L'era Mesozoica o Secondaria, detta anche Età dei Rettili, deriva il nome dal greco mesos, "medio", perché quest'era è considerata il Medioevo della storia terrestre, a cavallo tra l'era antica (paleozoico) e quella recente (cenozoico) della vita sulla Terra, durante la quale si formarono le rocce sedimentarie, rappresentate da calcari dolomitici, calcari marnosi, marne ed arenarie. Questo periodo fu introdotto per la prima volta nel 1840 dall'eminente geologo inglese John Phillips (1800-1874), il quale iniziò a suddividere le rocce a seconda dei fossili che contenevano, e non in base ai loro caratteri litologici. Fu un'epoca straordinaria, durata 180 milioni di anni, scenario di eventi che letteralmente sconvolsero il mondo. In termini di Anno della Terra, esso dura più o meno dal mattino del 15 dicembre al pomeriggio del 26 dicembre.
Il Mesozoico è diviso in tre periodi:
Il periodo Triassico va da 251 milioni a 204 milioni di anni fa, segue il Permiano e precede il Giurassico. In termini di Anno della Terra, esso durò più o meno dalle ore 15.23 dell'11 dicembre alle 10.53 del mattino del 15 dicembre. Il nome fu introdotto nel 1834 dal geologo tedesco Friedrich August von Alberti (1795-1878), e deriva dall'individuazione, in vaste regioni della Germania, di tre unità stratigrafiche, cioè di tre livelli di terreni risalenti a questo periodo, ai quali, nelle zone alpine, corrispondono più piani successivi:
Triassico inferiore | Triassico medio | Triassico superiore |
Induano | Anisiano | Carnico |
Olenekiano | Ladiniano | Norico |
Retico |
Pangea e Pantalassa
All'inizio del periodo Triassico, 248 milioni di anni fa, la Terra era formata da un unico grande continente, la Pangea, circondata da un unico oceano chiamato Pantalassa ("tutti i mari"). Praticamente non c'erano né mari né oceani fra le terre emerse, per cui tutti gli animali potevano spostarsi in ogni parte della Pangea camminando sempre sulla terraferma; il che spiega la diffusione di fossili di animali di terraferma o di acqua dolce sulle coste di continenti oggi separate tra di loro da migliaia di chilometri di oceano. Solo verso la fine di questo periodo il Gondwana, già divenuto la sezione meridionale della Pangea, iniziò a frantumarsi in più blocchi: mentre l'India iniziava il suo viaggio verso nord, il Madagascar restava ancora unito al Sudamerica ed all'Africa. Il continente formato dall'Antartide e dall'Australia, invece, iniziò ad emigrare verso sud.
Recenti ricerche riferite dalla rivista Science hanno gettato nuova luce sui possibili meccanismi di frammentazione della Pangea. Questi studi si sono basati per la prima volta sulla circolazione dei venti atmosferici in un periodo compreso fra 300 e 200 milioni di anni fa, dedotta dall'osservazione degli strati sedimentari di arenaria rinvenuti in Wyoming e nello Utah. Secondo gli autori della ricerca, il modello climatico basato sulla direzione dei paleo-venti così dedotti sarebbe in chiaro disaccordo con l'ipotesi, fin qui sostenuta in base al paleomagnetismo delle rocce, che una porzione di Pangea corrispondente all'attuale plateau del Colorado si sarebbe spostata verso nord durante il Triassico e il Giurassico, a meno di non far curvare in modo anomalo il vento di nordest verso nordovest.
Durante il Triassico il continente europeo era formato dalla Meseta iberica, dal Massiccio Centrale francese, dalle Ardenne, dalla Francia Occidentale e Settentrionale, dalla Gran Bretagna, dall'Irlanda, dallo scudo baltico e dal massiccio boemo. Fino a poco tempo fa si riteneva che nel Triassico l'Italia non esistesse ancora, mentre a partire dagli anni Duemila i fossili dei dinosauri italiani ci hanno mostrato che l'Italia è emersa prima di quanto immaginato. Le loro orme arrivate fino a noi indicano che già 230 milioni di anni fa (alle 8.16 del 13 dicembre) affioravano dall'Oceano Tetide le prime terre italiche, simili ad isole tropicali. Come ha spiegato il paleontologo monzese Cristiano Dal Sasso (1965-), del Museo Civico di Storia Naturale di Milano, « già negli anni '80 poco lontano dall'autostrada Rovereto-Trento sono state scoperte altre orme di dinosauri vissuti circa 200 milioni di anni fa. Così oggi sappiamo che fra il Triassico e l'inizio del Giurassico c'erano porzioni dello stivale che erano già emerse ».
Le rocce triassiche tipiche dell'Hannover, della Turingia, della Franconia e della Svevia sono costituite nelle stratificazioni inferiori e superiori da sedimenti continentali salmastri o lagunari cui sono interposti sedimenti di mare poco profondo. Quelle tipiche delle Alpi, a quel tempo poste lungo la fascia del mare Mesogeo o Tetide, presenta stratificazioni di sedimenti dovuti ad arenarie, calcari, dolomie e marne formatesi in mari profondi. Ad esempio, le rocce dell'attuale Gruppo del Sella, tra la Val di Fassa e la Val Badia, oggi culminante nei 3.152 metri del Piz Boè, a quel tempo costituivano il fondo di un mare tropicale che ospitava gigantesche barriere coralline, formatesi nel corso di milioni di anni; più di recente l'erosione glaciale ha scolpito le Dolomiti, portando in superficie le scogliere e i fossili che vi erano racchiusi. La presenza di rocce effusive e piroclastiche testimonia che il periodo fu caratterizzato da un'intensa attività vulcanica.
Un immenso deserto
A quel tempo i poli non erano ancora ricoperti dai ghiacci, e le alte temperature facevano dell'unico continente un luogo aspro, dominato dai deserti, senza un vero e proprio alternarsi delle stagioni. E questo perché, secondo un nuovo studio, la vita sul pianeta non era in grado di sopportare temperature estremamente elevate. Tra i 252 e i 247 milioni di anni fa (dalle 13.26 alle 23.10 dell’11 dicembre), la Terra era reduce da una grande estinzione di massa che aveva spazzato via gran parte della vita sul pianeta, tra cui buona parte della vegetazione. La Terra era letteralmente un forno, e la vita all'Equatore stentava a sopravvivere. Infatti le piante assorbono anidride carbonica, un gas che provoca l'innalzamento delle temperature. Perciò, senza di esse, la Terra divenne « una serra senza sistema di regolazione », come ha scritto il paleontologo Paul Wignall della Leeds University. Le poche forme di vita che erano sopravvissute all'estinzione del Permiano, come chiocciole e bivalvi, morirono nel caldo infernale, e nei cinque milioni di anni che seguirono la Terra divenne una sorta di "zona morta".
Wignall e i suoi colleghi sono arrivati a questa conclusione analizzando minuscoli fossili trovati nelle acque basse dei mari della Cina meridionale, che all'epoca si trovava lungo l'Equatore. Analizzando gli isotopi di ossigeno nei fossili, che costituiscono degli indicatori molto affidabili per le temperature marine, i ricercatori hanno scoperto che quei mari raggiungevano alla superficie temperature anche di 40 °C, considerate letali per la vita marina. Oggi le temperature medie nella stessa area si aggirano fra i 25° e i 30° C. Queste temperature così elevate sembrano spiegare perché la Terra, dopo l'estinzione del Permiano, ha impiegato un periodo così lungo per riprendersi (oltre 5 milioni di anni, cioè 10 ore dell’Anno della Terra), quando dopo altre estinzioni sono bastate poche centinaia di migliaia di anni: a quanto pare, faceva troppo caldo. Questa ipotesi è stata in seguito confermata da Yadong Sun e colleghi della China University of Geosciences a Wuhan, mediante l'analisi dei rapporti isotopici dell'ossigeno presente nello scheletro (che dipendono dalla temperatura ambientale) di 15.000 antichi conodonti recuperati nei sedimenti del lago Suigetsu, nella Cina meridionale (i conodonti sono misteriosi animali ancor oggi poco conosciuti, che si pensa rappresentino forme primitive di vertebrati, simili ai moderni anfiossi).
Potrebbe accadere ancora? « In teoria sì », risponde Wignall. « Secondo il Goddard Institute for Space Studies della NASA, le temperature medie globali sono aumentate di circa 0,8 gradi centigradi dal 1880 ad oggi. Due terzi dell'aumento si è verificato dal 1975 a oggi. Ma anche al tasso corrente di incremento delle temperature, siamo ancora molto lontani da quello scenario ». È necessario prima che dalla faccia del pianeta venga spazzata gran parte della vegetazione: uno scenario altamente improbabile, secondo i nostri modelli. Grazie al Cielo, aggiungiamo noi.
"Portatrici di coni"
Nei mari continuò la diffusione delle alghe (litotamni e diplopore), mentre sulla terraferma l'estinzione di massa di fine Permiano lasciò campo libero per nuove specie vegetali, che si svilupparono in questo periodo con una grande varietà di flora: cominciò il tramonto delle felci e degli equiseti, sostituite dalle gimnosperme ("piante a semi nudi"), che avevano già cominciato a farsi strada nell'ultima parte del Permiano. Lo sviluppo delle gimnosperme fu un evento di importanza capitale nella storia dell'evoluzione delle piante. Infatti, per potersi riprodurre le vecchie Crittogame del Paleozoico avevano bisogno di acqua o, come minimo, di un ambiente umido, e ciò rappresentava un grossissimo ostacolo alla loro diffusione. L'invenzione dei semi, ancora non contenuti dentro frutti carnosi ma dentro coni lignei (da cui il nome di conifere, "portatrici di coni"), significò che le piante non erano più confinate nelle lagune o sulle coste, e che potevano essere fecondate anche in assenza di acqua liquida, per esempio dagli insetti. Inoltre, mentre la spora è una sola cellula con una piccolissima quantità di sostanza nutritiva, e quindi dalla vita breve, il seme è una struttura complessa e pluricellulare, con una provvista di riserve alimentari (amidi) ed un involucro protettive. Tutte queste "migliorie" contribuirono a garantire una più certa sopravvivenza ed una più vasta diffusione delle foreste sulla superficie del pianeta.
All'inizio del Mesozoico, le Gimnosperme più comuni e spettacolari erano le Cicadine, con fusti alti e legnosi oppure tozzi e simili a botti, con foglie lunghe, dure e piumate. Apparvero poi cipressi, abeti e tassi, ma anche le Ginkgoine che esistono tuttora sulla Terra (Gingko biloba), e nelle zone più ombreggiate ed umide sopravvissero le felci arboree.
Di quell'epoca ci restano alcune straordinarie "foreste pietrificate", come gli incredibili tronchi di pietra che oggi giacciono nel Petrified Forest National Park in Arizona. Gli esemplari di quel parco appartengono per lo più della specie Araucarioxylon arizonicum, una gigantesca conifera che cresceva nelle pianure tropicali di quella regione circa 220 milioni di anni fa (alle 3.45 del 14 dicembre). Gli alberi caduti in seguito a forti burrasche spesso finivano in fiumi profondi, dove venivano sepolti dai sedimenti. La mancanza di ossigeno ne impedì la putrefazione, mentre il calore e la pressione esercitata nel corso dei millenni ha trasformato il legno in quarzo, colorato da impurità come ferro, carbone e manganese. Davvero un'occasione per riflettere invece sulla caducità di creature superbe e pretenziose quali noi siamo.
I rettili dilagano
Durante il Triassico si svilupparono parecchio le Ammoniti, conchiglie destinate a sopravvivere per 130 milioni di anni (10 giorni dell'Anno della Terra!), delle quali oggi ci restano abbondantissimi fossili. Il loro curioso nome deriva dalla circostanza per cui la tipica forma a spirale della loro conchiglia somiglia al corno del montone sacro a Giove Ammone. Ci fu anche una grande affermazione di organismi costruttori di scogliere coralline, oltre alle Alghe calcaree, ai Foraminiferi con i Miliolidi ed i Lagenidi, alle Spugne calcaree ed ai Lamellibranchi.
Tra i Vertebrati invece si evolsero degli anfibi giganteschi, come il Mastodonsauro il cui cranio piatto era lungo un metro e venti (fu il più grande anfibio di tutti i tempi!), le prime rane ed anche vari gruppi di rettili adattati ad ambienti ed alimentazioni diversi, a partire dalle tartarughe che fecero la loro prima comparsa sulla Terra. Tra di esse c'era la Proganochelide (vedi disegno), trovata in Germania, il cui aspetto era molto simile a quello delle tartarughe odierne, a parte alcune differenze: come si vede qui sotto, la sua lunga coda era ricoperta di spine come una mazza, la sua testa non poteva essere ritratta sotto il guscio e il suo collo era protetto da piccole spine; il guscio inoltre,era dotato di una serie di placche ossee supplementari più piccole, che circondavano il carapace principale.
I testudinati sono rappresentati da 300 specie viventi riunite in due sole principali varianti: le tartarughe terrestri e quelle marine, o per meglio dire adattate alla vita acquatica: queste ultime sono carnivore (si nutrono di pesce), quelle terrestri erbivore. Rettili antichi, quasi dei fossili viventi, hanno subito pochissimi cambiamenti nel corso delle ere geologiche, sono sopravvissuti a tutte le catastrofi naturali che hanno distrutto la maggior parte degli altri rettili, ed oggi sono quasi altrettanto numerosi che in passato. Un gruppo davvero ben specializzato, non c'è che dire; esso esercitò sempre un grande fascino sulle culture umane, tanto da entrare da protagoniste in varie mitologie, soprattutto quelle indiane: nel Kurmapurana, un mito cosmogonico indù, la tartaruga Kurma rappresenta il mondo: il cielo è la sua corazza ricurva, il corpo la terra, e non a caso divenne un avatar di Visnù. Secondo altre culture indiane, il disco terrestre poggiava proprio sul carapace di un'immensa testuggine. Quanto alla mitologia greca, una favola di Esopo narra che la tartaruga disse a Zeus: "Voglio una casa tutta per me, in modo che vi possa entrare solo chi dico io!" E Zeus rispose: "Avrai una casa tutta tua, ma vi potrai entrare solo tu!"
Proganochelys quenstedti, disegno dell'autore |
L'evoluzione del guscio delle tartarughe
E ora, una scoperta fondamentale eseguita nel 2016 da un gruppo di paleontologi del Denver Museum of Nature and Science e dell'Università del Witwatersrand a Johannesburg grazie allo studio dei fossili di una proto-tartaruga, Eunotosaurus africanus, vissuta circa 260 milioni di anni fa (alle 21.52 del 10 dicembre) nel bacino del Karoo, in Sudafrica. L'evoluzione del guscio di tartaruga ha lasciato a lungo perplessi gli scienziati: lo studio embriologico delle tartarughe moderne mostra infatti che il carapace dell'animale non deriva da strutture ossee (osteodermi) sviluppate dal derma che poi si fondono con le vertebre e le costole, ma ha origine direttamente dai tessuti che generano costole e vertebre. Questo processo implica un notevole ampliamento delle costole che è del tutto anomalo, irrigidendo il tronco, riducendo la lunghezza del passo e rallentandolo, oltre ad interferire con la respirazione. Le tartarughe, in cui le costole sono altamente modificate per formare gran parte del guscio, sono l'unica eccezione.
Ebbene, lo studio dei nuovi fossili ha mostrato che gran parte del corpo di questi antenati delle tartarughe non era affatto protetto da uno scudo, la cui presenza era limitata a particolari zone, quelle laterali. Insieme ad altri adattamenti, come quelli delle zampe anteriori, questo particolare ha suggerito che Eunotosaurus si fosse adattato a scavare il terreno. Ne consegue che l'impenetrabile guscio delle tartarughe non ha iniziato la propria evoluzione come difesa di predatori, ma per facilitare lo scavo di tane e cunicoli in cui nascondersi per sfuggire a un Sole che stava rendendo troppo arido l'ambiente in cui vivevano gli antenati di questi animali. La funzione protettiva del carapace e del piastrone delle tartarughe si sarebbe quindi sovrapposta nel corso delle generazioni a una funzione precedente, proprio come è avvenuto per le penne, che non hanno iniziato a svilupparsi per il volo.
Questa conclusione trova un'ulteriore conferma dall'analisi dell'ambiente in cui viveva l'animale: a quell'epoca il Sudafrica stava infatti passando da un clima relativamente umido a uno arido: le antiche tartarughe probabilmente scavavano tane e cunicoli nelle immediate vicinanze di stagni e pozze d'acqua.
La tartaruga con mezzo guscio
A questo punto non è possibile non citare la recente scoperta dello scheletro fossile di una tartaruga che sta sconvolgendo ogni idea che si credeva acquisita circa l'evoluzione dei Testudinati. Una storia evolutiva che, per quel che se ne sapeva fino a poco tempo fa, ci raccontava di rettili sempre terrestri che, a scopo di difesa, hanno evoluto una struttura insieme ossea e cornea coinvolgente sia lo scheletro assile (vertebre e costole), sia la produzione di scudi cornei e ossei di origine cutanea, il tutto fuso a costituire quella robusta corazza che è caratteristica peculiare dell'ordine delle Testudines, suddivisa in una parte inferiore, il piastrone, e in una superiore, il carapace. Insomma, questa storia ci raccontava di un vero e proprio carro armato naturale, evolutosi a scopo difensivo nei confronti di predatori provenienti dall'alto, come si conviene ad animali terrestri. Quanto alle tartarughe acquatiche, si pensava che fossero ben più recenti: Santanachelys gaffneyi, considerata la più antica tartaruga marina, data circa 110 milioni di anni fa (all'una e 52 del 23 dicembre), in pieno Cretacico, 100 milioni di anni dopo la Proganochelide raffigurata qui sopra: un salto temporale più che ragguardevole.
Ed ecco la grande sorpresa, annunciata come al solito su Nature: alcuni paleontologi dell'Accademia Sinica di Pechino, guidati da Chun Li, hanno scoperto il più antico fossile di tartaruga finora noto, vissuto 220 milioni di anni fa (alle 03.45 del 14 dicembre) nella provincia sudorientale cinese di Guizhou e denominato Odontochelys semitestacea. Un essere decisamente primitivo, definito dagli scopritori « una creatura di transizione », che per certe sue caratteristiche non può che essere una tartaruga marina. Ciò si deduce soprattutto dal fatto che essa possiede il solo piastrone, il che indica una difesa dal basso, come appunto serve alle specie marine, ma che è anche un chiaro sintomo di primitività. Inoltre, altro segno di primitività, Odontochelys possedeva ancora denti al posto del classico becco che caratterizza le moderne tartarughe: il nome scientifico Odontochelys significa non a caso « tartaruga con i denti », mentre semitestacea vuole dire « con mezza armatura ». Sono naturalmente iniziate le diatribe circa l'esatta collocazione di questo straordinario reperto nell'albero genealogico dei rettili. Una prima possibilità, sostenuta da Chun Li, è che tutto il percorso evolutivo dei Testudinati sia da reinterpretare, perché le tartarughe si sarebbero inizialmente evolute in acqua; l'altra, sostenuta invece dalla maggior parte dei paleontologi, è che Odontochelys discenda da un ramo primitivo di tartarughe terrestri che avrebbe precocemente colonizzato il mare, come se fossero andate in avanscoperta.
Il debutto dei coccodrilli
Mentre l'estinzione di fine Permiano spazzava via i Rettili Mammiferi, altri rettili continuarono ad espandersi sempre più, cominciando a raggiungere dimensioni enormi; tra questi vi erano i crurotarsi ("caviglie a forma di croce"), animali caratterizzati da un cranio massiccio, un muso stretto e allungato, un collo tozzo e forte e due o più file di placche ossee a proteggere il corpo. Alcuni avevano le zampe ai lati del corpo come i coccodrilli attuali, e preferivano per lo più strisciare sul ventre, mentre altri riuscivano a camminare con le zampe erette. Molti crurotarsi raggiunsero almeno i tre metri di lunghezza.
Apparsi durante l'Olenekiano (Triassico inferiore), già pochi milioni di anni dopo erano i dominatori dei continenti, in un'epoca in cui i dinosauri erano ancora piccoli e incapaci si competere con loro, ed avevano sviluppato una enorme varietà di forme: i rauisuchidi dalla postura eretta, i fitosauri simili a coccodrilli, gli aetosauri erbivori e corazzati, i grandi poposauridi predatori e soprattutto i protosuchi ("coccodrilli primigeni"), antenati dei moderni coccodrilli, alligatori e caimani. Un'esempio di questi ultimi è il Protosuchus richardsoni qui sotto rappresentato, che raggiungeva il metro e venti di lunghezza. Era diffuso in Europa e nel Nordamerica alla fine del Triassico, e probabilmente era veloce sia nella corsa che nel nuoto. Come mostra il disegno, non assomigliava molto ai coccodrilli odierni, perchè a differenza loro era in grado di alzarsi sulle quattro zampe, e non aveva dunque bisogno di strisciare sulla pancia; la lunga coda bilanciava il resto del corpo. La testa era piuttosto corta, sulla mandibola erano innestati due lunghi denti caniniformi ed il suo dorso era tutto ricoperto da una duplice armatura ossificata, che giungeva fino alla fine della coda. Probabilmente non viveva in acqua come i coccodrilli attuali, ma sulla terraferma, sulla quale predava piccoli animali terrestri. Nonostante le sue modeste dimensioni, alcuni suoi discendenti, come il Deinosuco ("coccodrillo terribile") del Cretacico, arriveranno a misurare quindici metri!!
Protosuchus richardsoni dell'Arizona, antenato degli attuali coccodrilli, disegno dell'autore |
Il colpo di fortuna dei dinosauri
Nel Triassico fecero il loro debutto gli Herrerasauri, scoperti in Argentina negli anni '60, unanimemente considerati i più primitivi tra tutti i dinosauri, a loro volta discesi da più primitivi Tecodonti. Gli Herrerasauri presentavano già alcuni tratti in comune con i grandi Teropodi del Giurassico, come le grosse mandibole, i denti da carnivoro e le strutture pelviche, ma mancavano di altri tratti tipici dei Teropodi, come le sacche aerifere vertebrali. Secondo alcuni il più antico di tutti i dinosauri sarebbe l'Eoraptor lunensis, scoperto nel 1993, lungo meno di un metro, pesante non più di 10 Kg e vissuto in Argentina circa 226 milioni di anni fa (alle ore 16 del 13 dicembre). Altri invece ritengono che il più antico dei dinosauri sia l'Asilisaurus kongwe, scoperto nel 2009 in Tanzania da Sterling Nesbitt, ricercatore della Jackson School of Geosciences, e vissuto 242 milioni di anni fa (alle 8.54 del 12 dicembre, quindi circa 32 ore prima).
Di solito si pensa che i dinosauri abbiano dominato la Terra per un periodo di tempo così lungo perché disponevano di caratteristiche che li rendevano superiori agli altri gruppi di animali loro contemporanei. Tuttavia un gruppo di ricercatori della Columbia University e dell'American Museum of Natural History, diretti da Steve Brusatte, hanno dimostrato che che per i primi 30 milioni di anni della loro storia i lucertoloni terribili si trovarono a fronteggiare i temibili crurotarsi, che avevano tutti i numeri per contendere loro lo scettro. « Per lungo tempo si è pensato che i dinosauri avessero qualcosa di speciale che li aiutò a diventare dominanti nel corso del Triassico, ossia nei primi 30 milioni di anni della loro storia, ma questo non è vero », ha osservato Brusatte. « Se qualcuno di noi fosse vissuto nel Triassico e avesse dovuto dire quale gruppo di animali sarebbe stato quello dominante nei successivi 130 milioni di anni, avrebbe indicato i crurotarsi e non i dinosauri. »
Il fatto è che al termine del Triassico superiore avvenne una nuova estinzione di massa, durante la quale tutti i grandi crurotarsi scomparvero. Almeno metà delle specie del pianeta scomparve nel giro di 100.000 anni: tale evento è una delle cinque grandi estinzioni di massa che si registrano nella storia geologica della Terra, e fu proprio grazie a questo "colpo di fortuna", come lo ha definito Brusatte, che i dinosauri divennero i dominatori del pianeta. Brusatte e colleghi hanno misurato l'evoluzione dei due gruppi in competizione valutando 437 caratteristiche degli scheletri di 64 specie di dinosauri e crurotarsi, tracciando un nuovo albero filogenetico e ricavando un "indice di disparità", capace di rappresentare un indicatore dei differenti stili di vita, diete e habitat dei due gruppi. I ricercatori hanno così stabilito che i crurotarsi avevano un indice di disparità doppio di quello dei dinosauri. Essi hanno anche valutato il tasso di evoluzione dei due gruppi, per verificare se i dinosauri si stessero diversificando in nuove specie a una velocità superiore a quella dei crurotarsi, come ci si dovrebbe aspettare se avessero avuto capacità particolari tali da surclassare i loro competitori. Ma le misure eseguite hanno mostrato che i due gruppi avevano un tasso evolutivo simile nel corso dei 30 milioni di anni durante cui sono convissuti. Ed in base a queste conclusioni è difficile affermare che i dinosauri fossero superiori ai loro cugini durante il Triassico. Sono stati piuttosto baciati dalla fortuna quando i crurotarsi furono messi a dura prova dall'estinzione alla fine del Triassico. « Molti pensano che l'evoluzione sia progressiva, e che i mammiferi siano ad esempio migliori dei dinosauri perché sono venuti dopo », ha commentato Michael Benton, coautore della ricerca. « Per questo può essere difficile accettare che i dinosauri abbiano raggiunto la loro posizione dominante sulla Terra per pura fortuna, proprio come fecero i mammiferi quando i dinosauri vennero spazzati via dall'estinzione di massa del Cretacico. »
La conferma della portata globale di questa estinzione di massa è venuta da una ricerca condotta da Rowan C. Martindale dell'Università del Texas ad Austin e da Martin Aberhan del Museo di Storia Naturale di Berlino. Dato che quell'evento fu un effetto collaterale di un cambiamento climatico, lo studio del destino delle antiche comunità marine potrebbe essere una finestra sul potenziale impatto del cambiamento climatico attualmente in corso sulla vita negli oceani. Martindale e Aberhan hanno dimostrato che 183 milioni di anni fa (alle 03.45 del 17 dicembre) nel sito canadese di Ya Ha Tinda, scoperto di recente nell'Alberta sudoccidentale, si verificò un evento anossico marino. Analizzando le variazioni nella composizione delle rocce sedimentarie dell'epoca, i ricercatori hanno identificato marcatori chimici che indicano la progressiva diminuzione dell'ossigeno disciolto nelle acque. Hanno inoltre rilevato fra i fossili una diminuzione parallela delle popolazioni delle diverse specie e una perdita di biodiversità, che in precedenza era caratterizzata da una ricca fauna di pesci, ittiosauri, crostacei, crinoidi, coleoidi, ammoniti e e bivalvi. In particolare, i bivalvi più abbondanti prima dell'evento anossico furono completamente eliminati e sostituiti da specie diverse, i cui esemplari erano inoltre molto più piccoli dei precedenti, probabilmente perché la loro crescita era limitata proprio dai bassi livelli di ossigeno.
In ogni caso, durante il Giurassico, mentre i dinosauri dominavano la terraferma, i crurotarsi non sparirono di certo, perchè almeno i protosuchi crocodilomorfi ce la fecero a scamparla ed abitarono i fiumi, le paludi e gli oceani, con una diversificazione ben maggiore rispetto a quella attuale. In seguito alla successiva crisi dell'Iridio, di cui parleremo più sotto, i dinosauri scomparvero, mentre incredibilmente i crurotarsi riuscirono a sopravvivere senza grossi cambiamenti evolutivi, e giunsero fino al presente, dando vita alle famiglie dei coccodrilli, degli alligatori e dei gaviali. La nemesi storica in azione?
Un meteorite al principio ed uno alla fine
Secondo recenti studi, il "colpo di fortuna" del quale beneficiarono i dinosauri non fu un cataclisma tettonico o qualche altro fenomeno endogeno, ma l'impatto di un gigantesco asteroide. Ne conseguirebbe che la caduta di un corpo celeste sulla Terra non avrebbe segnato solo il declino dei dinosauri, ma anche l'inizio della loro ascesa! Il paleontologo Paul Olsen e i suoi colleghi del Lamont-Doherty Earth Observatory (LDEO) della Columbia University nell'estate 2012 hanno ispezionato il cortile della famiglia Sell, nel New Jersey occidentale, dove sono visibili i resti meglio conservati del limite Triassico-Giurassico. Molti scienziati imputavano l'estinzione di fine Triassico alle eccezionali eruzioni vulcaniche avvenute nell’arco di 20.000 anni quando il supercontinente Pangea iniziò a fratturarsi, che riversarono oltre un milione di chilometri cubi di lava sulle aree destinate a diventare l'Africa e le Americhe, raddoppiando il livello di anidride carbonica nell'atmosfera e causando un drastico riscaldamento globale, con un incremento medio della temperatura di circa tre gradi. « Questi tre gradi potrebbero essersi tradotti in temperature estive talmente alte da essere letali, specialmente per alcuni tipi di vegetali a foglia larga, determinando l'estinzione degli animali che dipendevano dalle piante per il loro sostentamento », ha spiegato Olsen. « Negli oceani, un rapido incremento dell'anidride carbonica avrebbe portato un'acidificazione dell'acqua, con un impatto negativo sulle specie animali dotate di scheletro in carbonato di calcio, come i coralli, i bivalvi e gli ammoniti, che soffrirono tutti di una diminuzione di biodiversità. » Le eruzioni vulcaniche, tuttavia, furono accompagnate dal rilascio di grandi quantità di composti volatili che riflettono la luce del sole, causando una diminuzione di temperatura. « Il raffreddamento durò poco poiché lo zolfo viene rimosso rapidamente dall'atmosfera; tuttavia, l'effetto fu molto intenso, e per un mondo in cui i poli erano ricoperti da foreste e non da calotte di ghiaccio, sulla terraferma questi drastici cambiamenti climatici potrebbero essere stati devastanti », ha aggiunto Olsen. « Si può immaginare che vi siano stati diversi episodi, durati ciascuno alcune decine di migliaia di anni, in cui l'anidride carbonica determinò un aumento della temperatura che poi andò scomparendo nell'arco di circa 100.000 anni; questi periodi di grande calore probabilmente furono punteggiati da intervalli di improvviso e intenso raffreddamento causato dallo zolfo ».
Tuttavia, sull'estinzione di massa della fine del Triassico vi erano punti non poco oscuri; ad esempio il momento in cui apparvero le spore delle felci. Queste infatti sono spesso le prime piante ad apparire dopo un disastro naturale, ma in questo caso, benché in alcune aree le maggiori quantità di spore di felci si trovino in corrispondenza dei flussi di lava più consistenti, in altre i valori massimi sono associati a epoche precedenti l'estinzione. Questa ed altre evidenze portano ad ipotizzare che nell'estinzione di fine Triassico abbia avuto un ruolo fondamentale l'impatto di un enorme meteorite: il formidabile impatto che produsse il Cratere di Manicouagan, nel Québec, si verificò pressappoco nello stesso periodo, ma circa un milione di anni prima la fine del Triassico: troppo presto per ipotizzare un rapporto di causa-effetto. Olsen colleghi tuttavia hanno trovato un altro evento risalente all'epoca giusta: un cratere di 40 chilometri di diametro scoperto a Rochechouart, in Francia. Olsen e colleghi hanno trovato le prove di un impatto avvenuto proprio prima del cambiamento climatico globale e dell’estinzione di massa, ma esso può aver perturbato gli ecosistemi, in modo tale da renderli più sensibili ai processi di riscaldamento e di raffreddamento delle successive eruzioni vulcaniche. Poveri crurotarsi, alle prese con una minaccia proveniente dal cielo e da una proveniente dalle profondità della terra!
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Le estinzioni di massa oggi note nell'Anno della Terra |
Una sesta estinzione di massa?
Non possiamo non citare in questo ipertesto l'ipotesi tutta italiana avanzata da Jacopo Dal Corso, della China University of Geosciences, insieme al Museo delle Scienze di Trento (Muse), alle Università di Ferrara e di Padova e al Museo di Scienze Naturali dell'Alto Adige, secondo cui nella storia geologica del pianeta Terra andrebbe inserita una sesta estinzione di massa mai individuata prima, avvenuta circa 233 milioni di anni fa (alle 02.25 del 13 dicembre) e chiamata "Episodio Pluviale Carnico". Cinque sono le grandi "estinzioni di massa" finora conosciute: quella dell'Ordoviciano-Siluriano (circa 450 milioni di anni fa), del Devoniano superiore (circa 375 milioni di anni fa), del Permiano-Triassico (circa 250 milioni di anni fa), del Triassico-Giurassico (circa 200 milioni di anni fa) e del Cretacico-Terziario (circa 65 milioni di anni fa). Questa sesta estinzione sarebbe stata scatenata da spaventose eruzioni vulcaniche, ed è stata ipotizzata grazie all'esame di prove geologiche e paleontologiche raccolte in anni di lavoro e analizzate grazie alle nuove tecnologie.
Come le altre transizioni biotiche dal carattere disastroso, anche la sesta appena individuata sarebbe stata caratterizzata da eventi catastrofici e distruttivi che cambiarono per sempre il Pianeta: le eruzioni vulcaniche produssero circa un milione di chilometri cubi di magma ed iniettarono in atmosfera enormi quantità di gas serra come l'anidride carbonica, che portarono a un riscaldamento globale associato a un forte aumento delle precipitazioni e che durò circa un milione di anni. L'improvviso cambiamento climatico ha accelerato la perdita di biodiversità sia negli oceani che sulle terre emerse. Subito dopo l'evento di estinzione, nuovi gruppi fecero la loro comparsa o si diversificarono rapidamente. Fra questi anche i dinosauri, contribuendo all'origine di nuovi ecosistemi. L'estinzione nel Carnico agì come un motore importante per l'evoluzione della vita: la storia scritta nelle rocce e nei fossili ci mostra quanto intense siano le conseguenze di grandi eventi di estinzione. Questi eventi sono segnati da crisi e, contemporaneamente, da rinnovamento della vita, in cui è difficile prevedere chi si troverà dalla parte dei vinti e chi, invece, tra i vincitori.
La cosa però riguarda molto da vicino anche noi. Al giorno d'oggi, infatti, viene definita comunemente "sesta estinzione di massa" a livello globale quella in corso, che sta portando alla scomparsa di tantissime specie animali e vegetali e alla perdita di biodiversità a causa della crisi climatica e dell'azione umana. Conoscere meglio le estinzioni di massa del passato potrebbe aiutarci ad evitare un altro disastro ecologico prossimo venturo.
Quando piume e peli salvarono i dinosauri
Tornando all'estinzione di fine Triassico, il fatto che permise ai dinosauri di sopravvivere a quel vero e proprio collo di bottiglia potrebbe essere stata la loro capacità di affrontare il gelo di un inverno vulcanico improvviso e terribile. Non esiste un metodo diretto per determinare il clima che i dinosauri dovettero affrontare 204 milioni di anni fa (alle 10.53 del 15 dicembre), quando una quantità di lava tale da riempire 500 volte il Grand Canyon si riversò al centro del supercontinente Pangea. Lo zolfo dei vulcani in eruzione forma minuscole goccioline riflettenti nell'atmosfera che fanno rimbalzare la luce solare nello spazio, raffreddando il pianeta e portando a un "inverno vulcanico" di breve durata. Noi stessi abbiamo osservato questo effetto in eventi molto più recenti, come l'ondata di freddo seguita all’eruzione del vulcano Pinatubo, nelle Filippine, nel 1991. Le simulazioni al computer suggeriscono che un inverno indotto dai vulcani alla fine del Triassico avrebbe potuto far crollare le temperature anche di dieci gradi! Ora, nelle rocce appartenute al fondo di antichi laghi nel bacino di Junggar, nell'attuale Cina nord-occidentale che a quell'epoca si trovava a nord del Circolo Polare Artico e in cui si sono trovate prove che in inverno ghiacciavano, sono state anche rinvenute impronte ben conservate di dinosauri, il che suggerisce che i dinosauri artici si aggiravano sulle rive degli antichi laghi anche durante le gelide condizioni invernali. Basandosi sui legami evolutivi tra i dinosauri del tardo Triassico e i dinosauri successivi, gli pterosauri e gli uccelli moderni dotati di piume, Paul Olsen, geologo e paleontologo della Columbia University, ha sostenuto che i dinosauri sopravvissuti a quel periodo freddo erano anche dotati di uno strato isolante costituito da piume e altre antiche strutture anatomiche simili a penne, con la forma di singoli lunghi peli. Questo scenario implicherebbe un'evoluzione delle piume dei dinosauri più precoce rispetto a quella riscontrata nella documentazione fossile a nostra disposizione, ma è in linea con la teoria secondo cui ci fu una prima, singola evoluzione delle piume nei dinosauri, come spiegheremo più sotto, parlando del Cretacico.
Per Olsen, il fatto che i dinosauri abbiano approfittato di un'ondata di freddo alla fine del Triassico per diventare dominanti spiega anche altre caratteristica della documentazione fossile. Alcuni parenti estinti dei coccodrilli, i protosuchi, cui abbiamo accennato sopra, hanno dominato i caldi tropici del tardo Triassico, e non ci sono prove di penne nel loro albero filogenetico. I paleontologi ritengono che, come i rettili moderni, i protosuchi si siano adattati a conservare l'acqua, e quindi avrebbero potuto sopravvivere alle condizioni di caldo e siccità se le violentissime eruzioni vulcaniche avessero causato un'ondata anomala di calore. Ma gli scheletri e le impronte di questi rettili scompaiono quasi del tutto dalla documentazione fossile dopo la fine del Triassico, il che porta Olsen a ritenere che non abbiano potuto mantenersi caldi durante un inverno vulcanico. In pratica, tutto ciò che non era "isolato" sulla terraferma si è estinto. Naturalmente trovare ulteriori dinosauri intorno agli antichi poli della Pangea e segni più chiari di basse temperature al di fuori del bacino di Junggar sarà fondamentale per capire esattamente quali condizioni abbiano fatto scomparire gli pseudosuchi e che cosa abbia permesso ai dinosauri di sopravvivere alla fine del Triassico. Anche in questo caso, naturalmente, la comprensione delle sei estinzioni di massa, compresa quella attualmente in corso, associate a un improvviso cambiamento climatico, è assolutamente cruciale per capire che cosa dovremo affrontare noi uomini in futuro. Ecco perchè è tanto importante studiare la geologia e la paleoclimatologia.
La Grande Trek dei dinosauri triassici
I dinosauri erbivori potrebbero aver raggiunto l'emisfero settentrionale milioni di anni dopo l'arrivo dei loro cugini carnivori, una differenza che potrebbe dipendere dalle condizioni climatiche dell'epoca. Questa ipotesi è stata avanzata dagli scienziati della Columbia University, i quali hanno misurato l'età dei fossili di dinosauro scoperti in Groenlandia, scoprendo una differenza di milioni di anni rispetto alle precedenti considerazioni. I resti degli erbivori noti come sauropodomorfi avevano infatti circa 215 milioni di anni (alle 13.28 del 14 dicembre), contro i 228 ipotizzati precedentemente (a mezzogiorno spaccato del 13 dicembre). Questo ci porta a ripensare completamente le migrazioni dei dinosauri.
Il team ha elaborato un modo più preciso per ottenere l'età dei fossili, basato sull'analisi dei cambiamenti nel magnetismo terrestre nel suolo, il che ha evidenziato le differenze nelle tempistiche di migrazione. I primi dinosauri potrebbero essersi sviluppati in Sud America circa 230 milioni di anni fa (alle 8.16 del 13 dicembre), per poi migrare in ogni parte del mondo. I paleontologi ritenevano che la migrazione fosse avvenuta indistintamente per carnivori e non, ma questo lavoro suggerisce che i primi potrebbero aver raggiunto l'emisfero settentrionale milioni di anni prima dei sauropodomorfi. Non sono documentati scheletri di erbivori con più di 215 milioni di anni nella Groenlandia, mentre i carnivori erano presenti nella gran parte del globo da almeno 220 milioni di anni fa. Secondo gli autori, la differenza nei tempi di migrazione potrebbe essere dovuta ai cambiamenti climatici. Circa 230 milioni di anni fa i livelli di anidride carbonica erano circa 10 volte più elevati rispetto alla situazione attuale. Nelle regioni a nord e sud dell'equatore il clima era molto secco e non vi erano piante adeguate all'alimentazione dei sauropodomorfi, mentre i carnivori potrebbero essersi nutriti di altri animali durante il viaggio attraverso gli emisferi. Dopo 15 milioni di anni, tuttavia, i livelli di CO2 sono scesi notevolmente, fino a dimezzarsi, il che ha permesso ai sauropodomorfi di percorrere il viaggio e migrare, incontrando vegetazione adatta alle loro esigenze nutritive.
Questa teoria si adatta anche a molte specie esistenti che restano lontani da climi specifici. Si tratta di un'ipotesi molto interessante, ma c'è un problema: solo perchè nell'emisfero settentrionale non sono stati scoperti fossili di erbivori più vecchi di 215 milioni di anni, ciò non implica necessariamente che nella regione non siano stati presenti sauropodomorfi in epoche precedenti. I fossili potrebbero semplicemente non essere sopravvissuti. Per verificare o meno la teoria occorreranno dunque studi ulteriori.
Il debutto dei grandi dinosauri
Già nel Triassico superiore, durante l'epoca della loro competizione con i crurotarsi, fecero la loro apparizione i primi grandi dinosauri erbivori, i Plateosauri. Essi ebbero una diffusione vastissima: i loro resti fossilizzati affiorano in Europa, Nord e Sudamerica, Africa ed Estremo Oriente. Erano già animali di dimensioni considerevoli: Massospondylus aveva una lunghezza massima di 4 metri, Lufengosaurus giungeva ai 6 metri, Plateosaurus ad 8 ed Euskelosaurus (la cui attribuzione alla famiglia è però controversa) toccò addirittura i 12 metri! Ritti sulle possenti zampe anteriori e con il collo teso, potevano raggiungere le foglie più alte, fino a sei metri dal suolo. Furono sicuramente i più colossali animali del Triassico, dato che un adulto delle specie più grandi poteva raggiungere i 20 quintali di peso. Gli arti anteriori erano più corti dei posteriori: una caratteristica che vedremo essere comune a numerosissimi dinosauri giurassici. Erano generalmente quadrupedi, ma potevano sollevarsi sulle forti zampe posteriori, e forse anche correre per brevi tratti, come ancor oggi succede ad alcuni sauri viventi. Quasi certamente però essi non potevano stare a lungo ritti sulle zampe posteriori, anche se la coda poteva bilanciare il peso del corpo e costituire un efficace sostegno. Le zampe terminavano con mani e piedi a 5 dita; pollice, indice e medio erano dotati di robusti artigli la cui funzione è tuttora oggetto di discussione. Forse venivano usati per afferrare i rami, avvicinarli alla bocca e trattenerli durante il pasto, ma non può essere escluso uno scopo difensivo. Secondo alcuni invece venivano usati dai maschi per trattenere le femmine durante l'accoppiamento.
