degli ultimi 9.000 anni, ed estratti grazie a carotaggi fino a 18 metri di profondità, lo studioso israeliano ha proposto che a mettere in crisi le civiltà dell'Eneolitico fu anzi una serie di gravi periodi di siccità succedutisi nell'arco di 150 anni, tra il 1250 e il 1100 a.C. circa. Studiando campioni di polline prelevati da strati di sedimenti depositati a intervalli di un quarantina d'anni, gli scienziati sono riusciti a ricostruire i cambiamenti avvenuti nella vegetazione. « I granelli di polline sono le impronte digitali delle piante », ha spiegato Dafna Langgut, palinologa (ossia studiosa di antichi pollini) della stessa università. « Sono utilissimi per ricostruire le condizioni della vegetazione e del clima nell'antichità ». Intorno al 1250 a.C. la Langgut e i suoi colleghi hanno notato un netto calo della presenza di querce, pini e carrubi, la tradizionale flora del Mediterraneo durante l'Età del Bronzo, e un aumento delle piante che si trovano di solito in regioni semiaride. Si nota anche una notevole diminuzione degli ulivi, segno di una crisi dell'agricoltura. Tutto insomma fa pensare che la regione fosse afflitta da siccità gravi e prolungate. Gli anni fondamentali per il crollo furono probabilmente quelli tra il 1185 e il 1130 a.C., ma si trattò di un processo che avvenne su un arco di tempo abbastanza lungo. « Secondo me il cambiamento climatico può essere considerato una sorta di scintilla che diede il via a una serie di eventi a catena », ha commentato Finkelstein. « Ad esempio, il crollo dei raccolti costrinse alcuni gruppi che abitavano nelle regioni settentrionali a migrare in cerca di cibo, scacciando altre comunità che a loro volta si spostarono per terra e per mare. Questa reazione a catena suscitò guerre e distruzioni e mise in crisi il delicato sistema commerciale del Mediterraneo orientale ». La crisi finì solo con il ritorno delle piogge, quando le comunità costrette al nomadismo dalla fame poterono tornare stanziali.
Le conclusioni raggiunte da Finkelstein e Langgut sembrano coincidere con i pochi resoconti storici del periodo, che narrano appunto di carestie, interruzioni delle rotte commerciali, tumulti, saccheggi e guerre per impadronirsi delle scarse risorse. La tarda Età del Bronzo fu anche il periodo in cui l'Egitto fu invaso dagli enigmatici "Popoli del mare", chiamati dagli egizi Haunebu ("dietro le isole"). Di questi popoli misteriosissimi parla l'iscrizione del faraone Ramesse III a Medinet Habu, che elenca fra di essi gli Shardana, i Lukka, gli Eqwesh o Akawasa, i Danuna o Denyen, i Teresh o Tursha, i Tjeker e gli Šekleš. Il motivo per cui si misero in moto tutti assieme più o meno nella stessa epoca è oggi oggetto di controversie tra gli studiosi; noi abbiamo citato un'ipotesi (invero molto "geologica") in proposito parlando degli tsunami. Secondo gli studiosi moderni, gli Shardana sarebbero gli abitanti della Sardegna, che da essi ha preso il nome, nonché fondatori della civiltà nuragica; i Lukka sarebbero gli abitanti della Licia, nell'Anatolia meridionale (Questo nome è giunto fino a "Quo vadis?"); gli Eqwesh o Akawasa sarebbero identificabili con gli Ahhiyawa degli archivi ittiti, ossia con gli Achei, alias i Micenei; i Danuna o Denyen sarebbero i Danai di Omero; i Teresh o Tursha sarebbero gli antenati dei Tirreni, cioè degli Etruschi, cui Erodoto attribuiva un'origine anatolica; i Tjeker sarebbero i Tocari; gli Šekleš sarebbero infine i Siculi. Alcune tribù dei Popoli del Mare, note come i Peleset, si insediarono in Palestina, dando vita al popolo dei Filistei, irriducibile nemico degli Ebrei.
L'Età del Ferro
Il passaggio all'età del ferro varia nelle diverse zone d'Europa: in alcune regioni si data all'XI sec. a.C., ed in Italia intorno al IX; l'uso del ferro però risulta pienamente diffuso solo a partire dal VII sec. a.C. (siamo ormai negli ultimi 40 secondi dell'Anno della Terra). L'età del Ferro vede l'arrivo in Europa meridionale ed in Italia degli Indoeuropei, popoli provenienti in origine dalla regione del Caucaso che si trasferirono prima nelle zone steppose della pianura tra il Volga ed il Danubio, e poi dilagarono in tutto il nostro continente. La penisola fu occupata da Italici, Illiri e Veneti (parenti alla lontana degli Slavi, i cui antenati erano chiamati appunto Venedi o Vendi), mentre al di là delle Alpi dilagarono i Celti (fino al II secolo d.C. i Germani rimasero confinati nell'area danese e scandinava).
L'età del Ferro in Europa è chiamata anche età di Hallstatt, dal nome della città del Salzkammergut presso cui fu rinvenuta una notevole necropoli. Premessa del suo sorgere fu la scoperta di grandi giacimenti di ferro e la conquista delle tecniche necessarie per ottenere le alte temperature alle quali il ferro fonde. Questa cultura si diffuse dalla valle danubiana nella fascia alpina, e culminò con la costituzione della civiltà etrusca, di origine sicuramente non indoeuropea. Sua caratteristica fondamentale furono le cosiddette "spade di Hallstatt" e le fibbie ritrovate in molte tombe. In Sardegna fiorì la civiltà nuragica, ruotante intorno a costruzioni megalitiche di forma troncoconica, forse fortezze o luoghi di culto fortificati, che secondo alcuni furono distrutti dallo tsunami prodotto dall'eruzione di un vulcano sommerso nel Tirreno (il mito di Atlantide che ritorna). In Italia settentrionale le culture dell'età del ferro si organizzarono ad est intorno al polo della cultura atesina (i Veneti) e ad ovest intorno alla cultura di Golasecca (i Celti), dal nome della località in provincia di Varese in cui furono trovati i principali reperti. Estesa all'incirca alla Lombardia occidentale fino al fiume Oglio, al Canton Ticino e al cantone dei Grigioni, fu scoperta dall'abate Giovanni Battista Giani (1788-1857), che nel 1824 individuò nel territorio del comune di Golasecca un gran numero di tombe molto antiche contenenti urne cinerarie ovoidali (una caratteristica di questa cultura) unitamente a corredi di ceramica e di metallo. Tuttavia l'uomo di Chiesa incorse in una solenne cantonata, attribuendo i reperti ritrovati ai resti della battaglia avvenuta presso il Ticino fra i Romani ed i Cartaginesi durante la seconda guerra punica, perchè a suo dire i Romani avrebbero adoperato dei vasi di produzione locale per seppellire le ceneri dei loro soldati caduti nello scontro. Nel 1865, invece, l'archeologo Gabriel de Mortillet (1821-1898) ridatò le tombe descritte dall'abate Giani alla prima età del Ferro, vista la totale assenza di manufatti del tipo usato dai Romani. Oggi sappiamo che la cultura di Golasecca è l'espressione delle primissime popolazioni celtiche, gli Insubri, che dal IX al V secolo a.C. si stabilirono in una vasta area compresa tra i fiumi Serio e Sesia, e tra lo spartiacque alpino ed il Po; essa è testimoniata anche nel territorio del comune di chi scrive.
Tra l'altro, nell'ottobre 2015 una importante ricerca ha dimostrato che 3000 anni fa (ore 23.59.39), verso l'inizio dell'Età del Ferro in Europa, un imponente flusso immigratorio di popolazioni euroasiatiche si riversò nel Corno d'Africa, tanto che oggi il 25 % delle popolazioni dell'Africa orientale ha antenati eurasiatici. Già si sospettava una migrazione di questo genere in quell'epoca, grazie ad alcune testimonianze archeologiche, però oggi sappiamo che quell'ondata migratoria fu decisamente più imponente di quanto si pensava. Ma non solo: il flusso genico raggiunse tutti gli angoli del continente, e si può stimare che in tutte le popolazioni africane odierne almeno il 5 % del genoma sia riconducibile a quella migrazione eurasiatica. Si è riusciti a stabilirlo grazie al ritrovamento in una grotta dell'altopiano etiopico meridionale, la Mota Cave, dei resti fossili di un maschio adulto vissuto circa 4500 anni fa, conservati abbastanza bene da poterne estrarre e sequenziare completamente il DNA: un evento eccezionale perché, a causa del clima, in genere i resti fossili degli antichi abitanti dell'Africa sono troppo degradati per eseguire analisi così complete. I ricercatori hanno scoperto che nel DNA di quell'uomo non vi era alcuna traccia dei marcatori genetici tipici delle popolazioni eurasiatiche, e questo ha permesso di definire com'era l'originario patrimonio genetico delle popolazioni dell'Africa orientale prima che, circa 3000 anni fa, nel Corno d'Africa immigrassero delle popolazioni euroasiatiche. Queste popolazioni eurasiatiche erano dello stesso ceppo di quelle che, 4000 anni prima, avevano alimentato l'espansione neolitica dal Vicino Oriente verso l'Europa, dove avevano portato l'agricoltura. La causa di questa immigrazione di tribù eurasiatiche in Africa è ancora ignota, ma si ipotizza che sia stata legata a fattori climatici. Dati archeologici la collegano inoltre con l'arrivo in Africa orientale di colture già affermate nel Vicino Oriente come grano e orzo, suggerendo che i migranti abbiano contribuito a sviluppare nuove forme di agricoltura nella regione. I ricercatori hanno poi cercato di individuare le popolazioni odierne più imparentate con quegli antichi migranti euroasiatici, scoprendo che, mentre il patrimonio genetico degli abitanti del Vicino Oriente ha subito drastici cambiamenti nel corso degli ultimi mille anni, in Europa una popolazione è rimasta abbastanza isolata da avere un genoma ancora molto simile a quello di quei migranti di 3000 anni fa: sorprendentemente si tratta dei già citati Sardi, per i quali l'isolamento dell'isola ha funzionato un po' come una capsula del tempo!
Intanto, nel IX secolo a.C. si formarono in Etruria i primi centri urbani (Tarquinia, Cerveteri, Veio ecc.), mentre le prime città del sud furono le colonie greche della Sicilia Meridionale fondate circa alla metà dell'VIII sec. a.C. La data tradizionale della fondazione di Roma è il 21 aprile 753 a.C. (ore 23.59.40,59), ma in realtà la città è molto più antica: probabilmente era un centro nevralgico per il commercio del sale fra Adriatico e Tirreno (la famosa Via Salaria) fin dalla tarda Età del Bronzo, in seguito occupato dagli Etruschi in espansione verso sud. Questo mito è adombrato nella successione dei celebri Sette Re: ai primi quattro re italici (i cosiddetti Re Pastori) segue una dinastia di tre re etruschi forse provenienti dalla città di Tarquinia (i Tarquinii, in etrusco Tarcna, detti i Re Mercanti). In Italia settentrionale e nelle zone a nord e a est delle Alpi gli agglomerati erano costituiti da migliaia di individui, ma non vi furono vere e proprie città prima della romanizzazione. Un processo protourbano si sviluppò nella pianura padana tra il VI e il V sec. a.C. con l'arrivo in massa dei Celti che soppiantarono i Liguri, probabilmente preindoeuropei, e con la fondazione di Milano ("in mezzo alla pianura"). Nell'Europa Centrale lo sviluppo protourbano si era invece già avuto tra il III e II sec. a.C. con gli oppida celtici. La prima data certa della storia dell'umanità è il 28 maggio del 585 a.C. (ore 23.59.41,77), giorno in cui si combatté una battaglia sul fiume Halys (Anatolia) tra gli eserciti di Ciassare, re dei Medi, e del re di Lidia Aliatte; conosciamo questa data con tanta precisione perchè lo scontro venne interrotto da un'eclisse di Sole prevista dal filosofo Talete da Mileto, che terrorizzò i soldati di entrambi gli schieramenti. Ma oramai iniziava la storia anche per i popoli italici con la costituzione della Repubblica Romana nel 509 a.C. (23.59.42,38), la quale intraprese la conquista della penisola e poi l'unificazione del bacino del Mediterraneo e di tutte le civiltà monumentali sorte intorno ad esso; da questo evento prese le mosse praticamente tutta la moderna civiltà occidentale.
Citiamo a questo punto la scoperta del più antico uso non alimentare della Cannabis, che risalirebbe a 2500 anni fa (23.59.42,48). Lo testimonia la scoperta di un braciere risalente a cinque secoli prima di Cristo, ritrovato nel cimitero di Jirzankal sul Pamir, in Asia centrale. Gli scavi archeologici, condotti da Nicole Boivin del Max-Planck-Institut per la storia dell'umanità a Jena, in Germania, e colleghi dell'Accademia delle Scienze Cinese a Pechino, indicano che il braciere veniva utilizzato per bruciare la pianta nelle cerimonie funerarie e sfruttare le sue proprietà psicoattive. Non si tratta della testimonianza più antica di uso della Cannabis: esistono infatti prove della sua coltivazione in Asia Minore già nel 4000 a.C. (ore 23.59.32) Ma in quel caso la coltivazione serviva a ricavare semi oleosi a scopo alimentare, mentre nel caso del braciere di Jirzankal le analisi fanno pensare che fossero selezionate le piante con i livelli più alti di tetraidrocannabinolo (THC), la principale sostanza attiva della pianta. L'ipotesi è che fosse bruciata per inalarne il fumo e alterare il proprio stato di coscienza durante i riti funebri, così da "cadere in trance" e comunicare con le divinità o con i trapassati. Non è chiaro se la Cannabis fosse usata anche per altri scopi, ma a questo punto è probabile che gli abitanti se ne servissero anche a scopo terapeutico. Secondo Yimin Yang, coautore dello studio, è probabile che l'uso del fumo di Cannabis facesse parte delle conoscenze culturali che venivano scambiate lungo la famosa Via della Seta. Le prime varietà con il più alto contenuto di THC potrebbero essere state selezionate naturalmente dall'alta quota (il Pamir si erge tra i 3000 e 4000 metri di altitudine), e da lì si sarebbero poi diffuse nel resto del mondo.
La colonizzazione del Pacifico
Prima Samoa, poi le Isole Cook nel IX secolo, quindi le Isole della Società e le Tuamotu. Infine, entro la metà del XIV secolo, le Isole Marchesi e l'Isola di Pasqua. Sono queste le tappe della colonizzazione della Polinesia, secondo uno studio del 2021 di Alexander Ioannidis, della Stanford University, che fornisce finalmente una soluzione all'annoso problema dell'insediamento umano sulle isole dell'Oceano Pacifico Orientale. Tale studio è innovativo per due ragioni. La prima è che, invece di studiare il DNA estratto da antichi reperti umani, come già fatto in passato, Ioannidis ha utilizzato i genomi di popolazioni moderne, ottenuti da campioni di 430 soggetti viventi. La seconda ragione è che ha usato una tecnica statistica nota come indice di direzionalità, applicata per la prima volta alla ricostruzione della lunga storia delle migrazioni umane, ottenendo così una "freccia temporale" che collega ciascuna popolazione delle isole alla precedente. Il suo metodo ha permesso anche di stimare le date di separazione tra le popolazioni grazie all'identificazione dei segmenti di DNA condivisi da individui di isole diverse, ereditati quindi da un antenato comune. Questo gli ha permesso di calcolare il numero di generazioni passate dalla separazione tra gli antenati comuni.
Complessivamente, guardando al flusso di geni nell'arco dei secoli, emerge una successione di eventi genetici nota come "effetto del fondatore": ogni popolazione di un'isola o di un arcipelago ha un patrimonio genetico che discende solo dai suoi colonizzatori, non della popolazione originaria da cui erano partiti. Questi dati confermano le ricostruzioni storiche e le tradizioni orali polinesiane, le quali raccontano che gruppi familiari di 100 o 200 individui prendevano il largo su canoe a doppio scafo, percorrendo migliaia di chilometri di oceano aperto fino a quando incontravano nuove isole da colonizzare. Il risultato conferma inoltre l'ipotesi secondo cui le poche isole che ospitano resti di monumenti megalitici sono geneticamente collegate, nonostante le migliaia di chilometri che le separano. Resta ora da capire se la cronologia proposta da Ioannidis sia in accordo o meno con quella ricavata dalle datazioni dei reperti archeologici e da studi linguistici. La risposta è positiva per quanto riguarda i siti studiati nelle isole Cook, nelle isole della Società e nelle isole Marchesi, che furono tutti colonizzati tra il 900 e il 1100. Gli insediamenti in tutta la Polinesia orientale, le Hawaii e la Nuova Zelanda, inoltre, sarebbero avvenuti non più tardi del 1250. Una discrepanza riguarda invece la colonizzazione delle isole Marchesi Settentrionali, che Ioannidis data intorno al 1330, cioè due secoli dopo quella delle isole Marchesi Meridionali, mentre la datazione al radiocarbonio di reperti dell'isola di Ua Huka, nelle Marchesi Settentrionali, indica una colonizzazione avvenuta tra il 900 e l'anno mille. Sul piano degli studi linguistici poi, se il modello genetico dello studio implica che la colonizzazione delle varie isole procedette in una serie di eventi discreti senza un successivo contatto e flusso genico tra le popolazioni di ciascuna isola dopo il primo insediamento, l'analisi dei dialetti della Polinesia Orientale mostra la loro stretta correlazione, suggerendo un contatto abbastanza continuativo tra isole durante il periodo di queste migrazioni. Trovare una coerenza nelle apparenti discordanze tra genetica, linguistica e archeologia sarà il prossimo passo multidisciplinare da compiere.
Armi, acciaio e malattie
Perchè la Nuova Guinea, nonostante sia abitata dall'uomo da 60.000 anni e vi si parlino almeno 800 lingue diverse, è stata conquistata dagli europei nel giro di due secoli? Perchè è stato un marinaio genovese a "scoprire" il Nuovo Mondo, e un capitano spagnolo con 168 soldati si è impadronito dell'impero Inca, difeso da un esercito di 80 000 uomini? Perché non è stato invece un principe Inca a sbarcare a Cadice e a catturare il re di Spagna? A dare una possibile risposta a queste fondamentali è stato il biologo statunitense Jared Diamond (1937-), che ha soggiornato a lungo proprio in Nuova Guinea per studiarne gli uccelli, nel suo saggio "Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila anni", pubblicato nel 1997 ma ancora attualissimo. Questo volume, vincitore del Premio Pulitzer per la saggistica nel 1998, è diventato una pietra miliare della ricerca storica, fondamentale per capire perchè gli europei hanno conquistato quasi tutto il mondo negli ultimi cinque secoli, e non è successo il contrario. Vale la pena qui di riassumere alcune delle sue argomentazioni.