Alla comparsa dei primi grandi erbivori (che sarebbero poi stati rimpiazzati dai Sauropodi colossali del Giurassico) fa da contraltare la comparsa dei primi grandi predatori: carnivori tozzi, pesanti e terribilmente aggressivi, sempre in cerca di prede. Molto probabilmente questi predecessori dei Teropodi giurassici furono i Teratosauri, animali di cui possediamo solo scheletri incompleti, e la cui ricostruzione è basata più sulla fantasia e sull'esperienza dei ricercatori che su effettivi indizi paleontologici. Si pensa che essi potessero raggiungere i 6 metri di lunghezza e un peso compreso tra i 3 e i 7 quintali; le loro fauci erano armate di denti acuminati, un'ottima arma per uccidere prede anche grandi come i Plateosauri, e le corte zampe anteriori, dotate di sole tre dita, dovevano essere usate per tener ferma la preda catturata; le forti zampe posteriori, dotate di artigli robusti, dovevano invece consentire una salda presa sul terreno durante gli inseguimenti e gli assalti.
Alla luce di tutto ciò, appare probabile che i Plateosauri avessero sviluppato abitudini sociali assai evolute. Infatti essi erano grossi, lenti, privi di armi difensive efficienti, e se isolati avrebbero costituito un bersaglio facile per i grandi Teratosauri affamati come lupi. Invece una vita in branco avrebbe accresciuto notevolmente le possibilità di farla franca di fronte all'assalto di uno o più carnivori. L'ipotesi che i plateosauri vivessero in grandi branchi, come gli erbivori odierni tipo gnu e bisonti, pare confermato dai ritrovamenti di grandi cimiteri di questi animali poco a sud di Stoccarda: non è certo improbabile che i branchi affrontassero periodiche migrazioni, alcune delle quali si sarebbero concluse in modo drammatico, specie in caso di attraversamento di un grande fiume in piena. Questa ipotesi appare certamente assai più realistica di quella che vorrebbe i rettili triassici per lo più solitari, ed i grandi cimiteri dovuti solo alla forza delle acque che avrebbero casualmente trascinato in uno stesso luogo le carcasse di individui isolati.
Kristi Curry Rogers e collaboratori dell'Universidad Nacional de San Juan, in Argentina, hanno avanzato l'ipotesi che l'ascesa dei dinosauri possa essere stata favorita, in parte, dalla loro velocità di crescita. Grazie allo studio al microscopio delle ossa fossili, i paleontologi hanno appurato che i dinosauri dei periodi successivi avevano tassi di crescita molto più rapidi di quelli dei rettili moderni, ma non era chiaro se questo valesse o meno anche per i primi dinosauri. Kristi Curry Rogers ha esaminato i modelli microscopici conservati nelle ossa della coscia appartenenti a cinque delle prime specie di dinosauri conosciute, e li ha confrontati con quelli di sei rettili non dinosauri e di un primo parente dei mammiferi, tutti fossili provenienti dalla Formazione Ischigualasto in Argentina. Le ossa sono un archivio della storia della crescita perché anche nei fossili è possibile osservare gli spazi in cui i vasi sanguigni e le cellule perforavano il tessuto mineralizzato. Più la crescita è lenta, più le caratteristiche microscopiche sono organizzate; con una crescita più rapida, le caratteristiche microscopiche dell'osso appaiono più disorganizzate. E così, il team di Kristi Curry Rogers ha scoperto che i primi dinosauri crescevano continuamente, senza fermarsi fino a quando non raggiungevano la dimensione adulta. Ma questo era vero anche per molti dei loro contemporanei non dinosauri: pare che la maggior parte degli animali che vivevano nell'ecosistema di Ischigualasto crescessero rapidamente, a tassi più simili a quelli dei mammiferi e degli uccelli odierni che a quelli dei rettili di oggi. I loro studi hanno dimostrato che la crescita rapida è un'ottima strategia di sopravvivenza nel periodo immediatamente successivo a un'estinzione di massa come quella di fine Triassico.
Nel dicembre 2010 ha fatto rumore la scoperta del più antico progenitore conosciuto dei Teropodi, battezzato Eodromaeus ("corridore dell'alba"), lungo appena due metri e pesante meno di sette chili. Il suo scheletro fossile è stato rinvenuto in Argentina, nella Valle della Luna, da Ricardo Martinez dell'Università Nazionale di San Juan. Scavando nelle rocce dell'Ischigualasto, formazione geologica nel nordest dell'Argentina famosa per il gran numero di dinosauri che vi sono stati trovati, i ricercatori hanno portato alla luce uno scheletro datato intorno a 230 milioni di anni fa (alle 8.16 del 13 dicembre). Sicuramente era un predatore ed inseguiva le sue prede correndo sulle due zampe posteriori proprio come un tirannosauro, che da lui probabilmente è disceso. Analizzando lo scheletro, infatti, si notano, nel bacino, negli arti e nel cranio, elementi che si ritroveranno nel disegno anatomico di tutti i dinosauri carnivori. Lo studio di Eodromaeus e la comparazione con Eoraptor lunensis, già citato sopra, ha permesso di scoprire che quest'ultimo è probabilmente il progenitore dei sauropodi, i dinosauri erbivori, come proverebbero caratteristiche anatomiche come le narici allargate e un dente in più sulla mandibola. La scoperta di Eodromaeus, la nuova classificazione di Eoraptor e l'analisi dei fossili di Ischigualasto hanno dimostrato che, nel Tardo Triassico, i dinosauri già mostravano una diversità di forme congeniale alle diverse abitudini motorie e alimentari.
Un altro dinosauro carnivoro molto antico è stato scoperto nel dicembre 2009 nel Nuovo Messico e denominato battezzato Tawa hallae, dal nome del dio del sole dei popoli Pueblo in lingua Hopi e in omaggio a Ruth Hall, fondatrice del principale Museo Paleontologico del New Mexico. Esso visse 213 milioni di anni fa (alle 17.21 del 14 dicembre) e la sua lunghezza poteva variare dal metro e ottanta fino a quasi quattro metri. Si tratta del più antico dinosauro scoperto nel Nuovo Messico, ed anch'esso apparterrebbe alla famiglia dei Teropodi da cui poi è disceso il più celebre Tirannosaurus rex; secondo il suo scopritore Sterling Nesbitt, dell'Università del Texas, le sue caratteristiche, comparate con quelle dei dinosauri del Sudamerica come Eodromaeus, suggerirebbero che questi rettili giganti avrebbero avuto origine proprio nell'America Meridionale, per poi diffondersi in tutto il pianeta. A condurre Nesbitt a queste conclusioni in particolare è stata l'analisi comparata dello scheletro di Tawa hallae con quello degli Herrerasauri, altri dinosauri molto primitivi: Tawa possedeva più caratteristiche in comune con i Teropodi (come pelvi e sacche aerifere vertebrali) che con gli Herrerasauri. Se Martinez e Nesbitt hanno ragione, è proprio dal Sudamerica che sarebbe iniziata una delle più straordinarie avventure della vita sulla Terra, l'era dei grandi Dinosauri, durata oltre 170 milioni di anni, cioè quasi due settimane dell'Anno della Terra!
Sempre nel Triassico comparvero anche i Parapsidi, rettili inizialmente di dimensioni modeste, ma poi divenuti grandissimi, i quali passarono dalla terraferma all'acqua dolce e poi a quella salata, cambiando il loro aspetto primitivo di sauri in quello di pesci per un fenomeno di "convergenza evolutiva" (animali diversi adattati allo stesso ecosistema assumono morfologie molto simili tra loro: basta confrontare un pesce, un delfino e un pinguino). Essi furono gli antenati dei Plesiosauri e degli Ittiosauri. Tra i primi rettili adattati all'ambiente acquatico ci fu il Notosauro (Nothosaurus giganteus), vissuto nel Triassico medio (circa 230 milioni di anni fa, alle 8.16 del 13 dicembre), i cui resti sono stati rinvenuti in Germania, Italia e Cina. Il corpo di questo animale semiacquatico raggiungeva i quattro metri, con collo e coda affusolati e un cranio lungo e piatto, e forse zampe palmate. Probabilmente il notosauro viveva nelle acque costiere, predando pesci e altre creature marine, analogamente a quanto fanno oggi foche e otarie. Probabilmente l'area oggi occupata dalla Svizzera Italiana e dall'alta Provincia di Varese (non lontano da dove abita l'autore di questo sito) nel Triassico Medio era occupata da una vasta laguna che pullulava di notosauri, e i loro resti sono stati oggi ritrovati negli scisti di Besano, vicino a Varese. Presumibilmente i notosauri deponevano le uova nella sabbia delle spiagge, come le tartarughe, e lì sia le uova che i piccoli erano esposti all'appetito di dinosauri terrestri ritrovati nelle stesse rocce come il crurotarso Ticinosuco, ritrovato nelle stesse rocce (il suo nome parla da solo). Questi dinosauri sono molto importanti per noi, dimostrando che alcune delle "lucertole terribili" hanno abitato anche nel territorio oggi facente parte del Bel Paese.
Il mascellone africano
Tra i primi dinosauri è senz'altro da annoverarsi anche il Pegomastax africanus, la cui scoperta è stata annunciata al mondo il 3 ottobre 2012. Era lungo circa un metro e pesava meno di un gatto, ma grazie ai suoi denti affilatissimi e alla sua grande mascella poteva concorrere alla pari con predatori ben più massicci di lui. I resti fossili di questo vero e proprio dinosauro nano sono stati scoperti nel 1963 in Sudafrica e conservati a lungo all'Università di Harvard, ma solo recentemente sono stati riuniti e si è potuto ricostruire l'anatomia di questo animale preistorico, erbivoro, appartenente alla famiglia degli Eterodontosauri e soprannominato il « mascellone africano ».
Secondo la ricostruzione di Paul Sereno, paleontologo dell'Università di Chicago e autore dello studio sul « mascellone », i denti aguzzi presenti sull'arcata superiore e inferiore gli servivano non solo a triturare le erbe e i frutti di cui si cibava: « le zanne di questo dinosauro sono molto insolite perché è davvero raro che un erbivoro abbia canini così appuntiti e così grandi », ha spiegato il paleontologo americano. « Probabilmente servivano anche per difendersi, funzionando come forbici autoaffilanti ». Altri scienziati pensano invece che occasionalmente il piccolo dinosauro si nutrisse anche di carne, o almeno di insetti. « Poteva assomigliare a un porcospino a due gambe», ha continuato lo scienziato: « le setole non erano abbastanza forti come quelle di un istrice. Forse erano colorate e contribuivano a differenziare la specie, o facevano apparire il Pegomastax più grande di quello che realmente era, e ciò gli permetteva di difendersi da potenziali predatori ». Degno di nota è anche il curioso becco del dinosauro, simile a quello di un pappagallo e lungo meno di 5 centimetri. Paul Sereno iniziò ad interessarsi di questa creatura nascosta tra i cassetti del laboratorio dell'American Museum of Natural History già nel 1983, ma solo oggi egli ha potuto descrivere la nuova specie. « Pazientare qualche anno in più imballato in scatole di cartone prima di essere riportato alla luce non deve essere stato un problema per questo piccolo dinosauro morto oltre duecento milioni di anni fa », ha commentato ironicamente il sito transalpino Maxisciences.
Il superittiosauro e il drago cinese
Nel maggio 2016 l’appassionato di fossili Paul De la Salle stava camminando sulla spiaggia di Lilstock, nel Somerset (Inghilterra), quando scoprì il rettile marino più grande che sia mai vissuto. Il mese dopo ritornò sulla stessa spiaggia e rivenne altri quattro frammenti di ossa che, messi insieme, misuravano circa un metro di lunghezza. Da esperto (collabora con il Museo della vita marina del Giurassico, nel Dorset), riconobbe la parte inferiore della mascella di un ittiosauro gigante, un rettile che viveva nei mari nel Triassico. De la Salle prese contatti con la dottoressa Judy Massare della State University di New York a Brockport, con l’esperto di ittiosauri Dean Lomax dell’Università di Manchester e con il geologo Ramues Gallois per sottoporre la sua scoperta ad analisi più accurate. Oggi sappiamo che i resti risalgono a 205 milioni di anni fa (alle 08.56 del 15 dicembre), quindi al Triassico Superiore (Norico), e appartenevano a un ittiosauro del genere Shonisaurus.
Dato che i resti sono incompleti, sono stati paragonati con l’esemplare più grande di ittiosauro, conservato in un museo del Canada. Il gigantesco Shonisaurus sikanniensis è lungo 21 metri. L'osso della mascella inferiore dell’esemplare rinvenuto in Inghilterra è del 25 % più grande. Facendo le debite proporzioni, l’ittiosauro inglese risulterebbe lungo 26 metri. Gli studiosi però vogliono essere prudenti e, considerando la variabilità individuale, affermando che l’esemplare era lungo tra i 20 e i 25 metri, che lo portano comunque ad essere il più grande rettile mai marino mai ritrovato. Per avere un termine di paragone, la balenottera azzurra arriva fino a 33 metri di lunghezza e a 180 tonnellate di peso ed è il più grande animale noto mai esistito. Il più grande dinosauro di terraferma, l’Argentinosaurus, era probabilmente lungo intorno ai 30 metri e pesava circa 80 tonnellate. Di altri dinosauri i resti sono troppo incompleti per ottenere una stima accurata, anche se secondo alcuni paleontologi potrebbero essere stati ancora più grandi e pesanti.
E non è tutto. Alcuni ricercatori delle Università di Bonn e di Zurigo, guidati da Martin Sander, hanno dimostrato che su quelle che oggi sono le Alpi svizzere, circa 205 milioni di anni fa (ore 08.56 del 15 dicembre), vivevano alcuni tra gli animali più grandi mai esistiti nel mare: tre ittiosauri di specie ancora non identificata, lunghi dai 15 ai 20 metri, risalenti ad un'epoca in cui le formazioni rocciose che oggi compongono le vette costituivano il fondo dell'Oceano Tetide. Per giungere a questa scoperta sono stati analizzati nel dettaglio alcuni fossili portati alla luce tra il 1976 e il 1990 nel Cantone dei Grigioni, a 2800 metri sul livello del mare: una vertebra, diversi frammenti di costole e il più grande dente di ittiosauro mai trovato, con una radice del diametro di ben sei centimetri, il doppio rispetto a quello di qualsiasi altro grande rettile acquatico. Considerata la forma del dente, incurvato verso l'intemo, i ricercatori ritengono che queste specie occupassero nicchie ecologiche simili a quelle dei moderni mammiferi marini, come capodogli e orche. Questi fossili riscrivono la storia di questi. giganti marini: esemplari più completi erano stati trovati infatti nel continente americano, ma la loro scoperta in Europa indica che la loro distribuzione nel Triassico è stata molto più ampia di quanto ritenuto prima.
Aggiungiamo che nel 2003 in antichi depositi calcarei del Sud della Cina è stata scoperta una specie di « drago » vissuto 240 milioni di anni fa (alle 12.48 del 12 dicembre), battezzato Dinocephalosaurus orientalis. Ho usato il termine « drago » per via del suo collo estremamente lungo rispetto al resto del corpo, e perchè il drago riveste una grande importanza nella mitologia cinese. Lo scheletro del fossile, lungo 5 metri, è miracolosamente completo, e Nick Fraser, del National Museums Scotland, che faceva parte del team internazionale che ha studiato il fossile, lo ha descritto come « un animale molto strano, con arti simili a pinne, un colo super flessibile più lungo del corpo e della coda messi insieme ». Fraser ha ipotizzato che l'estrema flessibilità del collo del drago preistorico fosse da ricercare nelle sue 32 vertebre separate, che avrebbero potuto fornirgli un vantaggio nella caccia, consentendogli di cercare cibo nelle fessure sott'acqua.
L'abbuffata mesozoica
Nell'estate 2020 ha fatto rumore il ritrovamento dei resti di una abbuffata mesozoica, conservati nello stomaco di un ittiosauro del Triassico rivenuto in Cina (degli ittiosauri parleremo più sotto). Poco prima di morire, 240 milioni di anni fa (alle 12.48 del 12 dicembre), il rettile marino lungo cinque metri sbranò e inghiottì un lucertolone marino lungo ben quattro metri. Questo suo ultimo pasto, considerato il più antico episodio di "megapredazione" oggi conosciuto. Non si erano mai trovati prima i resti articolati di un grande rettile nello stomaco di un predatore gigantesco dell'era dei dinosauri. Finora avevamo solo ipotizzato che questi predatori potessero cibarsi di prede molto grandi, basandoci su forma e dimensione di denti e mandibole, ma ora abbiamo una prova diretta, i resti dell'ultimo pasto ancora nella pancia.
L'ittiosauro scoperto nel 2010 nella provincia cinese del Guizhou, e per questo chiamato Guizhouichthyosaurus, aveva subito destato la curiosità dei ricercatori per il suo addome rigonfio pieno di ossa. Anni di studi hanno dimostrato che i resti appartengono al tronco e agli arti del rettile marino Xinpusaurus, mentre mancano cranio, collo e coda. Una coda completa di Xinpusaurus è stata rinvenuta nello stesso strato a qualche metro di distanza, ma non appartiene all'individuo predato, perché deve comunque essere passato un pò di tempo dall'attacco alla morte dell'ittiosauro, e quindi è praticamente impossibile che i due resti siano affondati così vicini. Il suo ritrovamento, però, conferma che il metodo di attacco fosse proprio quello di concentrarsi sul tronco della preda, lasciando perdere testa e coda che raggiungevano il fondo in modo indipendente. Secondo i paleontolgi, l'ittiosauro era in grado di afferrare una grossa preda e di fratturarne la colonna vertebrale scuotendo violentemente la testa come le orche.
Aggiungiamo che uno dei primi membri della famiglia dei Sauropodi, quadrupedi erbivori dal collo lunghissimo, è stato scoperto e descritto nel 2022 da Christopher Griffin, paleontologo dell'Università di Yale, e i suoi colleghi. Battezzato Mbiresaurus raathi, perché Mbire è il distretto dello Zimbabwe in cui è stato trovato il fossile, e Michael Raath è il paleontologo che per primo ha pubblicato studi sui fossili della zona. Si tratta di un onnivoro snello e molto più piccolo del più famoso Brachiosauro, che scorrazzava nelle pianure alluvionali dello Zimbabwe preistorico, ed è anche il più antico dinosauro mai rinvenuto in Africa! La scoperta è nata da un tentativo di capire come piante e animali siano stati influenzati dai cambiamenti climatici durante il Triassico. L'esemplare ritrovato, sorprendentemente completo per essere così antico, appartiene al gruppo dei sauropodomorfi; datato a circa 230 milioni di anni fa (alle 8.16 del 13 dicembre), è uno scheletro quasi completo che contiene parti del cranio e della colonna vertebrale ed elementi delle zampe anteriori e posteriori. Questo antico dinosauro non assomiglia per niente a un Apatosauro in miniatura, nonostante questo gigante fosse uno dei suoi più noti parenti: Mbiresaurus era lungo solo un metro e mezzo e si muoveva su due zampe! Mbiresaurus visse in un'epoca in cui gli antenati dei grandi sauropodi erano piccoli onnivori dalle zampe leggere e non erano ancora passati a una dieta completamente vegetariana. Griffin e i suoi collaboratori hanno ricostruito uno scenario secondo cui nell'area dell'equatore preistorico dovevano esserci forti barriere climatiche; queste zone calde hanno temporaneamente impedito ai dinosauri di attraversare la linea mediana della Terra. I dinosauri si sono originati e hanno iniziato a diversificarsi nelle zone meridionali della Pangea, e hanno potuto spostarsi verso nord solo quando queste barriere si sono ridotte, portando a quelle che Griffin e i suoi colleghi propongono come una serie di fasi distinte di diffusione dei dinosauri nel mondo, quando l'era dei grandi rettili era appena iniziata.
Il debutto dei mammiferi
Alla fine del Triassico, inoltre, si potevano veder brulicare nelle foreste i Protomammiferi o Alloterii. Il primo di essi fu il Morganucodonte (Morganucodon oehleri): deponeva le uova come i suoi antenati rettili e come i monotremi attuali, ma già allattava la prole ed aveva un vantaggio non indifferente sui rettili suoi contemporanei: era coperto di peli ed aveva il sangue caldo. Probabilmente aveva abitudini notturne e predava insetti e altri invertebrati. Una curiosità: in greco il suo nome significa "il dente di Morganuk", ma non si conosce nessun paleontologo con questo nome. Più probabilmente "Morganucodonte" deriva dalla latinizzazione di Morgannwg, il nome gallese della contea di Glamorgan dove fu rinvenuto per la prima volta dal tedesco Walter Georg Kühne (1911-1991). Morganucodonte significa quindi "il dente di Glamorgan".
Spesso si pensa che i mammiferi siano successivi ai dinosauri nella storia evolutiva della vita sulla Terra, ma in realtà entrambi ebbero origine nello stesso momento: circa 225 milioni di anni fa, quando il nostro pianeta si stava riprendendo dalla peggiore estinzione di massa della storia. Per i successivi 160 milioni di anni, dinosauri e mammiferi seguirono strade separate, ma entrambi con successo. I dinosauri divennero giganti ed esclusero i mammiferi dalle nicchie adatte agli animali di grandi dimensioni. I mammiferi invece, con i loro corpi di piccola taglia, potevano sfruttare nicchie ecologiche a cui i dinosauri, più grandi, non avevano accesso: avendo un vantaggio competitivo in quegli habitat, in pratica impedirono ai inosauri di diventare più piccoli. Nei periodi Giurassico e Cretacico, tra le zampe dei dinosauri viveva un’abbondanza di mammiferi in miniatura, non più grandi di un tasso. Furono loro a sviluppare le caratteristiche classiche dei mammiferi: il pelo, il metabolismo a sangue caldo, una gamma complessa di denti (canini, incisivi, premolari, molari) e la capacità di nutrire i piccoli con il proprio latte. Esistevano decine di sottofamiglie distinte da diversi tipi di dentature, diete e metodi riproduttivi.
A questo proposito, avete presente Scrat, il buffo personaggio somigliante a uno scoiattolo della saga animata de "L'era glaciale"? Ebbene, una squadra di paleontologi guidata da Ricardo Martinez dell’Universidad Nacional de La Matanza di Buenos Aires ha scoperto che qualcosa di simile a questo animaletto è vissuto davvero nei territori di quella che è oggi l’Argentina nel Triassico medio-superiore, 231 milioni di anni fa (alle 6.19 del 13 dicembre): infatti la ricostruzione dello Pseudotherium argentinus, questo il nome scientifico con il quale è stato battezzato, ha fatto subito pensare a Scrat. I fossili sono stati rivenuti nel 2006 nel Parco di Ischigualasto, che fa parte del Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco nella provincia andina di San Juan, ma sono stati studiati grazie alla sofisticata tecnica della tomografia computerizzata a raggi X ad alta risoluzione e classificati solo nel 2019. Lo Pseudotherium argentinus apparteneva ai cinodonti, un gruppo di rettili che possedeva alcune caratteristiche dei mammiferi di cui abbiamo già parlato descrivendo il Paleozoico. Dai cinodonti i paleontologi ritengono che si siano evoluti altri gruppi di animali, dai quali poi si sono sviluppati i mammiferi.
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Lo Pseudotherium argentinus a confronto con Scrat de "L'era glaciale" |
Lo scorpione varesino
Risale al 2023 la scoperta del fossile del più antico scorpione mai rinvenuto in Italia che è vissuto addirittura prima dei dinosauri, circa 240 milioni di anni fa (alle ore 12.48 del 12 dicembre). Misura appena 44 millimetri, ma è perfettamente conservato in tutte le sue parti, con tanto di occhi, zampette e coda armata di aculeo. Esso è stato rinvenuto in un frammento di roccia dolomitica proveniente dal giacimento Unesco di Besano-Monte San Giorgio (Varese) ed è oggi conservato al Museo di Storia Naturale di Milano, tra i grandi alberi dei Giardini pubblici di Via Palestro. La descrizione dell’animale è stata pubblicata dal paleontologo del museo Cristiano Dal Sasso e dai ricercatori Marco Viaretti e Gabriele Bindellini dell’Università di Milano. Con l’aiuto della luce ultravioletta e del microscopio elettronico a scansione, gli esperti hanno accertato che il fossile è il corpo stesso dello scorpione e non l’esoscheletro vuoto che gli artropodi abbandonano più volte crescendo nel corso della loro vita; e proprio tale corpo ha permesso di stabilire che si trattava di una specie ancora sconosciuta, battezzata Protobuthus Ziliolii.
Il fossile è stato estratto dai volontari del gruppo paleontologico di Besano dagli strati superiori del giacimento fossilifero del Monte San Giorgio. Trovare uno scorpione in quel sito significa che in quell’epoca il mare era poco profondo, e che la riva era vicina, perché gli scorpioni sono esclusivamente terrestri. I sedimenti sottostanti, invece, si sono formati in tempi precedenti, quando quel bacino era molto più profondo, e difatti contengono pesci di mare aperto e rettili tipicamente marini, come gli ittiosauri che hanno reso famoso nel mondo il giacimento di Besano-Monte San Giorgio. Il reperto farà parte di un nuovo percorso dedicato ai fossili lombardi, che sarà allestito nei prossimi anni al piano terra del Museo milanese.
L'asilo nido degli squali preistorici
In un giacimento fossile del Kirghizistan sono stati scoperti alcuni denti e i cosiddetti "borsellini di sirena" (come vengono comunemente chiamate le sacche vuote delle uova di alcune specie di squali e razze) risalenti a circa 230 milioni di anni fa (alle 8.16 del 13 dicembre), il che fa pensare che allora quel sito fosse occupato da acque basse in cui vivevano centinaia di piccoli di squalo, chiamati ibodonti, e che essi si nutrivano sul fondale, come gli attuali squali nutrice. Le femmine di squalo facevano aderire le uova alle piante della laguna, e i piccoli, una volta usciti dall'uovo, potevano beneficiare dell'abbondante presenza di piccoli invertebrati per nutrirsi, mentre la folta vegetazione offriva loro riparo dai predatori.
« In base ai ritrovamenti, sembra che i piccoli fossero abbandonati a se stessi, », ha dichiarato il responsabile della ricerca Jan Fischer, paleontologo del Geologisches Institut del Technische Universität Bergakademie Freiberg in Germania. Quando Fischer e i suoi colleghi hanno scoperto i "borsellini di sirena" nel sito, hanno capito che il sedimento doveva racchiudere anche i denti dei neonati. Racchiusi nel sedimento c'erano infatti una sessantina di denti, tutti di giovani squali tranne uno, appartenente a un individuo adulto. Alcuni marcatori chimici in essi rilevati suggeriscono che quegli antichi squali nascessero in acque dolci, lontano dall'oceano: Fischer sospetta che gli squali trascorressero il loro intero ciclo vitale in laghi e fiumi, al contrario degli odierni squali ovipari, il cui ciclo vitale si compie esclusivamente in mare: è possibile che, come i moderni salmoni, gli squali adulti migrassero per centinaia di chilometri controcorrente tra l'oceano e il luogo in cui deporre le uova. Purtroppo è difficile raccogliere informazioni sugli squali antichi in base ai fossili: il loro scheletro cartilagineo si dissolve rapidamente, lasciando solo pochi indizi sul loro stile di vita.
Un ciliato fossile dentro la sanguisuga fossile
In una formazione geologica a Timber Peak, nella parte più settentrionale della Terra Vittoria, in Antartide, un gruppo di ricercatori delle Università del Kansas, di Münster e di Copenaghen ha identificato un microrganismo fossile risalente a 200 milioni di anni fa (alle 18.40 del 15 dicembre), appartenente al phylum dei ciliati. La cosa curiosa è che lo ha scoperto all'interno del bozzolo, anch'esso fossile, di un'antica sanguisuga! Il microrganismo aveva una struttura straordinariamente simile a quella delle moderne vorticelle, un genere di protozoi dotati di un peduncolo contrattile che si accorcia e si distende come una molla. La scoperta è importante, perché il quadro dell'evoluzione della vita sulla Terra che possiamo finora tracciare è fortemente limitato dal fatto che tutti gli organismi privi di parti dure (ossa, esoscheletri, conchiglie, legno, ecc.) vengono quasi sempre distrutti dai processi di decomposizione. Gli antichi organismi a corpo molle ritrovati finora si sono conservati perché inglobati nelle cosiddette "trappole di conservazione", in particolare in gocce di ambra (resina fossile) e depositi di asfalto. Recentemente l'attenzione dei paleontologi è stata attratta da un altro possibile ambiente di fossilizzazione per microrganismi: i bozzoli che alcuni invertebrati, come le sanguisughe, formano per deporvi le uova.
Le pareti del bozzolo vengono secrete sotto forma di una sostanza mucosa composta principalmente di polisaccaridi e proteine fibrose. A seconda delle condizioni dell'habitat, nel giro di pochi giorni questa sostanza può rapprendersi fino a diventare solida, formando una capsula molto resistente alle variazioni termiche, alle alterazioni chimiche e ai processi proteolitici che decompongono i tessuti molli. Questi bozzoli, che non sono rari nella documentazione fossile terrestre dal Triassico, hanno quindi un elevato potenziale di fossilizzazione, e con essi anche i microrganismi che eventualmente vi sono rimasti intrappolati. Il bozzolo fossile che includeva i resti del ciliato scoperto dai ricercatori a Timber Peak appartiene presumibilmente a un antico antenato delle moderne sanguisughe, genere Burejospermum, poiché presenta strutture molto simili a quelle che si osservano nei bozzoli attuali.
Uno degli acari
fossili ritrovati nell'ambra presso Cortina d'Ampezzo |
Gli acari di montagna
Nell'estate 2012 i paleontologi dell'Istituto di Geoscienze e Georisorse del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IGG-CNR) e dell'Università di Padova, in collaborazione con l'Università di Göttingen e con il Museo di Storia Naturale di New York, hanno rinvenuti sulle Dolomiti, sotto le Tofane, gli invertebrati più antichi del mondo conservati dentro l'ambra: una scoperta eccezionale, che sposta indietro di ben 100 milioni di anni le precedenti scoperte di insetti inglobati nelle resine fossili. L'ambra delle Tofane non sarà famosa quanto quella usata nel celeberrimo « Jurassic Park » di Michael Crichton, tuttavia ci ha permesso di aprire una finestra sulle caratteristiche della vita e del clima intorno ai 230 milioni di anni fa (alle 08.16 del 13 dicembre), in pieno Triassico. Grazie all'eccezionale stato di conservazione, per due dei tre artropodi sono state introdotte anche nuove specie, chiamate Ampezzoa triassica e Triasacarus fedelei, in onore del cortinese Paolo Fedele che nel 1997 ha segnalato il giacimento nel quale sono state effettuate le suddette scoperte.
« Quelli scoperti a Cortina sono due acari e un moscerino, risalenti al periodo Triassico, e hanno le dimensioni di pochi millimetri », ha spiegato Guido Roghi dell'IGG-CNR. « Quelle degli acari sono larve con ben evidenti tutte le appendici; l'insetto invece è un dittero. Per individuare questi invertebrati sono state esaminate con un lavoro molto lungo oltre 50.000 goccioline di ambra. Si è dovuto "affettarle" una a una e levigarle perché potessero essere osservate al microscopio ». Da notare che solo in tre goccioline sono stati trovati gli invertebrati! « Gli acari hanno corpo lungo e segmentato, due paia di zampe invece delle quattro solitamente presenti negli acari odierni », ha aggiunto Roghi, « un peculiare apparato boccale e artigli piumati: caratteristiche che dimostrano come questi artropodi avessero tratti distintivi e specializzati già nel Triassico, decine di milioni di anni prima della comparsa delle piante da fiore di cui si nutrono oggi quasi tutti gli acari. Allora invece dovevano necessariamente nutrirsi di antiche conifere ». E fa un’ipotesi: « poiché questi artropodi fossili sono stati trovati nelle galle, strutture vegetali che la pianta produce per proteggersi dalle punture degli insetti, è probabile che siano stati quelli stessi invertebrati a pungere le piante, che poi per difendersi hanno essudato la resina che li ha inglobati, divenendo poi ambra ».
Quando apparvero le prime piante con fiore, questi artropodi modificarono le loro abitudini alimentari: « Grazie al loro adattamento ambientale hanno superato le grandi estinzioni al termine del Cretacico », ha concluso Roghi. « Se nel Permiano si erano estinte il 96 % di tutte le specie marine e il 70 % di quelle dei vertebrati terrestri, questo studio chiarisce che nel Triassico (230 milioni di anni fa) esistevano organismi animali persistenti anche a cambiamenti enormi ».
Il Giurassico è il secondo periodo del Mesozoico. Va da 204 a 146 milioni di anni fa, subito dopo il Triassico e prima del Cretacico. In termini di Anno della Terra, esso durò più o meno dalle ore 10.53 del mattino del 15 dicembre alle 03.47 di notte del 20 dicembre. L'introduzione d questo periodo nel 1799 è dovuta ad Alexander von Humboldt (1769-1859), esploratore infaticabile ed intellettuale poliedrico. Prende il nome dalle montagne del Giura, che si estendono dalla Francia alla Germania, dove i calcari risalenti a questo periodo, scoperti da Humboldt, sono molto evidenti.
Il Giurassico è suddiviso in tre piani a loro volta suddivisi in epoche:
Giurassico inferiore | Giurassico medio | Giurassico superiore |
Hettangiano | Aleniano | Oxfordiano |
Sinemuriano | Bajociano | Kimmeridgiano |
Pliensbachiano | Batoniano | Titoniano |
Toarciano | Calloviano |
Addio alla Pangea
Durante il Giurassico non si verificarono importanti fenomeni orogenetici, ma le terre continuarono a dividersi: dal continente Gondwana si staccarono l'Africa, l'Australia e l'India. Anche l'Eurasia ed il Nordamerica iniziarono a separarsi, dando origine all'Oceano Atlantico che dividerà anche il Sudamerica dal continente formato da Africa e Madagascar. L'Antartide, ancora unita all'Australia, continuò a spostarsi verso Sud mentre l'India, dopo il distacco dall'Africa, continuò a spostarsi verso nord.
L'Europa meridionale era ricoperta da mari profondi, mentre quella settentrionale, corrispondente all'antica catena ercinica, era invasa da mari meno profondi.
I dinosauri dominano il mondo
Tra i vertebrati, oltre alla diffusione dei Pesci, ci fu il grande sviluppo ed affermazione dei rettili. In cielo, come in terra, durante tutto il Giurassico, il pianeta venne infatti invaso dai grandi dinosauri (dal greco "lucertole terribili"): non è certo un caso se il milardario John Hammond, ideato dalla prolifica fantasia dello scrittore Michael Crichton, decise di chiamare "Jurassic Park" il parco di divertimenti da lui creato, abitato da queste terribili creature!
La cosa potrà parere incredibile, ma le ossa di dinosauro ci sono note da secoli, se non da millenni, e quindi da molto prima che lo stesso termine "dinosauro" venisse creato. Risulta logico supporre che le antiche vestigia di quei colossi possano essere state all'origine di molte incredibili leggende circa l'esistenza delle creature mostruose più disparate, e in particolare dei draghi, le cui leggende sono diffuse praticamente in tutto il mondo, dalla Norvegia alla Cina, regioni che non possono certo essersi influenzate a vicenda. Secondo la studiosa del foklore Adrienne Mayor (1946-), la leggenda medioevale del grifone, essere metà aquila e metà leone, avrebbe avuto origine in Asia centrale, nella regione dei Monti Altai, dove sono stati trovati parecchi scheletri completi di Protoceratops andrewsi, dinosauri quadrupedi lunghi poco meno di due metri e dotati di una coda e di una testa possente munita di un enorme becco ricurvo (grifone deriva dal greco "gripos", che significa adunco); l'ipotesi non è dimostrabile al di là di ogni dubbio, ma è molto suggestiva. Gli storici romani affermano che l'Imperatore Tiberio possedesse nella sua fastosa villa di Capri una straordinaria collezione di "ossa di draghi", che amava mostrare ai suoi ospiti: pochi i dubbi che si trattasse di ossa di dinosauro. Il cronista cinese Chang Qu (291-361) scrisse lo "Huayang Guo Zhi" (華陽國志) o "Cronache di Huayang", il più antico dizionario geografico di una regione cinese a noi pervenuto, ed in esso cita la scoperta di "ossa di draghi" a Wucheng, nell'attuale Sichuan; gli esseri cui sarebbero appartenuti quei fossili vengono da lui chiamati "kongióngu", cioè "draghi terribili". Triturare queste "ossa di drago" per ricavarne pozioni medicamentose è una costante nella medicina tradizionale cinese, anche se ha causato la perdita di preziose informazioni sui dinosauri cinesi. In Europa la prima descrizione di un osso di dinosauro (ogi sappiamo che si tratta del femore fossile di Megalosaurus) ritrovato nel 1676 in una cava di calcare a Cornwell, presso Chipping Norton, Oxfordshire, si deve al reverendo Robert Plot (1640-1696), professore di chimica all'università di Oxford e curatore dell'Ashmolean Museum, che nella sua "Storia Naturale della Contea di Oxford" del 1677 lo attribuì ad un grosso elefante portato in Inghilterra dai Romani. Nel 1699 Edward Lhuyd (1660-1709), naturalista amico di Sir Isaac Newton, pubblicò il primo trattato scientifico su un dente di sauropode, da lui chiamato Rutellum implicatum. Il già citato Georges Cuvier, pioniere dello studio dei fossili, fu però il primo ad interpretare correttamente i resti di un altro dinosauro, attribuendoli ad un rettile marino, carnivoro e gigantesco, il Mosasauro. Nel 1822 Gideon Algernon Mantell (1790-1852) e sua moglie Mary Ann Woodhouse (1795-1869) ritrovarono un dente fossile in un blocco di arenaria della Tilgate Forest, che era tipico di un erbivoro, ma appariva troppo antico per poterlo attribuire a qualunque mammifero; nonostante non si conoscesse a quel tempo alcun rettile erbivoro, G. Cuvier sostenne proprio che si trattasse di un dente di rettile. Poco tempo dopo vennero scoperte le iguane delle isole Galapagos, che sono proprio esseri erbivori! Siccome i loro denti erano assai simili a quelli del fossile, Mantell battezzò l'animale estinto con il nome di Iguanodonte ("denti da iguana"), e ne tentò una fantasiosa ricostruzione (vedi qui a sinistra). Da allora i ritrovamenti si succedettero a ritmo accelerato, tanto da convincere il biologo inglese sir Richard Owen (1804-1892) a creare un nuovo gruppo tassonomico, essendo questi esseri troppo diversi dai rettili odierni per poter essere accomunati loro. Nacque così la classe dei dinosauri. Della cosa si entusiasmò il Principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha (1819-1861), coltissimo consorte della Regina Vittoria: con il suo sostegno, nel 1856 Owen diventò sovrintendente dei Dipartimenti di Storia Naturale del British Museum, primo passo per la loro trasformazione, nel 1881, in un autonomo National History Museum.
Nel 1858 per la prima volta un dinosauro (Hadrosaurus foulkii) venne scoperto nel territorio degli Stati Uniti d'America, nelle fosse di marna di Haddonfield, nel New Jersey. Nel 1864 si conobbero a Berlino i due più famosi "cacciatori di dinosauri" di tutti i tempi: Edward Drinker Cope (1840-1897) ed Othniel Charles Marsh (1831-1899). Inizialmente strinsero amicizia: Cope nel 1867 chiamò uno degli animali da lui identificati Colosteus marshii, e nel 1869 Marsh gli ricambiò il favore con il Mosasaurus copeanus. Ma da quando nel 1872 i due iniziarono a setacciare le montagne del Far West, iniziò tra loro una forte rivalità, che dal 1877 degenerò in quella che è passata alla storia come "guerra per le ossa", in cui i due si contendevano fossili appunto con metodi da Far West, fino ad usare la dinamite! Il duello si chiuse solo nel 1897, quando Cope morì dopo aver speso tutta la sua fortuna nel cercare dinosauri. Marsh è considerato oggi il "vincitore" di tale "guerra", anche grazie all'appoggio della United State Geological Survey. Danni provocati con i loro rozzi metodi a parte, il loro contributo alla paleontologia è inestimabile: essi riportarono alla luce un incredibile numero di resti di dinosauro, anche diversissimi tra loro: bipedi e quadrupedi, lenti e rapidissimi, goffi e snelli, erbivori e carnivori, cornuti e crestati, a sangue freddo e a sangue caldo. Divenne chiaro che alcuni di essi avevano anche conquistato il volo, e furono battezzati pterosauri ("lucertole volanti"), mentre sotto di loro, nelle acque degli oceani, imperversavano grandi carnivori marini, gli ittiosauri ("lucertole pesce") e i plesiosauri ("pressoché lucertole"). Alla fine la "guerra per le ossa" portò alla scoperta di ben 142 nuove specie (86 individuate da Marsh, 56 da Cope); oggi la collezione di Cope si trova presso l'American Museum of Natural History di New York, mentre quella di Marsh è visibile al Peabody Museum of Natural History dell'Università di Yale (nel Connecticut). Questa storica competizione estese alla ricerca di fossili lo spirito dei duelli tra magnati tipici dell'era a cavallo tra Otto e Novecento, che vide gli USA trasformarsi in una superpotenza capitalista: il famoso imprenditore dell'acciaio Andrew Carnegie (1835-1919), che secondo alcuni ispirò a Carl Barks il personaggio di Paperon de' Paperoni, finanziò le ricerche del paleontologo Jakob Wortman (1857-1926) che gli dedicò il sauropode Diplodocus carnegii da lui scoperto, il più lungo dinosauro di cui conosciamo lo scheletro completo. La "guerra per le ossa" e i generosi finanziamenti dei miliardari filantropi fecero sì che i dinosauri conquistassero definitivamente il pubblico americano, nonostante ancora oggi negli USA siano molto forti i gruppi religiosi integralisti che interpretano la Bibbia alla lettera, ritenendo la Terra non più vecchia di seimila anni (la convivenza tra i dinosauri e i primi uomini che si vede in cartoni animati come "The Flintstones" stando ad alcuni sondaggi è ritenuto ancora oggi verosimile da quasi metà degli americani!) Dal 1897 in poi dinosauri hanno iniziato ad essere cercati in tutto il resto del mondo, e particolarmente ricchi di reperti si sono rivelati Sudamerica e Cina: dalla prima area vengono i più grandi, dalla seconda una grande quantità di specie piumate, conservatesi grazie alla geologia unica della zona e al clima arido; ma ne sono stati ritrovati perfino in Antartide. Oggigiorno si conosce un così alto numero di famiglie di dinosauri incredibilmente diversificati tra loro, che le difficoltà incontrate nel tentativo di classificarle e di stabilire le relazioni di parentela tra di essi non hanno ancora trovato una soluzione universalmente accettata da tutti gli studiosi. L'unica divisione su cui non ci sono divergenze da parte dei paleontologi è quella stabilita nel 1888 da Harry G. Seely (1839-1909), basata sulla forma del bacino: quelli il cui bacino è simile a quello dei Rettili vengono detti Saurischi, quelli il cui bacino è invece simile a quello degli Uccelli sono detti Ornitischi. I primi avevano un bacino formato dall'osso pubico rivolto in avanti e dall'ischio rivolto all'indietro, come quello dei coccodrilli; i secondi invece avevano entrambe le ossa rivolte all'indietro, simile a quelle degli uccelli. Gli ornitischi erano inoltre dotati di un osso predentale che univa le due metà della mandibola, di tendini ossificati che legavano le vertebre e non avevano denti che separassero gli anteriori dai posteriori. Animali erbivori, gli ornitischi si evolsero dopo i saurischi; questi ultimi comparvero nel Triassico, circa 210 milioni di anni fa, mentre i più antichi ornitischi nacquero nel Giurassico, circa 195 milioni di anni fa. I saurischi erano sia erbivori che carnivori; avvantaggiati dalla forma del bacino e dal fatto di avere il cranio alleggerito da numerosissime finestrature ossee, si evolsero in forme davvero gigantesche, ma anche in agili predatori scattanti nella corsa e in piumati antenati degli uccelli. Il Tirannosauro e il Diplodoco erano saurischi, mentre il Triceratope e l'Iguanodonte erano ornitischi.