Abbiamo visto che circa 70.000 anni fa (alle ore 23.51.49), gli uomini anatomicamente moderni si diffusero su tutto il pianeta, raggiungendo Nuova Guinea e Australia almeno 60.000 anni fa (alle 23.52.59), l'Europa 40.000 anni fa (alle 23.55.19) e le Americhe circa 15.000 anni fa (alle 23.58.15). Durante questa espansione gli uomini sterminarono tutta la megafauna della preistoria: il mammut in Eurasia e nelle Americhe; elefanti, cavalli, cammelli e bradipi giganti in America; i marsupiali giganti e gli uccelli giganti non volatori in Australia; gli uccelli Moa in Nuova Zelanda. Queste estinzioni di massa fecero sì che da interi continenti scomparissero quasi tutte le specie di mammiferi che si sarebbero potute addomesticare e allevare in epoca successiva, quando se ne sarebbe presentata la necessità. A partire dalla fine del Pleistocene, agricoltura e allevamento si svilupparono indipendentemente in piú parti del mondo; 11.500 anni fa (alle 23.58.39) in Medio Oriente, 9.500 anni fa (alle 23.58.53) in Cina, 9.000 anni fa (alle 23.58.57) in Nuova Guinea, 7.000 anni fa (alle 23.59.10) in Africa Nera, 5.500 anni fa (alle 23.59.21) in Mesoamerica e nelle Ande, 4.500 anni fa (alle 23.59.28) nelle regioni atlantiche degli attuali Stati Uniti, e in Etiopia in data incerta. Inizialmente la coltivazione rappresentava un'alternativa a caccia e raccolta, utile a integrare la dieta, ma in breve tempo si rivelò cosí vantaggiosa da soppiantarle. Numerosi fattori giocarono a favore della coltivazione dei campi: la diminuzione degli animali selvatici decimati dalla caccia (come le gazzelle in Medio Oriente); la nuova abbondanza, invece, di cereali selvatici, a seguito di mutamenti nel clima; lo sviluppo di tecnologie di raccolta e conservazione (lame di ossidiana, cesti, mortai, metodi di immagazzinamento). Un ettaro di terreno coltivato nutriva da 10 a 100 volte piú contadini che cacciatori/raccoglitori se incolto, e l'aumento di popolazione determinato dalla maggiore disponibilità di alimenti rese irreversibile la scelta agricola.
C'era però un problema: le piante in natura erano state plasmate dall'evoluzione per riuscire a sopravvivere e riprodursi, non per essere cibo per l'uomo. Il chicco di grano era protetto da una scorza robusta; i piselli, quando erano maturi, esplodevano lanciando i semi tutt'intorno. Fu necessario selezionare pazientemente le mutazioni occasionali, le piante di piselli con baccelli che non esplodevano e le graminacee con chicchi rivestiti di scorza sottile, che in natura non avrebbero avuto speranza di riprodursi, e continuare a modificarli per renderli sempre piú adatti alle esigenze umane. Fu così che, nell'arco di ben settemila anni, la pannocchia di mais passò dalla lunghezza di pochi centimetri alle dimensioni attuali. Le piante coltivate fornivano anche tessuti, coperte, funi e reti, mentre gli animali domestici fornivano carne, latte, tessuti (lana e seta), fertilizzante per i campi, tiravano gli aratri e facevano girare le macine dei mulini. Furono gli unici mezzi di trasporto per via di terra disponibili fino all'invenzione del treno. Il cavallo fu anche trasformato in un formidabile animale da combattimento, e i cani oltre che animali da compagnia divennero fondamentali per la caccia. Secondo Diamond tre fattori hanno dato un forte vantaggio iniziale a quella regione del mondo che va dall'Europa e dal Nordafrica al Medio Oriente ed alla Valle dell'Indo: la produzione di cibo vi è nata con notevole anticipo rispetto al resto del mondo; è stata la terra di origine della stragrande maggioranza di piante coltivabili e degli animali che si prestano a essere allevati, dai cereali ai bovini; è distribuita su una fascia di uguale latitudine, per cui gli agricoltori hanno potuto diffondersi portando con sé piante e animali già adattati a quel clima, e insieme ad essi ogni loro invenzione. Questo ha consentito uno straordinario aumento di popolazione e uno sviluppo tecnologico senza uguali in altre parti del mondo, fatta eccezione per la Cina, perché la tecnologia si sviluppa piú rapidamente in vaste regioni agricole con grandi popolazioni umane, numerosi inventori potenziali e molte società in competizione. Non c'è animale che l'uomo non abbia provato ad addomesticare, né pianta che non abbia provato a coltivare; ma quasi tutti i cereali più nutrienti si trovavano concentrati nella famosa Mezzaluna Fertile, e gli animali da allevare erano scarsi o assenti in altre parti del mondo. Da questo punto di vista il confronto con gli altri continenti è stridente. La savana africana è ricca di grandi mammiferi, ma nessuno di loro è mai stato addomesticato, semplicemente perché non si lasciano addomesticare: molti cavalli hanno un carattere intrattabile, ma tutte le zebre lo hanno, e nessuno è mai riuscito ad addomesticarle. I ghepardi erano cattturati da cuccioli e domati, ma mai addomesticati, perchè il ghepardo maschio durante i suoi rituali di accoppiamento insegue la femmina per giorni, e in cattività semplicemente non si accoppia. Sugli altipiani della Nuova Guinea si sono coltivate piante locali per oltre 9.000 anni, ma non vi erano animali che si prestassero all'allevamento, essendo stati sterminati dai cacciatori del Paleolitico, e la cacciagione locale è piccola e poco nutriente; non è certo un caso se la mancanza di proteine vi ha stimolato il cannibalismo, durato fino a pochi decenni fa. Già 27.000 anni fa (alle 23.56.50) furono prodotte figurine di terracotta e tessuti nell'attuale Repubblica Ceca, ma finché i gruppi umani non sono divenuti sedentari e non hanno posseduto animali da trasporto non hanno saputo che farsene di pentole e telai, troppo pesanti da portare con sé negli spostamenti; la ceramica comparve in Giappone solo 13.000 anni piú tardi (alle 23.58.22), utilizzata da una popolazione divenuta stanziale, nonostante si dedicasse ancora alla caccia e alla raccolta, per via della ricchezza di risorse naturali dell'arcipelago giapponese.
Va considerato, fra gli altri fattori geografici, anche il fatto che l'Eurasia si estende in massima parte in direzione est-ovest, mentre l'America e l'Africa lungo l'asse nord-sud. Perchè? Perchè latitudine pressoché costante significa climi più o meno simili ed ambienti analoghi e facili da colonizzare da parte di esploratori intraprendenti, mentre una grande estensione in latitudine significa una grande varietà di climi, dal polare all'equatoriale, cui non è facile abituarsi, e zone temperate abitabili separate tra loro da deserti impervi e ostili, o da giungle impenetrabili e pullulanti di predatori o di zanzare atte a diffondere malattie mortali. Per questo motivo, pur essendo stata inventata nella steppa asiatica, la ruota raggiunse l'Atlantico come il Pacifico; invece, inventata in Messico, venne usata solo come giocattolo, non essendoci animali da soma in grado di trainare i carri; infatti l'unico animale americano usato per trasporto, il lama, allevato nelle Ande centrali, non raggiunse mai la Mesoamerica, per colpa dello stretto e boscoso istmo di Panama, regione malsana in cui non sarebbe sopravvissuto; e così il trasporto tramite portantine sorrette da uomini rimase più conveniente. Può sembrare incredibile, ma chi non ha mai avuto bisogno dell'agricoltura non l'ha mai adottata; gli indiani della California, ad esempio, che abitavano una delle zone piú fertili del mondo, avevano troppa abbondanza di pesce e di piante selvatiche per avere bisogno di coltivare il proprio cibo. E la stessa cosa vale per gli Aborigeni dell'Australia, una terra peraltro che scarseggia di piante domesticabili e di animali da usare come soma o come forza lavoro, per via dello sterminio sistematico operato dai cacciatori giunti per primi sulla grande isola-continente.
Ma c'è un altro fattore determinante di cui tenere conto: è molto probabile che gli europei abbiano ricevuto parecchie malattie infettive dagli animali domestici con cui hanno convissuto per millenni (vaiolo, morbillo, tito, influenza, tubercolosi, peste bubbonica, colera); ma nel corso di questi millenni hanno sviluppato una relativa immunità ad esse. Quando spagnoli, portoghesi, francesi e inglesi sbarcarono in America, i germi che portavano con sé fecero strage delle popolazioni locali, sterminandone fra il 50 e il 100 %. La popolazione di Hispaniola, che contava un milione di persone quando vi sbarcò Colombo nel 1492, nel 1535 era ridotta a zero da epidemie e massacri. Quando Hernán Cortés sbarcò in Messico, nella sua truppa c'era uno schiavo malato di vaiolo; in meno di un secolo, per colpa di queste malattie, la popolazione messicana crollò da venti milioni a poco piú di un milione e mezzo di persone. La stessa epidemia devastò l'Impero Inca (morirono l'imperatore e il suo erede al trono, e la guerra civile tra altri due suoi figli lo indebolì fatalmente), e determinò la scomparsa della grande civiltà amerindia del Mississippi prima ancora che vi giungessero fisicamente i coloni francesi. I batteri europei sterminarono gli Aborigeni in ogni parte del mondo, dalle isole del Pacifico al Sudatrica, spianando la strada ai cannoni e alle armi d'acciaio dei conquistatori.