Bacino di Teropode con "anca da lucertola" |
Bacino di Ipsilofodonte con "anca da uccello" |
I saurischi sono a loro volta divisi in Teropodi e Sauropodi; gli ornitischi si dividono in Stegosauri, Anchilosauri, Dromeosauridi, Ornitopodi e Marginocefali. Oggi si conoscono almeno 400 generi di dinosauri; ecco allora una carrellata sulle più importanti famiglie. Chi volesse una classificazione più completa vada al link apposito.
I Teropodi
Circa 195 milioni di anni fa (alle 4.24 del 16/12) iniziarono ad evolversi i più terribili predatori che siano mai apparsi sulla terraferma: i Teropodi, saurischi carnivori che si reggevano sulle zampe posteriori. I primi non erano più alti di 2 metri, ma alla fine del Cretacico divennero giganteschi predatori di 14 metri di lunghezza e 8 tonnellate di peso. Erano Teropodi i Celurosauri, i Compsognati (i temibili "Compy" di Jurassic Park) ed i Carnosauri, che a loro volta comprendevano gli Allosauri, i Megalosauri, gli Spinosauri ed i Tirannosauri. A lato si può vedere uno scheletro di Allosauro, uno dei più famelici predatori del Giurassico. Nonostante le apparenze, non può confondersi con un Tirannosauro (il diabolico "T-Rex" che perseguita Alan Grant e compagni nel film succitato), per via delle zampe anteriori: nell'allosauro erano vere e proprie braccia dotate di tre dita in grado di afferrare la preda e di portare la carne alla spaventosa bocca, mentre nel tirannosauro avevano solo due dita, erano cortissime e praticamente atrofizzate (forse servivano all'animale per aiutarsi mentre si sdraiava a dormire dopo un abbondante pasto). Inoltre i due colossi carnivori non si incontrarono mai, perchè il primo visse nel Giurassico, il secondo nel Cretacico (dunque nel Jurassic Park era... fuori posto!)
Ma quanto era potente il celebre morso di un Tyrannosaurus rex, con quei denti impressionanti e quella mandibola enorme? I ricercatori dell'Università di Liverpool hanno tentato di stimare la forza di un morso di Tirannosauro, concludendo che le stime più affidabili finora effettuate sono almeno 10 volte inferiori alla reale potenza della bocca del dinosauro. Karl Bates, a capo del team di ricerca, ha progettato un modello digitale della struttura muscolare di un T-rex basandosi sull'apparato muscolo-scheletrico di rettili e uccelli, ma si è accorto che questo metodo otteneva risultati pari al 5-20 % delle misurazioni relative alla forza del morso di questi animali. Secondo Bates questo genere di calcolo comincia a perdere precisione oltre i 200 chilogrammi di massa corporea, fattore che impedisce una corretta valutazione del morso del T-rex: muscoli delle stesse dimensioni possono generare una potenza differente in base alle loro proprietà di contrazione. Quindi Bates ha cercato di calcolare una media della forza muscolare dei vertebrati viventi, per poi applicarla alle dimensioni e alla struttura scheletrica della Lucertola Tiranno; inoltre ha tenuto in considerazione i segni lasciati dai denti di T-rex sui resti fossili di tutto il mondo. Ebbene, finora si pensava che un tirannosauro non potesse sviluppare più di 13.000 Newton con un solo morso, ma « il massimo della forza da me calcolato è compreso tra i 30.000 e i 60.000 Newton, quanto un elefante di media stazza che si siede sopra di voi », ha spiegato Bates. « Nel caso del T-rex, la forza del morso aumentava in modo esponenziale, molto più di quello che ci si aspetterebbe con una crescita lineare. » Per fare un confronto con alcuni dei predatori moderni più temuti, il suo morso era otto volte più potente di quello di un leone, cinque volte più forte della iena, e pari a due volte il morso letale di un coccodrillo marino. Se le stime di Bates sono corrette, il Tirannosauro avrebbe avuto il morso più devastante di qualunque animale terrestre noto, vivente o estinto, anche se la discussione rimane del tutto aperta per quanto riguarda i coccodrilli giganti preistorici. L'unico animale preistorico in grado di uguagliare il T-rex era il Carcharodon megalodon, una specie estinta di squalo vissuta tra i 55 e i 2 milioni di anni fa (tra le 12.56 del 27/12 e le 20.00 del 31/12), che poteva superare abbondantemente i 15 metri di lunghezza e le 40 tonnellate di peso. Ma si sa che il confronto tra specie terrestre e specie marine è sempre difficilissimo.
I ritrovamenti fossili succedutisi dall'anno 2000 in poi ha finito per raddoppiare il numero delle specie di tirannosauro note, includendone molte più piccole nelle dimensioni corporee e più antiche. Siamo riusciti inoltre a stabilire quanto velocemente potessero correre, quanto rapidamente potessero crescere, la demografia della loro popolazione, l'anatomia del loro cervello e particolari aspetti della loro neurofisiologia. « Il Tyrannosaurus rex è il più iconico tra tutti i dinosauri », ha affermato Mark Norell, curatore della Divisione di Paleontologia dell'American Museum of Natural History. « Il suo studio ha permesso di focalizzare le ricerche su questioni normalmente non affrontate sui fossili, come quelle riguardanti la crescita ossea, la biomeccanica e la neurologia ». Gli studi più recenti combinano una nuova analisi della filogenesi del tirannosauro con recenti acquisizioni della biologia: grazie a 19 fossili di tirannosauro ben documentati per oltre 300 tratti, i ricercatori sono riusciti a disegnare il più completo albero evolutivo mai realizzato di questo gruppo. L'immagine del tirannosauro che ne esce è assai differente da quella precedente: esso ha infatti una lunga storia evolutiva della quale i più imponenti rappresentanti sono Tyrannosaurus rex, Albertosaurus e Tarbosaurus. Gli altri tirannosauri, vissuti nei 100 milioni di anni precedenti, avevano spesso dimensioni molto limitate, anche 100 volte inferiori rispetto a Tyrannosaurus rex, avevano una massa confrontabile con quella di una lince e occupavano tutte le terre emerse. « Il Tyranosaurus rex è il realtà la punta di un iceberg che rappresenta l'enorme diversità biologica dei tirannosauri, e onestamente occorre dire che era abbastanza anomalo rispetto agli altri membri del gruppo. Per la maggior parte della storia evolutiva, i tirannosauri furono piccoli e vivevano all'ombra di altri predatori giganti. Rimasero piccoli fino alla fine del Cretaceo, cioè gli ultimi 20 milioni di anni della storia dei dinosauri, quando divennero i colossi che conosciamo ».
Per dimostrare che la paleontologia riserva sempre nuove sorprese ai suoi appassionati cultori, vale la pena di inserire qui la scoperta recente del fatto che in Mongolia viveva il "capitan uncino" dei predatori: un piccolo dinosauro con un unico artiglio al posto delle dita. Si tratta del Linhenykus monodactylus, così battezzato in onore della città di Linhe vicino alla quale è stato ritrovato: era un teropode parente del più noto tirannosauro, ma le sue dimensioni erano quelle di un grosso pappagallo, e scorazzava per le pianure asiatiche tra gli 84 e i 75 milioni di anni fa (tra le 4.28 e le 22 del giorno di Natale). « Nel gruppo di questi animali le dita si sono ridotte con il tempo da tre a uno », ha spiegato alla stampa Benedetto Sala, paleontologo dell'Università di Ferrara. « La scomparsa delle dita è un trend evolutivo per molti vertebrati. Anche i cavalli si sono ritrovati con un unico zoccolo ». Secondo Sala, il monoartiglio serviva per scavare nei nidi degli insetti a caccia di cibo. « Le altre dita non erano necessarie: per lui era più importante possedere una coda robusta in grado di tenerlo in equilibrio durante la lotta ».
Ma non basta. È recente la scoperta del più grande dinosauro carnivoro conosciuto, alto come un palazzo di quattro piani e battezzato Mapusaurus rosae (il rosa si riferisce al colore delle rocce sedimentarie in cui sono stati individuati i fossili, non certo al colore della sua pelle). Esso è stato ritrovato nel 2000 in una cava a circa 25 chilometri dalla città di Plaza Huincul, nella Patagonia occidentale, ma la sua descrizione scientifica è circolata sulla stampa nell'aprile 2006. Dal sito archeologico sono emerse centinaia di ossa appartenenti a un gruppo di otto o nove individui diversi, le cui dimensioni vanno dai 5 metri di un "cucciolo" ai 14 degli adulti. Secondo Philip J Currie, che con Rodolfo Coria ha diretto gli scavi, la presenza di un gruppo così numeroso sepolto nello stesso luogo suggerisce che facessero parte di un unico branco al momento della morte", e che quindi che cacciassero in gruppo. Ciò verrebbe a porre la parola fine su di una lunga disputa tra gli esperti, se questi giganteschi Teropodi fossero cacciatori solitari o gregari. Del resto, circa 100 milioni di anni fa (l'epoca in cui visse il Mapusaurus), la Patagonia era una terra di giganti: a poca distanza dal colosso dei predatori è stato infatti trovato il colosso delle prede, cioè l'Argentinosaurus, un dinosauro erbivoro la cui taglia supera quella di qualunque animale noto: 40 metri di lunghezza per 100 tonnellate di peso. Non è difficile credere che, alle prese con prede di questa mole, un comportamento cooperativo di caccia sarebbe stato senz'altro vantaggioso per un carnivoro, per quanto gigantesco esso fosse. Il motivo per cui l'Argentina ha ospitato fenomeni di gigantismo così straordinari è ancora in discussione; c'è chi pensa a un processo chiamato "rincorsa evolutiva" tra prede e cacciatori, che continuarono ad aumentare di stazza parallelamente per cercare di spuntarla nella lotta per la sopravvivenza.
Insomma, tutti i Teropodi erano predatori straordinariamente temibili: non solo se giganteschi e dotati di denti lunghi 18 centimetri, ma anche quando, sebbene più piccoli, potevano fare uso di implacabili artigli affilati lunghi 15 centimetri. Nonostante la fama di spietati predatori, tuttavia, alcuni di essi come gli Ormitomimidi (specie di grossi struzzi spennati) erano più miti e si nutrivano di piccole prede, cui affiancavano una dieta vegetariana.
Già comparsi verso la fine del Triassico, divennero i più grandi dinosauri conosciuti. Si tratta di giganteschi saurischi a quattro zampe lunghi fino a 30 metri e con un peso di 100 tonnellate, suddivisi negli ordini dei Plateosauri, Brachiosauri, Camarasauri, Cetiosauri, Diplodoci e Titanosauri. Erano vegetariani con corpo massiccio, zampe tozze, lunga coda, colli lunghi otto metri, ed il loro cuore poteva pesare una tonnellata e mezza! Il loro cervello però pesava solo mezzo chilo, ed aveva principalmente il compito di controllare le mascelle, gli arti anteriori e di avvisare l'animale della presenza del cibo o di qualche pericolo nelle vicinanze. È opinione diffusa tra i paleontologi che questi superanimali avessero un rigonfiamento del midollo spinale alla base della colonna vertebrale, una sorta di secondo cervello, che controllava gli arti posteriori e la coda.
È dibattuta la questione se fossero animali omeotermi o eterotermi, cioè a sangue caldo come gli odierni uccelli e i mammiferi o a sangue freddo come le nostre lucertole. Ormai è stato dimostrato che le lucertole terribili coprivano un'estensione in latitudine assai maggiore di quella degli odierni rettili, e potevano sopravvivere in habitat più freddi che sarebbero invece esiziali per animali eterotermi, come le regioni montane o le alte latitudini, un indizio sicuramente a favore dell'omeotermia almeno per parte di essi. Un vantaggio che potrebbe spiegare l'incredibile successo evolutivo dei dinosauri, il cui regno durò quanto un'intera era geologica. Un vantaggio che però ha un prezzo: la necessità di disponibilità alimentari superiori per sostenere il più rapido metabolismo, e questo tanto più quanto più la temperatura ambientale sia abbassa. Dopotutto molti dinosauri erano di piccole dimensioni e, oltre che di scaglie, erano coperti da una sottile peluria, il che fa pensare ad animali omeotermi, anche perché essi erano abili cacciatori, e dunque avevano un'attività talmente frenetica da necessitare per forza un controllo autonomo della temperatura. Un tempo si riteneva che i dinosauri fossero necessariamente animali a sangue freddo per via della presenza sulle loro ossa di linee chiamate LAG (Lines of Arrested Growth, cioè "linee di arresto della crescita"), tipiche di un metabolismo lento e quindi eterotermo. Di recente però alcuni paleontologi dell'Universitat Autònoma de Barcelona hanno scoperto che anche le ossa dei mammiferi, sicuramente omeotermi, possono presentare linee di arresto della crescita. Essi hanno preso in considerazione 100 scheletri di 41 specie di ruminanti provenienti da ecosistemi compresi tra il Sudafrica e le isole Svalbard, osservando le LAG in tutti i campioni ossei, compressi quelli di cervo. Le linee di arresto della crescita dunque non possono più essere considerate esclusive di animali a sangue freddo, e i teropodi avrebbero anche potuto essere a sangue caldo.
Tra le prove dell'omeotermia dei teropodi vi sono: la loro attività incessante di cacciatori; il rapporto 4 a 100 tra i carnivori e gli erbivori nelle praterie del Giurassico lascia pensare che essi avessero a disposizione abbastanza cibo per poter mantenere costante la temperatura del corpo (si ricordi che i mammiferi spendono l'80 % di quanto mangiano a questo scopo); e, come proposto di recente da un gruppo di ricercatori della Washington University a Saint Louis e del Royal Veterinary College di Londra, la loro particolare locomozione. Infatti il costo energetico della camminata e della corsa è strettamente associato alla lunghezza degli arti, tanto che dall'altezza del ginocchio può essere inferito con un'accuratezza del 98 % il costo della locomozione degli animali terrestri. Herman Pontzer ha valutato il volume effettivo della massa muscolare delle zampe di 14 dinosauri sfruttando i dati relativi alle dimensioni delle ossa e delle tracce degli innesti dei fasci muscolari su di esse; quindi, sulla base dei principi della meccanica della locomozione, è risalito al dispendio energetico necessario a camminare e a correre a diverse velocità, confrontandolo con quello di animali eterotermi ed omeotemi attuali. Risultato: se ci si basa sull'energia consumata, buona parte dei dinosauri esaminati doveva essere probabilmente a sangue caldo, poiché il costo energetico della camminata era assai maggiore di quanta energia poteva fornire la fisiologia di un animale a sangue freddo.
Questo vale per i dinosauri carnivori. Ma i grandi sauropodi erbivori? Risulta problematico pensare ad un ciclope di 100 tonnellate che riesce a mantenersi omeotermo sbafando quantità pantagrueliche di vegetali, dato che un elefante di sole cinque tonnellate ha bisogno di una tonnellata e mezza di vegetali ogni giorno per regolare la propria temperatura corporea; per non parlare del fatto che non sarebbe bastata una giornata per scaldare al sole un corpo così grosso! Oggi si pensa tuttavia che essi fossero una sorta di... via di mezzo tra eterotermi ed omeotermi. Pur essendo eterotermi, cioè, potrebbero aver avuto il metabolismo di un omeotermo grazie all'inerzia termica dei loro colossali corpi, tanto vasti da trattenere facilmente il calore al proprio interno; solo la testa e le zampe dovevano essere "fredde".
Un'altra disputa sui Sauropodi riguarda il loro lunghissimo collo. Secondo uno studio di alcuni paleontologi britannici, questo collo era quasi sempre eretto, più come le giraffe di oggi che come nell'immagine classica cui ci hanno abituato i musei come il Natural History Museum di Londra, dove uno scheletro gigante di Diplodoco con il collo prostrato verso il suolo è l'attrattiva principale della hall d'ingresso. Il team di ricercatori guidato da Mike Taylor, dell'Università di Portsmouth, ha analizzato le vertebre cervicali dei resti fossili di alcuni esemplari di Sauropodi ed è giunto alla conclusione che queste creature non protendevano il collo in avanti, come sono stati comunemente rappresentati nelle ricostruzioni e nei film. Sembra invece che la testa fosse tenuta in posizione prevalentemente verticale, portata in alto da un collo sinuoso come quello di un cigno. « Dobbiamo presumere che la base del loro collo fosse fortemente incurvata all'insù », ha spiegato Taylor. Ma la teoria del collo eretto non convince tutti gli esperti: c'è ad esempio chi ritiene impossibile che il cuore fosse in grado di pompare il sangue così in alto, visto che la testa poteva trovarsi anche a 15 metri dal suolo, obiezione a cui Taylor controbatte facendo notare che le dimensioni dei rettili preistorici sono ben diverse da quelle degli esseri viventi odierni a cui si fa riferimento. Tutti sono però d'accordo nell'affermare che i Sauropodi sono stati esseri bizzarri, e che attualmente sulla Terra non esiste un animale a cui possono essere paragonati, il che rende ancora più difficile la ricostruzione della loro effettiva anatomia.
Alcuni tra i dinosauri più famosi, disegno dell'autore |
Si discute anche sul genere di vita dei sauropodi più grandi, ritenuti un tempo troppo grossi persino per camminare (le loro zampe cioè non avrebbero retto il peso del corpo). Uno scheletro di brachiosauro rinvenuto nel 1907 a Tendagaru (tra Tanzania e Mozambico) e ricostruito nel museo di Berlino è lungo 23 metri e l'animale vivo doveva pesare oltre 70 tonnellate, e non era neppure il più grosso: dell'argentinosauro si è detto sopra, e l'ultrasauro, di cui sono stati ritrovati solo alcuni elementi fossili nel Colorado, doveva raggiungere i 36 metri di lunghezza, i 18 di altezza ed un peso minimo di 136 tonnellate!! E così, al principio si era ritenuto che i brachiosauri dovessero trascorrere tutta la vita immersi nell'acqua delle paludi, aiutandosi con la spinta di Archimede a sostenere l'immenso peso del corpo; a quest'ipotesi sembrava concorrere anche la posizione arretrata delle narici sul muso, come se fossero le uniche che l'animale teneva emerse per respirare, e l'inadeguatezza della dentatura, che sembrava deporre a favore di una dieta a base di soffici alghe. Ma calcoli recenti hanno dimostrato che già a 8 metri di profondità la loro respirazione era resa impossibile dalla pressione dell'acqua, mentre le loro zampe sono quelle di un animale terrestre, non di uno acquatico. Oggi si pensa che essi vivessero nelle foreste di conifere del Giurassico e che brucassero anche le fronde più alte alzandosi in piedi sulle zampe posteriori, assai più corte e tozze di quelle anteriori: caratteristica unica, questa, tra tutti i dinosauri, che è valsa loro il nome ("lucertola dalle braccia"). Quanto all'arretratezza delle narici, essa sarebbe da collegare ad un senso dell'olfatto fortemente sviluppato, mentre i denti inadeguati sarebbero stati bilanciati da un apparato digestivo simile a quello degli uccelli, notoriamente privi di denti: in uno stomaco fortemente muscolarizzato, dei sassi appositamente inghiottiti (gastroliti) avrebbero completato il trituramento della vegetazione inghiottita. Infatti tra le ossa di questi animali sono stati trovati molti sassi assai levigati.
Dunque i brachiosauri erano animali terrestri; è probabile che vivessero in branchi come i bovini attuali, tanto che Michael Crichton li definì "delle gigantesche mucche". Tuttavia, alla luce di studi recenti anche l'idea dei placidi erbivori indifesi deve probabilmente essere rivista: oltre al fatto che la mole ciclopica ed il numero dovevano essere un deterrente contro l'assalto anche del maggiore fra i teropodi, è probabile che potessero vibrare colpi terribili con la coda o addirittura con le possenti zampe anteriori, essendo l'artiglio del pollice più sviluppato degli altri.
Il Brontosauro, dinosauro perduto e poi ritrovato
Vale la pena di spendere una parola per il brontosauro ("lucertola tonante"), uno dei più massicci tra i Sauropodi con le sue 35 tonnellate di peso, perchè la sua vicenda è emblematica di come procede la Scienza. Questo dinosauro, forse tra i più conosciuti al grande pubblico anche per l'emozione legata al suo nome ed alle ricostruzioni che se ne sono fatte nei musei e tra i libri, in realtà... non è mai esistito. Nel 1877, nel clima di aspra competizione tra Cope e Marsh, i più grandi cacciatori di dinosauri dell'ottocento, quest'ultimo riportò alla luce nella Morrison Formation tre gigantesche vertebre, che attribuì ad un sauropode cui diede il nome di Apatosaurus ajax, ovvero "lucertola ingannatrice", e la associò all'eroe omerico Aiace per la sua impotenza. Nel 1879 Marsh trovò un enorme scheletro quasi completo, privo però del cranio, e così, nel tentativo di sopravanzare il suo avversario Cope quanto al numero di fossili disseppelliti, montò su di esso la testa ed alcune ossa delle zampe di un Camarasauro, ottenendo un rettile mai esistito, cui diede l'evocativo nome di Brontosaurus excelsus, e che a causa di quel frettoloso equivoco ha fatto bella mostra di sé nei musei per oltre un secolo. Solo nel 1903 i paleontologi si accorsero che i due dinosauri appartenevano in realtà a un unico genere; e siccome ha la precedenza il nome associato per primo, il povero Brontosaurus, benché ormai entrato a far parte della cultura popolare (alcuni consideravano addirittura "brontosauro" un sinonimo di "dinosauro"!), sparì dalle ricostruzioni dei panorami del Giurassico, sostituito da apatosauro. Nel 1975 inoltre i paleontologi John S. McIntosh e David S. Berman riconobbero l'errata attribuzione del cranio, individuarono quello giusto nel deposito di un museo, ed il fossile fu ricostruito correttamente in tutti i musei del mondo.
A peggiorare le cose per il povero brontosauro fu la scoperta, avvenuta negli anni settanta del secolo scorso, che l'Apatosauro non era nemmeno strettamente imparentato con il Camarasauro, ma con un altro dinosauro, il Diplodocus carnegii, che fu uno dei più lunghi tra i dinosauri, arrivando ai 27 metri, anche se aveva una struttura più snella e leggera dell'apatosauro, non superando le 15 tonnellate: in particolare aveva una testa assai piccola su di collo lunghissimo, il quale gli consentiva di pascolare su una vastissima area di terreno. Il nome di questi dinosauri significa "doppia sbarra" e si riferisce alle caratteristiche ossa chiamate chevron poste al di sotto delle vertebre caudali e biforcate, forse allo scopo di sostenere meglio il peso della lunghissima coda a frusta, deputata a controbilanciare l'altrettanto lungo collo. Invece il nome della specie è quello di Andrew Carnegie (1835-1919), l'industriale americano re dell'acciaio che nel 1909 finanziò gli scavi destinati a portarla alla luce. Così, per molti il brontosauro divenne l'apatosauro "dalla testa sbagliata", con una sarcastica allusione alla ricostruzione di Marsh.
Il contrordine però arrivò nella primavera del 2015, quando Emanuel Tschopp, Octavio Máteus e Roger B.J. Benson, tre ricercatori dell'Università di Oxford e della Universidade Nova di Lisbona, hanno confrontato ben 477 caratteristiche morfologiche di tutti i reperti fossili di sauropode censiti nei principali database paleontologici. Grazie alla loro pazienza, il brontosauro è tornato a essere riconosciuto come genere autonomo. « La nostra ricerca, con questo livello di dettaglio, non sarebbe stata possibile 15 o più anni fa, quando l'affermazione che brontosauro e apatosauro fossero un unico genere era perfettamente ragionevole sulla base delle conoscenze disponibili », ha spiegato Tschopp. « Solo grazie alle numerose nuove scoperte di dinosauri simili all'apatosauro e al brontosauro è diventato possibile intraprendere una nuova accurata analisi per capire come fossero fatti effettivamente ».
Il brontosauro ispirò uno dei primissimi cartoni animati della storia, "Gertie the dinosaur", realizzato nel 1914 da Winsor McCay! |
Non possiamo fare a meno di citare qui anche il Brontomerus (letteralmente « cosce di tuono »), un sauropode vissuto 110 milioni di anni fa, caratterizzato da possenti gambe che avrebbe utilizzato come arma per fare giustizia sia dei suoi rivali in amore che dei feroci predatori dell'epoca. Le ossa fossilizzate di due esemplari di questa specie furono scoperte nel 1994 in una miniera vicino al fiume Colorado da ricercatori del Sam Noble Museum. I paleontologi hanno analizzato dettagliatamente spalle, anche, coste, vertebre di questi due esemplari di Brontomerus mcintoshi, uno adulto e uno più giovane, e hanno stabilito che il primo era alto quanto un elefante, pesava circa sei tonnellate e dal naso alla parte più estrema della coda misurava 14 metri; il più giovane, invece, era lungo 4,5 metri e pesava poco più di 200 chili. Secondo i ricercatori i due dinosauri potrebbero essere rispettivamente madre e figlio. Dallo studio delle ossa è stato appurato che questa specie ebbe i muscoli delle gambe più sviluppati di qualsiasi sauropode. « Probabilmente la specie viveva in luoghi selvaggi e collinari, e i potenti muscoli delle sue gambe lo rendevano un dinosauro a quattro ruote motrici », ha affermato Matt Wedel, ricercatore della californiana Western University of Health Sciences, che si è occupato del Brontomerus insieme a Mike Taylor. Quest'ultimo ha affermato: « Quando abbiamo riconosciuto la strana figura dell'anca, ci siamo chiesti quale fosse il suo significato. Alla fine abbiamo capito che lo scalciare era uno dei movimenti abituali di questo esemplare. Molto probabilmente il Brontomerus tirava possenti calci quando doveva combattere con un suo simile per conquistare un esemplare femmina. Presumibilmente usava la stessa tecnica per difendersi dai predatori più pericolosi ». La scoperta mette in discussione la vulgata secondo la quale i sauropodi erano tutti scomparsi all'inizio del Cretacico. Ma negli ultimi vent'anni sono stati ritrovati numerosi fossili di dinosauri sauropodi cretacici, e il quadro è mutato.
« Qual è il più grande dinosauro mai esistito? » Una domanda che io stesso ho posto molte volte fin da bambino. Certo, non è facile dare una risposta a questa domanda, ma forse ha delle buone ragioni dalla sua chi rispone: « Il Dreadnoughtus schrani ». Infatti quelle di questo sauropode erano davvero misure da brivido: 26 metri di altezza e 65 tonnellate di peso. Insomma, un colosso alto come un palazzo di otto piani e pesante quanto una dozzina di elefanti, o più di sette Tyrannosaurus rex. A scoprirne i resti, risalenti a 77 milioni di anni fa (alle 18 in punto del giorno di Natale), è stato un gruppo internazionale di ricerca coordinato da Kenneth Lacovara dell'Università Drexel di Philadelphia in Pennsylvania. Avendo ritrovato il 70 % dello scheletro del nuovo dinosauro, appartenente a un gruppo di grandi erbivori conosciuto come titanosauri, i ricercatori sono riusciti per la prima volta a misurarlo con grande precisione. « Si tratta », ha detto Lacovara, « del miglior ritrovamento di qualsiasi creatura gigante che abbia mia camminato sul nostro pianeta ». Aggiungendo poi: « lo scheletro mostra che, quando questo esemplare è morto, non era ancora pienamente cresciuto! » Sono stati ritrovati più di 100 elementi dello scheletro tra cui il femore, lungo oltre sei metri, e un omero, che hanno dato le maggiori indicazioni per calcolarne le dimensioni. Nello stesso sito è stato ritrovato anche un esemplare più piccolo della stessa specie, ma con uno scheletro incompleto. Dreadnoughtus, dall'inglese "che non teme nulla" (sinonimo di moderna nave da battaglia, dato che tale nome fu portato da sei vascelli della Royal Navy), visse in una foresta temperata sulla punta meridionale del Sudamerica. « Questi due animali sono stati probabilmente sepolti in fretta da un fiume in piena che ha rotto il suo argine naturale, trasformando il terreno in sabbie mobili. La sepoltura rapida e profonda dei corpi ci ha regalato una straordinaria completezza. La loro sfortuna è stata la nostra fortuna », ha concluso Lacovara.
Prima di cambiare argomento, un cenno merita anche un sauropode "nano", lungo "solo" sei metri e risalente a 154 milioni di anni fa, i cui resti sono stati rinvenuti in una cava vicino ad Hannover, nel nord della Germania. La scoperta dell'Europasaurus holgeri, come la nuova specie è stata battezzata, è stata annunciata sul numero di giugno 2006 di Nature da Martin Sander, capo del gruppo di ricerca che ha individuato il sauropode di una taglia stranamente inferiori a quelle di cui abbiamo discusso subito sopra. Le ossa dei dieci esemplari rinvenuti hanno permesso di appurare che si tratta di una vera e propria specie nana, non dei cuccioli: le ossa sono risultate essere perfettamente formate e pienamente sviluppate, come quelle degli esemplari adulti. Ma l'Europasaurus non è frutto di un'insolita mutazione genetica, bensì di quello che i paleontologi chiamano "nanismo da isolamento": una specie tende a ridurre le proprie dimensioni fisiche quando vive in un contesto ristretto, come una piccola isola, dove le risorse sono limitate ed avere dimensioni ridotte si trasforma in un grosso vantaggio. Infatti sembra che 150 milioni di anni fa la regione della Bassa Sassonia fosse sommersa dalle acque, e che il dinosauro "formato mignon" vivesse proprio su di un'isola. Come ha affermato Martin Sander, è presumibile che l'antenato "normale" (vale a dire gigante) dell'Europasaurus si fosse spinto fin lì fondando una colonia poi rimasta isolata, i cui membri con il tempo si sono autoridotti di dimensione per sopperire alla scarsità di cibo. Del resto una cosa del genere avvenne anche sull'isola di Malta, dove si evolse una razza di elefanti nani, e addirittura un fenomeno di nanismo da isolamento potrebbe aver interessato perfino il genere Homo, come diremo parlando del Neozoico.
Gli Stegosauri
Ornitischi vegetariani, comparsi verso la fine del periodo Giurassico e gli inizi del Cretacico, potevano raggiungere una lunghezza di 6 metri ed un peso di 3 tonnellate. Quadrupedi lenti e goffi, erano caratterizzati da robustissime creste distribuite lungo la spina dorsale, che hanno dato loro il nome ("lucertole coperte"). Questa vera e propria armatura ossea ha rappresentato a lungo un vero rebus per la paleontologia, essendo estremamente difficile interpretare la sua vera funzione. Manca ad esempio qualunque indicazione di un rapporto diretto tra esse e le vertebre, per cui si suppone che esse fossero conficcate liberamente nella pelle; persino la loro effettiva disposizione fu oggetto di lunghe dispute, che potevano essere condotte a soluzione solo dopo che fosse stata scoperta la loro reale funzionalità. Una prima ipotesi parlava di funzione difensiva delle placche a protezione del corpo, ma una simile armatura avrebbe in realtà ben poco successo, lasciando scoperti i fianchi. In effetti l'esame istologico rivelò che le placche erano coperte di pelle fortemente irrorata di vasi sanguigni, dal che si può dedurre che esse avessero una funzione termoregolatrice, come la vela squamosa del dimetrodonte del Permiano. Per studiare la disposizione delle creste sulla schiena si ricorse addirittura ad una galleria del vento! Sembra che quella più conveniente fosse a doppia fila alterna.
La testa, di dimensioni ridottissime rispetto al resto del corpo, poteva alloggiare un cervello grande al massimo come quello di un gatto. Gli stegosauridi non dovevano certo brillare per la loro intelligenza, dunque; ma, analogamente a quanto accadeva nei grandi sauropodi, anch'essi probabilmente avevano un "cervello sacrale" che integrava le funzioni cerebrali coordinando la metà posteriore del corpo, onde evitare che l'animale si trovasse la coda divorata prima ancora di accorgersene. La bocca, spesso priva di denti, come in tutti gli ornitischi era armata di un temibile becco osseo. Le zampe posteriori erano assai più lunghe di quelle anteriori, ragion per cui queste bestie probabilmente procedevano sempre a testa bassa. La parte terminale della lunga coda era irta di spine ossee, utilizzate per difendersi contro gli attacchi dei teropodi, come mostra una celeberrima scena del cartoon "Fantasia" (vedi a fianco), ma forse anche come appoggio per sollevarsi sulle zampe posteriori e raggiungere vegetali più alti.
Nel 2015 Evan Saitta dell'Università di Bristol ha dimostrato che le differenze nella conformazione delle placche dorsali dello stegosauro, che potevano essere più o meno larghe e più o meno alte, è da attribuire al sesso dell'animale. Il risultato è particolarmente rilevante perché il dimorfismo sessuale, cioè l'insieme delle differenze anatomiche che distinguono i maschi dalle femmine della stessa specie (come dimostrano la criniera dei leoni e o la conformazione delle corna nei cervi) è difficile da determinare nel caso di animali estinti, di cui si hanno a disposizione solo resti fossili. Per questo, spesso gli studi paleontologici hanno portato a risultati incerti sul dimorfismo sessuale dei dinosauri, lasciando aperta la possibilità che le differenze anatomiche tra gli esemplari fossili ritrovati fossero spiegabili con l'appartenenza a specie o a età diverse. Dopo sei anni di scavi nel Montana, in cui si trova una sorta di cimitero degli stegosauri, Saitta invece è riuscito a raccogliere le prove che consentono di escludere altre possibili spiegazioni di quelle differenze. In primo luogo, riguardano solo le placche dorsali e non il resto dello scheletro: troppo poco, secondo gli autori, perché si tratti di specie diverse. L'analisi della superficie delle placche fossili ha poi portato a concludere che i tessuti ossei avevano già terminato il processo di crescita; le differenze quindi non possono essere attribuite alle diversa età degli esemplari. La migliore spiegazione è dunque che le due varietà di placche marcavano la differenza tra maschi e femmine di un'unica specie, denominata Stegosaurus mjosi. Ma chi tra maschio e femmina aveva le placche più larghe e chi quelle più alte? « I maschi di solito hanno un ornamento maggiore rispetto alle femmine, e nel caso degli stegosauri possedevano le placche più grandi e larghe, che fornivano probabilmente un'ampia superficie per attrarre le partner », ha spiegato Saitta. « Le placche più alte servivano invece alle femmine come deterrente nei confronti dei predatori ».
Gli Anchilosauri
Insieme agli Stegosauri, gli Anchilosauri appartenevano al gruppo degli ornitischi vegetariani a quattro zampe. Essi potevano raggiungere la lunghezza di 10 metri; tutto il corpo, compreso il cranio, era ricoperto da una grossa corazza ossea che, nella parte finale della coda, si allargava a formare una grossa mazza, in analogia a quanto accade con i nostri armadilli; da questa peculiarità deriva il loro nome ("lucertola saldata"). Anche in questo caso i pareri sono discordi: secondo certi paleontologi alcune parti del corpo restavano scoperte, permettendo loro di muoversi con relativa rapidità; secondo altri, invece, sarebbero stati completamente corazzati ed obbligati perciò a movimenti più lenti e difficoltosi. In ogni caso, l'inespugnabile corazza doveva difendere questi mostri dai grandi teropodi più efficacemente di qualunque tentativo di darsela a gambe, e la pesantissima mazza in cui si era trasformata la coda doveva costituire una terrificante arma di difesa contro i predatori più grossi, se menata contro le loro zampe e il loro muso. Probabilmente i carnivori potevano avere la meglio su di un anchilosauro solo se lo attaccavano in branco da più parti e se riuscivano a capovolgerlo, così da azzannarlo nelle parti scoperte. Questo ci dice che il cliché dei dinosauri ottusi e tardi va completamente ribaltato: un vero e proprio panzer della natura come l'anchilosauro deve essersi sviluppato come risposta alle raffinate tecniche di caccia sviluppate dagli agili ed intelligenti cacciatori a due zampe, divenendo il massimo prodotto dell'evoluzione dei dinosauri nel campo della difesa.
Saurischi i cui fossili sono stati ritrovati in Asia e nell'America del Nord, i Dromeosauridi rappresentavano al contrario il massimo prodotto dell'evoluzione dei dinosauri nel campo della caccia. Sviluppatisi nel Cretacico, essi erano bipedi, alti mediamente poco più di un metro e lunghi dai due ai 4 metri; i rappresentanti più famosi della famiglia sono il Velociraptor (i terribili "raptors" di Jurassic Park, che hanno dato il nome anche alla squadra di basket di Toronto!!), scoperto in Mongolia nel 1924, e il Deinonychus ("artiglio terribile"), il cui nome fa riferimento al gigantesco artiglio mobile che armava il secondo dito del piede. Spropositatamente lungo ed affilato, questo terrificante unghione doveva essere in grado di sventrare un grosso animale con un solo fendente. Ma i caratteri unici in questo dinosauro erano moltissimi, tali da renderlo quasi "speciale" fra tutti gli altri dinosauri. Il suo cranio era leggerissimo con ampie cavità e ponti su cui facevano presa potenti muscoli masticatori, tanto che la bocca armata di 70 denti poteva chiudersi con forza inaudita; ma anche il cervello doveva essere particolarmente sviluppato, il che fa pensare ad una intelligenza senza pari in mezzo agli altri dinosauri. Il tirannosauro era solo una grossa bocca che correva su due zampacce enormi e addentava tutto ciò che gli capitava a tiro; ma il Deinonychus doveva cacciare con astuzia, se mi si passa questo termine. Come tutti gli animali intelligenti, doveva cacciare in branchi guidati da un animale dominante, e questo fatto, a dispetto delle sue dimensioni ridotte, doveva renderlo capace di abbattere anche prede di notevoli dimensioni, che avrebbero scoraggiato un grande teropode isolato. La coda rigida serviva quasi certamente per bilanciare il corpo durante la corsa bipede, durante la quale probabilmente doveva raggiungere i 50 chilometri l'ora; questi draghi si lanciavano a tutta velocità sulle prede, saltando loro contro con le zampe posteriori protese e ruotando l'artiglio di quasi 180° per sferrare un colpo micidiale, mentre si tenevano aggrappati a loro con le zampe anteriori. Molto probabilmente, Deinonychus era un cacciatore dalla vista acuta, estremamente agile e reattivo, sensibile al minimo stimolo esterno, capace di scatti fulminanti e di elaborare strategie di caccia avanzatissime; tutto questo suggerisce che avesse anche un metabolismo omeotermo. A confermare quest'ipotesi è venuta anche la scoperta che taluni Dromeosauridi cinesi erano coperti di piume, come diremo più avanti. Questi esseri dovevano occupare, tra i dinosauri, la nicchia occupata nel Cenozoico dai primati; tanto che qualche fantasioso appassionato di fantascienza si è spinto addirittura a disegnare un "uomo rettile" disceso dai Dromeosauridi, con andatura eretta, grande cranio, visione frontale e pollice opponibile. È comunque un dato di fatto che, per quanto astutissimi, i Dromeosauridi non riuscirono a superare la crisi dell'iridio (di cui diremo sotto), lasciando campo libero ai mammiferi e quindi all'uomo.
Testa di Edmontosauro (disegno dell'autore) |
Gli Ornitopodi
Nelle terre paludose vivevano ornitischi vegetariani bipedi, che hanno ricevuto il nome di Ornitopodi (in greco "piede da uccello") perché molti dei generi appartenenti a questo gruppo possedevano zampe posteriori a tre dita, apparentemente simili a quelle degli uccelli. Gli ornitopodi erano caratterizzati inoltre da una mandibola priva di aperture, da un becco corneo e dall'assoluta mancanza di armature difensive, cosa piuttosto inusuale in un mondo abitato da predatori poco dissimili per ferocia e potenza dai mitologici draghi.
La famiglia più celebre e rappresentativa degli Ornitopodi è quella degli Adrosauri, notissimi al grande pubblico perché forniti di un becco simile a quello delle anatre, da cui deriva l'altro loro nome di Anatosauri. Pur essendo enormi (misuravano dai tre ai 15 metri, e pesavano fino a 3 tonnellate!), erano probabilmente innocui e completamente indifesi contro gli attacchi dei predatori di grande mole come il Tirannosauro del quale, in un mondo di erbivori corazzati, dovevano essere la preda preferita. Si può pensare che la loro unica salvezza, in caso di attacco da parte di un predatore, fosse un bel tuffo in acqua; forse però ricorrevano al mimetismo o al veleno per difendersi meglio, dato che le loro pelli fossilizzatesi hanno rivelato analogie con quella di alcuni sauri velenosi odierni dei deserti americani.
Questi animali erano diffusissimi, dal Sudamerica al Giappone; alcuni rinvenimenti recenti hanno avvalorato l'ipotesi che essi abbiano raggiunto a nuoto il Sudamerica, giacché questo a quell'epoca era già separato dal Nordamerica da un braccio di mare. Essi vissero nell'ultima parte del Cretacico ed i loro reperti più antichi risalgono a "soli" 95 milioni di anni fa. Molte specie erano dotate di creste più o meno sviluppate, di forme talora veramente bizzarra, che probabilmente erano collegate alla loro vita sessuale, venendo utilizzate per produrre richiami durante il corteggiamento. Così il Coritosauro aveva una specie di elmetto in testa, il Lambeosauro una cresta a forma di pinna di pesce, il Griposauro un rigonfiamento sul naso, l'Edmontosauro una specie di sacca di pelle posta sul naso, che poteva essere gonfiata come un palloncino e che forse veniva messa in mostra per conquistare le femmine, il Maiasauro una sorta di piccola escrescenza a forma di corno sopra gli occhi ed un cranio simile a quello di un cavallo, fino al Parasaurolofo che possedeva un corno a forma di tubo lungo oltre un metro che sporgeva dalla nuca, con il quale probabilmente poteva emettere suoni simili a quelli di un corno medioevale.