Insomma, partite presto e con un immenso vantaggio ecologico (flora, fauna, clima), le civiltà mediorientali furono le prime a sviluppare un'articolata organizzazione sociale, secondo processi che si riscontrano uguali in ogni altra parte del mondo dove è sorta l'agricoltura: alcuni settori della popolazione si liberarono della necessità di lavorare per vivere, che è universale per ogni individuo fra i cacciatori/raccoglitori (anche per i capi), e sorsero gruppi di aristocratici, burocrati, guerrieri e sacerdoti. Nacque purtroppo anche la "cleptocrazia": un'élite si appropriò di parte della ricchezza prodotta dalla società e visse con maggiore agiatezza, giustificando questa appropriazione con motivazioni militari, politiche o religiose. Con il susseguirsi dei secoli, l'asse del potere si spostò lentamente verso Occidente, dalla Mesopotamia alla Grecia, a Roma, all'Europa Occidentale. Gli imperi mediorientali dell'antichità e la civiltà greca uscirono infatti di scena, vittime di una sorta di inconsapevole suicidio collettivo, a seguito del degrado ambientale indotto da irrigazione e deforestazione, e fatalmente decaddero, lasciando spazio alle regioni affacciate prima sul Mediterraneo e poi sull'Oceano Atlantico. E così, quando gli europei del Rinascimento scoprirono la navigazione oceanica e si diressero verso ogni angolo del pianeta, le migliaia di anni di vantaggio accumulate si tradussero in una formidabile superiorità nelle dimensioni delle popolazioni, nella produzione di cibo su vasta scala, nell'organizzazione sociale, nelle tecnologie e nei mezzi di comunicazione. La scrittura nel Vecchio Mondo aveva alle spalle 5.000 anni di storia (35 secondi dell'Anno della Terra), che ne fecero uno strumento senza eguali per muovere eserciti e organizzare il dominio nei paesi conquistati. Anche in Mesoamerica esisteva la scrittura già da quasi 1000 anni prima che arrivassero gli spagnoli, ma era ancora allo stadio in cui si trovava in Medio Oriente 1000 anni dopo essere stata inventata, e cioè uno strumento riservato alla burocrazia di palazzo. E così, bastò un pugno di feroci avventurieri in preda alla febbre dell'oro, armati di micidiali fucili, protetti da armature di metallo e in sella a robusti cavalli, per cancellare imperi vastissimi dalla faccia della Terra nel giro di pochi anni.
Diamond sottolinea anche l'importanza dell'anomalia cinese. Al principio del 1400 era la Cina ad avere l'indiscusso primato tecnologico, avendo inventato, fra le altre cose, la polvere da sparo, la bussola, la ghisa, la carta e la stampa. Quasi un secolo prima che gli europei affrontassero la navigazione oceanica, la Cina aveva inviato fino alla costa orientale dell'Africa spedizioni che contavano fino a 28.000 uomini, imbarcati su flotte di centinaia di navi, di dimensioni ben superiori alle caravelle di Colombo. Ma allora, perchè si lasciò sfuggire il primato sul mondo a vantaggio degli occidentali? Il fatto è che, verso la metà del XIV secolo, prevalse alla corte cinese la fazione isolazionista degli eunuchi, che vietò la costruzione di flotte e fece chiudere tutti i cantieri: l'immenso impero cinese aveva agricoltura e scrittura da tempi immemorabili ed aveva sull'Europa il vantaggio di essere politicamente unificato, stante l'assenza di barriere geografiche e la presenza di fiumi lunghissimi e navigabili (invece in Europa la presenza di alte catene montuose a separare le varie aree geografiche portò alla formazione di numerosi popoli di lingua e tradizioni diverse), eppure la decisione di un solo gruppo al potere determinò il futuro dell'intera nazione e la sua successiva decadenza nei secoli XVIII-XIX, tanto che solo ora, con immenso sforzo tecnologico e a prezzo di veri e propri disastri ambientali ed umani, in Cina si cerca di colmare il gap. Nella piú piccola Europa, frammentata in decine se non in centinaia di staterelli, Colombo si rivolse a diversi principi, e alla fine ne trovò uno disposto a finanziare il suo viaggio; se invece l'Europa fosse stata unificata e il governo centrale gli avesse rifiutato il suo appoggio, la scoperta non sarebbe mai avvenuta. Fu così che la Cina si chiuse su se stessa per secoli, mentre l'Europa Occidentale conquistò il resto del pianeta.
Nel 1855 il diplomatico francese Joseph-Arthur de Gobineau (1816-1882) pubblicò il "Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane", nel quale sostenne che l'Europa aveva conquistato il resto del mondo peer via di una presunta superiorità intrinseca (che oggi diremmo genetica) dei popoli di pelle bianca sugli altri abitanti del pianeta, e mettendo in guardia i suoi contemporanei dalla mescolanza con genti di colore, che avrebbe inevitabilmente determinato il declino della civiltà occidentale. In tal modo purtroppo egli pose le basi del razzismo europeo moderno, del quale Adolf Hitler e i suoi camerati furono i discepoli più estremisti e pericolosi. Ebbene, Jared Diamond (guarda caso, di origini ebraiche) nel suo saggio confuta completamente tale aberrante visione razzista: i progressi della genetica nel XX secolo hanno confutato le affermazioni di Gobineau, dimostrando che non esistono fattori biologici tali da conferire ai bianchi una superiorità innata; le razze umane semplicemente non esistono, noostante quanto ritenuto ancor oggi da tanti politici nostrani, ed il colore della pelle e la forma del corpo rappresentano semplici adattamenti al clima di diverse regioni. Nè ha senso il "razzismo culturale" del XXI secolo, il quale porta a teorizzare la superiorità della propria cultura per spiegare le ragioni della ricchezza o del successo della società di cui si è parte. Furono infatti fattori storici, ambientali e geografici a permettere il successo di alcuni popoli su tutti gli altri, come Diamond ha dimostrato con chiarezza. Naturalmente non tutti hanno accettato le sue tesi: molti storici di professione le hanno bollate di "determinismo geografico", sostenendo che non bastano fattori geografici o accidenti storici a spiegare l'intera storia del mondo. Certamente però le analisi del nostro saggista ci aiutano a capire perchè oggi in Nuova Guinea la lingua ufficiale è l'inglese, ed invece in Inghilterra oggi non si parla la lngua Nahuatl!
Due civiltà oggi un po' meno misteriose
Vale la pena di spendere una parola per due civiltà misteriose vissute in un passato relativamente recente. La prima è quella di Nazca, una cultura precolombiana fiorita nel sud del Perù tra il 400 a.C. e il 400 d.C. Essa ci ha lasciato 13 mila linee, ancora avvolte dal mistero e cariche di tante leggende, che disegnano il deserto esteso per un'ottantina di chilometri tra le città di Nazca e di Palpa. Queste linee formano più di 800 disegni detti geoglifi, che includono i profili stilizzati di animali comuni nell'area (la balena, il pappagallo, la lucertola lunga più di 180 metri, il colibrì, il condor e l'enorme ragno lungo circa 45 metri). Le linee sono tracciate rimuovendo le pietre contenenti ossidi di ferro dalla superficie del deserto, lasciando così un contrasto con il pietrisco sottostante, più chiaro. Ai margini dell'area gli archeologi hanno scoperto la città cerimoniale dei Nazca, Cahuachi, da cui si ritiene provenissero gli artefici delle linee. La pianura di Nazca non è ventosa e il clima è piuttosto stabile, così i disegni giganti sono rimasti intatti per centinaia di anni. Perchè questi disegni siano stati tracciati, è rimasto a lungo un mistero, tanto che gli ufologi vi hanno visto addirittura delle piste di atterraggio per turisti alieni. In realtà la spiegazione potrebbe essere molto più semplice, e l'ha trovata una ricercatrice italiana del CNR, l'ingegnere elettronico Rosa Lasaponara, docente presso l'Università della Basilicata a Potenza. Lasaponara è riuscita a individuare delle nuove costruzioni che spiegano, in parte, anche il significato delle famose linee.
Svelata alla BBC e ripresa dalle riviste specializzate, la scoperta riguarda dei sofisticati e ingegnosi acquedotti che ricordano dei pozzi: i puquios. Buche a forma di spirale, su cui si sviluppano dei condotti discendenti, fatti in pietra, da cui estrarre acqua dalle falde o dei fiumi che scorrono a decine di metri di profondità. In un deserto tra i più aridi del mondo. « È stato attraverso l'uso dei satelliti », ha riferito la professoressa Lasaponara, « se siamo riusciti a individuare e fotografare da distanza ravvicinata quei buchi che scendevano sottoterra tramite una spirale di canali. Fino al 2000 le osservazioni si facevano con dei sorvoli a bordo di piccoli aerei. Con la liberalizzazione dei sistemi di rilevazione satellitare, fino a quel momento riservati ad uso esclusivamente militare, abbiamo potuto scattare immagini molto più ravvicinate. Questo ha consentito di individuare strutture rimaste fino a quel momento nascoste, confuse con l'ambiente circostante. Per avere certezza che si trattava di forme antichissime di alta ingegneria idraulica, siamo andati sul posto e con l'aiuto di un'equipe formata da archeologi, storici, antropologi, siamo giunti ad una conclusione sorprendente. Per sopravvivere in un'area impervia ma carica di significati religiosi e mistici, questa civiltà preincaica aveva pensato bene di trovare e convogliare ogni sorgente d'acqua nei territori vicini. Lo scopo era renderli coltivabili e consentire alle diverse popolazioni limitrofe di potersi installare e sopravvivere. Quella zona attirava molte persone; era, ed è tuttora, una zona sacra ». Cahuachi era un centro religioso e politico, il luogo dove vivono i vedenti. Qui si svolgevano cerimonie, riti, preghiere, invocazioni. I puquios attingevano l'acqua che scendeva dalle montagne vicine e che per diverse ragioni morfologiche spariva sotto il deserto continuando tuttavia a scorrere. I Nazca ebbero il merito di individuare i punti dove si trovava e lì crearono questi buchi, chiamati anche ojos de agua, "occhi d'acqua". Servivano come luoghi di ispezione per la manutenzione dell'acquedotto e venivano collegati tramite una serie di condotte. Questa antica ed evoluta civiltà conosceva bene la sua terra e sapeva dove cercare l'elemento decisivo per la sua sopravvivenza: l'acqua. Il deserto fu dunque punteggiato da ampie oasi verdi che si possono ancora osservare, con coltivazioni di cotone, fagioli, patate e piccoli pascoli. La scoperta conferma la teoria più accreditata tra gli studiosi sulle origini e il senso degli 800 geoglifi di Nazca: « Indicavano percorsi da seguire nelle cerimonie », ha spiegato la professoressa Rosa Lasaponara, « per raggiungere le aree abitate. Molti degli animali raffigurati nei disegni, come orche e delfini, riportano all'acqua. Perché l'acqua significa vita e potere per chi la possiede. »
Un'altra civiltà un tempo ritenuta misteriosa ma oggi un po' meno, grazie alle ricerche dei nostri archeologi, è quella dell'Isola di Pasqua, in lingua indigena Rapa Nui ("Grande roccia"), che sorge 3600 km a ovest del Cile, cui appartiene: ciò ne fa una delle isole abitate più isolate del pianeta Terra, oltre che uno dei più grandi enigmi dell'antropologia e dell'archeologia moderna. Anche in questo caso, come nel caso di Nazca, gli esoteristi e gli ufologi hanno riempito pagine e pagine di fantasie intorno al mito di Rapa Nui, sostenendo che essa rappresenta l'ultimo lembo di terra del continente perduto di Mu, sede della prima civiltà umana. In realtà essa fu presumibilmente colonizzata da più ondate di immigrazioni tra il 900 e il 1100 d.C. Come tutti sanno, l'Isola di Pasqua, così chiamata perchè il primo europeo a sbarcarvi, l'olandese Jakob Roggeveen (1659-1729), vi giunse il giorno di Pasqua del 1722, è punteggiata da ben 638 Moai, grandi busti in pietra il cui scopo non è tuttora noto con certezza; i più ritengono che le statue rappresenterebbero capi tribù del passato. Non tutti però sanno che la civiltà che edificò i Moai scomparve misteriosamente senza lasciare alcuna traccia, se non i "testoni" stessi e le misteriose tavolette rongo-rongo, il cui alfabeto e la cui lingua finora nessuno è riuscito a decifrare. Fino a tempi recenti si pensava che la civiltà di Rapa Nui fosse stata sconvolta da spaventose guerre scatenate dalla mancanza di cibo, le stesse che sono descritte nel film "Rapa Nui" di Kevin Reynolds (1994); tutto sarebbe partito da una catastrofe ecologica scatenata dagli stessi indigeni, che deforestarono l'isola proprio per erigere i Moai. Invece Carl Lipo della Binghamton University di New York sostiene che le migliaia di punte triangolari in ossidiana, note come "matà'a" e presenti in gran copia sull'isola di Pasqua non sarebbero le punte di lancia con cui furono combattute quelle battaglie fratricide, bensì strumenti e utensili per la vita di ogni giorno. Lipo e i suoi collaboratori hanno analizzato la forma irregolare di 400 "matà'a" mediante una tecnica nota come morfometria, uno studio quantitativo delle forme. Confrontandole con le altre armi tradizionali, sono arrivati alla conclusione che le matà'a non furono usate in guerra, perché sarebbero state delle pessime armi. « Confrontandole con le armi europee e quelle trovate nel resto del mondo, si vede che queste ultime hanno una forma regolare e sistematica, che gli consente di adempiere bene alla loro funzione », ha dichiarato Lipo. « Di cnseguenza la teoria della catastrofe della civiltà dell'isola non è vera. Le popolazioni vissero bene e in modo sostenibile fino al contatto con gli europei. Se le "matà'a" sono state trovate in tutta l'isola è perché erano strumenti usati per le coltivazioni e azioni rituali, come i tatuaggi, o per le più banali attività domestiche. »
La civiltà di Nazca è fiorita tra il 400 a.C. e il 400 d.C., cioè tra le 23.59.43,18 e le 23.59.48,79. Invece la civiltà di Rapa Nui prosperò tra il 900 e il 1600 d.C., cioè tra le 23.59.52,18 e le 23.59.57,08. Se vogliamo arrivare fino in fondo con la metafora dell'Anno della Terra, dobbiamo far notare che:
l'era Cristiana comincia alle 23.59.45,87;
l'era Moderna (dal 1492 in poi) comincia alle 23.59.56,33;
l'era Industriale (dal 1750 in poi) comincia alle 23.59.58,14;
l'era Atomica (dal 1945 in poi) comincia alle 23.59.59,50;
ed il Terzo Millennio comincia alle 23.59.59,89. Un amen ed è il momento in cui state leggendo queste righe sul vostro Pc.
La prima esplosione nucleare della storia (Trinity Test), avvenuta ad Alamogordo (New Mexico) il 16 luglio 1945 |
L'Età del Silicio e l'Antropocene
Ormai anche l'Età del Ferro, culminata nella Rivoluzione Industriale del XVIII secolo e nell'espandersi in tutto il mondo di grandi impianti siderurgici, può considerarsi conclusa, tanto che a partire dal 1960 alcuni hanno parlato di Età del Silicio, riferendosi ai materiali semiconduttori sui quali sono basate le moderne tecnologie elettroniche ed informatiche: quest'ultima età occupa gli ultimi 30 centesimi di secondo dell'Anno della Terra. Ma, giunti a questo punto, è necessario ripensare alla nostra storia ed alle nostre scelte per l'immediato futuro. Com'è noto, infatti, nella sua esistenza sulla Terra l'uomo si è rivelato un temibile agente di trasformazione dell'ambiente: non solo è in grado di occupare qualsiasi nicchia ecologica inclusi i ghiacci dell'Antartide, al di là di quanto sia riuscita a fare ogni altra specie vivente, ma si è mostrato anche in grado di modificare in modo drastico quelle condizioni ambientali alle quali nel passato si era semplicemente adattato. Purtroppo, per quanto riguarda lo sfruttamento dell'ecosistema, l'uomo mostra sempre più spesso una pericolosa disinvoltura, come se egli fosse qualcosa di estraneo o addirittura di superiore ad un mondo, del quale invece egli è semplicemente un prodotto. Se non vogliamo essere la causa, e purtroppo anche la vittima, della prossima grande crisi biologica, ora che abbiamo preso coscienza del nostro passato e di quello della Terra, dobbiamo interrogarci anche sul nostro futuro. Paul Crutzen (1933 - vivente), premio Nobel per la chimica nel 1995, ha studiato a lungo le perturbazioni climatiche e ambientali provocate dall'uomo e, in un suo saggio uscito nel 2005, ha introdotto addirittura, dopo il Pleistocene e l'Olocene, anche l'Antropocene, una vera e propria era geologica che si distingue da quelle precedenti proprio per l'impatto determinante dell'uomo (lui stesso un prodotto naturale) sul clima e sull'ambiente a partire dalla rivoluzione industriale: una variabile del tutto inedita nella lunga storia geologica del nostro pianeta.
Da anni ormai geologi, esperti in stratigrafia, zooologi e climatologi discutono su quale sia la data in cui l'Olocene, iniziato 11.000 anni fa, si sia concluso per lasciare spazio all'Antropocene. Un gruppo internazionale di 26 geologi facenti parte dell'Anthropocene Working Group (Awg), capitanato da Jan Zalasiewicz dell'Università di Leicester e comprendente lo stesso Crutzen, nel corso del World Economic Forum di Davos dal 21 al 24 gennaio 2015 ha proposto la data del 16 luglio 1945, giorno in cui nel deserto del Nuovo Messico fu fatta detonare la prima bomba atomica, pochi giorni prima dell'attacco nucleare ad Hiroshima. Per lo studioso britannico la scelta è simbolica: « Come ogni confine geologico, la data non è un marcatore perfetto, ma è una opportunità per evidenziare dove sia partito il cambiamento a livello planetario a opera dell'uomo ». Questa proposta, di natura geologica prima che storica, dovrà essere accettata e approvata dall'intero gruppo e ufficialmente sancita dalla Commissione Internazionale di Stratigrafia, che si pronuncerà sul tema entro il 2016. La motivazione del cambiamento geologico è insita nell'esplosione stessa dell'atomica: da quel momento infatti alcuni isotopi radioattivi sono entrati a far parte anche degli strati delle rocce sedimentarie. A questo si aggiungono altri inequivocabili interventi umani: la diffusione della plastica, per esempio, a partire dagli anni Cinquanta ha modificato il tipo di sedimenti depositato sui fondi marini, e ancora ha cambiato la struttura dei ghiacci, tracciando così un confine e una differenza marcata rispetto al passato, data dall'intervento e dalla responsabilità umana. A rafforzare la teoria proposta dall'Awg si aggiunge uno studio del professor Will Steffen della Australian National University, che ha analizzato l'impatto dell'uomo sull'ambiente negli ultimi sessant'anni proprio a partire dalla data contraddistinta come inizio dell'Antropocene, e ha scelto 24 indicatori globali che testimonierebbero come l'attività umana e soprattutto il sistema economico globale siano il primo motore del cambiamento del Sistema Terra, ovvero la somma dei processi umani, biologici, chimici, fisici che interagiscono tra loro. Dei 24 indicatori, dodici riguardano in particolare l'azione umana (crescita economica, popolazione, consumo energetico, uso dell'acqua, trasporti, telecomunicazioni e così via), e altri dodici riguardano invece l'ambiente (biodiversità, deforestazione, ciclo del carbonio, ciclo dell'azoto ne fanno parte). I risultati dello studio evidenziano come in molti settori il forte processo di accelerazione del cambiamento dovuto all'intervento umano abbia già portato la Terra a superare il limite, e questo è avvenuto soprattutto a partire dagli anni Cinquanta. Dal 1950 infatti i grandi cambiamenti mondiali sono direttamente collegati al sistema economico. Alcuni esempi: l'uso di fertilizzanti è aumentato di otto volte, l'uso di fonti di energia è aumentato di cinque volte, la popolazione che abita nei centri urbani è aumentata di sette volte. A livello ambientale, sempre a partire dagli anni Cinquanta si è avuta un'accelerazione dei danni subiti dalla biosfera, dell'estinzione di diverse specie, del cambiamento climatico, dei livelli di sostanze inquinanti presenti nei mari. Per non parlare di sostanze chimiche come i Pfas, sviluppati per le padelle antiaderenti e soprannominati “inquinanti eterni”, che stanno colonizzando il mondo. Tra qualche centinaio di migliaia di anni, queste tracce saranno testimonianze di come è stata l'era umana. E proprio questo cambiamento, la cui accelerazione è stata così drammatica e veloce a partire dal 1945, è una delle motivazioni più forti che sostengono la teoria dell'inizio dell'Antropocene nello stesso periodo.