Nel Montana ne sono stati trovati ampi siti di nidificazione con tanto di uova fossilizzatesi: alcuni di questi siti comprendevano oltre 10.000 individui, tutti Maiasauri, il che rappresenta la prova certa che questi dinosauri vivevano in grandi colonie e dedicavano ai piccoli numerose cure parentali. La cosa curiosa è che i nidi distano tra di loro quanto la lunghezza di un animale adulto, il che ha fatto supporre che essi covassero le uova; e dovevano aver bisogno di covarle solo se erano animali a sangue caldo, anche se come al solito le discussioni su questo punto sono molto accese. Un'altra disputa riguarda lo stile di vita: l'analogia della costituzione del becco ha fatto a lungo pensare che essi vivessero negli acquitrini al modo delle anitre, ma forse vivevano invece nelle foreste di conifere, dato che l'analisi del contenuto del loro stomaco ha rivelato la presenza di semi e ramoscelli di conifere, e non vi è dubbio che questi giganti avessero centinaia di denti in grado di triturare anche la vegetazione più dura.
Bisogna aggiungere una scoperta eccezionale compiuta dal nostro connazionale Federico Fanti dell'Università di Bologna, in collaborazione con Phil Bell dell'Università del New England (Australia), Philip Currie e Victoria Arbour dell'Università dell'Alberta ad Edmonton (Canada), e pubblicata nel dicembre 2013. Nei sedimenti vecchi di 70 milioni di anni (di 5 giorni e 6 ore) che affiorano vicino alla città di Grande Prairie nella provincia canadese dell'Alberta essi hanno rinvenuto un esemplare di Edmontosauraus regalis, un adrosauro mummificato e in perfette condizioni: una scoperta più unica che rara. Grazie ad essa, Fanti e colleghi hanno potuto scoprire che questi dinosauri avevano il cranio ornato da una cresta fatta interamente da tessuti, simile a quella degli odierni galli! Fino ad allora non c'erano indizi sulla presenza di strutture come queste nei dinosauri: molte specie infatti presentano creste ben sviluppate, ma sostenute da strutture ossee rigide. Naturalmente la scoperta solleva l'ovvia domanda sulla presenza o meno di strutture simili in altri dinosauri, sia erbivori sia carnivori. La presenza di creste sul cranio può essere ricondotta a due funzioni principali: comunicazione sociale o richiamo sessuale. In entrambi i casi, essa implica dinamiche sociali sviluppate e ben definite tra le singole specie di dinosauri, come definire gerarchie all'interno del branco, la maturità sessuale di un individuo o mandare messaggi a possibili predatori.
Una curiosità: nella puntata intitolata "L'Origine della Specie" della serie di fantascienza "Star Trek, Voyager" gli intrepidi esploratori giungono su un pianeta abitato da una razza rettiloide intelligente, i Voth, i quali si rivelano discesi proprio da alcuni Adrosauri che abbandonarono il Pianeta Terra prima della Crisi dell'Iridio.
Così viene immaginata l'evoluzione di un adrosauro (a sinistra) in un essere bipede dotato di ragione (a destra) nella puntata di "Star Trek, Voyager" intitolata "L'Origine delle Specie" (da questo sito) |
I Marginocefali
Erano un gruppo di dinosauri erbivori ornitischi, caratterizzati da particolari ossa sul retro del cranio, che in alcuni casi formavano un vero e proprio collare osseo. Si dividono a loro volta in due gruppi principali: i Pachicefalosauri e i Ceratopsidi. Si pensa che siano derivati da Ornitopodi primitivi del Giurassico, anche se l'effettiva parentela tra le grandi famiglie di dinosauri rappresenta tuttora un vero rebus per i paleontologi.
I Pachicefalosauri erano bizzarri dinosauri bipedi che abitavano gli altipiani di Asia e Nordamerica, caratterizzati da una enorme testa, per via dell'ispessimento delle ossa del cranio. Nonostante ciò, questi dinosauri non erano affatto particolarmente intelligenti: benché potessero raggiungere tranquillamente i cinque metri di lunghezza, il loro cervello non era più grande di quello di un gatto, e l'unico senso fortemente sviluppato era quello dell'olfatto. Piuttosto, l'evidente corazza ossea sulla sommità del cranio, in grado di assorbire urti anche molto violenti, era quasi certamente legata all'abitudine dei maschi di lottare fra di loro a testate per contendersi le femmine, un comportamento sessuale analogo a quello degli attuali mufloni. Legamenti, ispessimenti ossei e vertebre compatte erano strutture adatte per l'appunto a scaricare sul resto del corpo le botte dovute agli impatti nei combattimenti testa a testa, e la calotta serviva a proteggere dagli urti il cervello, forse isolato anche da particolari tessuti. Non è da escludersi però che un cranio tanto duro venisse usato anche per fronteggiare un eventuale assalitore caricandolo a testa bassa, mentre i cuccioli e le femmine, agili e veloci, si arrampicavano nelle zone rocciose e semiaride di collina in cui questi curiosi esseri presumibilmente vivevano. Quando si dice botte da orbi...
I Ceratopsidi sono invece quadrupedi diffusi in Asia e Nordamerica e dotati di una caratteristica peculiare: furono i primi dinosauri cornuti ad essere scoperti. Possiedono inoltre un un collare osseo più o meno ampio ed un becco simile a quello dei pappagalli; non è certo un caso se uno dei primi ceratopsidi ad essere scoperti è stato lo Psittacosauro, il cui nome in greco significa "lucertola pappagallo"! Uno dei più famosi rappresentanti di questa famiglia è però il Triceratope (Triceratops prorsus), così detto perchè dotato di ben tre corna, due sopra gli occhi ed uno sul muso, tanto da essere spesso accostato al rinoceronte. Il suo primo fossile, riportato alla luce nel 1887 in Colorado, fu erroneamente attribuito da Marsh ad un bisonte estinto, da lui denominato "Bison alticornis", perchè a quei tempi non erano noti dinosauri cornuti; solo dopo la scoperta dei fossili di altri Ceratopsidi dotati di corna l'equivoco venne riconosciuto. Questo ceratopside era lungo fino a 9 metri, alto 3 metri e pesava fino a 9 tonnellate, ed il suo enorme cranio era lungo fino a due metri e mezzo. Per di più da esso si dipartiva un collare osseo che arrivava a coprire anche le spalle, dando a questo animale il terribile aspetto di un vero e proprio carro armato vivente. Le corna sopraorbitali arrivavano ai 90 centimetri di lunghezza. I piedi, larghi e piatti, consentivano una salda presa al suolo, indispensabile nella difesa: non occorre infatti una laurea in paleontologia per rendersi conto che questi bestioni non dovevano certo essere molto agili e veloci, e che quindi non potevano contare su una rapida fuga.
In realtà, nonostante l'aspetto di fortezza vivente, il Triceratope doveva essere assai più mite di quanto non racconta la leggenda popolare alimentata da libri illustrati per bambini, in cui lo si vede addirittura trafiggere un Tirannosauro con le due corna sopraorbitali. Il collare, spesso pensato come una formidabile difesa contro i Teropodi che avrebbero tentato di azzannarlo sul collo, era in realtà dotato di ampie finestrature che lo alleggerivano e fornivano inserzioni per i muscoli delle mascelle, queste sì particolarmente potenti e terminanti in un pauroso becco osseo; ben difficilmente però una tale struttura avrebbe potuto resistere senza danni al morso di un Tirannosauro. Probabilmente questa singolare caratteristica anatomica serviva per distinguere i singoli individui tra di loro, a scopo sessuale e gerarchico e anche per la termoregolazione del corpo, in quanto presentava una fitta vascolarizzazione. Quanto alle corna, è presumibile che venissero utilizzate sia per scoraggiare i predatori che nei combattimenti tra maschi: alcuni teschi fossili, infatti, riportano ferite e sforacchiature che sembrerebbero essere state procurate proprio da corna di altri triceratopi. Non è da escludere poi che il comportamento di questi Marginocefali fosse simile a quello degli odierni bufali: essi cioè vivevano in branchi e, in caso di minaccia portata da uno squadrone di carnivori, gli adulti si sarebbero radunati a cerchio chiudendo all'interno i cuccioli, ed offrendo ai predatori una paurosa foresta di corna appuntite!
Lo Stiracosauro (Styracosaurus albertensis), altro esponente della famiglia dei Ceratopsidi scoperto nel 1913 da Lawrence Lambe (1849-1934), al posto del collare aveva un'incredibile cresta formata da ben sei corna disposte a raggiera; probabilmente però era innocuo. Il Ceratopside finora conosciuto con il numero maggiore di corna è poi il Cosmoceratope (Kosmoceratops richardsoni), scoperto nel 2010 da Scott Sampson dell'Università dello Utah: sul suo capo infatti facevano infatti bella mostra ben quindici appendici ossee, una al di sopra di ogni occhio, una sul naso, una su entrambe le guance e le restanti nella parte posteriore del cranio. Invece le corna di maggiori dimensioni mai riscontrate in una specie di dinosauro appartengono al Coahuilaceratope (Coahuilaceratops magnacuerna), scoperto in Messico sempre da Scott Sampson. Si tratta di un dinosauro erbivoro lungo circa 6,5 metri e alto tra 1,8 e 2,1 metri al garrese, di peso compreso tra quattro e cinque tonnellate ed il cui cranio, oltre ad essere lungo circa 1,8 metri, era armato da un massiccio paio di corna di lunghezza compresa tra 1,8 e 2 metri: valori da primato anche nella stessa famiglia dei Ceratopsidi. Da segnalare che, secondo i paleontologi John Scannella e Jack Horner del Museum of the Rockies di Bozeman (Montana), il Triceratope non sarebbe una specie a sé stante, bensì la forma giovanile di un altro ceratopside molto meno conosciuto, il Torosauro (Torosaurus latus), scoperto da Marsh nel 1891 ed effettivamente assai simile al ben più conosciuto Triceratope, anche se con un collare più sviluppato. Secondo altri invece sarebbe il Torosauro ad essere la forma anziana del Triceratope, e quindi ad essere soppresso dovrebbe essere il genere Torosaurus (del resto, lo stesso Jack Horner ha affermato: « si può ragionevolmente immaginare che nei prossimi anni saranno cancellati da 10 a 50 nomi di animali preistorici perché si è scoperto, attraverso lo studio delle ossa, che molti di loro altro non erano che giovani esemplari di specie già conosciute »).
In ogni caso, il Triceratope fu uno degli ultimi dinosauri a comparire sulla faccia della Terra, durante il Maastrichtiano, cioè verso la fine del Cretacico, così come il Tirannosauro, al quale è associato nella cultura popolare, come dimostrano le innumerevoli ricostruzioni fantasiose di formidabili duelli fra il campione dei carnivori e il più temibile degli erbivori. Qui sotto potete vedere, fotografata dall'autore di questo sito, una realistica ricostruzione di un Triceratope presso il Museo Civico di Storia Naturale di Milano.
Proteina di dinosauro
Nel 2016 un gruppo di ricercatori del National Synchrotron Radiation Research Center di Hsinchu, a Taiwan, e della National Central University, sempre di Taiwan, hanno identificato microscopici frammenti ben conservati di collagene, la principale proteina del tessuto connettivo, in un fossile di dinosauro risalente a ben 195 milioni di anni fa (alle 4.24 del 16/12). Il collagene è stato ritrovato all'interno di un canale vascolare di una costola di Lufengosaurus huenei, un sauropode erbivoro lungo circa sei metri e alto tre, i cui resti sono stati scoperti nel deposito fossilifero di di Lu-feng, nella provincia cinese dello Yunnan. In precedenza, i più antichi frammenti di collagene scoperti, e molto degradati, appartenevano a fossili di 75 milioni di anni fa (le 22 del 25/12). La scoperta estende quindi di 120 milioni di anni (quasi dieci giorni!) le testimonianze di tessuti molli conservati a disposizione dei paleontologi.
I tessuti molli sono una fonte unica di informazioni biologiche ed evolutive, ma è molto raro che riescano a conservarsi durante i processi di fossilizzazione; inoltre l'estrazione dal fossile dei campioni di tessuto per un esame esterno è difficile e può compromettere il materiale o contaminarlo. Per questo i ricercatori hanno analizzato il materiale in situ, usando tecniche sofisticate che non comportano il danneggiamento dei campioni: la microspettroscropia infrarossa in trasformata di Fourier, che permette di analizzare le componenti organiche anche in quantità non rilevabili con altre tecniche, e la spettroscopia Raman. Le analisi hanno confermato che si trattava di frammenti di collagene ben conservato.
Secondo Yao-Chang Lee e colleghi la conservazione di questa proteina è stata possibile perché è completamente circondata da particelle di ematite che l'hanno sigillata all'interno di un ambiente inorganico. L'ematite, spiegano i ricercatori, si deve essere formata in seguito alla degradazione dell'emoglobina e di altre proteine ricche di ferro presenti nel sangue dell'animale, forse con l'apporto di ulteriori ioni di ferro presenti nelle acque sotterranee del sito di fossilizzazione..
Come già detto, negli oceani giurassici vivevano rettili marini perfettamente adattati alla vita acquatica dei loro antenati pesci. Erano gli Ittiosauri ("lucertole pesce"), che ricordano gli attuali delfini, i Plesiosauri ("più vicino ai rettili") dall'aspetto di una tartaruga marina dotata di lungo collo, ed i Placodonti ("denti a placche"), simili a grosse lucertole con pinne. Il primo frammento di fossile di ittiosauro fu scoperto nel 1699 in Galles, ma il primo scheletro completo di ittiosauro venne ritrovato nel 1811 da Mary Anning (1799-1847). Il primo fossile di plesiosauro fu invece identificato nel 1824 in Inghilterra dal reverendo William Daniel Conybeare (1787-1857), che lo definì icasticamente "un serpente passato attraverso il corpo di una tartaruga". Fin da subito infatti gli esperti rimasero molto perplessi di fronte all'aspetto di questi animali. Come si è visto, i dinosauri non erano stati ancora scoperti, perciò ogni loro caratteristica appariva assolutamente misteriosa. Nonostante il loro aspetto di pesci, gli ittiosauri furono subito riconosciuti come rettili, dotati di polmoni e non di branchie, perchè la configurazione del cranio e delle ossa mandibolari era innegabilmente rettiliana. Cosa più importante, essi avevano due paia di arti, mentre i pesci non ne hanno, il che testimoniava come gli ittiosauri si erano evoluti non a partire da pesci, bensì da animali terrestri, discesi a loro volta da un pesce molto più antico. Come mai, dunque, gli ittiosauri avevano compiuto la transizione inversa, tornando alla vita acquatica? E come mai avevano evoluto caratteristiche bizzarre, come gli occhi enormi, una colonna vertebrale unica, una forma slanciata e decisamente pisciforme? Per riuscire a chiarire la trasformazione enigmatica da rettili terrestri ad abitatori del mare aperto si sono dovuti attendere quasi due secoli, grazie alla scoperta di nuovi fossili in Giappone e in Cina, ed essi oggigiorno vengono distinti dai dinosauri e messi in un gruppo di rettili a parte. In ogni caso, l'adattamento alla vita marina ha conferito a questi animali un grande successo evolutivo, tanto che i fossili di rettili acquatici sono stati ritrovati praticamente in ogni parte del mondo, ed essi regnarono incontrastati negli oceani per un periodo che va da 245 a 90 milioni di anni fa (dalle 3 del mattino del 12 dicembre alle 16.48 del 24 dicembre: ben 12 giorni e mezzo dell'Anno della Terra!)
I plesiosauri erano molto differenti fra loro per forma e dimensione: il più piccolo misurava 2,5 metri, mentre il più lungo era lungo 14 metri! Il loro corpo era di forma ovale con due pinne anteriori e due posteriori. I paleontologi pensarono all'inizio che questi animali nuotassero vicino alla superficie dell'acqua, perchè in questo modo potevano tenere il loro lungo collo fuori dall'acqua. Però i loro occhi erano posizionati frontalmente, quindi probabilmente nuotavano completamente immersi in acqua e usavano il loro lungo collo per muovere velocemente la testa. Alcuni pensano che questi animali potessero addirittura uscire dall'acqua e camminare sulla terraferma con le larghe pinne, a mo' di tricheco, ma non tutti sono d'accordo. Invece i più piccoli ittiosauri misuravano 70 centimetri, i più grandi anche 15 metri; potevano pesare oltre 900 chilogrammi. I loro occhi potevano avere il diametro di 25 cm, come un pallone da calcio! In un fossile di ittiosauro è stato rinvenuto dentro il suo addome lo scheletro di un feto: segno, questo, che essi partorivano i piccoli, o perlomeno che incubavano l'uovo dentro il proprio corpo (non sarebbe certo facile deporlo in mare). Non si sa invece se i plesiosauri, per riprodursi, depositassero le uova sulla terraferma o se invece partorissero come gli ittiosauri. Certo è che questi ultimi riuscivano a vedere anche nel buio degli abissi e a divorare in un solo boccone dozzine di belemniti, animaletti simili alle seppie. Digerirli però non era semplice perché, proprio come le seppie, le belemniti avevano un guscio interno: era un po' come mangiare delle albicocche senza aver tolto prima il nocciolo. Orbene, due scienziati inglesi, Peter Doyle della Greenwich University di Londra e Jason Wood della Open University di Milton Keynes, in Inghilterra, hanno scoperto le abitudini alimentari di questi rettili preistorici grazie a un incredibile fossile, da essi riconosciuto come... vomito di ittiosauro risalente a 160 milioni di anni fa (alla mezzanotte del 19 dicembre)! Lo hanno trovato in una cava di argilla, in Inghilterra, in un luogo dove nel Giurassico si stendeva un mare pullulante di sauri marini. Il fossile ha l'aspetto di una roccia, in cui sono inseriti i gusci indigesti di numerose belemniti. I due paleontologi hanno capito che si trattava di vomito, e non semplicemente i resti di belemniti depositate sul fondo del mare dopo la loro morte, per due motivi: molti dei gusci presenti nel fossile sono di belemniti ancora giovani, e poi, con l'aiuto di un microscopio, si è scoperto sulla superficie dei gusci alcuni segni lasciati da forti acidi: quelli dei succhi gastrici degli animali che li avevano mangiati. L'ittiosauro che aveva divorato le belemniti ha digerito la polpa di questi molluschi e poi ne ha rigettato i gusci, per evitare che essi potessero danneggiargli l'intestino con i loro margini affilati. Lo fanno anche altri animali tuttora viventi sulla Terra, come i gufi che mangiano dei piccoli roditori tutti interi e poi ne vomitano le ossa...
Gli ittiosauri sono vissuti anche in Italia: a Besano, in provincia di Varese, è stato trovato un fossile di ittiosauro femmina lungo 6 metri e vissuto circa 235 milioni di anni fa (alle 22.30 del 12 dicembre), quando in quei luoghi c'era un mare tropicale. Il rettile è stato chiamato Besanosaurus leptorhynchus ("rettile di Besano dal becco sottile"). Esso era lungo poco meno di sei metri, ma alcuni di questi animali, come gli elasmosauri ("lucertole con le piastre", i più grossi tra i plesiosauri), raggiungevano dimensioni enormi ed ingaggiavano furibonde mischie nell'oceano. Gli appassionati di letteratura ricorderanno senz'altro la descrizione di una colossale zuffa tra due dinosauri marini di questo tipo che Jules Verne ci dà nel suo splendido romanzo "Viaggio al Centro della Terra" del 1864! Vale la pena di rileggere per intero il fantasioso brano ottocentesco, illustrato con una fantasmagorica incisione di Édouard Riou (1833-1900):
«
Martedì, 18 agosto. Giunge la sera, o piuttosto il momento in cui il sonno pesa
sulle nostre palpebre, poiché la notte manca in questo oceano, e l'implacabile
luce affatica ostinatamente i nostri occhi, come se navigassimo sotto il sole
dei mari artici. Hans è al timone. Durante il suo turno di guardia io mi
addormento.
Due ore dopo sono destato da una scossa spaventosa. La zattera è stata sollevata
fuori delle onde con indescrivibile violenza e gettata venti tese più oltre.
"Che cosa c'è?" esclama lo zio; "abbiamo urtato?"
Hans mostra con il dito, a una distanza di duecento tese [400 metri], una massa
nerastra che si solleva di tanto in tanto. Guardo ed esclamo:
"È un porco marino colossale!"
"Sì", replica mio zio, "ed ecco ora una lucertola di mare di dimensioni fuori
del comune."
"E più in là un coccodrillo mostruoso! Osservate la sua larga mascella e le file
di denti di cui è armata; ah! Sparisce!"
"Una balena, una balena!" esclama allora il professore; "vedo le sue enormi
pinne; guarda l'aria e l'acqua che spinge in alto dagli sfiatatoi!" Infatti due
colonne liquide si elevano a un'altezza considerevole sopra il livello del mare.
Rimaniamo sbigottiti, stupefatti, spaventati dalla presenza di quel branco di
mostri marini: essi hanno dimensioni straordinarie, e il più piccolo spezzerebbe
la zattera con un morso.
Hans vuol mettere la barra sopravvento per fuggire i pericolosi vicini; ma vede
dall'altra parte altri nemici non meno spaventosi: una tartaruga larga quaranta
piedi [12 metri] e un serpente lungo trenta [9 metri], che drizza la testa
enorme sopra le onde.
È impossibile fuggire; quei rettili si accostano, girano intorno alla zattera
con tale rapidità che neppure i convogli spinti a gran velocità potrebbero
eguagliare, e tracciano cerchi concentrici intorno a noi; ho preso la mia
carabina, ma che effetto può produrre una pallottola sulle scaglie di cui i
corpi di quegli animali sono coperti?
Lo spavento ci rende muti. Eccoli che si accostano, da una parte il coccodrillo,
dall'altra il serpente; il resto del branco marino è sparito.
Sto per far fuoco, ma Hans mi trattiene con un gesto. I due mostri passano a
cinquanta tese [100 metri] dalla zattera, si precipitano l'uno sull'altro e il
furore impedisce loro di vederci.
S'impegna una lotta a cento tese [200 metri] da noi; vediamo distintamente i due
mostri alle prese. Ma mi sembra che ora anche gli altri animali vengano a
prender parte alla lotta; il porco marino, la balena, la lucertola, la
tartaruga.
Si intravedono ad ogni istante; li mostro all'islandese, ma questi muove
negativamente il capo.
"Tva", dice l'islandese.
"Come, due? Pretende che siano due soli animali..."
"Ed ha ragione!" esclama mio zio, il quale non ha lasciato un istante il
cannocchiale.
"Questa poi!"
"Sì, il primo di questi mostri ha il muso d'un porco marino, la testa di una
lucertola, i denti d'un coccodrillo. Ecco ciò che ci ha tratti in inganno. È il
più spaventoso dei rettili antidiluviani, l’Ichthyosaurus."
"E l'altro?"
"L'altro è un serpente nascosto dentro il guscio d'una tartaruga, il terribile
nemico del primo, il Plesiosaurus."
Hans ha detto il vero. Due mostri soltanto turbano in questo modo la superficie
del mare, e mi stanno davanti due rettili degli oceani primordiali. Vedo
l'occhio sanguigno dell'Ichthyosaurus, grosso come la testa d'un uomo. La natura
l'ha dotato d'un apparato ottico estremamente potente, capace di resistere alle
pressioni degli strati d'acqua delle profondità in cui abita. È stato
giustamente definito la balena dei Sauri poiché ne ha la rapidità e le
dimensioni. Questo che noi vediamo non misura meno di cento piedi [30 metri] e
io posso giudicare la sua grandezza quando drizza sopra i flutti le pinne
verticali della coda. La sua mascella è enorme e secondo i naturalisti non conta
meno di centottantadue denti.
Il Plesiosaurus, serpente dal tronco cilindrico, dalla coda corta, ha le zampe
disposte a pala di remo. Il suo corpo è interamente rivestito d'un guscio e il
suo collo flessibile come quello del cigno si rizza a trenta piedi [9 metri]
fuori dei flutti.
Questi animali si assalgono con furia indescrivibile; sollevano montagne liquide
che rifluiscono fino alla zattera; venti volte corriamo pericolo di essere
capovolti. Udiamo fischi d'una prodigiosa intensità; le due bestie sono
avvinghiate l'una all'altra né io posso più distinguerle; si può temere tutto
dalla rabbia del vincitore.
Un'ora passa, ne passano due, e la lotta continua sempre accanita. I combattenti
di quando in quando si accostano alla zattera e se ne allontanano. Noi ce ne
stiamo immobili, pronti a far fuoco.
D'improvviso l'Ichthyosaurus e il Plesiosaurus spariscono scavando un vero
Maelström nei flutti. Passano molti minuti; quel combattimento sta forse per
terminare nella profondità del mare?
D'un tratto una testa enorme si slancia al di fuori; la testa del Plesiosaurus;
il mostro è ferito mortalmente; non vedo più il suo guscio enorme. Solo
l'immenso collo si rizza, si piega, si risolleva e si curva, sferza i flutti
come uno scudiscio gigantesco e si contorce come un verme tagliato in due.
L'acqua sprizza a notevole distanza e ci acceca. Ma ben presto l'agonia del
rettile giunge alla fine: i suoi movimenti diminuiscono, le sue contorsioni si
acquietano, e il lungo tronco del serpente si stende come una massa inerte sopra
i flutti tornati tranquilli. E l’ichthyosaurus? È ritornato nella sua caverna
sottomarina o sta per riapparire alla superficie del mare? »
(Jules Verne, "Viaggio al Centro della Terra", cap. XXXIII, trad. di
G.Mina)
Il mistero del fantomatico mostro di Loch Ness (chiamato popolarmente Nessie) secondo alcuni potrebbe essere risolto pensando a una colonia di plesiosauri sopravvissuti nel lago fino ai giorni nostri, ma i biologi escludono che il lago possa sostenere una simile colonia. Gli avvistamenti del presunto Nessie iniziarono nel Medioevo ma cominciarono a trovare spazio sui media in maniera assidua negli anni Trenta del Novecento; uno dei più eclatanti è legato alla cosiddetta "Foto del chirurgo", pubblicata nel 1934 dal giornale Daily Mail (visibile qui a destra) e chiamata così perché l'autore dello scatto, un medico, decise di rimanere anonimo. Lo scatto, che mostra un animale dal lungo collo, si rivelò poi un falso: si trattava infatti di un sommergibile giocattolo al quale furono applicati testa e coda. Nonostante il mistero continui ad attirare l'attenzione di molte persone, non sono mai state ritrovate prove che possano far sospettare dell'esistenza di Nessie, che quindi resta confinato nei testi di criptozoologia. Anzi, uno studio realizzato da un gruppo di ricercatori dell'Università di Otago, in Nuova Zelanda, ha escluso la presenza di grandi animali nei fondali del Loch Ness: nel giugno del 2018 gli scienziati hanno analizzato i DNA di 250 campioni d'acqua prelevati dal lago: sono state identificate le tracce di quasi tremila specie. « Non abbiamo trovato alcuna prova della presenza di una creatura anche lontanamente legata al plesiosauro, il rettile estinto che viene associato al mostro di Loch Ness », ha dichiarato Neil Gemmell, genetista a capo della spedizione. Grazie ai campioni è stato possibile escludere anche la presenza di grandi animali, come storioni o squali, ed è stata evidenziata una presenza massiccia di anguille; e anche questo mistero sembra finalmente risolto. Tuttavia c'è da dire che il 2 luglio 2003 il pensionato Gerald McSorley, di Stirling in Scozia, stava facendo una passeggiata proprio lungo le sponde del celebre Loch Ness, quando è "inciampato" in un "vero" reperto fossile del periodo giurassico: quattro vertebre di grosse dimensioni, complete di midollo spinale e vasi sanguigni, perfettamente conservate in un blocco di calcare, che gli esperti hanno attribuito ad un plesiosauro. Se non oggi, dunque, almeno nel Giurassico un "mostro" presso il Loch Ness sarebbe vissuto davvero!
Da un magazzino del Museo Nazionale a Edimburgo, in Scozia, è riemerso anche quello che la stampa ha definito « un mostro più temibile di quello di Loch Ness », ovvero « il mostro di Storr Lochs ». Si tratta di un fossile di ittiosauro risalente a 170 milioni di anni fa (alle 05.00 del 18 dicembre), lungo oltre quattro metri, dotato di quattro pinne e una coda verticale, al contrario di quella dei cetacei. Il fossile in questione è stato ritrovato nel 1966 incastonato in una roccia da un amatore sulla spiaggia dell'isola di Skye, il maggior sito con resti di dinosauri in Scozia. La roccia fu portata al Museo nazionale di Edimburgo, dove però rimase custodita in un sotterraneo in attesa di avere mezzi e fondi per studiarla a fondo. Nel 2016 il fossile è stato estratto dalla sua gabbia di pietra e il paleontologo Steve Brusatte lo ha definito « impressionante ». Il suo eccezionale stato di conservazione potrebbe aiutarci a capire meglio il ruolo di questi rettili marini preistorici: dopotutto i mostri marini esistevano davvero ed erano enormi, spaventosi e affascinanti!
Uno studio realizzato nell'estate 2011 sul fossile di una femmina di plesiosauro conservato nel Museo di storia naturale di Los Angeles dimostrerebbe che anche i grandi rettili marini del Mesozoico fossero ovovivipari, cioè mantenessero le uova fecondate all'interno del corpo fino al momento della schiusa, come fanno oggi per esempio gli squali e le vipere, e che quindi non le deponessero, come ritenuto finora. Il fossile analizzato, datato tra 80 e 72 milioni di anni fa (tra le 12.16 di Natale e le 3.50 di Santo Stefano), è stato rinvenuto nel 1987 in Kansas; del plesiosauro, che doveva essere lungo più di 4 metri e mezzo, si è conservata buona parte della struttura scheletrica, ed è perfettamente visibile il feto che portava in grembo. « Da tempo gli scienziati avevano compreso che il corpo di questi rettili aveva caratteristiche che non permettevano loro di potersi muovere sulla terraferma a deporre le uova », ha spiegato Robin O'Keefe, uno dei responsabili della ricerca. « Ora il rebus è stato risolto. L'embrione ritrovato nel fossile è molto grande rispetto alla madre e rispetto a quello degli altri rettili; una proporzione invece molto simile a quella degli animali moderni che mettono al mondo un solo piccolo e hanno rapporti parentali molto sviluppati, vivendo in grandi gruppi che si prendono cura dei più piccoli. Queste considerazioni ci fanno supporre che anche i plesiosauri avessero comportamenti simili ».
Al di là di tutto, è comunque un dato di fatto che gli ittiosauri e i plesiosauri si estinsero assieme a tutti i dinosauri, alla fine del Cretacico. Nessuno sa ancora perché essi, pur così bene adattati alla vita marina, siano scomparsi all'improvviso. La perdita di habitat potrebbe avere sancito la fine dei rettili marini a forma di lucertola come i Placodonti, costretti dall'inefficiente nuoto ondulatorio a rimanere in acque costiere. Un abbassamento globale del livello dei mari potrebbe avere messo fuori causa questi animali, eliminando la loro nicchia di acque poco profonde. Gli ittiosauri a forma di pesce, però, potevano vivere in oceano aperto; dal momento che il loro habitat non venne mai meno, la causa della loro estinzione resta misteriosa. L'epoca della loro scomparsa corrisponde più o meno a quella dell'esordio degli squali moderni, ma nessuno ha finora trovato prove dirette di una competizione fra i due gruppi. Il mistero maggiore riguarda inoltre la loro origine, proprio perché da un lato assomigliano a dei cetacei, ma hanno caratteristiche da rettili e si diversificarono in modo notevole durante la loro esistenza. Insomma, la nostra curiosità deve accontentarsi di ammirare gli scheletri di questi animali nei musei e di scervellarsi su tante ipotesi tra storia e leggenda, come vuole del resto la tradizione di Loch Ness.
E non è tutto: anche i mari del Giurassico superiore hanno conosciuto il loro T-Rex. Quarantacinque tonnellate per quindici metri di lunghezza, e una fila di denti aguzzi come coltelli: queste infatti sono solo alcune delle caratteristiche del temibile predatore marino rinvenuto dai paleontologi nei pressi delle Isole Svalbard, nel Mare Artico, e vissuto 147 milioni di anni fa (alle 01.50 del 20 dicembre). Questo rettile marino del genere Pliosaurus, che ancora non ha ricevuto una denominazione scientifica definitiva, in quanto a potenza del morso avrebbe potuto stracciare il più grosso dei teropodi terrestri. I ricercatori dell'Università di Oslo, protagonisti dell'eccezionale scoperta, hanno riportato alla luce l'enorme cranio del predatore, lungo oltre tre metri, le cui dimensioni indicano una potenza offensiva eccezionale. Secondo i calcoli i denti affilati del colosso marino potevano stritolare le prede con una forza pari a undici volte quella di un Tyrannosaurus rex e tredici volte quella di un alligatore, che detiene il primato del morso più potente tra tutti gli animali viventi. Jørn Hurum, paleontologo a capo della ricerca, ha dichiarato: « Sicuramente era il più feroce predatore mai esistito. Si trattava di un carnivoro veramente molto grande, simile ad un cacciatore col motore turbo ». In quanto a dimensioni e a forza può essere paragonato solo ad alcuni squali preistorici, ma a differenza di questi non possedeva solo un temibile equipaggiamento offensivo: era dotato anche di straordinaria agilità natatoria. Sembra infatti che al momento dell'attacco le pinne posteriori aggiungessero una propulsione eccezionale alla già poderosa spinta delle pinne anteriori, rendendo micidiali i suoi assalti. Con uno scanner inoltre i paleontologi hanno analizzato il cervello dell'animale, che è risultato lungo e assottigliato, molto simile a quello del grande squalo bianco, attualmente il più grande pesce predatore del pianeta: un'ulteriore conferma del fatto che il nuovo mostro scoperto può essere tranquillamente considerato la creatura più pericolosa che abbia mai popolato i nostri oceani.
Un tilosauro, grande rettile marino (disegno dell'autore) |
Un plesiosauro, altro rettile marino (disegno dell'autore) |
Comparvero anche rettili provvisti di ali adattate al volo, detti Pterosauri, anch'essi catalogati a parte rispetto ai dinosauri. Tra questi il ranforinco ("muso con becco adunco"), dotato di ampie ali falciformi, becco munito di lunghi denti aguzzi e coda assai lunga, come nell'esemplare visibile qui sotto; e lo pteranodonte ("alato senza denti"), con oltre 7 metri di apertura alare, una cresta lunga e sottile sul capo, rivolta all'indietro, e un becco privo di denti. I fossili di ranforinco rinvenuti nel giacimento di Solenhofen, in Baviera, dove la conservazione risulta eccezionale ,mostrano i segni di una sorta di espansione cutanea proprio sulla punta della coda che, con tutta probabilità, funzionava come un “timone” e serviva a direzionare e stabilizzare meglio l'animale mentre era in volo. Si pensa invece che lo pteranodonte, privo di coda, fosse un abile arrampicatore e vivesse nei pressi delle scogliere, utilizzandole come base di lancio per lanciarsi in volo planato e catturare le sue prede marine.
Le dimensioni di questi animali potevano andare da quelle di un'allodola fino a quelle che l'immaginazione umana è solita attribuire ai favolosi draghi: nel 2008 il paleontologo inglese Mark Witton ha annunciato la scoperta di un rettile volante da lui battezzato Lacusovagus, alto più di un metro e con un'apertura alare di ben 5 metri, che volava nei cieli brasiliani 115 milioni di anni fa (alle 16.01 del 22 dicembre). Ed il Quetzalcoaltlus, vissuto circa 70 milioni di anni fa (alle 7.45 del 26 dicembre), il cui nome deriva da quello del dio azteco Quetzalcoaltl, il Serpente Piumato, pare raggiungesse addirittura i 12 metri di apertura alare: per questo è considerato l'animale volante più grosso di tutti i tempi! Più che volare come gli uccelli però è probabile che planassero sfruttando le correnti d'aria; il patagio (la membrana alare) era sostenuto dall'ultimo dito della mano, abnormemente allungato, mentre le altre erano libere, a differenza di quanto accade oggi negli uccelli. Alcuni erano coperti di una sottile peluria e quasi certamente erano omeotermi, a causa della frenetica attività richiesta dal volo. Secondo alcuni addirittura dormivano appesi a testa in giù ai rami degli alberi, proprio come i pipistrelli! Gli pteranodonti poi avevano una sorta di sacco di pelle posto all'interno del becco nella mascella inferiore: è probabile che, quando catturavano un pesce, lo deponessero in questa sacca per portalo ai piccoli, in modo simile a quanto fanno gli attuali pellicani. Siccome le loro zampe erano piuttosto deboli e le ali ingombranti, c'è che si è spinto a credere che essi "imboccassero" i loro piccoli gettando loro il pesce mentre volavano sopra di loro.
A questo proposito, vale la pena di riferire una notizia curiosa. Il 12 febbraio 2008 un team di scienziati della Chinese Academy of Sciences e della Universidade Federal di Rio de Janeiro ha annunciato la scoperta, pubblicata nei Proceedings of the National Academy of Sciences, di uno pterosauro fossile ritrovato in una regione a nord est della Cina, appartenente ad una specie finora sconosciuta e battezzata Nemicolopterus crypticus, che ha una caratteristica curiosa. Il suo scheletro, molto ben conservato, è lungo solo pochi centimetri, e si stima che avesse un'apertura alare di appena 25 cm. L'analisi del livello di sviluppo delle ossa ha portato gli autori della scoperta a pensare che si tratti di un cucciolo, e che in età adulta avrebbe quindi raggiunto dimensioni maggiori, pur restando senz'altro il più piccolo pterosauro conosciuto. L'assenza di denti lo accomuna a pterosauri di epoche successive, ma alcune sue caratteristiche sono uniche, come la struttura dei femori o la presenza di falangi arrotondate, come quelle degli uccelli, il che fa supporre che si fosse adattato alla vita sugli alberi, sui quali si appollaiava e saltellava in cerca di insetti: « un passerotto di 120 milioni di anni fa », lo ha definito Alexander Kellner, membro del team di ricerca brasiliano, secondo il quale il fossile ritrovato in Cina « promette di scrivere un nuovo capitolo della storia evolutiva di questo gruppo di rettili volanti ». Infatti secondo lui proprio da questo innocuo animaletto cacciatore di insetti potrebbero essere discesi i paurosi giganti alati del Cretacico come il Quetzalcoatlus! Una cosa però è certa: da questi rettili volanti non si evolsero gli uccelli, perché anch'essi furono travolti dall'estinzione generale, e gli uccelli occuparono la loro nicchia ecologica.
Un ranforinco, rettile volante (disegno dell'autore) |
Dalle sabbie del deserto marocchino è recentemente emersa una nuova specie di
pterosauro, ribattezzata Alanqa saharicafrom, un gigantesco rettile
volante risalente a 95 milioni di anni fa, con un'apertura alare di circa 6
metri. Però secondo il suo scopritore, il paleontologo Nizar Ibrahim
dell'University College di Dublino,
questo pterosauro della famiglia degli Azhdarchidi trascorreva molto tempo al suolo, tendendo agguati alle sue prede in un paesaggio
che a quei tempi doveva essere ricoperto da una vegetazione lussureggiante. Le ricerche
di Ibrahim suggeriscono infatti che gli Azhdarchidi non volassero molto, e
preferissero piuttosto andato a caccia di rettili e piccoli dinosauri afferrandoli con le lunghe
mascelle, un po' come fanno la cicogna e l'airone. Probabilmente nell'area del
ritrovamento dell'Alanqa saharicafrom sfociava allora il delta di un antico fiume,
in cui vivevano fianco a fianco varie specie di pterosauri che cacciavano prede diverse.
Un'altra delle specie trovate da Ibrahim, ad esempio, presenta denti lunghi e sottili che potrebbero essere stati utilizzati per afferrare pesci sorvolando la superficie dell'acqua.
Questo ecosistema umido, circondato da un territorio arido, potrebbe aver ospitato varie forme di coccodrilli preistorici e di
dinosauri: davvero un contrasto stridente con l'aridità di oggigiorno...
Ma non basta. Alcuni fossili di pterosauri riportati alla luce ad Hateg, in Romania, dimostrano che la loro voracità non si è fermata agli animali di piccola taglia e ai cuccioli di dinosauro: i paleontologi ritengono infatti che si siano nutriti anche di rettili di dimensioni corrispondenti a quelle di un cavallo. Dai resti risalenti a circa 70 milioni di anni fa (alle 7.44 del 26 dicembre) emerge come questa specie avesse un collo così robusto da riuscire a sollevare dal suolo e trasportare in volo prede pesanti decine di chili. Hateg è una cittadina della Transilvania che rappresenta un importante centro paleontologico perché, durante il Cretaceo, era un'isola in mezzo al mare Tetide. Il ritrovamento avvenuto in Transilvania porta a credere che i rettili alati della specie hatzegopteryx, ancora poco conosciuta, avessero una corporatura simile a quella dei tirannosauri. Il collo di questi animali avrebbe avuto pareti spesse tra i quattro e i sei millimetri, tre volte quello del parente texano, e uno strato spugnoso molto resistente. La masticazione, invece, sarebbe stata facilitata da una mascella lunga mezzo metro. Planare dall'alto su un potenziale boccone era loro permesso da ali dotate di una membrana carnosa e piumata, estesa fino alle zampe come quella dei pipistrelli. Si tratta sicuramente della più robusta specie di pterosauro che i ricercatori abbiano mai riportato alla luce.
Il Mostro di Melksham
163 milioni di anni fa (alle 18.41 del 18 dicembre) i coccodrilli popolavano le acque di quel territorio che oggi corrisponde alla nostra Europa, e questo già si sapeva. Ma nel 2017 ha fatto rumore la scoperta, o meglio la riscoperta, di un nuovo fossile di coccodrillo, battezzato Ieldraan melkshamensis, avvenuta nella cittadina di Melsham, nel Wiltshire, nel sud dell'Inghilterra. Il reperto danneggiato era conservato nel deposito del museo di Storia naturale di Londra da almeno 150 anni; a riportarlo alla luce dai sotterranei del museo è stato un team di ricercatori dell'Università di Edimburgo. « Era uno dei migliori predatori della Gran Bretagna nell'era del Giurassico », ha spiegato Steve Brusatte della Scuola di Geoscienze dell'Università di Edimburgo, « mentre i dinosauri facevano tremare la terra, loro facevano lo stesso sott'acqua ».