Come sito di riferimento dell'Antropocene è stato scelto il lago Crawford, vicino a Toronto, in Canada: "l'impronta irreversibile dell'umanità sulla Terra", come è stato definito dai ricercatori. Infatti i sedimenti del lago Crawford forniscono un'eccezionale documentazione dei cambiamenti ambientali degli ultimi millenni: stratificati sul fondo di questo piccolo specchio d'acqua di un chilometro quadrato, zeppi di microplastiche, ceneri di combustione di petrolio e carbone e tracce di esplosioni di bombe nucleari, sono la migliore prova dell'inizio di un nuovo capitolo geologico della storia della Terra. Sono state raccolte sezioni di campioni da ambienti diversi in tutto il mondo, dalle barriere coralline alle calotte glaciali che sono stati poi analizzati in cerca di un indicatore globale ritenuto la chiave dell'influenza umana sull'ambiente: la presenza di plutonio. In natura il plutonio è presente solo in quantità piccolisssime, ma dall'inizio degli anni Cinquanta, quando sono stati effettuati i primi test della bomba all'idrogeno, si è assistito a un aumento senza precedenti e poi a un'impennata dei livelli di plutonio nei campioni carotati in tutto il mondo. È stata proprio la Commissione internazionale di stratigrafia (ICS) ad affidare a un gruppo di lavoro guidato dal geologo britannico Jan Zalasiewicz il compito di rispondere a queste domande: se tra un milione di anni gli extraterrestri setacciassero le rocce e i sedimenti della Terra, discernerebbero una traccia umana abbastanza significativa da dedurre che è stato attraversato un confine geologico? Alla prima domanda la risposta del gruppo è inequivocabile: sì, gli umani hanno portato il pianeta fuori dall'Olocene. Le tracce dell'attività umana (microplastiche, inquinanti chimici eterni, specie invasive, gas serra) sono ovunque, dalle cime delle montagne al fondo degli oceani, e i disordini che provocano sono così numerosi (cambiamento climatico, inquinamento, perdite della biodiversità) da rompere l'equilibrio naturale del globo. La risposta alla seconda domanda invece è stata, appunto, il lago Crawford.
Esistono però proposte alternative alla data di detonazione dell'atomica: molti geologi sostengono che il tempo in cui l'uomo iniziò con il suo operato a compromettere e plasmare la Terra va fatto risalire alla diffusione dell'agricoltura. Alcuni sostengono che sia meglio guardare alla rivoluzione industriale, esplosa alla fine del Settecento, mentre altri ancora hanno proposto una data fin troppo precisa, il 1952, usando come marcatore il fallout radioattivo dei test della bomba all'idrogeno. Alcuni infine pensano che il cambiamento dirompente debba ancora avvenire, in termini geologici; e ciò non deve stupire, perché i ragionamenti dei geologi abbracciano migliaia e spesso milioni di anni, piuttosto che i tempi brevi su cui siamo abituati a discernere noi.
Il 4 marzo 2024 la Subcommission on Quarternary Stratigraphy, che è la commissione responsabile del riconoscimento delle suddivisioni temporali all'interno del nostro passato geologico più recente, con il voto contrario di 12 dei suoi 18 membri, ha respinto la proposta di considerare l'Antropocene una nuova era geologica dopo la fine dell'Olocene, sostemendo che tale proposta non è supportata dagli standard utilizzati per definire le epoche geologiche. Le discussioni su un'epoca chiamata Antropocene non sono ancora finite, ma è molto improbabile che si arrivi presto a una dichiarazione ufficiale dell'epoca Antropocene. Naturalmente questo voto non ha alcuna attinenza con le prove schiaccianti del fatto che le società umane stanno effettivamente trasformando il pianeta, ed infatti si continuerà a parlare di "evento Antropocene", anziché di un'era geologica vera e propria, ma la sensazione è che questa definizione sia solo rimandata.
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Copertina di "The Economist" del 28 giugno 2011 |
I tecnofossili
A questo proposito, non possiamo non citare uno studio portato avanti da Jan Zalasiewicz e Mark Williams, dell'Università di Leicester, secondo il quale occorre coniare un termine ad hoc per tutti i "fossili" (cioè per le tracce del proprio passaggio) che, fin dagli albori della storia, l'umanità ha lasciato dietro di sé; ed il termine da essi coniato è "tecnofossili". Essi saranno ciò che agli archeologi del futuro parlerà di noi. Secondo i due studiosi, i fossili che tutti noi conosciamo sono stati utilizzati dai paleontologi per studiare il modo in cui le varie specie sono comparse sulla Terra. Se però invece che a piante e animali pensiamo ad artefatti, ovvero agli strumenti creati dall'uomo a partire da due milioni e mezzo di anni fa, è possibile passare al concetto di tecnostratigrafia, che è diventata globale a partire dalla seconda metà del 1900. Anzi: ha persino varcato i confini del pianeta. Essi sono costituiti da elementi rari in natura come ferro puro, alluminio o titanio, o del tutto inesistenti allo stato naturale, come il nitruro di boro, il carburo di tungsteno o come le materie plastiche. Conoscere la composizione degli artefatti permette ai tecnostratigrafi di datarli con buona approssimazione. Un esempio: polietilene e polipropilene sono plastiche fabbricate a partire dalla seconda guerra mondiale, tuttora in produzione in quantità esorbitanti (270 milioni di tonnellate annue). È presumibile che gli archeologi del futuro troveranno questo tipo di artefatto plastico soprattutto nelle discariche. La loro particolare composizione, la diffusione planetaria, la durevolezza rendono probabile un loro futuro ritrovamento: saranno i fossili della nostra epoca.
I tecnofossili possono contare su una morfologia infinitamente superiore alle tracce lasciate da qualsiasi altro essere vivente, che varia dai residui di un edificio abbattuto alle nanoparticelle. Impressionante è anche la loro presenza, che parte con le punte di freccia (distribuite in tutto il pianeta a partire da 4.000 anni fa), prosegue con le monete (registrate dal 500 a.C. in Eurasia e Africa) ed esplode, dalla metà del Novecento in poi, nella produzione di graffette, penne a sfera, lattine e borse di plastica, oggi reperibili in ogni continente. E non si tratta solo di conquistare le terre e i mari. Negli ultimi cento anni, le esplorazioni minerarie hanno perforato la crosta terrestre per centinaia di metri, mentre le trivellazioni hanno raggiunto qualche chilometro di profondità. Artefatti abbandonati in simili abissi possono verosimilmente preservarsi per tempi lunghissimi. E non è finita: l'uomo è riuscito a esportare il prodotto (e lo scarto) della propria tecnologia persino nello spazio. Abbiamo abbandonato oggetti sulla Luna, e spedito artefatti a esplorare il sistema solare. Ma quanto è importante riuscire a vedersi con occhi futuri? Secondo Roberto Poli, docente di sociologia all'Università di Torino, « tutto quello che noi facciamo entra in circolo e genera loop e connessioni. A questo, cioè alla comprensione del fatto che le nostre azioni modificano il modo in cui la natura lavora, è legata la stessa nascita di una disciplina come l'ecologia. Ogni nostra azione include un minimo di futuro: senza questa dimensione, non sarebbe possibile sviluppare neanche il più semplice progetto ». Chissà cosa penseranno di noi, gli archeologi del futuro...
La glaciazione rimandata e la sesta estinzione di massa
Sembra addirittura che le attività umane hanno rimandato di 100.000 anni l'inizio della prossima era glaciale. È la conclusione cui sono giunti Andrey Ganopolski e colleghi dell'Istituto per le Ricerche sull'Impatto Climatico di Postdam, che hanno stabilito una relazione matematica fra livelli di insolazione e concentrazioni atmosferiche di CO2, riuscendo così a spiegare l'insorgenza delle ultime otto glaciazioni, ma anche prevedere l'inizio della prossima. Lo studio, eseguito nel 2015, è partito da un'osservazione: le glaciazioni sono sempre iniziate in periodi in cui i livelli di insolazione estiva erano bassi a causa di variazioni periodiche nell'orbita del pianeta. Anche ora siamo vicini al minimo di insolazione, che è stato raggiunto circa 400 anni fa, ma né oggi, né nei due o tre secoli precedenti, ci sono stati segni di un'incipiente glaciazione. Secondo Ganopolski, l'umanità ha evitato per un soffio l'inizio di una nuova era glaciale.
Se i livelli di anidride carbonica fossero rimasti quelli precedenti al XVII secolo, oggi ci troveremmo infatti a fronteggiare una progressiva estensione dei ghiacci. L'incremento delle attività umane avvenuto con la prima rivoluzione industriale ha invece provocato un aumento della CO2 atmosferica a 240 parti per milione, un livello che, se mantenuto costante nei secoli successivi, sarebbe stato sufficiente a far slittare l'inizio della prossima glaciazione di 20.000 anni. L'ulteriore aumento delle emissioni durante l'Ottocento ha poi rimandato l'arrivo del grande freddo fino a 50.000 anni, e gli eventi dell'ultimo secolo ne hanno aggiunti altri 50.000. « Noi stiamo saltando un intero ciclo glaciale, una cosa senza precedenti », ha dichiarato Ganopolski: « È sbalorditivo che l'umanità sia in grado di interferire con un meccanismo che ha plasmato il mondo come lo conosciamo. » « Le ere glaciali », ha aggiunto Hans Joachim Schellnhuber, coautore dello studio, « hanno modellato l'ambiente globale come nessuna altra forza sul pianeta, determinando lo sviluppo della civiltà umana. Per esempio, se abbiamo terreni fertili lo dobbiamo all'ultima glaciazione, che ha anche scavato i paesaggi di oggi e lasciato ghiacciai e fiumi, formato fiordi, morene e laghi. Oggi invece è l'uomo, con le sue emissioni da combustibili fossili, a determinare lo sviluppo futuro del pianeta. »
Ma non basta: al giorno d'oggi, la perdita di diversità biologica è uno dei problemi globali più gravi causati dagli esseri umani. Ala fine del 2015 il 41 % di tutte le specie di anfibi e il 26 % di quelle di mammiferi sono state incluse nella lista delle specie in pericolo di estinzione compilata dall'International Union for Conservation of Nature (IUCN). Sotto accusa sono la perdita di habitat, la diffusione di organismi invasivi, l'inquinamento, la dispersione di sostanze tossiche e il cambiamento climatico. Gerardo Ceballos della Universidad Nacional Autonoma de Mexico a Città del Messico, e Paul Ehrlich e Rodolfo Dirzo della Stanford University, hanno mappato le aree geografiche di diffusione di 27.600 specie di uccelli, anfibi, mammiferi e rettili, ed hanno ottenuto un campione rappresentativo di circa metà di tutte le specie di vertebrati, analizzando le perdite di popolazione in un campione di 177 specie di mammiferi tra il 1990 e il 2015. I risultati dell'analisi hanno mostrato che più del 30 % delle specie di vertebrati sta subendo un declino sia dell'area di distribuzione sia della dimensione della popolazione. In particolare, se si considerano i soli mammiferi, tutte le specie hanno perso il 30 % o più dei loro territori, e più del 40 % ha perso oltre l'80 % del proprio territorio. Le regioni tropicali sono quelle in cui si registra il maggior numero di specie di mammiferi in calo di popolazione; se però si guarda ai dati relativi sul totale delle specie, il triste primato spetta alle regioni temperate: in queste aree il rapporto tra numero di specie in crisi rispetto al numero complessivo di specie è il più elevato. Ad essere particolarmente colpiti sono i mammiferi del Sudest asiatico: in quest'area, tutte le specie di mammiferi di grandi dimensioni hanno perso più dell'80 % delle aree di distribuzione. Secondo i ricercatori, i dati indicano che il 50 % del numero di individui animali che una volta hanno condiviso la Terra con noi non c'è più, così come miliardi di popolazioni. Si tratta, secondo gli autori, di una « massiccia erosione della più grande biodiversità mai esistita sulla faccia della Terra ». La perdita di biodiversità e di popolazioni non potrà che riverberarsi su molte attività svolte dagli animali, e di cui gli esseri umani non possono fare a meno per la loro sopravvivenza: l'impollinazione dei fiori da parte delle api è quella più nota e più spesso citata. Ma ci sono anche la purificazione delle acque delle zone umide e il controllo delle specie infestanti. Il fenomeno del depauperamento progressivo di popolazione e aree di distribuzione dei vertebrati conferma quella che è già stata descritta come la sesta grande estinzione di massa della storia della Terra! « È il preludio della scomparsa di molte altre specie e del declino dei sistemi naturali che hanno reso possibile la civilizzazione ».
A grandi passi verso il futuro
Ora però una domanda nasce spontanea: che cos'altro ci riserva la storia della Terra?
Partiamo dalla nostra amata penisola. I ricercatori del progetto RING dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). hanno studiato a lungo il movimento lento ma inesorabile della nostra Italia, in seguito alla tettonica delle placche; ciò è possibile perchè RING sta per « Rete Integrata Nazionale Gps ». Essa, come spiegano Giulio Selvaggi e Nicola D'Agostino, i responsabili del progetto, « è una rete di oltre 130 stazioni, realizzate fra il 2004 e il 2008, distribuite in tutto il territorio nazionale, con un massimo di concentrazione nel Centro-Sud. Le stazioni Ring funzionano in maniera analoga ai navigatori oggi largamente presenti su autoveicoli ed imbarcazioni, collegandosi ai satelliti Gps e ricavando, istante per istante, la posizione geografica, in modo da costruire una carta dei campi di velocità. Con la differenza che i navigatori del RING sono fissi, funzionano 24 ore su 24 ed hanno una precisione di posizionamento inferiore al centimetro ».
Il risultato dei dati raccolti da RING è che l'Italia, viaggia alla velocità media di circa un centimetro l'anno cioè di un metro al secolo; come ha scritto Franco Foresta Martin, la sensazione è quella di stare su una grande zattera che va alla deriva, contesa da correnti che tirano in ogni direzione, a rischio di sfasciarne la struttura. Infatti la « zattera Italia », sotto l'effetto di forze contrastanti, non si comporta come un corpo rigido, ma ogni regione ha un suo moto proprio diverso da quello delle altre, per cui essa si sta progressivamente disarticolando. Ad esempio, quasi tutta la Sicilia, compressa dalla convergenza dell'Africa, va alla deriva verso nordovest, ma un'altra verso nordest, ed infatti l'isola di Ustica, a Nord di Palermo, sta quasi ferma, avvalorando l'ipotesi che faccia parte della più stabile zolla geologica Europea. Sul versante di Messina, improvvisamente, la freccia della velocità cambia direzione e punta verso nordest, causando una vistosa deformazione nella zona dello Stretto. In effetti l'area dello Stretto di Messina è un vero rompicapo geologico: le due sponde, la siciliana e la calabra, viaggiano in parallelo verso nord Est ma con velocità differente, e nello stesso tempo si sollevano. Dunque lo Stretto dovrebbe essere destinato a trasformarsi in un istmo, ma solo più o meno fra centomila anni. Le stesse forze che stanno deformando questa parte del Bel Paese, purtroppo, stanno anche ricaricando la faglia dello Stretto che generò il terremoto del grado 7,1 della Scala Richter del 28 dicembre 1908, e quindi occorre restare sempre all'erta. Invece lo stivale è in moto verso est, lasciando presagire che, fra centinaia di migliaia di anni, il Mare Adriatico sarà cancellato e la nostra Penisola andrà a collidere con i Balcani. Molto complesse sono le forze che agiscono sulla catena appenninica: le velocità misurate sulla costa adriatica sono doppie o triple rispetto a quelle della costa tirrenica, con il risultato che gli Appennini subiscono un vero e proprio stiramento lungo una direzione perpendicolare all'asse della catena: e così, ogni anno Roma si allontana di alcuni millimetri da Pescara, e Napoli da Bari. Nel frattempo una porzione di crosta relativamente rigida, la cosiddetta microplacca Adria, formata dalla Pianura Padana e dalla parte settentrionale dell'Adriatico, sta ruotando in senso antiorario attorno a un perno ideale posto più o meno all'altezza di Torino. Soltanto la Sardegna sembra restare relativamente immobile. Proprio l'esistenza di un gran numero di microplacche sotto il nostro paese giustifica l'alto numero di terremoti distruttivi che lo hanno colpito nel corso degli ultimi secoli.
E nel resto del mondo? Fin d'ora si può osservare che si stanno aprendo due grandi rift valley, quella africana che contiene il mar Rosso e si prolunga fino ai grandi laghi equatoriali, e quella che sta suddividendo la penisola californiana dal resto del continente nordamericano (la famosa e temibile faglia di Sant'Andrea). Si può dunque pensare che, nel corso dei prossimi milioni di anni, l'Africa orientale si separerà dal resto del continente, formando un'isola autonoma, e così farà la California, che scivolerà verso nord (difficilmente si realizzerà la "profezia" contenuta in una puntata di "Star Trek", secondo cui quella parte di America si inabisserà nell'oceano in seguito ad un terremoto disastroso!) Intanto l'Africa continuerà s spostarsi progressivamente verso nord, per cui il Mediterraneo finirà per chiudersi, con il conseguente cozzo fra Africa ed Eurasia a formare l'unico continente di Afroeurasia, e lo svilupparsi di un'orogenesi che potrebbe sollevare montagne alte come l'Himalaya là dove una volta c'erano le ridenti spiagge mediterranee. Anche l'Australia finirà per cozzare contro l'Asia con una ulteriore nuova orogenesi, mentre l'Atlantico si aprirà ulteriormente; ecco dunque come potrebbe apparire il mondo tra 50 milioni di anni:
Poi, si prevede che tra 200-250 milioni di anni si formerà un nuovo supercontinente che i geologi hanno chiamato Pangea Ultima o Amasia (America + Eurasia). Due erano fin a poco tempo fa le ipotesi maggiormente accreditate: il modello di introversione, secondo il quale il nuovo supercontinente si formerà là dove c'era la Pangea: l'Atlantico del Nord (l'oceano "interno" se si pensa ai continenti come frammenti dell'espansione dell'antico supercontinente) comincerà a richiudersi, e l'Afroeurasia andrà a cozzare contro il Nordamerica. E il modello di estroversione, secondo cui l'apertura dell'Atlantico proseguirà e a chiudersi sarà il Pacifico (l'oceano "esterno" alla Pangea), in modo da andare a formare un supercontinente nella direzione opposta a quello precedente. Una recente ricerca condotta da scienziati della Yale University ha proposto però una terza ipotesi alternativa, il modello di ortoversione, secondo cui l'America rimarrà allineata alla posizione della zona di subduzione a forma di ferro di cavallo che definisce la cosiddetta Cintura di fuoco, confine tra il nord del Pacifico e i continenti. Prevarranno invece i moti delle placche verso settentrione, portando alla chiusura del Mar dei Caraibi e successivamente anche dell'oceano Artico. Questo nuovo modello sarebbe in grado di superare un problema degli altri due nei confronti della ricostruzione della storia degli antichi supercontinenti, e in particolare del modo in cui la Pangea sorse dagli ancor più antichi supercontinenti di Rodinia e Nuna. I due vecchi modelli danno infatti una ricostruzione che è in conflitto con i dati paleomagnetici relativi alle presunte posizioni rispetto al successivo supercontinente Pangea.