Il "mostro di Melksham" ribalta le certezze di molti studiosi: finora l'antenato più antico conosciuto era il geosaurino, vissuto tra i 157 e i 152 milioni di anni fa (tra le 06.22 e le 16.00 del 19 dicembre). Lunghi tre metri, gli esemplari dell'ultima specie scoperta vivevano nelle acque calde e poco profonde che coprivano gran parte del nostro continente. I denti lunghi e affilati consentivano ai coccodrilli ante litteram di nutrirsi del calamari preistorici, ben più grandi di quelli della nostra epoca. E proprio dalla dentatura, oltre che dalle misure e dalla conformazione del cranio e della mascella, i paleontologi hanno ipotizzato l'esistenza di un antenato del coccodrillo ancora più antico. « Non è il fossile più bello del mondo, ma il mostro di Melksham racconta la storia dell'evoluzione di questi antichi coccodrilli e di come diventarono i predatori di punta dell'ecosistema marino 160 milioni di anni fa ».
Il più feroce d'Europa
Una volta uno studente mi ha posto la domanda: considerando il fatto che il celeberrimo T-Rex impazzava nelle lande mesozoiche dell'attuale America Settentrionale, qual era il dinosauro più grande e feroce d'Europa? Posso rispondergli senza tema di sbagliare: era il Torvosaurus gurneyi, identificato nel 2013 da Christophe Hendrickx e Octavio Mateus dell’Università di Lisbona e del Museo di Lourinha. Il suo nome è un omaggio a James Gurney (1958-), illustratore di pubblicazioni dedicate alla preistoria come "Dinotopia". Questa nuova specie è vissuta in Portogallo circa 150 milioni di anni fa (esattamente alle ore 20 del 19 dicembre), era lunga fino a 10 metri e pesava tra le 4 e le 5 tonnellate. I paleontologi che hanno riportato alla luce le sue ossa a nord di Lisbona inizialmente pensavano appartenessero ad un Torvosaurus tanneri, molto comune nel Nord America. Le differenze però sono emerse quando sono stati messi a confronto la tibia, la mandibola, i denti e le vertebre di parte della coda. Questo dinosauro aveva i denti a forma di lama lunghi fino a 10 centimetri, e questo particolare lo poneva al vertice della catena alimentare della penisola iberica verso la fine del periodo Giurassico. La sua somiglianza ad altri predatori simili fa ritenere che Torvosaurus gurneyi potesse avere il corpo ricoperto di piume. « Con un teschio di 115 centimetri, è stato uno dei più grandi carnivori terrestri vissuto a quell’epoca. Un attivo predatore che cacciava gli altri grandi dinosauri, come è evidenziato dai denti di forma di lama », ha commentato Christophe Hendrickx. Non dunque da consigliare come tenero animale da compagnia!
Il dinosauro spinoso
Nel 2018 il paleontologo Pablo Gallina, dell’Universidad Maimónides di Buenos Aires, ha scoperto nel nord della Patagonia i resti di un dinosauro vissuto probabilmente 140 milioni di anni fa (alle ore 15.28 del 20 dicembre), simile al brontosauro ma con una colonna di lunghe spine sul collo, appuntite e puntate in avanti. Una probabile arma di difesa dell'animale, che è stato chiamato Bajadasaurus pronuspinax. Le spine avevano probabilmente la funzione di dissuadere i possibili predatori, ed erano coperte da una guaina di cheratina simile a quella che copre le corna di molti mammiferi, perché se fossero state strutture ossee nude o coperte solo dalla pelle, avrebbero potuto essere facilmente spezzate o fratturate con un colpo dagli altri animali.
Le spine non sono l’unico segno particolare di questo dinosauro perché, secondo Gallina, l’animale aveva anche una gobba di grasso sul dorso, simile a quella dei dromedari e con la stessa funzione di riserva energetica. Il dinosauro "spinoso" apparteneva alla più ampia famiglia dei Sauropodi, e come tutti i membri della sua famiglia era erbivoro: verosimilmente questo animale passava gran parte del suo tempo a nutrirsi di piante e, grazie agli occhi posti alla sommità del cranio, mentre mangiava riusciva a tenere d’occhio ciò che gli accadeva intorno. Senz'altro il Bajadasauro doveva guardarsi bene le spalle, perché l’area in cui sono stati trovati i suoi resti, nella provincia di Neuquen a circa 1.800 chilometri a sud di Buenos Aires, nella Patagonia argentina, era popolata anche da quello che è considerato il più grande dinosauro carnivoro di tutti i tempi, il Giganotosaurus carolinii. Una riproduzione del collo spinoso del Bajadasaurus è stata esposta nel Cultural Science Center di Buenos Aires.
I baby dinosauri
Lo sviluppo degli embrioni di dinosauro era estremamente rapido e i piccoli uscivano dall'uovo già in grado di affrontare il mondo. È questa la conclusione dell'analisi di alcuni rarissimi resti fossili di embrioni di dinosauro, i più antichi mai rinvenuti, provenienti dal sito di Lufeng, nello Yunnan (Cina). Essi appartengono con tutta probabilità a esemplari di Lufengosaurus huenei, un sauropode, e sono databili fra i 197 e i 190 milioni di anni fa (dalle 00.30.24 alle 14 in punto del 16 dicembre), ossia al Giurassico inferiore (la quasi totalità di quelli finora rinvenuti apparteneva invece al Cretacico superiore). A rendere ancora più significativa la scoperta è il fatto che, mentre gli embrioni scoperti finora erano racchiusi all'interno di uova fossili, cosa che limita fortemente lo studio delle cellule e dei tessuti, questi ritrovamenti consistono in un ampio letto di gusci e ossa. Per ulteriore fortuna dei paleontologi, nel letto di ossa (complessivamente oltre 200) sono rappresentati scheletri di embrioni appartenenti tutti alla stessa tipologia di dinosauro, ma in stadi differenti di incubazione: per la prima volta è stato quindi possibile far luce sulla biologia dello sviluppo di questi animali!
Gli studi istologici e di spettroscopia infrarossa da luce di sincrotrone, e il confronto fra la morfologia delle ossa nelle diverse fasi di sviluppo, ha rivelato in particolare un tasso di crescita rapido, mentre la crescita radiale asimmetrica del femore, particolarmente marcata nel caso delle sue sporgenze superiori (trocanteri), indica un forte sviluppo delle strutture muscolari delle zampe ancor prima della schiusa. Questo fa quindi supporre che i piccoli dinosauri appena usciti dall'uovo fossero già dotati di un'autonomia almeno parziale. Secondo i ricercatori il singolare accumulo di gusci e ossa deve essersi formato in seguito allo smottamento del terreno da qualche sito di nidificazione nelle immediate vicinanze. Il materiale non può essersi spostato molto, perché in tal caso non si sarebbero potute conservare parti significative dei gusci, alcuni dei quali hanno uno spessore non superiore ai cento micrometri.
In seguito, ai primi del 2017, alcuni ricercatori dell’Università della Florida guidati da Gregory Erickson hanno approfondito lo studio dello sviluppo di embrioni di dinosauro, dimostrando che dentro al loro uovo i padroni del Giurassico trascorrevano un periodo variabile fra tre e sei mesi, a seconda delle dimensioni. Molto più di quanto non si credesse in passato, e molto più di quanto non suggerisse la prudenza, in un periodo di sconvolgimenti climatici, continue eruzioni e (come la storia dimostra) meteoriti in arrivo. Proprio la lentezza nello sviluppo potrebbe aver favorito l’estinzione dei dinosauri, premiando animali capaci di crescere più rapidamente come mammiferi e uccelli. Per compiere questa ricerca, i paleontologi hanno studiato i denti, e in particolare le loro linee di crescita (chiamate linee di von Ebner) che si accumulano di giorno in giorno come le linee di crescita dei tronchi degli alberi.
I ricercatori americani hanno usato microscopi potentissimi, capaci di distinguere le linee di crescita dei denti e letteralmente di contarle per conoscere l’età degli embrioni. Gli embrioni studiati appartenevano a due dinosauri di specie diverse. Il più piccolo era un protoceratopo, ritrovato nel deserto di Gobi in Mongolia, un erbivoro delle dimensioni di una pecora le cui uova pesavano circa 200 grammi e che nasceva dopo quasi tre mesi di incubazione. Il più grande era un ipacrosauro, ritrovato nella provincia dell’Alberta in Canada, lungo fino a nove metri e con uova da 4 chilogrammi che si schiudevano dopo sei mesi. Fino a ieri si riteneva che la nascita dei cuccioli di dinosauro avvenisse molto più rapidamente: dopo 40 giorni per le specie piccole e 80 per quelle grandi (gli uccelli trascorrono nell’uovo fra 11 e 85 giorni). « I più grandi misteri sui dinosauri coinvolgono proprio la loro embriologia », ha spiegato Erickson. « L’incubazione delle loro uova era lenta come i loro cugini rettili, coccodrilli e lucertole, oppure rapida come gli uccelli, che sono veri e propri dinosauri viventi? » La seconda ipotesi è sempre stata la favorita. Ma i nuovi risultati di oggi ribaltano questa convinzione. A parità di dimensioni, i dinosauri crescono a un ritmo che è la metà rispetto a quello dei loro eredi diretti: i volatili che conosciamo oggi, che depongono meno uova rispetto ai rettili, ma con una velocità di sviluppo molto maggiore. L’incubazione prolungata, per i piccoli dinosauri e per i loro genitori, era fonte di rischi: l’arrivo di un predatore, la scarsità di cibo, un’improvvisa inondazione. Anche dopo la rottura dell’uovo, questi animali impiegavano circa un anno a raggiungere la maturità sessuale. Condizioni che certo non hanno aiutato durante gli sconvolgimenti che, alla fine del Cretaceo, hanno decretato l’estinzione per questi enigmatici campioni della vita preistorica.
Migrazioni dinosauresche
Uno studio condotto nel 2012 dal geochimico Henry Fricke, del Colorado College, conferma l'ipotesi che i grandi dinosauri sauropodi si spostassero stagionalmente per centinaia di chilometri in cerca di cibo e acqua, come molti animali odierni quali gli uccelli o gli elefanti. Alcune tracce chimiche rilevate nello smalto dei denti di un Camarasauro indicano che queste creature marciavano per centinaia di chilometri, nell'America del Nord del tardo Giurassico. Secondo Fricke, i grandi erbivori dal collo lungo reagivano alle variazioni nella disponibilità di cibo e acqua, spostandosi con il variare delle stagioni dalle pianure alluvionali a lontani altopiani e viceversa, in quelli che oggi sono gli Stati dello Utah e del Wyoming.
Fricke e i suoi collaboratori hanno analizzato il rapporto fra gli isotopi d'ossigeno nel dente fossile di Camarasauro e quelli rilevati nella stratigrafia relativa alla pianura giurassica. Poiché questi dinosauri cambiavano i denti ogni cinque mesi, ogni dente racchiude una documentazione unica di quello che l'animale ha mangiato e bevuto durante la vita del dente. Il risultato è che nel dente e nel suolo i rapporti isotopici sono nettamente diversi, il che suggerisce che i denti si siano formati per la gran parte altrove. Le tracce chimiche rilevate nei denti sono simili a quelle che ci si può aspettare in una dentatura che si è sviluppata a un'altitudine piuttosto elevata.
« Siamo perciò giunti alla conclusione che il sauropode lasciasse il bacino alluvionale per andare altrove », ha spiegato Fricke. « Quella con cui abbiamo a che fare è una migrazione simile a quella che avviene nel Serengeti africano, determinata dal passaggio fra la stagione umida e quella arida ». Fricke ipotizza che i dinosauri lasciassero l'area di un bacino alluvionale all'inizio della stagione secca, quando la conseguente siccità avrebbe limitato la disponibilità di piante con cui cibarsi. I sauropodi percorrevano circa 300 chilometri per raggiungere gli altopiani, presumibilmente più freddi e umidi in quel periodo. Ma è uno scenario abbastanza difficile da documentare, in quanto l'erosione della roccia antica ha privato gli studiosi di evidenze cruciali per la ricostruzione del paesaggio giurassico. « Probabilmente », aggiunge lo studioso, « gli animali ritornavano nelle pianure durante gli inverni piovosi, quando vi erano cibo e acqua in abbondanza. E nel farlo potrebbero aver avuto compagnia: probabilmente la migrazione degli erbivori veniva seguita da predatori come l'allosauro; ma questo sarà oggetto di un prossimo studio ».
I mammiferi
Nel frattempo, dai rettili mammiferi del Permiano e del Triassico derivarono i primi Mammiferi. Erano animali a sangue caldo minuscoli quanto un topo, che deponevano le uova ma allattavano i piccoli (come fa oggi l'ornitorinco australiano); essi iniziarono a diffondersi su tutte le regioni, rimanendo di piccole dimensioni e legando la propria vita ad attività quasi esclusivamente notturne. La loro evoluzione continuò, modesta e quasi insignificante, per tutta l'era Mesozoica, mentre la maggior parte degli ordini più antichi si estinse prima della fine di quest'era. I loro discendenti, insettivori e marsupiali, apparvero nel Cretacico e, sempre più perfezionati, arriveranno fino ai nostri giorni.
Alla fine del periodo Giurassico, tra 170 e 145 milioni di anni fa (tra le 05.01 del 18 dicembre e le 05.44 del 20 dicembre), vissero i mammaliaformi, antenati diretti dei mammiferi. Sorprendentemente, essi si erano già adattati a una vasta gamma di nicchie ecologiche: lo dimostra la scoperta in due siti fossiliferi cinesi di due nuove specie appartenenti a un gruppo animale estinto, strettamente imparentato con i mammiferi ancestrali, i docodonti. Le due specie, Agilodocodon e Docofossor, sono state scoperte da ricercatori dell'Università di Chicago e del Museo Nazionale di Scienze Naturali di Pechino. « I mammiferi moderni sono incredibilmente diversi tra loro, ma finora non si sapeva se anche i primi mammiferi fossero riusciti a diversificasi allo stesso modo », ha dichiarato uno degli autori dello studio. « A quanto pare i dinosauri non dominarono il paesaggio del Mesozoico quanto si pensava. »
Docofossor brachydactylous, descritto dal professor Zhe-Xi Luo, aveva una struttura corporea e dimensioni molto simili a quelle di un toporagno. La sua postura suggerisce l'abitudine a muoversi all'interno di gallerie sotterranee, molari superiori bassi e larghi, tipici dei mammiferi che trovano il cibo sottoterra e, soprattutto, zampe dotate di dita a pala, pressoché identiche a quelle delle attuali talpe dorate africane. Questa conformazione, dovuta alla fusione delle articolazioni delle ossa durante lo sviluppo, permette un'alta efficienza nello scavo. Agilodocodon scansorius, descritto invece da Qing-Jin Meng, aveva le zampe dotate di artigli cornei incurvati e proporzioni degli arti tipiche dei mammiferi attuali che vivono sugli alberi o nei cespugli. L'apparato boccale e i denti anteriori a forcella ricordano molto quelli di alcune scimmie del Nuovo Mondo, come gli uistitì, ed è verosimile che, come queste, anche Agilodocodon si nutrisse rosicchiando la corteccia e succhiando la linfa e la gommoresina dai tronchi incisi con gli artigli. Le articolazioni delle zampe erano ben sviluppate e flessibili, un'altra caratteristica in comune con i mammiferi arrampicatori. Inoltre, i rapporti fra le vertebre e le costole di entrambe le specie mostrano segni che il loro sviluppo era regolato da alcuni geni presenti e attivi nei mammiferi moderni.
Fu sempre nel Giurassico che fecero la loro comparsa i multitubercolati, mammiferi vissuti tra il Giurassico medio e l'Oligocene inferiore, cioè tra 160 e 32 milioni di anni fa (dalle 00.32 del 19 dicembre alle 9.42 del 29 dicembre). Dal momento che hanno prosperato per oltre 120 milioni di anni, questi animali sono considerati da alcuni i mammiferi di maggior successo nella storia della Terra. Nel corso del Mesozoico si diffusero in Europa, Asia e Nordamerica, per poi passare indenni attraverso l'estinzione di massa di fine Cretaceo. Nel Paleocene i multitubercolati raggiunsero il loro picco di diversificazione e si diffusero in diversi ambienti: alcuni erano terrestri (Djadochtatherium), altri arboricoli (Ptilodus), altri ancora semiacquatici (Taeniolabis). Le loro taglie variavano da quella di un piccolo topo (Ptilodus) a quella di un castoro (Taeniolabis, nell'Eocene). Un tempo anche i gondwanateri, che come indica il nome era diffuso nel Gondwana, era incluso nei multitubercolati, ma ora i paleontologi li ritengono due gruppi ben distinti. Comunque, con la comparsa di molti altri mammiferi specializzati durante il Terziario, i multitubercolati andarono diminuendo di numero e si estinsero verso la fine dell'Oligocene, senza lasciare discendenti.
Il nome multitubercolati deriva dai loro denti molari, provvisti di molte cuspidi (tubercoli) disposte su più file, utilizzati per divorare un nuovo tipo di alimento: frutta e fiori. I loro fossili emersero a dozzine tra il 1963 e il 1971, durante le spedizioni polacco-mongole nel deserto del Gobi, uno dei primi grandi progetti di ricerca paleontologica sul campo guidati da una donna, la biologa polacca Zofia Kielan-Jaworowska (1925-2015). La struttura delle loro pelvi suggerisce che essi partorissero piccoli minuscoli, simili a quelli degli odierni marsupiali. È probabile che i multitubercolati siano stati tra i primi mammiferi a vivere sugli alberi, con caratteri del cranio e della dentatura sorprendentemente simili a quelli dei roditori, come gli odierni scoiattoli. Nonostante la loro notevole antichità (furono contemporanei di tutti i grandi dinosauri), i multitubercolati presentano già caratteri di una certa specializzazione; nella loro lunga storia evolutiva, inoltre, hanno subito solo modesti cambiamenti, dimostrando l'efficacia dei loro adattamenti.
Tra l'altro una ricerca guidata nel 2011 dai paleontologi dell’Università di Washington ha smentito un’idea fin troppo diffusa: non è vero che tutti i mammiferi siano stati costretti a recitare la parte di comprimari, piccole creature tenute ai margini della vita, durante l’era dei grandi rettili. Secondo loro, proprio i multitubercolati poterono competere alla pari con i dinosauri! Questi mammiferi poterono affermarsi giusto grazie ai tubercoli sui denti posteriori, che permisero loro di cibarsi abbondantemente delle angiosperme, le piante da fiore che stavano diffondendosi ovunque a partire da circa 140 milioni di anni fa: da allora le dimensioni dei piccoli mammiferi aumentarono, raggiungendo alla fine quelle di un castoro. « Questi mammiferi sono stati in grado di diversificarsi in termini di numero di specie, dimensioni del corpo e forme dei loro denti, e queste ultime, influenzando la loro alimentazione, sono state alla base del loro successo », ha detto Gregory Wilson, a capo della ricerca. Questi ha esaminato i denti da 41 specie di multituberculati conservati nei musei di tutto il mondo, usando il laser e la tomografia a scansione per creare immagini tridimensionali dei denti ad altissima risoluzione. Le sue analisi hanno rivelato che i denti nella parte posteriore della bocca erano molto complessi, con ben 348 rilievi per ciascuna fila di denti, ideali per la frantumazione di materiale vegetale (i carnivori ne hanno circa 110). « La scoperta di una grande diversificazione del gruppo dei multitubercolati durante l'ultima parte del Cretaceo, molto prima dell'estinzione dei dinosauri », ha commentato il paleontologo Cesare Papazzoni del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Modena e Reggio Emilia, « conferma come la storia dell'evoluzione dei grandi gruppi di vertebrati non sia, come erroneamente si pensa, una sorta di marcia inevitabile verso il progresso. Nel Cretacico superiore, prima della grande estinzione, gli animali più evoluti erano i dinosauri, mentre i mammiferi erano pochi, piccoli e confinati in ambienti marginali. Tra questi ultimi il gruppo più diversificato e promettente era proprio quello dei multitubercolati: chi avrebbe mai scommesso su marsupiali e placentati? L'imprevedibilità delle trasformazioni ambientali rende molto difficile determinare la direzione delle trasformazioni. Senza la catastrofe della fine del Cretaceo forse sarebbe cambiato poco per i multitubercolati, che sembrano aver passato indenni la grande crisi, ma di certo non si sarebbero aperte le possibilità di occupazione di tante nicchie ecologiche per i mammiferi, e la diversificazione dei placentati forse non ci sarebbe mai stata. Sembra che anche i primati, dei quali noi facciamo parte, esistessero prima dell'estinzione di fine Cretaceo: se è così, dobbiamo alla capacità di sopravvivenza di questi lontani antenati la possibilità di essere qui a discuterne ».
In seguito anche i multitubercolati dovettero cedere il passo agli altri mammiferi che andavano via via popolando la Terra, e si estinsero 32 milioni di anni fa, ma avevano tenuto duro durante il grande cataclisma del Cretacico e hanno rappresentato il più longevo gruppo di mammiferi mai vissuto.
L'antichissima cucciolata
Al 2000 risale la scoperta, opera di due ricercatori dell'Università del Texas ad Austin, Eva A. Hoffman e Timothy B. Rowe, dei fossili dei cuccioli di un precursore dei mammiferi vissuto 185 milioni di anni fa (alle 23.52 del 18 dicembre), che ha gettato nuova luce sulla transizione dai rettili ai mammiferi. In particolare, tali fossili suggeriscono che la chiave di volta di questo processo sia stato uno "scambio" evolutivo fra aumento delle dimensioni del cervello e riduzione della numerosità della prole. Parzialmente immersi in una matrice rocciosa di non facile asportazione, essi sono stati scoperti da Rowe nella formazione di Kayenta, in Arizona. Nel 2000 il ricercatore riuscì solo a stabilirne la datazione e a identificare la specie, Kayentatherium wellesi, un cinodonte molto probabilmente dotato di pelliccia.
Sottoponendo il fossile a tomografia computerizzata a raggi X ad alta risoluzione, Rowe e Hoffman ora hanno scoperto che nella roccia c'erano anche i resti di 38 cuccioli della stessa specie, presumibilmente morti con la madre subito dopo la nascita. La presenza di un numero così elevato di piccoli, più del doppio del numero medio della cucciolata di qualsiasi mammifero vivente, ma paragonabile a quello di molti rettili, ha rivelato che si riproduceva in modo simile ai rettili. La forma del cranio dei piccoli corrispondeva perfettamente, in scala, a quella dell'adulto, una caratteristica che distingue i rettili dai mammiferi, i cui piccoli nascono con un muso accorciato rispetto all'adulto e una scatola cranica a bulbo più grande per accogliere il cervello di maggiori dimensioni. La scoperta che Kayentatherium aveva un cervello piccolo e una prole numerosa suggerisce che l'evoluzione di crani progressivamente più grandi abbia comportato una parallela diminuzione della numerosità della prole e, in tempi ancora successivi, l'evoluzione di un tipo di riproduzione radicalmente nuovo.
La madre cinese di tutti noi
Juramaia sinensis, letteralmente "madre giurassica dalla Cina", è il nome scientifico di un fossile scoperto nel 2011, che secondo Zhe-Xi Luo, paleontologo del Carnegie Museum of Natural History, rappresenta il più antico progenitore degli euteri o mammiferi placentati. Scoperto in Cina, è stato datato a 160 milioni di anni fa (alle 00.32 del 19 dicembre), e ci costringe a retrodatare la separazione tra placentati e marsupiali o metateri di almeno 35 milioni di anni (di 68 ore). fino alla scoperta di questo fossile, i paleontologi ritenevano che la divergenza tra euteri e metateri fosse avvenuta 125 milioni di anni fa (alle 20.40 del 21 dicembre). Esso raggiungeva al massimo i 15 grammi di peso, possedeva zampe anteriori adatte ad arrampicarsi sugli alberi e si cibava di insetti che abbondavano nelle foreste temperate del Giurassico. « La grande linea evolutiva che comprende anche noi umani ha avuto un inizio modesto, in termini di dimensioni corporee », ha spiegato Zhe-Xi Luo. « Agli albori della loro evoluzione, marsupiali e placentati erano molto piccoli, e questa condizione li ha spinti verso gli ambienti forestali, al sicuro dai grandi dinosauri: « una volta che si riesce ad arrampicarsi sugli alberi, si possono sfruttare tutti i diversi ambienti ecologici, cosa che invece non possono fare gli animali che restano a terra. Le principali differenze fisiche tra euteri e metateri sono nelle ossa del polso e nei denti. Per esempio, gli euteri hanno meno molari dei metateri. Sono stati proprio i suoi denti che ci hanno fatto capire che Juramaia sinensis è un eutero ».
La scoperta, secondo Luo, conferma quanto era stato previsto dalle analisi sul DNA. Precedenti studi genetici datavano proprio a 160 milioni di anni fa la separazione tra gli antichi marsupiali e i placentati. La scienza tuttavia non ha ancora capito cosa sia accaduto in quel periodo per provocare la differenziazione tra le due grandi famiglie di mammiferi. « Sappiamo che marsupiali e placentati hanno preso strade diverse, come hanno fatto anche altri mammiferi. Non conosciamo invece cosa, dal punto di vista ambientale, ha innescato questa diversificazione », ha concluso Luo. La “caccia all’antenato” prosegue.
Juramaia sinensis, il più antico placentato a noi noto (disegno dell'autore) |
Le seppie vecchie quanto i dinosauri
Risalgono al Giurassico Superiore, e precisamente all'Oxfordiano, cioè a circa 160 milioni di anni fa (alle 00.32 del 19 dicembre) due sacche d'inchiostro fossili incredibilmente simili a quelle delle odierne seppie. Tale somiglianza suggerisce che questo strumento di difesa non si sia evoluto più di tanto dall'era dei dinosauri sino ai giorni nostri. Il pigmento fossile color bruno, chiamato eumelanina, è molto diffuso nel regno animale: lo si trova nelle penne degli uccelli e nei capelli umani, e ha varie funzioni, tra cui quella di proteggere dal sole o di aiutare l'animale a mimetizzarsi. I paleontologi avevano già trovato eumelanina nei fossili, ma finora sempre in maniera indiretta, ad esempio « analizzando presunti granuli, che peraltro somigliano ai batteri », ha precisato John Simon della University of Virginia di Charlottesville, uno degli autori della ricerca. Stavolta invece Simon e i suoi colleghi hanno utilizzato per via diretta il microscopio a scansione elettronica e la spettrometria di massa, identificando senza ombra di dubbio la presenza di eumelanina nelle sacche fossili. Scoperte di recente sul fondo di un antico mare fossile in quello che oggi è il Regno Unito, le sacche d'inchiostro giurassiche sono riuscite a sfuggire chissà come ai processi di decomposizione, consegnandoci campioni di tessuti molli di eccezionale valore scientifico.
Trovare il pigmento è stato tutt'altro che facile. « Il materiale nero è difficile da studiare con lo spettroscopio, assorbendo la luce », ha spiegato Simon. « Per quanto abbiamo visto finora, l'inchiostro antico è indistinguibile da quello attuale. Ma la cosa non dovrebbe sorprenderci: è un meccanismo di difesa piuttosto efficace. » Lo studio mette in luce le possibilità offerte dall'analisi dei tessuti molli di comprendere il mondo che ci ha preceduto: « Se guardiamo indietro, ci rendiamo conto che finora le nostre conoscenze si basano soprattutto sullo studio dei reperti ossei », conclude Simon. « Lo studio dei tessuti molli, però, può aprirci una nuova finestra sulle specie estinte e il loro rapporto con le forme di vita attuali. »
Tra l'altro nel 2018 John Parkinson della Oregon State University ha annunciato la scoperta che la simbiosi tra i polipi del corallo e le alghe unicellulari comparve circa 160 milioni di anni fa (alle 00.32 del 19 dicembre), cioè 100 milioni di anni prima (più di otto giorni prima) di quanto stimato finora. Il risultato, emerso da una nuova analisi di dati morfologici e genomici, indica che questa interazione sopravvisse a molti cambiamenti climatici, compresi quelli che portarono all'estinzione dei dinosauri, e fa sperare per il futuro delle barriere coralline oggi minacciate dal riscaldamento globale.
I primi impollinatori
Risale al 2018 la scoperta da parte di un gruppo di ricercatori dell'Accademia delle Scienze Cinese che l'impollinazione delle piante da parte degli insetti (impollinazione entomofila) risale a molto prima della diffusione delle piante da fiore, o angiosperme, ed era già ampiamente diffusa a metà del Mesozoico, circa 100 milioni di anni fa (alle 21.20 del 23 dicembre), quando il mondo vegetale era dominato dalle gimnosperme. A dimostralo è stata la scoperta all'interno una goccia di ambra di svariati grani di polline e di un piccolo coleottero perfettamente conservato che mostra specifici adattamenti alla raccolta di quel polline.
Le gimnosperme attuali, fra cui le conifere, sfruttano quasi tutte l'impollinazione anemofila, in cui il polline è trasportato dal vento; fanno eccezione le cicadi, un gruppo di piante dall'aspetto simile alle palme (ma non imparentate con esse) che erano molto diffuse nel Mesozoico e che ricorrono all'impollinazione entomofila. Finora però non era affatto chiaro se questa forma di impollinazione nelle cicadi si fosse evoluta prima, in concomitanza o dopo la comparsa delle angiosperme.
Il coleottero scoperto in una goccia d'ambra rinvenuta a Tanai, nel Myanmar settentrionale, è uno scarabeo boganide (Cretoparacucujus cycadophilus) risalente a circa 99 milioni di anni fa (alle 23.17 del 23 dicembre), che presenta un apparato mandibolare perfettamente adattato a trasportare i grani di polline delle cicadi ritrovati nella stessa goccia d'ambra. Il confronto morfologico ha permesso di stabilire una stretta parentela fra Cretoparacucujus cycadophilus e i coleotteri moderni che impollinano specificamente le cicadi odierne.
Questa parentela e la distribuzione attuale delle cicadi a impollinazione entomofila (sud-est asiatico, Sudafrica e Australia occidentale) indica che questa forma di impollinazione deve essersi evoluta quando quelle regioni, oggi molto distanti e separate dall'oceano Indiano, erano ancora parte dell'antico supercontinente di Gondwana. Ciò significa che gli insetti impollinavano le cicadi già 176 milioni di anni fa (alle 17.23 del 17 dicembre), ben prima della diffusione delle angiosperme.
Le farfalle prima delle farfalle
Tra 160 e 120 milioni di anni fa (tra le 00.32 del 19/12 e le 06.24 del 22/12), insetti dalle grandi ali decorate impollinavano piante e succhiavano nettare. Erano le kalligrammatidi: cugini stretti di crisope e formicaleoni e parenti solo remoti del lepidotteri, ma che svilupparono una forma e uno stile di vita paralleli a quelli delle farfalle moderne, e rappresentano un esempio brillante di precisa convergenza evolutiva. I fossili ritrovati in Cina e in Kazakhstan preservano in dettaglio i disegni delle ali, con "falsi occhi" per spaventare i predatori identici a quelli delle farfalle attuali. Inoltre, come nelle farfalle, l'apparato boccale delle kalligrammatidi era una lunga proboscide.
L'analisi chimica dei fossili suggerisce che questa proboscide succhiasse un fluido zuccherino. Può sorprendere, visto che non c'erano fiori all'epoca: l'ipotesi più probabile è che le kalligrammatidi fossero in simbiosi con le bennettitali, piante dotate di complesse, analoghe strutture riproduttive. E fu proprio l'avvento delle angiosperme, ovvero le piante con fiori, a portare le bennettitali all'estinzione. Con loro sparirono le kalligrammatidi, 120 milioni di anni fa. Solo 20 milioni di anni più tardi (un giorno e mezzo dopo), le "vere" farfalle avrebbero evoluto ex novo le stesse strategie mimetiche e di simbiosi.
Ma non è tutto: ricostruendo l'albero evolutivo delle farfalle, un gruppo di ricercatori guidato da Akito Kawahara, entomologo dell’Università della Florida, ha scoperto che questi preziosi impollinatori sono comparsi per la prima volta in Nordamerica. Come detto, le "vere" farfalle sono comparse intorno ai 100 milioni di anni fa (alle 21.20 del 23/12), quando alcune falene notturne iniziarono a volare di giorno e a nutrirsi del nettare dei fior; ma dove è avvenuto questo cruciale passaggio evolutivo? Analizzando il DNA di oltre 2000 specie di farfalle, che rappresentano tutte le famiglie esistenti e alcune forme fossili, gli entomologi hanno tracciato i movimenti e le abitudini alimentari delle farfalle nel tempo. L’indagine filogenetica colloca i primi voli di questi insetti in Nord e in Centro America. Dopo la loro comparsa, le farfalle si sarebbero spostate prima in Asia, attraverso lo stretto di Bering, per poi raggiungere in poco tempo il Sudest asiatico, il Medio Oriente e il Corno d’Africa. Solo più tardi, intorno ai 45 milioni di anni fa (alle 08.24 del 28/12), sarebbero arrivate in Europa; e gli effetti di questo ritardo sarebbero visibili ancora oggi, perchè rispetto ad altre parti del mondo, l’Europa non ha molte specie di farfalle e molte di quelle che ha si trovano anche altrove. Inoltre, fin dall’antenato comune a tutte le farfalle, le piante di fagioli sono risultate essere gli ospiti ancestrali di questi insetti. Da allora, l’evoluzione delle farfalle e quella delle piante a fiore sono rimaste fortemente collegate fra di loro.
Il canto del grillo del Giurassico
Un fossile eccezionalmente ben conservato ha permesso di ricostruire l'organo di stridulazione di una cavalletta vissuta 165 milioni di anni fa (alle 14.48 del 18 dicembre), e di desumere quindi le note e il canto emessi dall'insetto, fornendo inoltre molte informazioni sull'ambiente in cui viveva. L'impresa è riuscita a un gruppo di ricercatori della Capital Normal University a Pechino e della Bristol School of Biological Sciences. La ricostruzione è stata resa possibile dal perfetto stato di conservazione di un fossile ritrovato nel nordovest della Cina e battezzato Archaboilus musicus, della famiglia dei Tettigoniidi, strettamente imparentati con i grilli. L'esemplare ha una lunghezza di 72 millimetri, e in esso sono riconoscibili tutte le strutture dell'organo di stridulazione, che permetteva la produzione di richiami rivolti ai potenziali partner sessuali, ottenuti attraverso lo strofinamento di una dentellatura posta su un'ala attraverso lo strofinamento su una sorta di "plettro" posto su un'altra ala. Sulla base dei principi della biomeccanica, i ricercatori hanno potuto stabilire che Archaboilus musicus emetteva una nota a 6,4 kHz della durata di 16 millisecondi, un dato sufficiente per ricostruirne acusticamente il canto, certamente il più antico mai documentato. Ecco come doveva apparire quest'eccezionale richiamo che arriva fino a noi dalla notte dei tempi:
Le caratteristiche delle note emesse hanno permesso anche di trarre conclusioni sull'ambiente in cui viveva l'insetto. Esse implicano infatti che all'epoca l'ambiente acustico fosse già occupato da molti altri animali, come anfibi e altri artropodi, che cantavano contemporaneamente, causando un rumore di fondo ulteriore rispetto a quello prodotto da eventi naturali come il vento o il fluire delle acque. In effetti una ricostruzione paleobotanica della densità di vegetazione delle foreste del Giurassico nelle regioni nordoccidentali della Cina ha rivelato un ambiente popolato da conifere, in particolare di parenti delle araucarie e di felci giganti, con una distribuzione acusticamente compatibile con le frequenze del canto di Archaboilus musicus e con la necessità di farlo percepire al potenziale partner a una certa distanza.
« L'uso di questo canto », ha dichiarato Fernando Montealegre-Zapata, uno degli autori dello studio, « era adatto alla comunicazione acustica a lunga distanza in un ambiente confuso, per esempio una foresta del Giurassico. Oggi, tutte le specie di Tettigoniidi che utilizzano questi richiami musicali sono notturne, e presumibilmente questo tipo di richiamo è un adattamento alla vita notturna. »
Prima di chiudere con il Gurassico, un'altra curiosità: nell'era dei dinosauri, anche le pulci che succhiavano loro il sangue erano gigantesche! Un eccezionale ritrovamento effettuato in Cina ha permesso di scoperte nove pulci fossilizzate, datate da 165 a 125 milioni di anni fa (dalle 14.48 del 18/12 alle 20.40 del 21/12). Esse sono lunghe circa 2,5 centimetri, quindi da 8 a 10 volte più grande delle pulci attuali. La loro particolarità più curiosa è la lunghezza dell'apparato boccale, formato da due aghi che pungevano la pelle, forse dei dinosauri piumati. Un'altra differenza con le pulci odierne consiste nel fatto che probabilmente non avevano la straordinaria capacità di saltare delle pulci attuali. La grandezza di questi insetti è dovuta soprattutto al fatto che nel Giurassico il contenuto di ossigeno nell'atmosfera era molto maggiore rispetto all'attuale: 33 % contro il 21 % odierno, come si è detto parlando del Carbonifero. Grazie a Dio, oggi questi mostri non potrebbero quindi sopravvivere!
Il periodo Cretacico o Cretaceo fu introdotto nel 1822 dal geologo belga Jean-Baptiste Julien d'Omalius d'Halloy (1783-1875), e deve il nome ai grandi depositi di creta (francese craie, calcare friabile) nei suoi strati superiori dell'Europa Settentrionale, risalenti a questo periodo. Va da 130 milioni a 65 milioni di anni fa, seguendo il periodo Giurassico fino al Paleocene. In termini di Anno della Terra, esso durò più o meno dalle ore 03.47 del 20 dicembre alle 17.28 del 26 dicembre.
Il Cretacico è stato suddiviso in due piani, così ulteriormente suddivisi:
Cretacico inferiore |
Cretacico superiore |
||
Neocomiano | Berrasiano | Senoniano | Cenomaniano |
Valanginiano | Turoniano | ||
Hauteriviano | Coniaciano | ||
Barremiano | Santoniano | ||
Aptian-albiano | Aptiano | Tardocretacico | Campaniano |
Albiano | Maastrichtiano |
Per curiosità, il Neocomiano si chiama così dal nome latino della città svizzera di Neuchâtel, mentre il Cenomaniano trae la sua denominazione dal nome latino della nota città francese di Le Mans.
Gli oceani allagano le terre emerse
Caratteristica del Cretacico è l'espansione degli oceani, che avvenne nel Cenomaniano e che interessò tutti i continenti, invadendo una faglia apertasi in direzione est-ovest attraverso quella che era stata la Pangea, e suddivise le terre emerse in masse meridionali e masse settentrionali. Il Nordamerica e l'Eurasia continuarono ad allontanarsi (la distanza in quel periodo era la metà di oggi), mentre l'Antartide si avvicinava al Polo Sud e l'Australia si spostava verso nord. Nel Nord America un mare caldo e poco profondo, denominato Western Interior Seaway, si estendeva dall'Oceano Artico fino al Golfo del Messico, dividendo il continente in due parti lungo un asse longitudinale, note rispettivamente con i nomi di Appalachia e Laramidia. Nella Laramidia, nota ai paleontologi anche come "Il Continente Perduto", vivevano innumerevoli dinosauri, sia erbivori (Anchilosauri, Adrosauri e Pachicefalosauri) che carnivori (tra i quali i famosi Tirannosauri e i Velociraptor).
Anche dopo la formazione di continenti simili a quelli di oggi, gran parte delle terre rimasero tra loro collegate, per cui ancora per molto tempo fu possibile agli animali compiere grandi migrazioni attraverso istmi o bassi fondali.
Verso la fine del periodo si verificarono attività orogenetiche ed una notevole attività eruttiva, da cui iniziarono a formarsi le Ande nell'America Meridionale, le Montagne Rocciose nell'America del Nord e le catene montuose dell'Antartide e dell'Asia.
A questo proposito, nel settembre 2013 William Sager dell'Università A&M del Texas e i suoi collaboratori ha dimostrato che il vulcano più grande del mondo non è (come si credeva finora) il Mauna Loa delle Hawaii, con i suoi 5.180 chilometri quadrati di superficie, bensì il cosiddetto Massiccio Tamu, posto sul fondo dell'oceano Pacifico circa 1.600 chilometri a est del Giappone, nel cosiddetto rilievo Shatsky. Tale vulcano a scudo occupa infatti oltre 310 mila chilometri quadrati (una superficie maggiore dell'intera Italia), e si è formato 145 milioni di anni fa (alle 05.44 del 20 dicembre), quindi proprio all'inizio del Cretacico. Il suo nome è un omaggio all'università di Sager (Texas A&M University). « Si tratta di un unico vulcano a scudo e non di un insieme di vulcani », ha spiegato Sager, giunto a questo risultato dopo vent'anni di studi e carotaggi. « Per trovare un suo simile bisogna alzare lo sguardo al cielo e osservare Marte, perché soltanto sul Pianeta rosso esiste un degno avversario: il Monte Olimpo, di un quarto più grande del Massiccio Tamu ». Fino alla pubblicazione dei risultati di Sager di era pensato che il massiccio del Tamu fosse un agglomerato di punti eruttivi, a causa della forma anomala della struttura, piuttosto bassa e larga, e quindi diversa da quella del classico cono vulcanico. « Il Tamu ha una forma diversa da qualsiasi altro vulcano sottomarino ed è probabile che possa darci qualche indizio su come si sono formati i grandi vulcani sotto il mare », ha sottolineato Sager. Il motivo della configurazione appiattita e allungata è dovuta alle caratteristiche della lava: i fiumi di materiale incandescente erano molto densi, spessi fino a 22 metri, e potevano percorrere lunghe distanze. Ora il vulcano è spento da oltre 130 milioni di anni (da dieci giorni e mezzo dell'Anno della Terra), « ma il magma che ha eruttato doveva provenire dal mantello terrestre. Questa è un'informazione importante per i geologi che cercano di capire come funziona l'interno della Terra ».
Vulcanismo lunare
Abbandoniamo per un momento la Terra, e trasferiamoci sulla Luna, la cui superficie è caratterizzata dalla presenza di pianure vulcaniche scure, chiamate mari, originatesi dalle antiche eruzioni basaltiche che si sono verificate tra 3,5 miliardi e 1 miliardo di anni fa (dalle 02.40 del 23 marzo alle 21.20 dell'11 ottobre). I mari sono caratterizzati da zone in cui la superficie si fa più irregolare, denominate in inglese IMP (Irregular Mare Patches). Sul lato visibile della Luna, le dimensioni medie di queste zone sono di circa 500 metri, e quindi non possono essere osservate dai telescopi terrestri. Le immagini del Lunar Reconnaissance Orbiter (LRO) della NASA, invece, arrivano alla risoluzione di un metro, quanto basta per definirne con precisione la distribuzione. Sarah Braden della School of Earth and Space Exploration e colleghi hanno così scoperto che l'attività vulcanica della Luna è diminuita gradualmente anziché fermarsi di colpo un miliardo di anni fa, come creduto finora. Alcuni depositi osservati grazie alla sonda, infatti, grazie al confronto con i modelli cronologici della superficie di Marte sembrano avere un'età stimata di meno di 100 milioni di anni (risalgono alle 21.20 del 23 dicembre), e alcune formazioni potrebbero risalire addirittura a soli 50 milioni di anni fa (alle 22.40 del 27 dicembre)!
Gli autori della ricerca hanno studiato: sono riusciti a stimare l'età di queste formazioni superficiali a meno di 100 milioni di anni. La morfologia delle 70 zone irregolari studiate in modo dettagliato da Braden e colleghi sarebbe quella prodotta da piccole eruzioni vulcaniche che si sarebbero verificate molto tempo dopo l'epoca in cui fino si è situata cronologicamente la fine dell'antico vulcanismo basaltico. « Si tratta di un risultato che potrebbe portare a riscrivere i manuali sulla storia geologica della Luna », ha spiegato John Keller, project scientist del Lunar Reconnaissance Orbiter presso il Goddard Space Flight Center della NASA a Greenbelt, nel Maryland. « L'esistenza e l'età delle macchie irregolari ci dicono che il mantello lunare è dovuto rimanere caldo a sufficienza per fornire il magma alle piccole eruzioni che hanno prodotto queste singolari formazioni esogeologiche. Queste giovani formazioni saranno l'obiettivo privilegiato delle future esplorazioni della Luna, siano esse robotiche o umane. »
Il massimo livello dei mari
Torniamo ora sulla Terra. Già prima della fine del Cretacico le lente modificazioni geografiche diedero inizio ad un sempre più evidente alternarsi delle stagioni. In quasi tutto il pianeta predominava un clima caldo e umido, ma nell'Europa Occidentale durante tutto il periodo sono chiaramente riconoscibili una regione mediterranea più calda ed una regione settentrionale più fredda con faune ben differenziate.
Per via delle alte temperature, in quasi tutte le regioni della Terra non esistevano ghiacciai perenni, per cui le acque dei mari raggiunsero il massimo livello di tutta la storia del nostro Pianeta. Gran parte delle terre emerse furono così sommerse da mari epicontinentali. A quei tempi, l'Italia sarebbe apparsa perciò all'incirca come sono oggi le Maldive: né più e né meno come una cintura di piccole isole e di banchi sabbiosi.
È da notare che gli studi condotti nel 2006 dal Reale istituto di ricerche marine di 't Horntje, nei Paesi Bassi, e dell'Università dell'Indiana a Bloomington nel quadro nel progetto Ocean Drilling, che ha portato al carotaggio di fondali oceanici in diverse parti del mondo, ha dimostrato come le antiche rocce dei fondali del Pacifico conservino la testimonianza di drastici cambiamenti di clima nel Cretacico, e precisamente nell'Aptiano. I campioni sono stati prelevati a 3100 metri sotto il livello del mare, 1600 chilometri a est della costa giapponese; analizzandone il contenuto di carbonio e azoto, i geochimici hanno trovato prove di un cambiamento nel ciclo del carbonio e nella fissazione dell'azoto da parte delle comunità biologiche dell'oceano, che non possono essere associate che ad un cambiamento climatico. Si ritiene che in quell'area tropicale la temperatura media dell'acqua superficiale sia oscillata fra i 30° C e i 36° C (quando la temperatura attualmente si attesta introno ai 29-30° C). Una spedizione precedente aveva riscontrato un analogo fenomeno nell'Atlantico, proprio nello stesso periodo; tuttavia quel dato isolato poteva essere attribuito anche a variazioni climatiche su scala locale, mentre ora si può affermare che il cambiamento deve avere interessato l'intero globo, contraddicendo l'idea fino ad oggi unanimemente accettata che il Cretacico fosse un periodo caratterizzato da un monotono clima caldo umido.
I giorni più brevi e i mari più caldi
Settanta milioni di anni fa (alle 07.44 del 26 dicembre) i giorni erano più brevi, duravano mezz’ora in meno, la Luna era 1.000 chilometri più vicina alla Terra e i mari erano molto più caldi di oggi. Si tratta di misure astronomiche racchiuse in un archivio impensabile: gli anelli del guscio di un mollusco vissuto alla fine del Cretaceo. Prelevando campioni minuscoli, gli scienziati della Vrije Universiteit Brussel sono riusciti a darci uno spaccato di come notte e giorno, maree, cicli lunari e stagioni funzionavano alla fine del Cretacico. Il fossile ben conservato di una rudista bivalve ha funzionato da registro storico: come per altri molluschi, infatti, il guscio, accrescendosi come gli anelli di un albero, fissa al suo interno importanti informazioni a partire dalla composizione isotopica, misurabili attraversi la frequenza di accrescimento che si alterna giorno per giorno. Grazie alla precisione di questa tecnica, i ricercatori sono riusciti a distinguere addirittura le differenze dal giorno alla notte!
Il team della Vrije Universiteit ha prelevato frammenti di guscio di appena 10 micron attraverso una tecnica di spettrometria laser per analizzare la composizione chimica di ogni anello, e ha contato 372 anelli in un anno. Sono anche riusciti a distinguere tra l’accrescimento diurno e quello notturno, stabilendo come questo mollusco vivesse in simbiosi con organismi in grado di attuare la fotosintesi clorofilliana che, come è noto, si attiva con la luce del Sole. I giorni quindi erano più corti, circa 30 minuti in meno, e la Luna era più vicina di circa 1.000 chilometri di quanto non lo sia ora. Infatti la Terra impiega sempre lo stesso tempo per compiere un giro attorno al Sole; ad una velocità di rotazione maggiore della Terra corrispondeva una maggiore velocità della Luna (e una distanza minore). Sapevamo già che la Luna si sta allontanando di qualche centimetro all’anno dal nostro Pianeta, perché nel frattempo la Terra ha rallentato la sua rotazione, ma ritornando a ritroso nel tempo, essa avrebbe dovuto trovarsi "dentro" la Terra già un miliardo e 400 milioni di anni fa (alle 10.40 del 9 settembre). Invece il nostro satellite fa compagnia alla Terra da ben più tempo; in una certa epoca del passato, dunque, questa velocità di allontanamento deve essersi modificata, per qualche motivo che ci è ancora ignoto. La paleontologia, in questo caso, viene in aiuto dell’astronomia e ci aiuta a raccontare il cielo del passato.
Ma questo mollusco ci dice anche altro, per esempio a proposito dell’ecosistema nel quale si è formato e dell’alternarsi delle stagioni. Il fossile è stato ritrovato in Oman, in quello che doveva essere un ambiente marino tropicale. Era la fase del Cretaciceo detta Campaniano, quando i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera erano piuttosto elevati e l’effetto serra scaldava il Pianeta dai 2 ai 4 gradi più di adesso, e come conseguenza anche i mari erano molto più cald, fino a 40° d’estate, 30° d’inverno. Un ambiente ostile al limite anche per il mollusco, che era appena in grado, d’estate, di produrre nuovi anelli. Ciò conferma i drastici cambiamenti climatici del Cretacico di cui parlavamo sopra.
Debuttano le Angiosperme
La vita vegetale, per prima, risentì di questi cambiamenti climatici dando vita alle Angiosperme piante a foglie caduche ed in grado di produrre fiori come le querce, i faggi ed i pioppi tuttora esistenti, i quali fornirono nuove fonti di nutrimento per le specie animali. Prima della fine del Mesozoico si erano diffuse su tutti i continenti, e da allora si sono diffuse praticamente su tutta la Terra, diventando le specie dominanti nel Regno Vegetale.
Come indica il loro nome ("vaso per il seme"), le Angiosperme producono fiori e frutti carnosi che proteggono lo sviluppo del seme, in netta contrapposizione alle Gimnosperme, il cui seme rimane nudo all'aria appena i coni si aprono.
Per i paleobotanici, le Angiosperme rappresentano un vero rebus: lo studio dei reperti fossili datava la comparsa di diverse specie di Angiosperme al Cretaceo inferiore (circa 130 milioni di anni fa), con poche o nulle testimonianze di un'evoluzione graduale. Come può essere avvenuta nel Cretaceo un'evoluzione tanto rapida e discontinua da riempire la Terra di forme e colori capaci di resistere a ogni grande evento di estinzione? Charles Darwin definì l'origine delle Angiosperme « un abominevole mistero ». Ma nel 2011 un gruppo di studiosi della Pennsylvania State University ha elaborato una nuova, più convincente teoria sull'evoluzione delle piante a fiore, spostando indietro di circa 200 milioni di anni la loro data di nascita.
A risolvere il dilemma è stato lo studio della genetica. Da tempo si sa che le piante a fiore devono il loro successo a particolari mutazioni genetiche chiamate "eventi di poliploidia", ma nessuno, finora, era riuscito a identificare con un buon grado di approssimazione il momento in cui questi episodi si sono verificati e quali conseguenze ne sono derivate. Ma Claude dePamphilis, professore di Biologia alla Penn State University, ha dimostrato che nel genoma delle piante sono avvenute almeno due profonde trasformazioni, due "sconvolgimenti del Dna" che hanno prodotto migliaia di nuovi geni, responsabili della cosiddetta "esplosione evolutiva" a cui si deve l'odierna varietà di piante a fiori.
« Abbiamo analizzato nove genomi di piante precedentemente sequenziati e milioni di nuove sequenze di DNA di piante a fiori appartenenti al ramo più antico dell'albero filogenetico delle Angiosperme », ha spiegato dePamphilis; questi dati sono stati raccolti grazie all'Ancestral Angiosperm Genome Project, un progetto il cui scopo consiste nello scoprire i segreti genetici che hanno spinto per la prima volta una pianta a fiorire. « Sapevamo che ad un certo punto ci saremmo trovati di fronte a una o più importanti metamorfosi genetiche negli antenati delle Angiosperme, e che queste trasformazioni potevano essere alla base del successo di molte specie che oggi vivono sulla Terra. Soprattutto, avevamo il sospetto che questi sconvolgimenti fossero stati innescati da un meccanismo comune, piuttosto che da diversi eventi indipendenti. » Così, dall'analisi dei dati di sequenza molecolare, i ricercatori sono riusciti a scoprire le date di due episodi di poliploidia, vale a dire l'acquisizione, tramite mutazione, di una "doppia dose" di materiale genetico. « La duplicazione del DNA può avvenire anche nei vertebrati, ma di solito ha esiti letali », ha dichiarato Yuannian Jiao, ricercatore della Penn State. « Le piante, al contrario, possono sopravvivere e talvolta persino trarre beneficio dai genomi duplicati. Anche se la maggior parte dei geni nati da eventi di poliploidia tende a perdersi, alcuni possono adottare nuove funzioni o, in alcuni casi, farsi carico di parte del lavoro fino a quel momento svolto dai geni originari. In questo modo, l'intero genoma ha la possibilità di aumentare l'efficienza e la specializzazione dei compiti. » Fino a poco tempo fa queste mutazioni erano state fatte risalire a un periodo compreso tra i 150 e i 125 milioni di anni fa (tra le 20.00 del 19 dicembre e le 20.40 del 21 dicembre). Jiao e colleghi, invece, hanno identificato due grandi eventi di questo tipo: il primo ha riguardato gli antenati di tutte le piante a seme e si è verificato circa 320 milioni di anni or sono (all'una di notte del 6 dicembre); l'altro è avvenuto specificatamente nella "stirpe" delle Angiosperme tra i 210 e i 192 milioni di anni fa (tra le 23.12 del 14 dicembre e le 10.14 del 16 dicembre).
Secondo dePamphilis, queste due grandi trasformazioni hanno messo in moto una specie di "Rinascimento Genetico" di cui le piante stanno ancora raccogliendo i risultati. « É grazie a eventi come questi che le piante a fiore hanno potuto sviluppare nuove e più efficienti funzioni, riuscendo così a sopravvivere a cambiamenti climatici durissimi e alle estinzioni di massa », ha aggiunto il ricercatore. Alla fine del Cretaceo, quando scomparve dalla Terra qualcosa come il 76 % di tutte le specie viventi, tra cui i dinosauri, le piante con fiore non solo sopravvissero, ma divennero sempre più varie, eleganti e multiformi.
Tra l'altro, l'eccezionale successo evolutivo delle angiosperme subito dopo la loro comparsa durante il Cretacico fu la conseguenza di una ristrutturazione del genoma che ne ridusse molto le dimensioni. È la conclusione a cui sono giunti Kevin A. Simonin e Adam B. Roddy, rispettivamente alla San Francisco State University e alla Yale University. Le oltre 400.000 specie in cui si suddividono oggi le angiosperme affondano le radici nella enorme diversificazione a cui andarono incontro, nel giro di soli cinque milioni di anni, subito dopo la loro apparizione nella documentazione fossile, circa 130 milioni di anni fa (alle 10.56 del 21 dicembre). La rapidità con cui si è manifestata questa diversificazione ha sempre lasciato perplessi i biologi, tanto che Charles Darwin, in una lettera del 1879 all'amico Joseph Hooker (1817-1911), illustre botanico e presidente della Royal Society, la definì un "abominevole mistero". Ora, negli ultimi trent'anni è stato dimostrato che le piante da fiore hanno tassi di fotosintesi molto più elevati delle altre piante, che permettono loro di crescere più velocemente e battere così la concorrenza di felci, conifere e altre gimnosperme che avevano dominato gli ecosistemi per centinaia di milioni di anni. L'efficienza metabolica delle angiosperme è legata in particolare alle loro foglie specializzate, che permettono un trasporto più rapido dell'acqua e un migliore assorbimento dell'anidride carbonica.
La causa di questa catena di mutamenti nella fisiologia vegetale però non era ancora chiara. Attraverso un'analisi degli studi che si sono concentrati sui diversi aspetti di quei mutamenti, Simonin e Roddy hanno scoperto che l'aumento di efficienza metabolica era sempre associato a una riduzione della dimensione delle cellule vegetali. La riduzione, inoltre, era a sua volta correlata a una diminuzione delle dimensioni del genoma della pianta. Ricostruendo quindi a ritroso l'evoluzione del genoma di un campione di alcune centinaia di specie, i ricercatori hanno calcolato che il rimpicciolimento del genoma ha interessato solo le piante da fiore ed è iniziato proprio 140 milioni di anni fa (alle ore 15.28 del 20 dicembre), in coincidenza con la loro comparsa.
Le prime Angiosperme appartenevano al gruppo delle Magnolie, con fiori a cono e petali disposti a spirale. Durante il Cretacico, comunque, le Conifere continuano ad essere ben rappresentate da Sequoie, Araucarie, Pini, Abeti e Cipressi.
Il piranha gigante
Nel Cretacico c'era anche quello che è stato definito "il piranha gigante", per via delle dimensioni e della velocità massima, che è stata stimata intorno a 60 chilometri all'ora! Parliamo dello Xiphactinus audax ("raggi a spada"), un enorme pesce predatore lungo almeno 6 metri nuotante nell'antico mare che copriva la maggior parte degli USA e del Canada nel Cretaceo, tra 87 e 65 milioni di anni fa (fra le 22.38 del 24 dicembre e le 17.28 di Santo Stefano). Più che ad un piranha però assomigliava ad un'enorme aringa munita di denti affilatissimi. Xiphactinus aveva un dorso blu e un ventre argento chiaro buio per camuffarsi sia dall'alto e dal basso, i denti appuntiti all'estremità e una potente coda che lo rendevano un formidabile cacciatore da inseguimento. Probabilmente incrociava nelle acque superficiali degli oceani e catturava pesci di grandi dimensioni: poteva infatti deglutire intere delle creature lunghe fino a due metri, e non è escluso che cacciasse anche antichi uccelli sul pelo dell'acqua. Era un nuotatore così abile, che avrebbe potuto saltare sopra le onde. Non era però immune da attacchi; se ferito, le sue grandi dimensioni sarebbero diventate un impiccio, sarebbe stato facile da individuare e poteva diventare preda di squali giganti.
Lo Xiphactinus audax disegnato da Jytéry sul numero 27 del 2014 del "Giornalino" delle edizioni Paoline |
Gli insetti
Particolare sviluppo e diffusione ebbero molte specie di Insetti, delle quali alcune forme sono attualmente viventi, come le termiti e le api, le quali avviarono un'intensa organizzazione sociale. Anche la formica più antica conosciuta visse in questo periodo in Africa, circa 95 milioni di anni fa, cioè alle 7 del mattino della vigilia di Natale (fino a poco tempo fa si credeva che le formiche avessero preso origine in Nord America e in Asia intorno a 92 milioni di anni fa, cioè alle 12.54 dello stesso giorno dell'Anno della Terra). Alcuni frammenti di ambra provenienti dall' Etiopia, i più antichi mai rinvenuti nel continente africano, hanno gettato luce non solo sull'evoluzione delle formiche, ma anche di altri gruppi di piante e animali vissuti nel Gondwana: già nota agli antichi Greci, l'ambra è una resina fossile trasparente di colore chiaro, che fintanto era fluida colava dagli alberi, per poi rapprendersi e pietrificarsi, diventando la tomba ancor oggi intatta, di insetti, ragni, funghi, batteri e nematodi rimasti inglobati in essa. « Sebbene le formiche siano fossili piuttosto comuni nell' ambra più recente, come quella baltica, risalente a circa 20-45 milioni di anni fa, questi insetti sono molto rari in ambre più antiche », hanno spiegato Eugenio Ragazzi e Guido Roghi, rispettivamente dell'Università degli Studi di Padova e dell'Istituto di Geoscienze e Georisorse del CNR, coautori del lavoro insieme a colleghi di Germania, Francia, Austria, Etiopia, Inghilterra e Usa. « Si tratta di una formica femmina senza ali e rappresenta una delle maggiori scoperte riguardo questo peculiare e unico tipo di ambra, che espande le nostre conoscenze sulla vita nell'antico continente Gondwana ». Le formiche si evolsero in contemporanea con l'espansione delle angiosperme, ma apparentemente questi invertebrati rimasero in disparte durante la prima parte dell'Era Cenozoica. Oggi sono invece un gruppo di insetti con un caratteristico sistema sociale che ha consentito loro una enorme capacità di dominanza ecologica, tanto che si stima che circa il 25 % della biomassa animale in Amazzonia sia rappresentato proprio da formiche! Nel Cretacico apparvero inoltre le mosche e le zanzare. Ma che alcune di loro, intrappolate nell'ambra, possano effettivamente conservare nell'apparato boccale del sangue di dinosauro con il quale clonarli, considerando con quale facilità si deteriora il DNA nei secoli, è davvero una fantasia degna del genio fantascientifico di Michael Crichton...
Ma non è tutto. All'interno di alcune uova fossili di Titanosauro risalenti a 70 milioni di anni fa (alle 7.44 del 26 dicembre), alcuni ricercatori argentini hanno rinvenuto piccole strutture di 2-3 centimetri di lunghezza, con ogni probabilità bozzoli di vespe che si cibavano dei resti di uova marce. Questa è la prima volta che fossili di bozzoli di insetto si trovano così strettamente associati alle uova di dinosauro. Le vespe, così come gli altri animali che si cibavano di questi scarti, avevano un ruolo fondamentale nella catena alimentare che ruotava intorno ai grandi rettili preistorici: quello di ripulire i siti di nidificazione sgombrandoli dai rifiuti. I fossili di uova erano stati rinvenuti nella Patagonia argentina nel 1989, ma solo nel 2011 sono state trovate le tracce delle "ospiti".
Non basta. Secondo Michael Engel, paleoentomologo dell'Università del Kansas, già 110 milioni di anni fa (alle 01.52 del 23 dicembre) in Spagna una larva di crisopide rimase imprigionata nell'ambra insieme ai minuscoli frammenti di felce che portava aggrovigliati sul dorso. Questa è la più antica prova diretta della capacità di mimetizzarsi degli insetti in generale. Ancor oggi le larve de i crisopidi hanno l'abitudine di mimetizzarsi usando frammenti vegetali, carcasse di altri insetti e qualsiasi altra cosa permetta loro di muoversi indisturbati alla ricerca di prede e di difendersi dagli uccelli. Da tempo gli studiosi sostenevano che questo comportamento fosse molto antico, ma fino al recente ritrovamento di un fossile avvenuto in Spagna non immaginavano quanto. Tra gli invertebrati, i crisopidi non sono certo gli unici specializzati nell'arte del camuffamento: i granchi decoratori, ad esempio, utilizzano addirittura animali vivi come gli anemoni di mare per mimetizzarsi nell'ambiente circostante. Le tracce più antiche di questo comportamento erano state osservate, fino a questa scoperta, in alcuni fossili provenienti dalla Repubblica Dominicana, ma il nuovo fossile spagnolo ha retrodatato notevolmente il mimetismo degli insetti, almeno al Cretaceo superiore. « Una cosa è strisciare e lasciare che le cose si attacchino sopra, altra cosa invece è selezionare i materiali dal proprio ambiente per metterseli sulla schiena », ha dichiarato Engel. « Per una piccola larva si tratta di comportamento veramente complesso ». Il pacchetto di spazzatura rimasto sepolto con il suo spazzino è composto solamente dai tricomi della felce, ossia i piccoli peli che danno alle felci il loro aspetto lanuginoso. « Probabilmente la larva era anche molto selettiva nella scelte di ciò che voleva mettersi sul dorso », ha aggiunto Engel. « E dal momento che la comparsa dei Crisopidi risale almeno al Giurassico finale, è possibile che esistesse una forma ancora più primitiva di questo tipo di mimetismo. »
È inoltre degna di menzione la scoperta, avvenuta nell'estate 2011 da parte di un gruppo di ricercatori del Museo di Storia Naturale di Stoccarda, di un nuovo ordine di insetti, i Coxoplectoptera, vissuti in Sudamerica nel Cretaceo inferiore. Grazie al fatto che ad essere stati ritrovati sono stati sia esemplari adulti alati sia larve, tutti ottimamente conservati, Arnold Staniczek, Günter Bechly e i loro collaboratori sono stati in grado di ricostruire la posizione filogenetica di questi animali, che rappresenterebbero gli antenati estinti delle attuali effimere. Costoro tuttavia differiscono in modo significativo dagli altri insetti alati: forniti di venature delle ali simili a quelle delle effimere, di un torace e di ali che ricordano quelle delle libellule e zampe che richiamano quelle delle mantidi religiose, questi insetti alati sembrano un mosaico di vari animali. Le larve ricordano invece i gamberetti d'acqua dolce. Ancora enigmatico il loro possibile stile di vita: diverse caratteristiche anatomiche e la natura del sito in cui sono stati ritrovati, paiono suggerire che essi vivessero in un habitat fluviale, mentre la loro singolare anatomia fa pensare che fossero dei predatori e che, molto probabilmente, a dispetto delle ali di cui erano dotati, si nascondessero all'interno di buche scavate nel letto dei fiumi, per balzare poi a sorpresa sulle loro prede. La scoperta di questi nuovi organismi potrebbe fornire importanti indizi per chiarire l'origine evolutiva delle ali degli insetti, un tema ancor oggi assai controverso. Gli autori del ritrovamento presumono infatti che le ali abbiamo avuto origine da placche della regione toracica, con il reclutamento di geni delle zampe per regolarne lo sviluppo, ma il confronto d'idee in proposito è molto acceso.
A questo punto non possiamo non citare la scoperta dello spermatozoo più antico del mondo, effettuata da una squadra di esperti guidata da Wang He della Chinese Academy of Science di Nanchino. Si tratta di un campione nascosto in un frammento di ambra vecchio di 100 milioni di anni (risale quindi alle 21.20 del 23 dicembre), appartenuto ad un ostracode, un minuscolo crostaceo simile a un gambero che abita gli oceani da più di 500 milioni di anni. Ogni singola cellula è enormemente lunga: questo sperma "gigante", molte volte più grande di quello umano, proviene, oltretutto, da un crostaceo più piccolo di un seme di papavero. Un team di paleontologi lo ha scoperto in una gemma di ambra incastonata in un albero rinvenuta in Myanmar. Si tratta in pratica della più antica testimonianza di un atto sessuale nella storia del mondo databile oltre 80 milioni prima di quella finora ritenuta la più antica. Secondo i paleontologi, il fatto che sia stato rinvenuto in una femmina indica che l'esemplare è stato fecondato poco prima di rimanere intrappolato nell'ambra. A colpire i ricercatori, però, è stata anche la quantità di liquido seminale rinvenuta. Gli ostracodi, della dimensione di un seme di papavero, sono noti per possedere cellule di sperma fino a sette volte più grandi delle loro stesse dimensioni. Queste cellule creano poi piccole sfere in grado di viaggiare nel tratto riproduttivo femminile e di fecondarlo.
La formica vampiro
In una goccia di resina di 98 milioni di anni fa (alle 01.13 del 24 dicembre) scoperta in Myanmar (Birmania) è stato trovato intrappolato un essere da incubo, ancorché lungo pochi centimetri. Mandibole implacabili, pasti di sangue e un unicorno di metallo: si tratta di una formica, battezzata Linguamyrmex vladi, in onore del Principe di Valacchia Vlad III Țepeș (1431-1477) al quale l'irlandese Bram Stoker (1847-1912) si è ispirato per creare il personaggio del vampiro Dracula nell'omonimo romanzo horror del 1897. Un team del New Jersey Institute of Technology guidato dal professor Phillip Barden ha stabilito che la Linguamyrmex vladi si cibava dell'emolinfa delle sue prede che cadevano tra le sue fauci: e proprio una di queste prede, una larva di coleottero, sembra essere stata preservata fino a noi all'interno della stessa goccia di ambra. Forse era la prossima portata del suo menu, che stava per cadere vittima delle sue temibili pinze.
L'anatomia di questa formica la distingue da qualsiasi altra specie moderna e, secondo gli entomologi, non possono essere considerate loro antenate, perché si sono estinte troppo presto. Le haidomyrmecine vissero nel Cretaceo e sono conosciute in inglese come "hell ants" (formiche dell'inferno) per il loro aspetto feroce. "Vladi" però sembra di gran lunga la più temibile, non solo per le sue abitudini alimentari. A differenza delle formiche odierne, che hanno le mandibole rivolte verso il basso e si chiudono come tenaglie, queste scattavano verso l'alto una volta che la preda era entrata in contatto con dei recettori, una specie di peluria, che le circondava. Le fauci intrappolavano così l'animale chiudendolo in una morsa con il corno posto sul capo, formando una specie di imbuto che raccoglieva il sangue della preda. Alla scansione ai raggi X sembra che il suo corno fosse rinforzato con metallo: calcio, zinco, manganese e ferro (forse rubato alle stesse prede). Non una caratteristica innata ma una pratica comune anche ad altri insetti, di irrobustire con questo sistema le parti più sollecitate durante l'attacco.
Da notare che nell’ambra non rimangono intrappolati soltanto gli insetti: è recente la scoperta di una chiocciola che ha riposato nella resina per circa 99 milioni di anni. Si tratta della prima lumaca preistorica di cui vengano ritrovati anche i tessuti molli, compresi testa e occhi. La sua posa indica che, nel momento in cui è stata intrappolata nella goccia di resina, era viva e che si è allungata nel tentativo di scappare. Acquistata da un collezionista di fossili nel 2016, è stata studiata soltanto adesso dal gruppo del Museo Nazionale della Scozia coordinato da Andrew Rossche. L’ambra proviene dal Myanmar, nel sud-est asiatico, e contiene anche una seconda lumaca, meno ben conservata. La forma del corpo di entrambi gli esemplari suggerisce che siano antenati delle Cicloforidi, le lumache terrestri.
La Rana del Diavolo
È opinione di molti geologi che alla fine del Cretacico il Madagascar fosse collegato all'America del Sud, e non all'Africa come comunemente si ritiene, perchè la flora e la fauna di quest'isola africana suggeriscono una storia diversa da quella del Continente Nero, ma anche in seguito a considerazioni geologiche e all'analisi dei reperti fossili. Questa ipotesi ha ricevuto nuova sostanza in seguito alla scoperta compiuta da un gruppo di paleontologi della Stone Brook University di New York guidati da David Krause, che proprio in Madagascar hanno rinvenuto i resti fossili della più grande rana mai esistita nella storia: Beelzebufo ampigna, vissuta nel Cretaceo superiore ed il cui nome significa "rana del diavolo". Perchè? Perchè pesava circa 4,5 chilogrammi ed era lunga 41 centimetri, enormemente di più delle rane attuali; aveva un dorso assai coriaceo, potenti mandibole ed è presumibile che avesse un temperamento piuttosto aggressivo, supportato dalla sua taglia decisamente fuori dal comune e da una bocca di dimensioni enormi, grazie alla quale ingeriva un po' di tutto, compresi anche piccoli vertebrati, e forse persino dei cuccioli di dinosauro!
Ma l'aspetto più importante della scoperta non sta nel suo aspetto strambo e un po' inquietante, bensì nel fatto che i suoi parenti più prossimi hanno avuto origine in Sud America, si chiamano leptodattilidi e vivono ancora oggi. In particolare questa rana del Madagascar assomiglia in maniera impressionante alle rane cornute, che scientificamente si chiamano anfibi del genere Ceratophrys. Queste ultime trascorrono la maggior parte della loro esistenza sommerse dal fango e spuntano solo per aggredire la preda. Ma come mai due specie tanto simili sono vissute in aree geografiche così lontane? L'ipotesi più credibile afferma che il Madagascar era allora separato dal Continente Nero, ed invece formava un tutt'uno con il Sud America, insieme ad un'Antartide molto più temperata di quella attuale. Purtroppo, i fossili africani di questo periodo sono piuttosto rari: è quello che Krause definisce un "buco nero" nei fossili. Per ora il Beelzebufo resta un enigma, in attesa di nuove scoperte che confermino quest'intuizione paleogeografica.
L'orecchio dei mammiferi
Un gruppo internazionale di paleontologi ha scoperto una nuova specie di mammifero vissuto 123 milioni di anni fa (alle 00.33 del 22 dicembre), in quella che attualmente è la provincia cinese del Liaoning. I resti dell'esemplare di Maotherium asiaticus sono emersi dalla Formazione di Yixian, già famosa per ritrovamenti fossili di grande importanza paleontologica. In questo caso essa getta luce sui meccanismi che hanno portato allo sviluppo dell'orecchio medio nei mammiferi. "La cosa più sorprendente, e anche scientificamente più interessante, è l'orecchio di questo animale”, ha commentato Zhe-Xi Luo, curatore del reparto di paleontologia dei vertebrati del Carnegie Museum of Natural History di Pittsburgh. "I mammiferi hanno un udito sensibile, molto migliore di quella di tutti gli altri vertebrati, e sappiamo che questo senso è fondamentale per lo stile di vita dei mammiferi." Grazie alla complessa struttura dell'orecchio medio, i mammiferi, compreso l'essere umano, hanno un udito molto sensibile, in grado di discernere una gamma di suoni più ampia rispetto agli altri vertebrati. Tale struttura anatomica è il frutto di un adattamento cruciale, che ha permesso ai mammiferi di essere attivi anche nell'oscurità e di sopravvivere nel Mesozoico, periodo dominato dai dinosauri.
L'adattamento dell'udito dei mammiferi è stato reso possibile da un orecchio medio sofisticato costituito da staffa, incudine e martello oltre che dalla membrana timpanica. Queste ossa dell'orecchio medio si sono evolute da quelle dell'articolazione della mandibola dei rettili e i paleontologi hanno cercato per molto tempo di comprenderne i diversi, successivi stadi grazie ai quali è avvenuta questa “migrazione” verso l'orecchio interno dei moderni mammiferi. Secondo gli studiosi cinesi e statunitensi che hanno studiato i resti di Maotherium asiaticus, le ossa dell'orecchio medio dell'animale sono parzialmente simili a quelle dei mammiferi moderni, se si eccettua una connessione con la mandibola. Quest'ultima, nota anche come cartilagine di Meckel ossificata, somiglia a una formazione anatomica presente nei mammiferi allo stato embrionale e al primitivo orecchio medio dei loro antenati.
E non è tutto. In Sudamerica, 93 milioni di anni fa (alle 10.57 del 24 dicembre), si aggirava Cronopio dentiacutus, un animaletto di appena 10-15 centimetri di lunghezza, grande come uno scoiattolo; a differenza di quest'ultimo, aveva però due canini sviluppati come una tigre in miniatura. I resti di due crani di questo bizzarro essere sono stati trovati nel 2006 ad Allen, nella provincia argentina di Rio Negro. Esso apparteneva al gruppo dei driolestidi, imparentati alla lontana con i moderni mammiferi marsupiali, viveva in una pianura ricca di vegetazione vicino a un fiume e probabilmente era attivo di notte. Inoltre, ha il pregio di portare indietro di 60 milioni di anni la prova dell'esistenza dei mammiferi in Sudamerica. « È uno dei mammiferi più strani che abbia mai visto, sia tra quelli viventi che tra quelli estinti », ha confessato John R. Wible, direttore della sezioni mammiferi al Carnegie Museum di Storia Naturale. « Aveva lunghi denti, un muso stretto e grandi orbite. In pratica assomigliava a Scrat, lo scoiattolo dentato dei film della serie L'era glaciale ». Quando la realtà supera la fantasia...
La diversificazione dei placentati...
Fino a tempi recenti, sulla cronologia dell’avvento e della diversificazione dei mammiferi placentati rispetto all’estinzione di fine Cretaceo non c’era accordo tra i diversi studi, al punto che per descriverli sono stati elaborati ben tre diversi modelli. Il primo, chiamato modello esplosivo, colloca l’origine e la diversificazione dei placentati appena dopo il confine tra Cretacico e Cenozoico, come se l’origine dei mammiferi fosse una risposta all’estinzione dei dinosauri, che lasciò libere molte nicchie ecologiche. Il modello long-fuse (letteralmente “a miccia lunga”) invece pone l’origine dei mammiferi placentati nel periodo Cretaceo e la loro diversificazione appena dopo il confine tra Cretacico e Cenozoico. Il modello short-fuse (“a miccia corta”), infine, colloca l’origine e la diversificazione dei placentati nel Cretacico, quindi prima della grande estinzione. Il problema fondamentale nella definizione di questa cronologia è che non c’è accordo tra le datazioni basate sulle prove fossili e quelle basate sull’orologio molecolare, cioè sul tasso di mutazione genetica del DNA. Le prove supportano il modello esplosivo, perché tutte le linee filogenetiche moderne dei placentati appaiono nelle registrazioni fossili dopo la linea di demarcazione tra le due ere. Le analisi molecolari, al contrario, depongono tutte a favore di un’origine dei placentati nel Cretacico, anche se differiscono tra loro nella datazione della diversificazione.
Nell'estate 2017 però Shaoyuan Wu e Scott Edwards della Jiangsu Normal University di Xuzhou, in Cina, che hanno effettuato analisi molecolari su dati genomici di 82 specie di mammiferi, suggeriscono che al momento della catastrofe che pose fine all'era Mesozoica i mammiferi placentati erano già presenti sulla Terra, ma la diversificazione delle specie avvenne successivamente. Le nuove datazioni di Wu ed Edwards delineano così un nuovo modello cronologico che non corrisponde a nessuno dei tre modelli esistenti: le datazioni infatti differiscono sostanzialmente dalle precedenti stime basate basate sull’orologio molecolare e per molti aspetti sono maggiormente in accordo con le registrazioni fossili, fino quasi a eliminare le discrepanze. In questo nuovo modello, la diversificazione degli ordini placentati iniziò nel tardo Cretacico, circa 75,2 milioni di anni fa (alle 21.36 del giorno di Natale), continuò senza apparente interruzione attraverso il confine tra le due ere e terminò nella prima parte del Cenozoico, 55,3 milioni di anni fa circa (alle 12.21 del 27 dicembre) mente la diversificazione seguì rapidamente, sempre nel primo Cenozoico. In sintesi, la diversificazione dei mammiferi placentati iniziò mentre i dinosauri erano ancora sulla Terra, probabilmente in risposta a una precedente diversificazione delle piante con fiori, e continuò in modo costante durante e dopo la loro estinzione.
Non basta: nel maggio 2020 Alistar Evans, morfologo evoluzionista della Monash University di Melbourne, ha annunciato il ritrovamento nell'attuale Madagascar di un misterioso fossile di mammifero mesozoico, battezzato Adalatherium hui ma soprannominato "crazy beast" ("bestia matta"): era grosso suppergiù quanto un gatto ed è vissuto durante il periodo Maastrichtiana del Tardo Cretaceo, tra i 72 e i 66 milioni di anni or sono (tra le 03.50 e le 15.31 del 26 dicembre). La "bestia matta", che all'epoca abitava il continente di Gondwana, ci ha lasciato in eredità uno scheletro pressoché completo e ben conservato, il più completo fossile di un mammifero mesozoico mai visto, che potrebbe essere il più antico di tutto l’emisfero australe. L’evoluzione dell’Adalatherium hui è direttamente legata alla frammentazione del supercontinente Gondwana. Ma perché è "matto"? Perché dimostra un percorso evolutivo del tutto insolito, al di fuori di molte regole consolidate. Un animale "deragliato", insomma, a cominciare dallo specialissimo aspetto del cranio, dotato di molte aperture (più di quante ne abbiano di solito i mammiferi), che potrebbero avergli amplificato la sensibilità olfattiva. D’altro canto, il limitato sviluppo fisico in termini di evoluzione cozza con le sue dimensioni (3 chilogrammi di peso), decisamente abbondanti rispetto ai suoi contemporanei. E se non vi sono certezze sull’uso che l’Adalatherium faceva delle zampe ricurve, o sulla direzione presa dal progresso del suo apparato dentario, non ci sono dubbi che la sua scoperta getta una luce nuova sul territorio del Gondwana e sui segreti dei suoi abitanti.
...e la diversificazione dei loro pidocchi
Le analisi genetiche effettuate nel 2022 da alcuni ricercatori dell’Università dell’Illinois a Urbana-Champaign, dell’Università di Granada e della Stellenbosch University, in Sudafrica, su alcuni pidocchi dei mammiferi hanno permesso di tracciare l’albero filogenetico di questi parassiti. Il confronto fra le ramificazioni evolutive dei pidocchi e dei loro ospiti indica il momento in cui questi piccoli insetti hanno raggiunto i mammiferi e fornisce indizi su una storia evolutiva incredibilmente intricata, che dura da oltre 90 milioni di anni. Oggi sappiamo che essa è iniziata quando un antico pidocchio degli uccelli passò da ospiti aviari a un antenato degli afroteri (un superordine di mammiferi discendenti da un unico antenato africano, e che include oggi, fra gli altri, elefanti, procavie, toporagni elefante e talpe dorate), questa relazione è stata determinante per la comparsa delle specie di pidocchi dei mammiferi che oggi conosciamo. Ectoparassiti che vivono sulla superficie esterna del corpo degli ospiti, i pidocchi comprendono circa 5000 specie conosciute e oltre 1000 sono esclusive dei mammiferi. Studi precedenti suggerivano che la diversificazione dei pidocchi nei diversi lignaggi noti abbia seguito l’evoluzione dei loro ospiti, ma è sempre stato difficile ricostruirne l’albero evolutivo e il processo di coevoluzione, ossia il processo in cui due specie legate da uno rapporto di dipendenza evolvono insieme. Le difficoltà sono legate soprattutto alla grande diversità di questi parassiti e alla loro abilità nel cambiare ospite e parassitare specie diverse. Sequenziando il genoma di 33 specie di pidocchi trovati su diverse specie di mammiferi, gli autori della ricerca ne hanno ricostruito la filogenesi, confrontandola con le linee evolutive dei mammiferi ospiti. Le analisi indicano che i pidocchi degli afroteri sarebbero i più antichi fra tutti i pidocchi dei mammiferi.
Tutte le ricostruzioni riconoscono negli uccelli l’ospite ancestrale dei pidocchi. Ora abbiamo le prove che il salto da ospiti aviari a mammiferi è avvenuto poche volte nel corso della storia, e che il primo di questi salti sarebbe avvenuto circa 92 milioni di anni fa (circa alle ore 13 della Vigilia di Natale), interessando un antenato degli afroteri. Per stimare il momento del salto dei pidocchi ai mammiferi, gli autori hanno analizzato gli alberi filogenetici dei pidocchi e dei loro ospiti, risalendo fino al punto in cui la differenziazione dei pidocchi e dei mammiferi era simile. I ricercatori hanno poi osservato come da quel momento le ramificazioni del gruppo dei mammiferi, che iniziavano a differenziarsi in nuove forme, siano state spesso riprese anche dai pidocchi. Questo tipo di coevoluzione è risultato abbastanza frequente nella storia evolutiva di pidocchi e mammiferi, giacché i nodi dell’albero evolutivo dei mammiferi associati a un evento di cospeciazione dei loro parassiti sono più numerosi di quelli che si riscontrano, per esempio, lungo l’evoluzione degli uccelli. Secondo gli autori, questo fitto intreccio evolutivo è dovuto alla minor mobilità dei mammiferi, che renderebbe il cambiamento di ospite più difficile. Le analisi filogenetiche hanno inoltre permesso di individuare altri tre passaggi dei pidocchi dagli uccelli ai mammiferi. È successo ai roditori del Sud America, ad alcuni marsupiali e ai lemuri del Madagascar. I lemuri, per esempio, oltre ad aver acquisito i pidocchi da forme primitive di toporagno elefante, vengono parassitati anche da pidocchi del genere Trichophilopterus, che derivano da pidocchi delle piume degli uccelli. Nonostante questi eventi, il lignaggio dei mammiferi afroteri ha avuto un ruolo principale come ospite ancestrale dei parassiti dei mammiferi. Appena i pidocchi hanno imparato a nutrirsi dei mammiferi, sia masticandone la pelle e le secrezioni come fanno i masticatori, che succhiandone il sangue perforandone la pelle come fanno i succhiatori, è stato facile per loro passare da una specie di mammifero all’altra: gli autori hanno individuato nel corso della loro storia evolutiva almeno 15 passaggi da un ospite mammifero a un altro, anche se serviranno ulteriori studi per definire a pieno la storia in comune dei pidocchi e dei loro ospiti.
Cervello di dinosauro
Morì 133 milioni di anni fa (alle 5 di mattina del 21 dicembre), sprofondando a testa in giù in una palude: una fine davvero ingloriosa per un iguanodonte, il dinosauro erbivoro per eccellenza al quale abbiamo già accennato sopra, ma un colpo di fortuna per i paleontologi moderni, e in particolare per il cacciatore di fossili Jamie Hiscocks, che lo ha ritrovato nel 2004 perlustrando le spiagge di Bexhill, città del Sussex a circa 80 chilometri a sud-est di Londra. Infatti in quell'ambiente acido e privo di ossigeno una parte del suo cervello, schiacciato contro la parete superiore della cavità cranica, non si decompose: fosfati e carbonati rimpiazzarono le sostanze organiche di cui era composto, trasformandolo in un minerale di forma uguale a quella originaria.