Ed intanto, alla vita che accadrà? Balene ed elefanti subiranno lo stesso destino dei mammut, cioè si estingueranno a causa della caccia operata dall'uomo? I mammiferi continueranno la loro flessione, che come abbiamo visto è iniziata nel Miocene, e fra cento milioni di anni saranno tutti estinti, sostituiti da chissà quale nuova classe di animali? E l'uomo conquisterà lo spazio o si autodistruggerà prima a furia di giocare alla guerra? Si estinguerà senza lasciare discendenti in seguito ad una futura crisi dell'Iridio, come è accaduto ai dinosauri, oppure darà vita ad un'ulteriore razza ominide, dando ragione alla boutade di Konrad Lorenz (1903-1989) secondo cui « l'anello di ricongiunzione tra l'Homo erectus e l'Homo sapiens siamo noi »? Gli amici di The Future is Wild si sono spinti ad ipotizzare carte geografiche e persino forme di vita del lontano futuro, introducendo una nuova era geologica, il Futurassico: chi è interessato a tali ingegnose speculazioni, clicchi qui. Alcune previsioni, però, sono tutt'altro che rosee. Modellizzando il clima di Pangea Ultima secondo il modello di introversione, Alexander Farnsworth dell'Università di Bristol e i suoi colleghi hanno scoperto che gran parte di un supercontinente così formatosi sperimenterebbe temperature superiori a 40°C, rendendola inabitabile per la maggior parte dei mammiferi. Infatti, nel momento in cui si fondono e poi si allontanano, i continenti danno vita a un'attività vulcanica che vomita enormi quantità di CO2 nell'atmosfera e che riscalda il pianeta. Le regioni al centro del supercontinente, lontane dagli oceani, si trasformerebbero dunque in deserti inabitabili per i mammiferi, fatta eccezione per quelli molto specializzati, e la scarsità di umidità diminuirebbe anche la quantità di silice che viene trasportata negli oceani, che di solito rimuove l'anidride carbonica dall'atmosfera. L'aumento della radiazione solare causerà un ulteriore riscaldamento: tra 250 milioni di anni il Sole sarà più luminoso di oggi del 2,5 %, perché la nostra stella avrà consumato una quantità maggiore di idrogeno e ridotto così il proprio nucleo, aumentando il tasso di fusione nucleare. Nello scenario peggiore, in cui i livelli di anidride carbonica raggiungono le 1120 parti per milione (più del doppio dei livelli attuali) solo l'8 % della superficie del pianeta, cioè le regioni costiere e polari, sarebbe abitabile per la maggior parte dei mammiferi, rispetto all'attuale 66 %. Ciò porterebbe a un'estinzione di massa che riguarderebbe i mammiferi, molti vegetali e altre forme di vita. Che cosa ne potrebbe saltar fuori è difficile da dire, visto che nelle precedenti estinzioni di massa sono emerse nuovi tipi di animali dominanti. Del resto, anche la Pangea e altri supercontinenti precedenti hanno avuto grandi deserti interni, che hanno ridotto le aree abitabili, portando a grandi estinzioni di massa, come nell'evento di estinzione della fine del Triassico, circa 200 milioni di anni fa. Naturalmente la modellizzazione di Farnsworth ipotizza che Amasia si formi nei caldi tropici, ma altri scenari suggeriscono che potrebbe formarsi intorno al Polo Nord, e quindi in condizioni climatiche più fredde, dove la vita potrebbe prosperare meglio. Una cosa è certa: ci sono stati eventi di estinzione in passato e ce ne saranno in futuro, e la vita supererà anche quello di Pangea Ultima. Quanto agli esseri umani, difficilmente tra un quarto di miliardo di anni saranno ancora in circolazione.
E poi? Il Sole raggiungerà la sua massima temperatura quando avrà circa 8 miliardi di anni, quindi tra circa 3,5 miliardi di anni; a quell'epoca la Terra dovrebbe uscire dalla zona abitabile della sua stella. Poi, tra 5,5 miliardi di anni (quindi quando avrà l'età di 10 miliardi di anni) il Sole si raffredderà e diventerà una gigante rossa, in seguito all'esaurimento dell'idrogeno e dalla combustione dell'elio, ma la Terra non sarà inglobata da essa; piuttosto, è probabile che sia "soffiata" alle estremità del sistema solare e continuerà ad orbitare come un vuoto cadavere attorno alla sua stella. Infine, il Sole diverrà una nana bianca e lentamente si spegnerà come una candela, mentre la Galassia di Andromeda, avvicinatasi notevolmente alla nostra, invaderà a poco a poco quasi tutto il cielo visibile. A questo proposito nel 2018 Albert Zijlstra e colleghi dell'Università di Manchester hanno realizzato una simulazione, la quale prevede che il Sole si trasformerà in una nebulosa planetaria, cioè in un massiccio anello luminoso di gas e polveri. Questo tipo di struttura rappresenta la fine della vita del 90 % di tutte le stelle; dedurre che anche il Sole avrebbe condiviso lo stesso destino sembrerebbe dunque banale. Eppure, per anni, i ricercatori non hanno avuto prove certe di questa conclusione. Rimaneva infatti il dubbio se la massa del Sole fosse sufficientemente grande per creare una nebulosa planetaria visibile. Ma Zijlstra e colleghi hanno sviluppato un nuovo modello per il ciclo di vita delle stelle. « Quando una stella muore, proietta nello spazio una massa di gas e polveri, che può arrivare a essere la metà circa della massa stellare », ha spiegato Zijlstra. « È solo allora che il nucleo caldo fa brillare le nebulose planetarie, ed è questo il processo che le rende visibili: alcune di esse sono così luminose che possono essere osservate anche da decine di milioni di anni luce di distanza, contrariamente a quanto avveniva per la stella di origine. » Il nuovo modello mostra anche che, dopo l'espulsione della nebulosa, le stelle si riscaldano tre volte più velocemente rispetto alle previsioni dei modelli precedenti. Per una stella di massa limitata, come il Sole, tutto questo rende molto più facile generare una nebulosa planetaria luminosa. Secondo i modelli precedenti, invece, le stelle vecchie e di massa limitata avrebbero dovuto formare nebulose planetarie molto più deboli rispetto a quelle che derivano da stelle giovani e di grande massa. Le stelle con massa inferiore a 1,1 volte la massa del Sole generano nebulose più deboli, e le stelle più massicce di tre masse solari producono nebulose più luminose; per il resto la luminosità prevista è molto vicina a quanto osservato.
Ed un giorno ancor più lontano, che accadrà? Entro 10 miliardi di anni anche il Sole morirà, riducendosi ad una nana fredda e bianca? In capo a 100 miliardi di anni al posto della Via Lattea e della Galassia di Andromeda ci sarà solo una supergalassia sferica, risultato della fusione di tutto il Gruppo Locale di Galassie? Ciò che resta della Terra continuerà a vagare in solitudine nelle regioni più periferiche di questa galassia mostruosa, mentre l'espansione dell'universo avrà portato le altre galassie così lontane da renderle praticamente invisibili? E l'universo continuerà ad espandersi all'infinito, tanto che fra 100.000 miliardi di anni anche l'ultima stella si spegnerà, e il cosmo diverrà oscuro come la morte, fatta eccezione per la debole luminescenza dei buchi neri? Oppure l'universo intero si ricontrarrà in un futuro che nessuno può datare, per dare vita ad un nuovo Big Bang, in una palingenesi che non avrà mai fine?
Tutto è possibile. Ma, prima che tutto ciò abbia avuto luogo, ancora una volta i monti saranno dilavati e trascinati verso il mare, i fiumi avanzeranno con le loro foci dentro l'oceano, i terremoti squasseranno le montagne con tutta la loro devastante potenza, i predatori cacceranno le loro prede attraverso le pianure, i vulcani erutteranno, i continenti proseguiranno la loro danza sulla crosta terrestre, i ghiacciai avanzeranno e retrocederanno molte volte, e gli uomini continueranno ad inseguire la verità sul passato remoto del loro pianeta... esattamente come si inseguono i millenni.
« Su al nord, nella terra chiamata Svithjod, c'è un'immensa montagna di puro granito. È alta cento miglia e larga altrettanto. Una volta ogni mille anni un uccellino arriva su questa montagna e si affila il becco sulla sua roccia. E quando l'intera montagna sarà stata consumata, il primo giorno di eternità sarà passato. » (da "La Storia dell'Umanità" di Hendrik Willem van Loon)
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