La superficie rugosa di questo fossile ha insospettito gli studiosi, finché un'equipe anglo-australiana ha individuato sulla volta cranica tracce mineralizzate di vasi sanguigni e di tessuto cerebrale di dinosauro. « Ho il sospetto che si tratti della cosa più simile ad un vero cervello che riusciremo mai a trovare », ha dichiarato in proposito il paleontologo David Norman dell'Università di Cambridge, che ha studiato a fondo tale fossile, « perchè la conservazione dei tessuti molli è molto rara, necessitando di particolari condizioni chimiche, che raramente si verificano ». Una cosa è certa: si tratta del primo reperto al mondo di questo tipo: ancora troppo poco per capire quanto fosse effettivamente grosso il cervello dei sauri preistorici, ma sufficiente, secondo gli esperti, ad ipotizzare che fossero intelligenti almeno quanto gli attuali coccodrilli.
Il cervello fossile ritrovato da Jamie Hiscocks |
Una Pompei del Cretacico
Come hanno scoperto nel 2013 i paleontologi dell'Università di Nanjing e dell'American Museum of Natural History di New York, l'incredibile stato di conservazione dei fossili del Cretacico scoperti nel sito di Jehol, nella Cina nord orientale, grazie a cui è possibile osservare anche particolari di tessuti molli, è dovuta a una catastrofica eruzione che, come avvenne a Pompei il 25 agosto del 79 dopo Cristo, ha fissato nell'istante della morte gli organismi investiti dal magma incandescente. Jehol è un'eccezionale miniera di fossili di dinosauri, mammiferi, uccelli e piccoli rettili che vivevano in un paesaggio di laghi e foreste di conifere nella Cina nord-orientale del Neocomiano, il primo periodo del Cretacico, fra i 130 e i 120 milioni di anni fa (tra le 10.56 del 21/12 e le 06.24 del 22/12). I fossili qui repertati mostrano caratteristiche raramente osservabili in fossili trovati in altre aree del pianeta: sono chiarissime le tracce dei tessuti molli, come quelli dei muscoli, degli occhi e perfino di organi interni, e delle strutture cutanee come scaglie, piume, peli.
La straordinaria conservazione di questi fossili era già stata attribuita a fenomeni vulcanici, ma rimanevano dei dubbi, a causa dell'anomala struttura geologica degli strati in cui erano contenuti: alcuni fossili, per esempio, si trovavano in strati di origine sedimentaria e non in quelli, pure vicinissimi, di origine piroclastica, ovvero prodotti da eruzioni; inoltre gli scavi avevano mostrato la presenza contemporanea di organismi acquatici e terrestri e, fra questi ultimi, di animali che vivevano in habitat diversi della regione. La conferma della responsabilità di fenomeni vulcanici nella morte e nella conservazione dei fossili di Jehol è arrivata ora grazie all'analisi comparativa della composizione non solo della matrice rocciosa in cui erano conservati e degli strati adiacenti, ma anche dei fossili stessi. Per questi ultimi, l'analisi è stata effettuata su 14 frammenti di specie diverse di fauna terrestre di minore interesse, dato che lo studio implicava la distruzione del campione. Questo ha permesso di rilevare chiare tracce di un'antica carbonizzazione dei tessuti degli animali, molto simili a quelle associate alle vittime di Pompei! La presenza di differenti tipi di fauna sarebbe dunque imputabile all'imponente flusso piroclastico che deve aver caratterizzato l'evento, le cui proporzioni sono paragonabili a quelle del Krakatoa del 27 agosto 1883 o del Monte St. Helens del 18 maggio 1980, che sono annoverate tra le più distruttive della storia. Questa circostanza fa della formazione di Jehol uno dei più importanti depositi fossiliferi del mondo; e, considerato che tutta quella regione è stata caratterizzata da imponenti fenomeni di vulcanismo, la scoperta fa sperare che ulteriori campagne di scavo possano mettere il luce nuovi ricchi depositi di fossili altrettanto ben conservati.
Il dinosauro nuotatore
Nel film "Jurassic Park 3" c’è una scena in cui uno spinosauro combatte con un tirannosauro, e il primo inaspettatamente vince. Ma chi era davvero, lo spinosauro? Fino a poco tempo fa di esso si avevano solo idee sbagliate: lo scontro cinematografico suddetto avviene sulla terraferma, ma ben difficilmente ciò potrebbe essersi verificato nella realtà. Infatti lo spinosauro è il primo dinosauro nuotatore (da non confondere con ittiosauri e plesiosauri) mai scoperto, ed anche il più grande dinosauro predatore. Circa 20 tonnellate, oltre 15 metri di lunghezza: lo spinosauro è risultato più grande (di 2,70 metri) persino del leggendario Tyrannosaurus rex! Questa scoperta la dobbiamo a paleontologi della National Geographic Society, che ha finanziato la ricerca, alla quale l’Italia ha dato un importante contributo con i paleontologi Cristiano Dal Sasso e Simone Maganuco, del Museo di Storia Naturale di Milano, insieme a Matteo Fabbri dell’Università di Bristol e Dawid Iurino dell’Università La Sapienza di Roma.
Lo Spinosaurus aegyptiacus fu scoperto in Egitto nel 1912 dal paleontologo tedesco Ernst Stromer von Reichenbach (1870-1952), ma gran parte delle ossa erano andate distrutte a Monaco nel 1944 in un bombardamento durante la seconda guerra mondiale. Grazie al Cielo nel 2008 nel deserto del Kem Kem, nel Marocco sudorientale, è venuto alla luce un nuovo scheletro; esso purtroppo era mancante della coda, ma nel corso di successive campagne di scavo, nel 2019 anch'essa è saltata fuori. dimostrando che lo Spinosauro viveva e cacciava prevalentemente in acqua, nei grandi fiumi che 95 milioni di anni fa (alle 7 di mattina del 24 dicembre) attraversavano la foresta tropicale in quello che è oggi il Nord Africa. « Lavorare su questo animale è stato come studiare un alieno: è diverso da qualsiasi altro dinosauro che abbia mai visto », ha detto il coordinatore dello studio, Nizar Ibrahim. Cruciale per la ricostruzione è stato l'enorme muso fossile conservato nel Museo di Storia Naturale di Milano; il cranio di spinosauro ivi conservato è infatti il più completo al mondo. « Eravamo incuriositi dai grandi pori sulla punta del muso », ha spiegato Cristiano Dal Sasso. « Per capire dove proseguivano all’interno delle ossa abbiamo eseguito una Tac, e questa ha rivelato una complessa rete sensoriale: un vero e proprio sonar che il dinosauro usava per localizzare i pesci e le altre prede anche in acque torbide e fangose, proprio come fanno i coccodrilli! » « Che lo spinosauro trascorresse gran parte del tempo in acqua ci viene confermato anche dall'anatomia del nuovo scheletro », aggiunge Simone Maganuco. « Le ossa erano dense e compatte, come quelle dei pinguini, e le gambe corte ma robuste, con piedi larghi e piatti, probabilmente palmati: erano perfette per il nuoto. » Grandi fasci muscolari erano presenti anche alla base della coda, mentre lunghe spine, sia sopra che sotto le vertebre, la rendevano alta e piatta come un lungo nastro. I potenti muscoli e le articolazioni flessibili permettevano allo spinosauro di muovere la coda lateralmente con un moto ondulatorio molto potente, come fanno i moderni coccodrilli e alcuni anfibi. Secondo i ricercatori, la coda dello spinosauro costituisce una prima e inequivocabile prova che i dinosauri privi di penne non abitassero sulla sola terraferma. A un certo punto della loro storia, alcuni di loro si spinsero oltre: come il capodoglio per i mammiferi, anche il più grande dei dinosauri predatori era un animale acquatico.
Lo Spinosauro sul dorso aveva una struttura con ossa lunghe oltre due metri, adatte a sostenere una grande "vela" che un tempo era ritenuta funzionale al riscaldamento del corpo al sole; oggi si pensa che più probabilmente servisse come richiamo sessuale. Finora infatti si riteneva che i dinosauri fossero animali prevalentemente terrestri con brevi passaggi in acqua; invece la nuova scoperta dimostra che avevano colonizzato anche i fiumi e i laghi della terraferma, dato che le narici posizionate in alto nel muso di mostrano che lo spinosauro era in grado di immergersi. Secondo gli autori della ricerca probabilmente faceva il nido e deponeva le uova sulla terraferma, dove però si muoveva con maggiore difficoltà a causa delle due zampe anteriori con potenti artigli ricurvi, più adatte alla cattura in acqua che alla deambulazione sul terreno Paul Sereno dell’Università di Chicago, co-autore dello studio, si è spinto ad affermare che l’area dove viveva lo spinosauro era forse « la più pericolosa della storia del pianeta »: nella zona sulla terraferma vivevano infatti tre predatori giganti delle dimensioni del T- Rex, nei fiumi e nei laghi c'era lo spinosauro e sei o sette specie di coccodrilli gigante, nei mari vivevano squali lunghi 8 metri e nell’aria gli pterodattili! Decisamente non il luogo ideale per un'allegra scampagnata foris portas!!
Il dinosauro dromedario
Tra i dinosauri più curiosi vissuti nel Cretaceo c'è anche il cosiddetto "dinosauro dromedario", vissuto 130 milioni di anni fa (alle 10.56 del 21 dicembre) e scoperto nel 2010 in Spagna, a Cuenca, da cui il suo nome Concavenator corcovatus ("il cacciatore gibboso di Cuenca”). Come si vede nella ricostruzione soprastante, opera di Raúl Martín, questo mostro lungo sei metri sfoggiava una grossa "gobba" sulla schiena, oltre a "bastoncini" puntuti simili a penne sugli arti superiori. Secondo i ricercatori era probabilmente un ottimo corridore, ed è probabile che si nutrisse di dinosauri più piccoli, coccodrilli e mammiferi preistorici. Quanto alla sua stramba gobba, secondo il paleontologo Francisco Ortega della Universidad Nacional de Educacíon a Distancia di Madrid, è possibile che fosse costituita da un ammasso di tessuto carnoso per immagazzinare il grasso, proprio come nei dromedari. In alternativa, ipotizza Ortega, la gobba potrebbe aver svolto una funzione ornamentale, magari per la conquista della femmina intimidendo i rivali; o ancora, poteva forse servire a distribuire il calore e a regolare la temperatura corporea.
Concavenator corcovatus, ricostruzione di Raúl Martín
Le stranezze del Concavenator non si limitavano alla gobba, ma anche alle strane "protopenne”, un tratto riscontrabile anche in alcuni uccelli moderni, in cui queste strutture fanno da base per le grandi penne remiganti. Secondo Ortega, nei dinosauri non volatori queste strutture simili a penne potrebbero aver contribuito al controllo della temperatura corporea e a rendere i suoi attacchi più veloci, magari consentendogli brevi "planate", ma Concavenator corcovatus pesava una tonnellata, ed è assai improbabile che poche "protopenne” (probabilmente filamenti corti e rigidi) potessero essere di alcun aiuto nella dispersione del calore o nei suoi movimenti. L'unica spiegazione possibile è che fungessero da ornamento per il corteggiamento delle femmine. Concavenator corcovatus era un esponente dei carcarodontosauridi ("lucertole dai denti da squalo"), un gruppo di dinosauri che in seguito diede origine, lontano dall'Europa, a massicci predatori provvisti di zanne. « Dieci anni fa si pensava che i carcarodontosauridi fossero un gruppo limitato all'America del Sud e all'Africa », ha spiegato Ortega, « ma con la scoperta di questo fossile ora riteniamo che questo gruppo si sia inizialmente evoluto in Europa. »
Parlando di dinosauri europei, pare che il Velociraptor, noto soprattutto grazie alla saga di "Jurassic Park", avesse uno strano cugino europeo, un dinosauro carnivoro vissuto circa 70 milioni di anni fa (alle 7.44 del 26 dicembre), con doppi artigli ai piedi, scoperto dai ricercatori dell'Università di Bucarest che lo hanno battezzato Balaur bondoc, dal nome di un dragone del folklore rumeno. La scoperta è importante perché si tratta del più completo fossile di predatore europeo del gruppo dei teropodi vissuto nel Tardo Cretacico mai rinvenuto finora. La scoperta è stata compiuta dal paleontologo rumeno Mátyás Vremir della Transilvania Society Museum di Cluj-Napoca, il quale ha riportato alla luce un arto inferiore ed entrambi i superiori, le zampe, l'anca, la colonna vertebrale, le costole e le ossa della coda. Tra le peculiarità di questo strano drago, che sembra davvero uscito da una leggenda della Transilvania, vi è la presenza di due grandi artigli sulle prime due dita del piede, che appare corto e tozzo come le gambe ("bondoc" in rumeno significa "tozzo"), e che presenta alcune ossa fuse insieme. L'osso pelvico, inoltre, ha un'enorme area per l'attacco dei muscoli. La mano risulta atrofizzata (anche qui alcune ossa sono fuse), e quindi l'animale doveva incontrare difficoltà nell'afferrare le prede.
In base ai dati stratigrafici sappiamo che nel Tardo Cretacico l'Europa era costituita da un arcipelago; finora si credeva che esse fossero abitate da animali più piccoli rispetto a quelli sulla terraferma. La scoperta del nuovo rettile, di dimensioni simili alla fauna continentale, sembra ora mettere in discussione questa convinzione. « La parentela di questo predatore con il Velociraptor e con i dinosauri piumati della Cina suggerisce che l'Europa abbia avuto degli scambi faunistici con l'Asia e con il Nord America », ha concluso Vremir.
Dinosauri nostrani
Un tempo si pensava che in Italia non fosse possibile ritrovare alcun resto di dinosauro, perchè all'epoca la nostra penisola non esisteva ancora: le sue montagne si sarebbero sollevate solo in seguito all'Orogenesi Alpina, dopo la fine del Mesozoico, e nel Giurassico al posto di esse c'era solo una serie di isole sabbiose, simili alle nostre Maldive. Negli ultimi anni tuttavia le scoperte di dinosauri "nostrani" si sono susseguite a ritmo incalzante. Uno dei casi più noti è rappresentato da "Antonio", dinosauro i cui resti furono rinvenuti nel 1999 da Fabio Dalla Vecchia nel sito del Villaggio del Pescatore presso Trieste, e conservato nella sezione di paleontologia del locale. A dieci anni dalla scoperta esso è stato riconosciuto dalla prestigiosa rivista scientifica internazionale "Journal of Vertebrate Paleontology" come capostipite di una nuova specie di dinosauro chiamata Tethysadros insularis, appartenente alla famiglia degli Adrosauri. « A parte le singolari caratteristiche morfologiche di Antonio che hanno dato il nome a una nuova specie di dinosauro », ha spiegato Dalla Vecchia, attualmente ricercatore all'Institut Català de Paleontologia di Barcellona, « il fossile scoperto nelle rocce del Villaggio del Pescatore è unico, in quanto uno dei più completi e articolati al mondo ». Infatti, la maggior parte degli esemplari che si trovano nei musei di storia naturale sono il risultato di un lavoro di assemblaggio delle singole parti sparpagliate nei siti fossilliferi, mentre lo scheletro del Tethysadros di casa nostra, è stato trovato incastonato nella roccia carsica con tutte le parti dello scheletro al loro posto e complete.
"Antonio" era un dinosauro vegetariano di circa un metro e trenta di altezza per 4 metri di lunghezza, vissuto 70 milioni di anni fa, vale a dire poco prima dell'estinzione della specie. Diversamente dai suoi cugini del Nord America e dell'Asia che popolavano zone continentali, il suo habitat era un'isola relativamente piccola situata tra l'Africa e il Nord Europa. I suoi antenati raggiunsero l'Arcipelago Italiano migrando dall'Asia nel corso di milioni d'anni "saltando" di isola in isola, per arrivare sino da noi nell'alto Adriatico.
Un altro dinosauro "nostrano" scoperto nel 1993 è il Besanosaurus leptorhyncus, un ittiosauro vissuto 235 milioni di anni fa, dunque nel Triassico, epoca in cui la provincia di Varese (in cui si trova il comune di Besano, da cui il nome del fossile) era occupata da un mare tropicale. Una ricostruzione tridimensionale (diorama) del Besanosaurus è presente in una sala del Museo Civico di Storia Naturale di Milano, che vi invito caldamente a visitare. Questo animale era una femmina gravida di quattro embrioni, lunga quasi sei metri, dotata di un becco sottile (questo è il significato di "leptorhyncus") e di una coda appiattita e nastriforme; la sua dieta era probabilmente costituita da molluschi cefalopodi e piccoli pesci.
Terzo esempio di dinosauro delle nostre parti è Scipionyx samniticus, il primo dinosauro ritrovato in Italia, precisamente nel 1980 a Pietraroja, in provincia di Benevento, ad opera di Giovanni Todesco e di sua moglie; il suo scheletro è stato ribattezzato "Ciro" ed è conosciuto in tutto il mondo per l'eccezionale conservazione degli organi interni: l'intestino, resti dell'ultimo pasto, il fegato, la trachea, gli occhi, persino fasci di fibre muscolari. Il nome scientifico gli è stato attribuito in onore del geologo Scipione Breislack (1750-1826), il primo a segnalare la presenza di pesci fossili nei dintorni di Pietraroja nel 1798. Probabilmente lo scheletro apparteneva ad un cucciolo trascinato in acqua durante un'alluvione e morto annegato 113 milioni di anni fa (alle venti del 22 dicembre). Da adulto avrebbe raggiunto la lunghezza di almeno due metri per un metro e mezzo di altezza ed il peso di circa 20 kg; si pensa fosse affine al più famoso Velociraptor. Nel 2011 i ricercatori Cristiano Dal Sasso e Simone Maganuco, del Museo di Storia naturale di Milano, dopo cinque anni di Tac, fotografie in luce ultravioletta ed esplorazioni al microscopio elettronico hanno concluso che "Ciro" è davvero uno dei dinosauri meglio conservati al mondo, presentando un'inuguagliabile varietà di tessuti molli, molti dei quali mai visti in alcun altro dinosauro: legamenti intervertebrali, cartilagini articolari nelle ossa delle zampe, muscoli e connettivi del collo, parte della trachea, residui dell’esofago, tracce del fegato, l’intero intestino, vasi sanguigni mesenterici, capillari ramificati, fasci muscolari degli arti posteriori e della coda composti da cellule ancora perfettamente striate, addirittura i batteri che colonizzavano l'intestino! Ancora più stupefacente appare il fatto che alcuni elementi chimici una volta utilizzati dalle cellule vive, come il ferro accumulato nell'emoglobina del sangue, non sono stati rimossi dalle acque che travolsero il povero "Ciro", ma vennero incorporati nei cristalli di limonite che formano una grande macchia rossa, presente nel torace del piccolo dinosauro. Queste ricerche permetteranno di confrontare la morfologia dei tessuti molli dei dinosauri con le analoghe strutture biologiche osservabili nei vertebrati oggi viventi, e pertanto "Ciro" è destinato a far parlare di sé ancora per molto.
Affine al temibile Allosauro, ma assai più antico (almeno 200 milioni di anni fa) era invece il Saltriosauro, un altro dinosauro "varesino" (come l'autore di questo sito) scoperto nel 1996 nel comune di Saltrio, e sicuramente il più grande tra i dinosauri carnivori scoperti nel nostro paese (misurava almeno 8 metri); se volete, potete cliccare qui cliccare qui per leggere un articolo ad esso dedicato. Invece, da questo link potrete scaricare alcune pagine di un libro dell'amico Carlo Pontesilli, dedicato al ritrovamento in Valcellina, in provincia di Pordenone, di alcune orme di un dinosauro teropode. Siamo dunque un paese di santi, poeti, navigatori e... di bestioni mesozoici!
E non è tutto. Negli anni ottanta, all'interno di una cava di marmo ammonitico nella frazione di Kaberlaba, nel comune di Asiago (Vicenza), sono stati scoperti resti fossili che nel 2013 Andrea Cau e Federico Fanti, paleontologi dell'Università di Bologna, hanno attribuito ad un plesiosauro di 160 milioni di anni fa (le 00.32 del 18 dicembre), il primo ritrovato nel nostro paese e uno dei pochi rinvenuti in Europa meridionale in Veneto. Si trattava di un rettile marino di circa quattro metri, con la testa grande e allungata, una settantina di denti conici, un corpo idrodinamico e di arti a forma di pinne. Lo scheletro, in buono stato di conservazione (sono presenti circa 70 ossa), ha permesso di stabilire che esso era membro della famiglia Pliosauridae, e di ricostruire fedelmente l'aspetto originario dell'animale in vita. Il fossile risale all'inizio del Giurassico Superiore, quando buona parte del territorio italiano non era ancora emerso dal mare: gli strati rocciosi da cui è stato estratto il fossile sono infatti l'antico fondale marino giurassico sollevatosi con la formazione della catena alpina. Questo studio conferma che l'Italia ha un patrimonio paleontologico sottostimato e ancora in buona parte inesplorato.
Non si può non citare in questa sede il ritrovamento di tre orme di dinosauro all'interno della galleria del Monte Buso, nel massiccio del Pasubio, che letteralmente riscrive la paleogeografia italiana. Per quanto ne sapevamo finora, lì non potevano esserci: nel Giurassico si ipotizzava che quel territorio fosse sommerso, con al limite basse distese fangose a pelo d'acqua. Come spesso avviene con le scoperte importanti, anche questa è avvenuta per caso, quando Marco Avanzini, responsabile della sezione di geologia del Museo Tridentino di Scienze Naturali, ha studiato la volta della galleria nel massiccio del Pasubio, scavata dagli Austriaci durante la prima guerra mondiale per collegare le retrovie alla prima linea, e ha riconosciuto tre orme di Dilofosauro, un dinosauro che misurava sette metri di lunghezza. Già nel 1990, nella zona detta Lavini di Marco, nel Trentino meridionale, erano state individuate orme di dinosauri che sembravano confutare i modelli tradizionalmente accettati. I ritrovamenti, proseguiti negli anni seguenti, hanno identificato orme di varie forme e dimensioni in un'area compresa tra la Valle dell'Adige e Feltre, denominata dai geologi "Piattaforma di Trento", dimostrando che nel Giurassico esso non offriva un paesaggio marittimo, bensì era costituito in gran parte da terre emerse. Per assistere al suo sprofondamento, così come descritto dai modelli tradizionali, l'orologio geologico doveva essere spostato in avanti di parecchi milioni di anni, fino alla fine del periodo Giurassico. Ma c'è di più. I due animali che hanno lasciato traccia del loro passaggio (dinosauri carnivori bipedi di medie dimensioni: due metri di altezza, 7-8 di lunghezza, 400 kg di peso) risultano imparentati con esemplari del Centro e Nord Europa, e non con quelli africani. Se tutto questo sarà confermato, risulterà che la Piattaforma di Trento apparteneva all'Eurasia e non al continente africano, come finora ritenuto. Si pensava infatti che la Pangea, frammentandosi, avesse trascinato il futuro territorio alpino verso sud, separandolo dall'Eurasia tramite un profondo braccio di mare. I dinosauri giurassici dell'Italia, di conseguenza, dovevano presentare affinità con quelli africani. Ma di prove in questo senso non se ne sono mai trovate, ed anzi ora sono emerse quelle contrarie: « Se confrontate con quelle coeve », ha dichiarato Avanzini, « le orme del Monte Buso mostrano indiscutibili analogie con quelle rinvenute in Polonia, in Francia, in Scandinavia e in Nordamerica. Insomma, i dinosauri giurassici delle Alpi erano dinosauri europei ». È ancora da accertare quali fossero le aree di connessione tra la Piattaforma di Trento e l'Eurasia. Ma la strada verso una piccola rivoluzione geografica è ormai sgombra.
E non basta. Nell’agosto 2013 il paleontologo Marco Petruzzelli, specializzato in icnologia, ossia quella branca della paleontologia che studia le impronte fossili degli animali, ha compiuto una scoperta eccezionale nel parco naturale regionale di Lama Balice, nel territorio del comune di Bari, a ridosso della periferia del quartiere San Paolo. All’interno di una cava di proprietà dell'imprenditore Dante Mazzitelli, Petruzzelli si è imbattuto in un giacimento di circa 10.000 orme di dinosauri, con tre o quattro impronte per metro quadrato. « Sono rimasto senza parole », ha dichiarato Petruzzelli: « Sotto i miei piedi, al centro della cava, c'erano i resti di una spianata di marea fossilizzata nel periodo Cretaceo. E, nel mezzo, centinaia e centinaia di impronte: diverse sono organizzate in piste che ricalcano proprio una serie di camminate di dinosauri, sia di specie erbivore che carnivore. Allo stato attuale è necessario », ha continuato Petruzzelli, « mettere in luce queste orme, coperte dal terriccio, per una precisa determinazione delle specie che hanno calpestato Lama Balice. Dagli elementi finora raccolti possiamo supporre che qui, circa cento milioni di anni fa, siano passati grandi dinosauri dal collo allungato, i Sauropodi, ma anche quadrupedi corazzati (Anchilosauri) e carnivori di medie dimensioni (Teropodi) ». La circostanza, poi, che il giacimento, esteso su una superficie stimata di 3.500 metri quadrati, sia a un tiro di schioppo dalla città, evidenzia da sé la portata della scoperta. Sono 28 fino ad oggi in Puglia i ritrovamenti di orme di dinosauri, localizzati nelle aree di 14 diverse città e, adesso, per la prima volta a Bari. Anche se, in realtà « alcune impronte appartenenti a dinosauri sono state ritrovati in una serie di blocchi di calcare impiegati come frangiflutti sia a Marisabella che nei porticcioli di Torre a Mare e Santo Spirito. Fatto sta che, tuttavia, nessun sito è mai stato fino ad oggi musealizzato. Questa scoperta a Lama Balice aggiunge un altro tassello alla documentazione paleontologica meridionale, permettendoci di immaginare milioni di anni fa una Puglia unita all'Africa. Sono proprio le orme dei dinosauri a suggerirci una connessione con il continente africano ».
Aggiungiamo un'altra eccezionale scoperta, che
nel 2014 sulla stampa locale ha dato luogo a titoli del tipo « Jurassic Romagna
»,
essendo avvenuta in una cava romagnola ed essendo stato rinvenuto il più grande rettile fossile
mai scoperto in Italia. Si tratta In particolare il
fossile consiste nella parte anteriore del cranio di un mosasauro, un animale
marino gigantesco: dalla punta del muso
a quella della coda misurava più di 11 metri, aveva una testa lunga un metro e
mezzo e gli aguzzi denti lunghi fino a 10 centimetri. Questi ultimi mostrano i segni di usura tipici dei grandi predatori, come le orche, e confermano che questo animale era in grado con il suo morso di frantumare le ossa delle sue
prede. Il merito della scoperta va a Paolo Giordani, cercatore amatoriale di fossili, che nel 2010 in una cava di
Secchiano (presso
Novafeltria) si imbatté in un grande blocco dal quale fuoriuscivano
enormi denti
fossili. La segnalazione arrivò all'attenzione dei geologi Loris Bagli e
Maria Luisa Stoppioni, del Museo della Regina di
Cattolica, che per primi si sono fatti garanti della tutela del
reperto, poi studiato da Federico Fanti del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell'Università di
Bologna. Lo studio
dettagliato dei microfossili contenuti nelle rocce (note come argille scagliose e distribuite su ampie zone della dorsale appenninica) ha permesso ad Alessandra Negri di datare il fossile alla fine del Cretaceo, circa 75 milioni di anni
fa (le 22 in punto della sera di Natale). Il
mosasauro era perfettamente
adattato all'ambiente acquatico: le zampe erano trasformate in pinne e la coda era lunga e appiattita lateralmente
(era dotato di ben 80 vertebre caudali). Era però privo del collo lunghissimo
tipico dei plesiosauri. Il mosasauro era un feroce predatore armato di denti molto
robusti e ricurvi all'indietro; poteva essere lungo una quindicina di metri e pesare fino a 10 tonnellate.
Il mosasauro tra l'altro fu tra i
primi dinosauri ad essere riconosciuto come tale; il suo nome deriva dal fiume
Mosa, nei cui pressi in Olanda furono ritrovati i suoi resti nel 1770, e la specie tipo,
Mosasaurus hoffmannii, prende il nome dal medico J.L.
Hoffmann (1710-1782), che per primo li ha riportati alla luce. Il
mosasauro era diffuso su tutto il pianeta, dato che ne sono stati trovati resti
fossili in Europa, Africa, Giordania, Nordamerica, Nuova Zelanda e Antartide, ma
mai prima di questa scoperta ne erano stati rivenuti esemplari nel nostro paese.
Il fossile di mosasauro ritrovato presso Novafeltria |
Altre impronte di dinosauri italiani sono venute alla luce nel 2016 in Abruzzo, sul Monte Cagno in provincia dell’Aquila. Si tratta in particolare dell'impronta del più grande di dinosauro bipede vissuto in Italia, essendo lunga ben 135 centimetri L'animale doveva essere lungo almeno sette metri e visse 120 milioni di anni fa (alle 6.25 del 22 dicembre) in un ambiente simile alla Bahamas di oggi; intorno alle sue impronte ce ne sono altre che potrebbero appartenere a vari esemplari . La scoperta è stata fatta per caso da Fabio Speranza dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia nel 2006, ma la zona era inaccessibile e quindi si è dovuto aspettare nel 2016 l'arrivo delle nuove tecnologie dei droni per riuscire a indagare le impronte scattando centinaia di fotografie. « Arrivare al risultato non è stato facile », ha precisato Speranza, « perché il luogo è impervio a oltre 1.900 metri d’altezza e privo di neve solo nella stagione estiva ». Un risultato, il suo, veramente eccezionale.
E ora, la ciliegina sulla torta. Nel dicembre 2021 è stata resa nota la scoperta di un intero branco di dinosauri italiani in perfetto stato di conservazione. Il ritrovamento risale agli anni Novanta ed è avvenuto in prossimità dell'area archeologica del Villaggio del Pescatore, nel comune di Duino-Aurisina, a pochi chilometri da Trieste. Questi straordinari scheletri appartengono alla specie Tethyshadros insularis, un dinosauro erbivoro, risalgono a circa 80 milioni di anni fa (alle 12.16 del giorno di Natale) e rappresentano i più grandi e completi fossili di dinosauro mai rinvenuti in Italia. Sono stati individuati almeno sette esemplari, ma non si esclude che possano essere anche undici. E i dinosauri non sono gli unici animali fossili recuperati in quello che viene definito un vero e proprio cimitero di fossili: pesci, coccodrilli, rettili marini e persino piccoli crostacei hanno permesso di ricostruire una straordinaria immagine di questo antico ecosistema. La scoperta mette in discussione alcune ipotesi avanzate negli anni precedenti, quando si pensava che l'area che oggi è il Villaggio del Pescatore fosse un'isola nel mezzo dell'oceano Tetide: nel Cretacico tale area si affacciava sì sulla Tetide, ma era connessa con l'Europa occidentale e con l'Asia. Questo significa che l'antica area Mediterranea non era caratterizzata solo da isole, ma anche da ampie zone emerse che rappresentavano vie migratorie per i grandi animali terrestri. Molti di questi reperti possono essere ammirati al Museo Civico di Storia Naturale di Trieste.
Vale la pena di chiudere con una storia che, purtroppo, non ha alcun happy end. Tridentinosaurus antiquus è il nome dato ai resti di una piccolo rettile simile a una lucertola di 280 milioni di anni fa (alle 6.56 del 9 dicembre), perfettamente conservati, persino con la traccia carbonizzata della pelle sulla roccia: uno dei più antichi rettili fossili conosciuti in assoluto. Nel 1932 il geologo Giambattista dal Piaz (1904-1995) parlò di un rettile fossile raccolto l’anno prima al Passo del Redebus, vicino alla località trentina di Stramaiolo, ma solo nel 1959 il suo collega Piero Leonardi (1908-1998) lo descrisse come un fossile assai ben conservato, con il corpo scuro a contrastare nettamente con la chiara arenaria tufacea in cui era incastonato. Curiosamente però proprio questo corpo così visibile sembrava nascondere i dettagli dello scheletro, con l’eccezione delle ossa delle zampe posteriori. Per decenni Tridentinosaurus è stato dunque un paradosso: un fossile eccezionale, che avrebbe potuto rivelare dettagli importanti sull’evoluzione dei vertebrati, eppure difficile da interpretare e dissimile da ogni altro fossile della zona, che si colloca in un periodo cruciale perché diverse linee di rettili si sono probabilmente originate intorno a quel periodo: lucertole, coccodrilli, dinosauri... Purtroppo però nel 2024, durante un’analisi del fossile allo scopo di comprenderne l’eccezionale preservazione, la paleontologa Valentina Rossi, a capo di un ampio team di colleghi del Museo di Scienze Naturali dell’Alto Adige, del MUSE di Trento, dell’Università di Padova e dell’Università di Cork in Irlanda, si è accorta che gran parte di Tridentinosaurus è... un falso. Infatti il fossile di Tridentinosaurus è fluorescente ai raggi ultravioletti, mentre altri resti fossili di piante della stessa zona non fanno niente del genere. Inoltre il fossile sembrava coperto da uno strato lucido artificiale. All’inizio i ricercatori hanno pensato a una vernice trasparente applicata per proteggere il fossile, ma l’analisi chimica ha dimostrato che invece quella era vernice, un pigmento ottenuto carbonizzando le ossa degli animali. In altre parole, il corpo di Tridentinosaurus è stato dipinto sulla roccia. Un fulmine a ciel sereno, per i paleontologi. Per fortuna, l'analisi ha anche rivelato cosa c'è di reale: « Del Tridentinosaurus ora sappiamo che parte delle ossa lunghe delle zampe posteriori (i femori e il complesso tibia-fibula), sono preservate e abbiamo anche evidenza di piccoli osteodermi, cioè squame ossee, simili a quelle dei coccodrilli », ha dichiarato Valentina Rossi. Certamente Tridentinosaurus fu falsificato prima del 1959, probabilmente non con scopi malevoli ma per questioni di abbellimento espositivo; ma (come dimostra il caso dell'Uomo di Piltdown) quello dei falsi è un problema molto attuale in alcune nazioni del mondo, dove i fossili vengono considerati beni di lusso: ciò nel tempo ha creato un vero e proprio mercato nero ed illegale, che incentiva la fabbricazione di fossili falsi, poi esportati e venduti nelle mostre. Ovviamente le moderne tecnologie oggi ci aiutano a riconoscerli, e moltissimi musei nel mondo lavorano alla revisioni di collezioni storiche, per distinguere i falsi dai fossili autentici, tanto che oggi si patla addirittura di "paleoetica", che ha l'obiettivo di sensibilizzare i governi a proteggere quello che dovrebbe essere considerato il bene culturale per eccellenza, ovvero la testimonianza della nostra storia evolutiva e geologica. Ovviamente il caso del Tridentinosaurus non deve mettere in discussione il valore del patrimonio geologico italiano, da cui provengono fossili di importanza scientifica mondiale. Come ha aggiunto Valentina Rossi, « noi possediamo un patrimonio paleontologico inestimabile che potrebbe competere con quello storico e artistico, con un potenziale geoturistico e culturale unico. Tuttavia, al momento, questo patrimonio viene trascurato a causa di una scarsa sinergia tra cultura e politica. »
La pelle del dinosauro
Circa 70 milioni di anni fa (alle 7.44 del 26 dicembre) nell'attuale North Dakota dei dinosauri carnivori sbranarono un Edmontosauro, un quadrupede erbivoro del gruppo degli adrosauri, e a sorpresa alcune porzioni di pelle si fossilizzarono. Stephanie Drumheller, dell'Università del Tennessee a Knoxville, ha esaminato la pelle fossile del dinosauro, e si è chiesta se questo tessuto non sia sopravvissuto al trascorrere di milioni di anni più spesso di quanto si ipotizzasse finora. Il fossile viene dalla Formazione di Hell Creek, e comprende diversi frammenti di pelle della zampa anteriore destra, delle zampe posteriori e della coda; si sono conservate anche alcune sostanze cornee, come quelle delle unghie dei piedi. La Drumheller ha anche scoperto segni di morsi sulla zampa anteriore e sulla coda del dinosauro. Il tutto è stato esaminato ai raggi X servendosi della tomografia computerizzata, e dall’analisi è emerso che la pelle e le ossa del dinosauro si sono conservate, ma il tessuto muscolare manca quasi completamente: gli autori dello studio sospettano che, come accade oggi con le carcasse degli animali, i predatori ne abbiano mangiato la carne e che i microbi siano penetrati sotto la pelle attraverso le ferite da morso, decomponendo i resti di muscoli e organi interni; in questo modo la pelle dell'Edmontosauro poté asciugarsi e conservarsi più facilmente.
Poiché i ricercatori partono dal presupposto che i tessuti degli esseri viventi si conservano solo in condizioni molto particolari, non stupisce che i reperti di questo tipo siano pochissimi. Si suppone, ad esempio, che la pelle potesse fossilizzarsi quando il clima preistorico era particolarmente secco, i resti venivano rapidamente coperti da sedimenti e, se possibile, non venivano alterati dai predatori. Tuttavia, per i fossili di pelle di Hell Creek questi criteri sono stati rispettati solo in parte: durante il Tardocretacico il sito era caratterizzato da un'area boschiva costiera, cioè da un ambiente umido. Inoltre, l'animale morto era stato morso. Poiché all'epoca vivevano molte creature carnivore, i paleontologi dovrebbero essere in grado di recuperare i tessuti molli fossilizzati da molti più reperti di quanto non sia accaduto finora. Ma poiché la pelle è relativamente sottile, secondo Drumheller, può darsi semplicemente che quando viene scoperta non sia riconosciuta per quel che è. Aspettiamoci future sorprese.
Il vero Jurassic Park? È nella Manica o nel Sahara!
Finora l'Isola di Wight era conosciuta per il Festival di Musica Rock che vi si tenne dal 26 al 30 agosto del 1970 e per la canzone che le dedicarono i Dik Dik. Oggi invece, grazie alle scoperte di Steve Sweetman, paleontologo dell'Università di Portsmouth, quest'isola del Canale della Manica si è trasformata in un vero paradiso per gli studiosi dei dinosauri, ma non solo. In quattro anni di lavoro, infatti, Sweetman vi ha scoperto ben 48 nuove specie preistoriche. Da sotto il fango depositato da un antico fiume sul suolo dell'isola, ormai pietrificatosi, sono saltati fuori i resti di due coccodrilli e di tre uccelli mesozoici, di diversi tipi di lucertole, rane e salamandre, del più antico squalo d'acqua dolce conosciuto, di sei piccoli mammiferi e persino di otto tipi di dinosauri affatto nuovi. tra cui un parente stretto del Velociraptor. « Già conoscevamo le specie più grandi vissute sull'isola durante il Cretaceo », ha dichiarato con orgoglio lo studioso, « ma ora possiamo tracciare un quadro davvero dettagliato di tutte quelle creature che si muovevano all'ombra dei dinosauri circa 130 milioni di anni fa » (alle 10.56 del 21 dicembre dell'Anno della Terra).
Pare anche che nel Sahara di 100 milioni di anni fa esistesse un mondo perduto popolato da coccodrilli dalle sembianze incredibili, che camminavano come mammiferi quadrupedi e sapevano nuotare agilmente: lo testimoniano cinque fossili di coccodrilli rinvenuti nel corso di esplorazioni nel Sahara, dalle sembianze del tutto differenti da quelle dei coccodrilli di oggi. Tanto per cominciare, l'articolazione delle zampe è tale che essi sono costretti a strisciare praticamente sempre ventre a terra, e solo per brevi tratti riescono ad alzarsi sulle zampe per camminare. Queste specie di coccodrilli che abitavano il Gondwana invece sapevano sia nuotare sia "galoppare" a terra come fanno i mammiferi quadrupedi. Essi avevano abitudini alimentari diverse pur vivendo nello stesso luogo; uno dei nuovi coccodrilli scoperti doveva avere i denti simili a zanne di cinghiale, un altro il muso a becco d'anatra. La scoperta la dobbiamo all'equipe di Paul Sereno dell'Università di Chicago.
È recente la scoperta che i piccoli dinosauri che un tempo vivevano nelle regioni attorno al Polo Sud, trascorrendo molti mesi all'anno al buio, non differivano fisiologicamente dagli altri dinosauri, come hanno accertato Holly Woodward, Jack Horner e collaboratori alla Montana State University. La scoperta,- realizzata analizzando il tessuto osseo di 17 dinosauri vissuti 112 milioni di anni fa (alle 22 del 22 dicembre) all'interno del circolo polare antartico, in quello che attualmente costituisce lo Stato australiano di Victoria, supera una precedente ricerca, risalente al 1988, la quale aveva suggerito che i dinosauri vissuti in quell'ambiente estremo si fossero fisiologicamente differenziati dagli altri, e sopravvivessero a quelle latitudini ibernandosi per metà dell'anno. A livello microstrutturale le ossa dei dinosauri mostrano linee di crescita annuali, analoghe a quelle che si osservano negli alberi, ma le analisi condotte sui pochi resti disponibili all'epoca del primo studio non avevano permesso di trovarne traccia. Negli anni successivi è stata portata alla luce una più ampia serie di fossili di dinosauri polari, sui quali è stata condotta la nuova ricerca. Il risultato è stato che quelli che non mostrano le linee di accrescimento semplicemente non avevano ancora un anno di vita!
Al dicembre 2011 risale invece la prima scoperta in Antartide dei resti fossili di un dinosauro sauropode erbivoro, e precisamente di un gigantesco Titanosauro; la scoperta è stata realizzata dal ricercatore argentino Ignacio Alejandro Cerda, del CONICET in Argentina. Prima di allora i sauropodi, i più grandi vertebrati terrestri mai apparsi sulla Terra, erano stati ritrovati in tutti i continenti, eccetto quello antartico. Il fossile, rinvenuto presso Santa Marta Cove sull'isola James Ross nella penisola antartica, è una vertebra incompleta lunga 20 centimetri della parte mediana della coda, e risale al Cretacico superiore. L'animale a cui essa apparteneva pesava probabilmente oltre cento tonnellate!!
L'antenato del Tirannosauro
Nel 2009 nell'area del Grand Staircase-Escalante National Monument (GSENM), nella parte meridionale dello Utah, Mark Loewen, del Museo di Storia Naturale di Salt Lake City, ha scoperto lo scheletro fossile di un nuovo dinosauro, battezzato Lythronax argestes. Esso aveva un muso corto e relativamente stretto associato a una teca cranica molto sviluppata nella parte posteriore, il che suggerisce che fosse dotato di visione binoculare. Questo secondo Loewen consente di retrodatare questo tipo di visione di almeno 10 milioni di anni. Ma l'aspetto più importante di questo nuovo drago consiste nel fatto che, essendo vissuto 80 milioni di anni fa (alle 12.16 del giorno di Natale), esso è il più antico fra i tirannosauridi finora noti, e consente di tracciare le linee evolutive di questa famiglia di dinosauri bipedi carnivori, tipici del Cretaceo. I resti fossili consentono di stimare dimensioni e peso in circa otto metri di lunghezza per 2,5 tonnellate, valori notevoli ma decisamente inferiori quindi rispetto al famigerato Tyrannosaurus rex, che poteva raggiungere i 13 metri e le 8 tonnellate. La conformazione della mandibola e i denti di grandi dimensioni fanno comunque pensare a un predatore assai temibile: non a caso, Loewen lo ha battezzato Lythronax, cioè "re del sangue", in riferimento alle sue abitudini carnivore e alla sua aggressività; "argestes" si riferisce invece alla posizione geografica del luogo di ritrovamento, posto nella parte sudoccidentale dello Utah: Argeste è il nome che, nella Grecia antica, designava il vento che soffia da sudovest.
Lythronax argestes, ricostruzione di Lukas Panzarin
La diversificazione di questa famiglia di grandi rettili dovrebbe quindi essere avvenuta prima di 80 milioni di anni fa, in un periodo in cui il livello dei mari era molto elevato. La spiegazione di questa correlazione sta nel fatto che le acque probabilmente hanno suddiviso in diverse zone separate la Laramidia, un continente-isola da cui deriva l'attuale porzione occidentale del Nordamerica, dal Messico all'Alaska, in cui durante il Cretaceo superiore si svilupparono diversi gruppi di dinosauri. La separazione geografica probabilmente determinò anche l'isolamento di diverse popolazioni di tirannosauridi, ciascuna delle quali si è poi evoluta in differenti rami filogenetici. Questo spiegherebbe perché si stanno trovando così tante specie diverse in strati geologici risalenti a un periodo compreso tra 80 e 74 milioni di anni fa (tra le 12.16 e le 23.57 del 25 dicembre) in tutti i bacini laramidiani. « Con il graduale ritiro delle acque, avvenuto circa 80 milioni di anni fa, le differenze tra le diverse specie di dinosauri sono state ulteriormente rafforzate dalle variazioni climatiche, dalle differenti fonti di cibo e da altri fattori », ha aggiunto Randall Irmis, coautore della scoperta. « Questa ipotesi spiega perché i dinosauri nordamericani risalenti al Tardo Cretaceo sono così diversi da quelli dello stesso periodo vissuti in altri continenti ». Loewen e colleghi ritengono che i tirannosauridi abbiano avuto origine nella parte settentrionale della Laramidia, e che successivamente siano emigrati, in parte verso sud e in parte verso l'Asia, tra 75 e 70 milioni di anni fa, quando ormai si avvicinava la fine delll'impero dei rettili.
Le zampe nascoste di antichi serpenti
Perchè i serpenti sono privi di zampe? Fin da tempi immemorabili gli uomini hanno cercato di dare una risposta a questa domanda. La Genesi afferma che il Signore Dio maledisse la serpe per aver indotto Eva a disubbidirgli, mangiando il frutto proibito. Il mito cinese racconta invece che il Divino Imperatore di Giada (玉皇, Yù Huáng) punì il serpente per aver ferito gli uomini, ordinando di tagliargli le zampe e di darle invece alla rana. I paleontologi invece hanno dato risposte più realistiche, ma finora il dubbio permane: i serpenti si sono e voluti da rettili marini o da altre specie che già vivevano sulla terraferma? In effetti in entrambi i casi le zampe si sarebbero rivelate inutili, sia per scavare tane nella sabbia, sia per nuotare nel mare.
A questa annosa domanda ha cercato di dare risposta una ricerca francese che ha utilizzato una innovativa tecnologia a raggi X: essa ha fornito dettagliate immagini tridimensionali dell'architettura interna della zampa di un antico serpente, che ha notevoli somiglianze con quella della zampa di un rettile terrestre moderno. Autori dello studio sono i ricercatori del Museum National d'Histoire Naturelle (MNHN) di Parigi, guidati da Alexandra Houssaye, in collaborazione con la European Synchrotron Radiation Facility (ESRF) di Grenoble, in Francia, dove è stata effettuata l'analisi ai raggi X, e con il Karlsruhe Institute of Technology (KIT), in Germania, dove sono stati successivamente elaborati i dati raccolti.
Oggi nel mondo esistono solo tre esemplari di serpenti fossilizzati con ossa delle zampe preservate. Eupodophis descouensi, l'antica specie di serpente studiata in questa occasione, fu scoperta in Libano nel 2000 in strati geologici risalenti a 95 milioni di anni fa (alle 7.01 del 24 dicembre). Lungo circa 50 centimetri, l'animale aveva probabilmente un paio di zampe in continuità con il bacino: si tratta dunque di un fossile chiave per la comprensione della storia evolutiva dei serpenti, poiché rappresenta uno stadio intermedio in cui non erano state ancora perse le zampe ereditate dalle specie precedenti.
La zampa subì una crescita molto lenta o incompleta, dal momento che è possibile osservare l'osso in prossimità dell'anca ma non quelle relative al piede o alle dita. L'analisi senza precedenti del campione è stata possibile grazie all'utilizzo di una tecnica denominata laminografia di sincrotrone, una recente tecnica sviluppata per studiare i campioni di grandi dimensioni ma di ridotto spessore, simile alla tomografia computerizzata usata in medicina, con la differenza che viene utilizzato un fascio di radiazione X coerente di sincrotrone al fine di risolvere dettagli di dimensioni di pochi micrometri.
Comunque, nonostante l'estrema povertà di fossili di transizione, fino a tempi recenti i paleontologi hanno sempre considerato più plausibile l'ipotesi dell'origine acquatica dei serpenti, ma nel 2012 la scoperta di un gruppo di ricercatori della Yale University ha cambiato le carte in tavola, facendo pendere la bilancia verso l'ipotesi dell'origine terrestre. Essi infatti hanno rinvenuto nel Wyoming orientale alcuni fossili appartenenti al Coniophis precedens, un serpente vissuto circa 70 milioni di anni fa (alle 7.44 del 26 dicembre). Secondo Nicholas Longrich, a capo del team di studiosi, il Coniophis, un serpente di transizione con il corpo da ofide e la testa da lucertola, viveva nelle piane alluvionali e non era adatto ai movimenti in acqua. « La taglia del piccolo rettile, insieme alle caratteristiche della sua spina dorsale, suggeriscono che si scavasse le tane. Probabilmente aveva anche delle piccole zampe », ha spiegato Longrich. « E un'analisi della sua mascella suggerisce che si cibasse di prede abbastanza grandi e dal corpo soffice ». Ma non aveva le caratteristiche che permettono ai serpenti moderni di ingoiare prede grandi quanto il loro stesso corpo. « L'origine dei serpenti ha avuto inizio con l'evoluzione del metodo di locomozione, seguita da adattamenti che facilitano l'ingestione di prede sempre più grandi. »
Serpenti vs dinosauri
Un'altra straordinaria scoperta archeologica è avvenuta nel 1984 nello stato del Gujarat, in India occidentale, e ci racconta un'incredibile storia di vita e di morte accaduta 67 milioni di anni fa (alle 13.34 del 26 dicembre), quindi alla fine del Cretacico. Un serpente lungo circa tre metri e mezzo, di una nuova specie battezzata Sanejeh indicus, morì all'interno di un nido di sauropodi, probabilmente Titanosauri. Insieme ad esso sono stati trovati un cucciolo di dinosauro lungo mezzo metro che stava uscendo da un uovo, e altre due uova intatte. Il serpente era avviluppato intorno alle due uova e si preparava ad attaccare il neonato, quando una violenta tempesta dovette causare lo straripamento di un vicino ruscello che sommerse di fango il nido, uccidendo sia il serpente che il baby-dinosauro. Ma, proprio grazie a quella circostanza, i loro resti si sono conservati perfettamente e sono giunti fino a noi. Si tratta della prima prova effettiva che i serpenti divoravano i dinosauri, o perlomeno i loro cuccioli.
I serpenti sono apparsi sulla Terra solo 98 milioni di anni fa (alle 01.13 del 24 dicembre), nel Cretacico Superiore, quasi alla fine del regno dei dinosauri. Quelli attuali hanno l'articolazione mandibolare posizionata oltre il cranio, e grazie a questa particolarità boa, pitoni e anaconda riescono a spalancare la bocca in modo tale da poter ingoiare prede molto grandi: sono stati più volte osservati serpenti ingoiare pecore intere e anche piccoli vitelli. Il Sanejeh indicus invece era una specie arcaica che non aveva ancora evoluto questa caratteristica: anche se aveva la forma dei serpenti attuali, la sua bocca era più simile a quella delle lucertole odierne. Però la mascella superiore del serpente si poteva muovere in modo indipendente da quella inferiore, ed in questo modo poteva inghiottire la preda prima un po' a sinistra e poi un po' a destra, muovendosi come quando si indossa un paio di pantaloni troppo aderenti. Il serpente era anche in grado di rompere le uova per succhiarne il contenuto.
« Questa scoperta », ha dichiarato Jeffrey Wilson, ricercatore della Michigan University che ha studiato a lungo il reperto, « ci dice quanto doveva essere pericolosa la vita di un cucciolo di dinosauro, anche di quelli più grandi ». I paleontologi già sapevano che le uova di dinosauro potevano essere predate da altri dinosauri, e che i loro cuccioli potevano costituire il pasto anche dei mammiferi. Sospettavano che le uova potessero essere predate anche dai serpenti, ma prima di questa scoperta non erano state trovate le prove.
A 105 milioni di anni fa (alle 11.36 del 23 dicembre) risale anche il Pakasuchus kapilimai, una nuova specie di coccodrillo scoperta nel 2008 sulle sponde di un fiume in un bacino della Rift Valley africana, il Rukwa Rift Basin nei pressi del lago Tanganica in Tanzania. Cos'ha di particolare? I grandi coccodrilli moderni con i loro denti conici sono perfettamente adattati a catturare, trattenere e trascinare le loro prede, ma non a masticarla e processare il cibo già nella cavità orale. A differenza di essi, la nuova specie mostra molte peculiarità che ricordano piuttosto i mammiferi: era un animale piccolo e gracile, le placche ossee tipiche dei coccodrilli mostrano una riduzione per minimizzare la massa del corpo e aumentare la sua mobilità, e gli arti sono molto snelli in relazione al corpo. Ma la maggior sorpresa paleontologica è costituita dalla complessa dentizione sviluppata da questa specie: il numero complessivo dei denti è molto ridotto se comparato a quello dei coccodrilli moderni, ma altamente specializzati: i denti posteriori ricordano dei molari, sono ampi è le loro corone relative combaciano, formando come nei mammiferi delle placche capaci di tritare il cibo. Queste somiglianze ritrovate hanno indotto i paleontologi a designare la specie con il termine swahili che significa "gatto" (Paka): uno sbalorditivo esempio di evoluzione convergente, nel senso che questi rettili si sarebbero adattati nell'emisfero australe ad occupare le nicchie che nell'emisfero boreale erano occupate dai mammiferi: piccoli, ma agili predatori specializzati a inseguire e catturare piccole prede, come insetti e vertebrati di minore stazza.
Piccoli dinosauri pappagallo crescono
Il già citato Psittacosaurus lujiatunensis, meglio noto come "dinosauro pappagallo", è conosciuto grazie alla testimonianza fossile di più di 1000 campioni del Cretacico, ritrovati in Cina e in altre zone nell'est dell'Asia e risalenti a circa 100 milioni di anni fa (ore 21.20 del 23/12). Proprio a partire dall'analisi di questi resti ossei Qi Zhao, dell'Institute for Vertebrate Paleontology di Pechino, che ha condotto il suo studio all'Università di Bristol, ha fatto luce sulle dinamiche di crescita di questi animali, dimostrando che essi erano quadrupedi da piccoli ma bipedi da grandi, grazie a un diverso ritmo di crescita degli arti anteriori e posteriori. A svelare i segreti della postura di questo dinosauro sono stati lo studio di tessuti ossei e l'analisi biomeccanica, e tutto ciò potrebbe essere utile per capire come l'andatura bipede si sia evoluta anche in altre specie di dinosauri.
In tutto sono stati analizzati 16 esemplari di psittacosauro, di età variabile tra uno e dieci anni, e vari individui adulti già completamente sviluppati. Qi Zhao ha così scoperto che i dinosauri più giovani, fino a un anno d'età, avevano le zampe anteriori lunghe e quelle posteriori corte, e iniziavano a muoversi freneticamente su tutte e quattro molto presto dopo la schiusa. Le sezioni ossee hanno mostrato che tutte e quattro le appendici si accrescevano molto tra l'età di uno e tre anni, per poi rallentare il ritmo di sviluppo dai quattro ai sei. Le ossa degli arti posteriori, invece, mostravano successivamente una crescita intensa e rapida, testimoniata dalle modifiche nell'orientamento dei canali vascolari. Questa crescita le portava a svilupparsi fino a diventare lunghe il doppio rispetto alle zampe anteriori, dimensione necessaria a mantenere stabile l'andatura bipede nell'animale adulto. Questi cambiamenti nell'andatura fanno ipotizzare che ci sia stato un periodo nel quale sia gli esemplari giovani che quelli adulti si muovevano su quattro zampe e che, non solo nel caso del psittacosauro, l'andatura bipede nella fase adulta potrebbe essersi evoluta più tardi, tramite una modifica ontogenetica.
Ed ecco qui sotto un magnifico modellino di carta raffigurante uno stegosauro, e fabbricato con le sue mani dal nostro grande amico modellista Sandro Degiani:
Bugie dinosauresche
Agli inizi del Cretacico i dinosauri e gli pterosauri sopra descritti erano ancora i dominatori del pianeta, ed avevano ormai colonizzato tutti i continenti. Tuttavia, mentre alcune specie si evolvevano, altre andavano incontro all'estinzione, sostituite da quelle meglio adattate all'ambiente. La maggior parte dei diplodocidi si estinse per cause sconosciute, mentre si svilupparono ed affermarono in particolare i dinosauri ornitischi ed i Mosasauri, dei quali si è già ampiamente parlato in precedenza. La suddetta comparsa di nuovi vegetali favorì inoltre l'evoluzione di dinosauri vegetariani come i Ceratopsidi e gli Adrosauri, che seppero approfittare delle nuove fonti di alimentazione costituite dai fiori. A questi nuovi dinosauri vegetariani si affiancarono naturalmente nuovi carnivori che di essi si nutrivano, come il Tirannosauro sopra descritto, che si impose ai vertici della catena alimentare. Dunque, visto che essi erano la maggiore (e più pericolosa) attrazione del "Jurassic Park". Crichton avrebbe fatto meglio a chiamarlo "Cretacic Park"...
Bisogna comunque togliere di mezzo alcune persistenti "bugie" che si sono stratificate negli anni intorno ai lucertoloni terribili. Eccone alcune:
1) non tutti i dinosauri erano giganteschi. Il compsognato, ad esempio, aveva appena le dimensioni di un pollo!
2) nessuno sa con certezza quale fosse il colore dei dinosauri. Si possono solo avanzare delle ipotesi, osservando i rettili odierni. Di recente un ragazzino nel North Dakota ha scoperto i resti di un adrosauro parzialmente mummificato, che conserva ancora intatta la pelle e intere strisce di tessuto muscolare, sicuramente uno dei ritrovamenti più completi mai eseguiti finora; e, come diremo più sotto, di alcuni dinosauri piumati sono stati riportati alla luce i pigmenti delle penne. Ma neppure queste eccezionali scoperte possono dirci come apparivano davvero i dinosauri da vivi.
3) non tutti i grandi animali del Mesozoico erano dinosauri. Come si è già detto non lo erano, a rigore, né gli pterosauri né i rettili marini, che con i dinosauri e gli uccelli attuali formavano invece la grande classe degli Arcosauri.
4) non esistevano dinosauri acquatici né dinosauri volatori. Come si è detto subito sopra, questi oggi sono riuniti in famiglie a parte per le chiare differenze esistenti tra loro e i dinosauri, anche se tutti sono derivati da antenati comuni.
5) il dimetrodonte e il sauroctono non erano affatto dei dinosauri, sebbene essi vengano quasi sempre spacciati come tali. Come s'è visto parlando del Permiano, essi erano "rettili mammiferi" ed erano assai più strettamente imparentati con noi uomini che con i grandi dinosauri!!
6) soprattutto, checché ne dicano i cartoni animati dei Flintstones o di Ryu, il ragazzo delle caverne, gli uomini NON hanno mai convissuto con i dinosauri. Come vedremo parlando del Neozoico, gli uomini si sono evoluti solo 64 milioni di anni (cioè ben 5 giorni e 4 ore dell'Anno della Terra) dopo la scomparsa dei dinosauri!
7) infine, non tutti i dinosauri sono scomparsi alla fine del Mesozoico. Infatti, come ora diremo, ad esso sono sopravvissuti gli uccelli che, per quanto possa parere strano, tecnicamente parlando sono proprio dei dinosauri che hanno evoluto una copertura di penne ed hanno scoperto il volo!!
Il dinosauro d'acqua dolce
Una notizia importante riguardo i rettili acquatici è arrivata nel maggio 2013 dall'Ungheria, dove sono stati scoperti resti fossili risalenti ad 84 milioni di anni fa (alle 04.29 della Notte di Natale), e appartenenti a un mosasauro, il quale aveva l'abitudine di trascorrere tutta la sua vita non in mare, ma in acqua dolce. Soprannominato Pannoniasaurus, questo nuovo mostro della preistoria è stato scoperto in una miniera abbandonata di carbone da László Makadi, paleontologo del Museo Ungherese di Storia Naturale. Quest'ultimo ha riportato alla luce diversi individui di Pannoniasaurus che vanno dal metro di lunghezza fino ai quattro metri. I pezzi più piccoli, che appartengono agli esemplari più giovani, sono una vera rarità, e per questo il loro ritrovamento è apparso un vero colpo di fortuna. La scoperta di così tanti esemplari di Pannoniasaurus nello stesso sito indica che questa fosse una specie d'acqua dolce vera e propria, e non una specie marina che si avventurava sporadicamente nei fiumi, come fanno a volte gli squali.
Durante il Cretacico superiore il sito in cui viveva Pannoniasaurus faceva parte di un arcipelago di isole tropicali situato nel mezzo di un enorme bacino d'acqua dolce, che separava l'Africa dall'Europa del sud. I fiumi di quelle isole erano popolati di pesci, anfibi, tartarughe, lucertole, coccodrilli e altri dinosauri, come testimoniano i resti fossili trovati nello stesso sito. Di certo, fra tutti i predatori di quell'ecosistema, Pannoniasaurus con i suoi piccoli denti aguzzi probabilmente mangiava solo piccole prede come pesci, anfibi, lucertole e qualche pesce. A differenza di altri mosasauri marini che nuotavano grazie a grandi pinne, gli arti di Pannoniasaurus assomigliavano a delle zampe che, di tanto in tanto, potevano essere utili per arrampicarsi sulla terra. « Potrebbe benissimo essere stato anfibio », ha dichiarato Michael Caldwell, uno degli autori dello studio e paleontologo presso l'Università dell'Alberta in Canada. « Ho il sospetto che questi mosasauri si comportassero un po' come gli attuali coccodrilli, che passano un sacco di tempo in acqua, ma non si fanno neanche problemi a vagare di fiume in fiume nei periodi più secchi o bearsi nelle acque più basse per regolare la loro temperatura corporea ». Secondo Caldwell, è improbabile che i mosasauri fossero gli unici rettili d'acqua dolce. « Sono convinto che ci fossero plesiosauri e anche ittiosauri d'acqua dolce, ma purtroppo non ne abbiamo ancora la prova ».
Vale la pena di segnalare anche il Tirannosauro "nano" che viene dal freddo. Paragonato ai 12 metri del Tirannosauro, con i suoi 7 metri di lunghezza il Nanuqsaurus hoglundi sembrava davvero un nanerottolo, ma era comunque meglio non trovarselo di fronte 70 milioni di anni fa dalle parti del circolo polare Artico, in quella che è oggi l’Alaska. I paleontologi non avevano mai scoperto così a nord i resti di un dinosauro; ma nel Maastrichtiano, circa 70 milioni di anni fa (alle 7.44 del 26 dicembre), il clima dell'Alaska era molto più caldo di quello attuale. Secondo Anthony Fiorillo e Ronald Tykoski, del Museo Perot di Scienze e Natura di Dallas che hanno studiato i resti rinvenuti nel 2006 del Nanuqsauro, il fatto che fosse più piccolo del cugino Tyrannosaurus rex forse dipende proprio dal fatto di vivere in un ambiente in cui per sei mesi all’anno non c’è luce, o comunque ce n’è poca. La lunghezza del Nanuqsauro è stata dedotta da Fiorillo e Tykoski dalla lunghezza del cranio paragonandolo a quella di dinosauri carnivori di specie simili. I due studiosi sperano di scoprire in Alaska anche le ossa delle zampe, in modo da determinare con maggiore precisione le dimensioni del "dinosauro nano".
Un altro tirannosauro "nano" era il Timurlengia euotica, risalente a 90 milioni di anni fa (alle 16.48 del 24 dicembre), i cui resti fossili sono stati trovati nel deserto del Kizilkum, in Uzbekistan, da un team di scienziati dell'Università di Edimburgo, in Scozia, insieme a colleghi dell'Accademia Russa delle Scienze, dell'Università di San Pietroburgo e dello Smithsonian National Museum of Natural History di Washington. Esso va a colmare un "buco" di 20 milioni di anni nelle testimonianze fossili dei Tirannosauridi durante il Cretacico Medio: aveva un cervello molto sviluppato e sensi acuti, come il suo famosissimo parente T-rex, era dotato di denti affilati e lunghi arti inferiori, e probabilmente correva molto veloce, ma era molto più piccolo del T-rex: raggiungeva al massimo le dimensioni di un cavallo. Le scoperte di questi teropodi "nani" indica che solo verso la fine della propria storia evolutiva il Tyrannosaurus rex ha assunto le gigantesche dimensioni che lo hanno reso un così formidabile predatore.
Il colore dello psittacosauro
L'analisi della pigmentazione di un piccolo dinosauro del Cretaceo, lo psittacosauro ("lucertola pappagallo"), ha permesso di scoprire che viveva in un ambiente di fitta foresta. Per arrivare a questa conclusione, Gerald Mayr del Museo di Storia Naturale di Francoforte e i suoi colleghi dell'Università di Bristol hanno usato tecniche di analisi innovative, secondo cui il ventre dell'animale era chiaro, mentre il petto era scuro e il dorso ancora più scuro. La testa era fortemente pigmentata, e così pure le due protuberanze a corna che la ornavano. Il tessuto di queste protuberanze era molle, e ciò suggerisce avessero una funzione di segnalazione e non di difesa. La scoperta è stata possibile grazie all'eccezionale stato di conservazione di un esemplare scoperto nella regione di Jehol, nella Cina nordorientale, e conservato nel Museo di Francoforte. I ricercatori hanno prima analizzato i resti di pigmenti presenti nelle varie parti del corpo dell'animale per poi ricostruirne un simulacro in scala reale; hanno quindi fotografato la ricostruzione dello psittacosauro in diverse condizioni di illuminazione, perché i modelli di pigmentazione degli animali sono strettamente legati all'ambiente in cui vivono e mirano a ridurre al minimo la possibilità di essere notati dai predatori. Gli animali marini, per esempio, hanno il ventre chiaro che, visto da sotto, non permette di distinguerli nella luce del Sole che arriva dall'alto, mentre il dorso scuro li nasconde alla vista dei predatori che sono più in superficie. Negli animali terrestri la situazione è più complessa. In un ambiente aperto, come una savana o una prateria, la luce diretta provoca ombre nette, e per questo gli animali hanno spesso una pigmentazione che sul dorso presenta transizioni di colore marcate. Fra gli animali che vivono nelle foreste, dove la luce è più diffusa, non si osservano invece questi bruschi passaggi di colore.
L'analisi delle ombre prodotte dal modellino di psittacosauro nelle diverse condizioni di illuminazione ha confermato che la sua colorazione era perfettamente adatta a un paesaggio forestale. Un'altra caratteristica dello psittacosauro consiste nelle lunghe appendici setolose che ornavano la sua coda. Dalle analisi condotte è risultato che sono molto simili alle "barbe" che si trovano sul petto degli odierni tacchini e a quelle della parte anteriore della corona che orna la testa degli animidi, una famiglia di uccelli imparentati con anatre e oche che conservano ancora tratti primitivi. « Finora non era chiaro se le setole dello psittacosauro fossero paragonabili alle piume e penne degli uccelli moderni. Il confronto con le setole del tacchino mostra che questi annessi cutanei fossili possono essere considerati i precursori evolutivi di piume », ha dichiarato Mayr. Dal momento che la coda era solo parzialmente ricoperta di setole riunite in piccoli gruppi, è difficile che avessero una funzione di isolamento termico, e più probabilmente avevano anch'esse una funzione di comunicazione.
Gli antenati degli uccelli
Al periodo Giurassico risaliva la comparsa del primo essere piumato a noi noto: Epidexipteryx hui, un piccolo dinosauro della famiglia dei teropodi, parente stretto del Tyrannosaurus rex, che non sapeva volare ma aveva artigli da grifone ed il corpo coperto di piume, di cui quattro più lunghe, decorative, sulla punta della coda. Secondo i suoi scopritori, che lo hanno disseppellito in Mongolia alla fine del 2007, Epidexipteryx non era certamente in grado di volare, perché originariamente le piume e le penne erano puramente ornamentali, e servivano ad esempio per attirare l'attenzione di altri esemplari ai fini dell'accoppiamento, oppure per spaventare un nemico. Sempre secondo gli scopritori il fossile mongolo dimostrerebbe che la comunicazione visuale aveva una grande importanza già nel Mesozoico, ma ovviamente non tutti sono d'accordo, e pensano ad una funzione più importante del piumaggio ai fini dell'aerodinamicità nella corsa; altri ancora credono che animali come questo potessero saltare da un ramo di un albero a un altro, o da un ramo fino al suolo, sfruttando la copertura di piume.
Cinque milioni di anni dopo l'Epidexipteryx comparve l'Archaeopteryx lithographica, ritenuto da alcuni il primo uccello, anche se i suoi fossili presentano caratteristiche ancora molto vicine a quelle dei Rettili. Il curioso nome della specie deriva dal fatto che esso venne trovato fossilizzato nel 1861 dentro una cava di calcare utilizzato per realizzare litografie (da cui lithographica) a Solenhofen, in Baviera, dal medico Karl Häberlein (1787-1871). Fu una scoperta clamorosa, perchè venne solo due anni dopo la pubblicazione de "L'Origine delle Specie" di Charles Darwin, e perché il fossile presentava assieme caratteri da uccello, come le penne ed un becco ben sviluppato, e da rettile, come le dita artigliate e le ossa non pneumatizzate: un vero e proprio "anello mancante" della catena evolutiva, dunque. L'animale non poteva ancora volare, ma presumibilmente si arrampicava sugli alberi e da lì si gettava in volo planato, catturando a mezz'aria le prede costituite da grossi insetti. Eccone una mia ricostruzione:
Archaeopterix, ritenuto il primo abbozzo di uccello, disegno dell'autore |
Il naturalista John Ostrom dell'università di Yale ipotizza che le ali siano nate per essere usate come "pigliamosche", e solo in un secondo momento siano state utilizzate per il volo. Non solo: le penne, difficilmente danneggiabili da rami e spine, permettevano all'Archaeopteryx di vivere nel folto sottobosco, senza essere in competizione con gli pterosauri dotati di delicatissime membrane alari. Secondo alcuni, le penne avrebbero permesso ad Archaeopteryx di conquistare i cieli e dar vita agli uccelli non appena i rettili volanti fossero stati spazzati via; secondo altri, invece, il ramo evolutivo di Archaeopteryx si sarebbe arrestato 140 milioni di anni fa (alle ore 15.28 del 20 dicembre dell'Anno della Terra), lasciando campo libero a discendenti dei celuridi, saurischi bipedi con probabili abitudini da "spazzini", i quali invece avrebbero avuto successo e si sarebbero trasformati in uccelli. In tal caso, gli uccelli attuali altro non sarebbero se non i dinosauri che sarebbero riusciti a sopravvivere alla grande estinzione di fine Cretacico! Non a caso, la scena finale di "Jurassic Park" mostra uno stormo di uccelli, quasi a segnare una continuità tra i dinosauri e questi animali.
Nuove analisi rischiano di cambiare profondamente l'iconografia classica dell'Archaeopteryx, che avrebbe avuto caratteristiche fisiologiche decisamente meno da uccello di quanto ritenuto finora. Le immagini microscopiche ottenute da Gregory M. Erickson e colleghi della Florida State University delle antiche cellule e degli antichi vasi sanguigni all'interno delle ossa dell'animale mostrano una crescita e una maturazione assai lenta, tale da richiedere anni, e quindi l'assenza di una fitta vascolarizzazione delle ossa, tipica degli uccelli. Tale circostanza è condivisa con i grandi rettili, mentre gli uccelli attualmente viventi crescono rapidamente e maturano nell'arco di sole alcune settimane. Il risultato consente di avanzare l'ipotesi che tale crescita ossea veloce non fosse necessaria per il volo di questo dinosauro volante. "Non si conosce praticamente nulla della biologia dell'Archaeopteryx: alcuni studiosi hanno ipotizzato che la sua fisiologia fosse assai diversa da quella degli uccelli attuali, ma nessuno aveva analizzato i fossili per rispondere a questi interrogativi", ha sottolineato Erickson. "Nel corso del nostro studio, abbiamo analizzato i resti fossili per confrontare la velocità di crescita delle ossa di Archaeopteryx con quelle degli uccelli attuali, con quelle di altri dinosauri imparentati filogeneticamente, come i deinonicosauri, e di altri animali simili a uccelli vissuti in epoche posteriori, come Jeholornis prima e Sapeornis chaochengensi ritrovati in Cina. "Il tutto è stato reso possibile dalla disponibilità di campioni di un esemplare giovane di Archaeopteryx". Ciò ha alimentato i dubbi su questo bizzarro fossile, i cui resti fossili furono rinvenuti nel 1860, un anno dopo la pubblicazione dell'"Origine delle specie" di Charles Darwin, e quindi con incredibile tempismo per sostenere la teoria evoluzionistica dell'"anello mancante". Come ha scritto Federico di Trocchio (1949-2013) nel suo bel libro "Le bugie della scienza" (Mondadori, Milano 1993), secondo alcuni quest'"anello mancante" della catena evolutiva tra rettili ed uccelli è in realtà un falso, creato ad hoc da archeologi senza scrupoli, ma le prove addotte in questo senso sono state contestate da molti, ed oggi ben pochi dubitano dell'esistenza effettiva dell'essere mezzo rettile e mezzo piccione.
Sulla base delle analisi suddette, nel 2011 il presunto progenitore degli uccelli, fu "declassato" tra i dinosauri piumati Deinonycosauri, sia per via degli studi di embriologia, secondo cui le penne si sviluppano direttamente dalla trasformazione delle squame, sia per il fatto che in tempi recenti in Cina sono stati trovati anche resti di dinosauri piumati ma non volatori. Ma nel 2013 una grande scoperta effettuata nella formazione Tiaojishan, nella provincia cinese del Liaoning, ha "riportato" Archaeopteryx nel novero degli uccelli. Una squadra di ricercatori guidata da Pascal Godefroit dell'Istituto Reale di Scienze Naturali del Belgio ha riportato alla luce la nuova specie Aurornis xui, ancora più primitivo del volatile di Solenhofen. « Grazie alle nostre analisi, si è potuto dimostrare che l'Archaeopteryx fa parte degli uccelli primitivi mentre l'Aurornis va classificato un gradino prima, essendo il più primitivo finora conosciuto », ha dichiarato Godefroit. L'Aurornis viveva circa 150 milioni di anni fa (alle ore 20 in punto del 19 dicembre) e aveva una lunghezza di una cinquantina di centimetri; secondo gli scopritori era in grado correre, ed i suoi piccoli denti fanno ritenere che si cibasse di insetti. Solo una piccola parte delle sue piume si è conservata. Riportare l'Archaeopteryx tra gli uccelli « significa che il volo sbattendo le ali è apparso una sola volta nel corso dell'evoluzione degli uccelli », ha spiegato il paleontologo belga. Archaeopteryx, infatti, era probabilmente in grado di compiere voli sbattendo le ali in modo rudimentale. Se invece fosse stato classificato tra i dinosauri, il significato era che il volo ad ali sbattute era apparso due volte nel corso dell'evoluzione: una tra i dinosauri piumati, e una tra gli uccelli.
Tra l'altro un fossile di Archaeopteryx eccezionalmente ben conservato ha rivelato caratteristiche precedentemente ignorate del suo piumaggio, che hanno permesso un dettagliato confronto con quello dei dinosauri piumati e degli altri antenati degli uccelli moderni. Grazie a questo confronto sono state ottenute nuove conoscenze sull'evoluzione delle piume, confermando che la loro funzione non era originariamente legata al volo, e corroborato l'ipotesi che Archaeopteryx appartenga a pieno titolo alla famiglia degli antenati degli uccelli, seppur su un ramo evolutivo collaterale. Il fossile proviene della stessa formazione di Solnhofen, in Germania, in cui sono stati trovati quasi tutti gli undici fossili conosciuti dell'animale, ed è stato studiato dai paleontologi delle Staatliche Naturwissenschaftliche Sammlungen Bayerns di Monaco di Baviera e della Ludwig Maximilians Universität di Monaco. Grazie a tale fossile, per la prima volta è stato possibile esaminare la struttura dettagliata delle piume sul corpo, sulla coda e, soprattutto, sulle zampe: la parte superiore delle zampe mostra lunghe penne simmetriche, mentre nella parte inferiore ci sono penne più brevi. « Il confronto con gli altri dinosauri predatori piumati indica che il piumaggio nelle varie regioni del corpo varia ampiamente tra le specie. Ciò suggerisce che le piume primordiali non si siano evolute in connessione con il volo, ma in altri contesti funzionali », ha dichiarato Christian Foth. La disposizione e la struttura delle penne di Archaeopteryx indica comunque che molto probabilmente l'animale era anche in grado di volare: « Le penne laterali della coda di Archaeopteryx avevano una forma aerodinamica, e molto probabilmente avevano un ruolo importante per la sua capacità di volare ». Le penne sembrano quindi aver acquisito la loro funzione aerodinamica in un secondo tempo, cooptate a una nuova funzione. « È anche possibile che la capacità di volare si sia evoluta più di una volta all'interno dei teropodi », ha scritto Oliver Rauhut, che ha partecipato alla ricerca. « Dal momento che le piume erano già presenti, diversi gruppi di dinosauri predatori e dei loro discendenti, gli uccelli, avrebbero potuto sfruttare queste strutture in modi diversi ».
I vantaggi della miniaturizzazione
Un gruppo di paleontologi del South Australian Museum, dell'Università di Southampton e del Museo Geologico e Paleontologico "Giovanni Capellini" di Bologna hanno stimato che sono stati necessari cinquanta milioni di anni (più di quattro giorni dell'Anno della Terra) di costante "miniaturizzazione" delle dimensioni per permettere la trasformazione dei grandi dinosauri del Triassico nei primi uccelli. In questo arco di tempo, infatti, le dimensioni del corpo dei teropodi da cui si sono evoluti gli uccelli sono diminuite di 12 volte, e la massa media è passata dai 163 chilogrammi iniziali agli 0,8 chilogrammi che si stima pesasse Archaeopteryx. I ricercatori hanno analizzato 1549 caratteri scheletrici relativi a 120 specie di dinosauri teropodi, ricostruendo il più dettagliato albero filogenetico degli uccelli mai realizzato, e calcolando anche i tassi evolutivi, ossia le "velocità" con cui sono avvenuti i cambiamenti morfologici. Questo calcolo ha identificato nella miniaturizzazione il fattore cruciale che ha permesso l'evoluzione degli uccelli, un processo avvenuto a una velocità 150 volte superiore rispetto ai normali tassi evolutivi.
La miniaturizzazione ha abbreviato a sua volta i tempi degli schemi evolutivi normali, permettendo molti altri cambiamenti: le teste degli uccelli, per esempio, possono essere viste come teste di dinosauro che conservano nell'adulto le caratteristiche giovanili, con muso corto, cervelli relativamente grandi e grandi occhi. Le dimensioni ridotte hanno poi facilitato la trasformazione delle penne e delle piume in superfici di scorrimento aerodinamico di importanza sempre maggiore. Questo passaggio è testimoniato dai resti fossili dei Paraves, gli immediati predecessori evolutivi degli uccelli, che fra i 170 e i 120 milioni di anni fa (tra le 5.00 del 18 e le 6.25 del 22 dicembre) iniziarono a sperimentare varie modalità di volo, sfruttando la portanza delle penne degli arti anteriori per agevolare e allungare i salti da un albero all'altro, il volo planato, e il veleggiamento. Solo uno di questi rami evolutivi, quello di Archaeopteryx, ha fatto il salto cruciale verso il volo attivo, che avrebbe portato all'evoluzione degli uccelli.
A innescare questa catena di cambiamenti e a mantenerla per un tempo così lungo è plausibile che sia stata la crescente importanza degli alberi nella vita di questi animali, inizialmente come nuova risorsa di cibo, e poi come opportunità per sfuggire ai predatori. Il successo della vita fra gli alberi richiede un corpo di piccole dimensioni, che a loro volta esaltano l'importanza di altre caratteristiche, come occhi grandi, una visione stereoscopica che faciliti i salti da un ramo all'altro, l'allungamento degli arti anteriori e il loro disaccoppiamento nei movimenti da quelli arti posteriori, e cervelli grandi per far fronte alla varietà degli habitat arborei.
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Ricostruzione di esemplari di Avimaia schweitzerae nel loro ambiente (disegno di Michael Rothman) |
L'uccello fossile con un uovo nell'addome
Il primo uccello fossile mai trovato con un uovo conservato al proprio interno ci permette di tracciare con maggiore precisione l'eredità "dinosauriana" degli uccelli. Il prezioso reperto è stato studiato da Alida Bailleul, Jingmai O'Connor e colleghi dell'Institute of Vertebrate Paleontology dell'Accademia Cinese delle Scienze. Anche se varie caratteristiche scheletriche degli uccelli odierni sono assenti nei primissimi uccelli (per esempio, lo sterno a "chiglia", il becco, la curvatura verso l'alto estremità della colonna vertebrale o pigostilo), si stanno accumulando prove che molte caratteristiche anatomiche e comportamentali degli uccelli hanno avuto origine già tra i dinosauri. Il nuovo fossile mostra che questo vale anche per l'apparato riproduttivo.
L'esemplare in questione, scoperto nella formazione geologica di Xiagou, nella provincia cinese del Gansu, risale al Cretaceo inferiore, cioè a circa 110 milioni di anni fa (alle 01.52 del 23 dicembre), ed è stato battezzato Avimaia schweitzerae. Il nome di genere Avi (uccello)-maia (madre) si riferisce al fatto che l'esemplare è una femmina con un uovo nella cavità del corpo, mentre quello di specie è un omaggio a Mary Higby Schweitzer, pioniera della paleontologia molecolare. Il fossile dell'animale e dell'uovo sono incredibilmente ben conservati: l'analisi dettagliata di un frammento del guscio dell'uovo ha rivelato che era costituito da due strati invece di uno come nelle uova normali. Questo indica che è rimasto troppo a lungo all'interno dell'addome, una condizione frequente anche negli uccelli di oggi e legata a condizioni di forte stress. Il guscio, inoltre, era estremamente sottile e non mostrava le corrette proporzioni delle uova sane, suggerendo che proprio l'uovo o qualche condizione patologica a esso associata potrebbe aver causato la morte dell'animale.
La microscopia elettronica a scansione ha poi rivelato che la cuticola (lo strato esterno più protettivo del guscio d'uovo) era costituita da piccolissime sfere di minerali, una caratteristica presente nelle uova di alcune specie di dinosauri teropodi non aviari, ma con una composizione minerale differente. Oggi la cuticola mineralizzata è presente solo in specie che nidificano in ambienti umidi e a rischio di infezione, come nel caso di nidi in aree ricche di acque stagnati o di seppellimento delle uova. La scoperta di questa particolarità in Avimaia, osservano i ricercatori, fa supporre che la cuticola con sfere protettive rappresenti la condizione ancestrale delle uova degli uccelli. Inoltre, analizzando un frammento di osso della gamba di Avimaia, i ricercatori hanno per la prima volta trovato una prova certa della presenza in un uccello del Mesozoico di una particolare struttura, chiamata osso midollare, un tessuto effimero che funge da serbatoio di calcio per la produzione di gusci d'uovo durante il ciclo riproduttivo. Infine, l'assenza di tracce di lunghe penne caudali, presenti in esemplari presumibilmente maschi di altre specie imparentate con Avimaia, suggerisce che si fosse già sviluppato il dimorfismo sessuale.
I dinosauri piumati e velenosi
Il dibattito fra i paleontologi circa l'origine degli uccelli verte intorno alla seguente questione: lo sviluppo delle ali e del volo ha avuto origine in animali arboricoli come strumento per planare da un ramo all'altro all'inseguimento di insetti volatori, oppure in animali terrestri corridori, visto che molti mettono in discussione la funzionalità di quelle primissime ali ai fini di un efficace veleggiamento? Rispondere alla domanda è stato per lungo tempo assai arduo, visto che, fino agli anni ottanta del secolo scorso, l'unico dinosauro piumato conosciuto era proprio l'Archaeopteryx. Ma, a partire dal 1990, nella Cina nordorientale sono stati scoperti diversi dinosauri piumati, rafforzando l'idea della stretta relazione tra i dinosauri e gli uccelli. Le piume si erano conservate per effetto delle particolari condizioni di fossilizzazione. Questo non significa che quei tipi di dinosauri fossero presenti solo in Cina, ma che solo li si erano verificate le condizioni affinché le piume si potessero conservare per milioni di anni, ma certamente il fatto che sia sempre più frequente il ritrovamento di fossili di dinosauri piumati fa pensare che fossero molto più diffusi di quanto si pensava fino a pochi anni fa. Tra i dinosauri piumati scoperti finora sono da annoverare nomi davvero "impossibili" come Sinosauropteryx, Protarchaeopteryx, Caudipteryx, Beipiaosaurus e Jinfengopteryx, che provengono tutti dalla formazione Yixian, della Cina settentrionale. Epidexipteryx , che potete vedere qui a fianco ricostruito dai cinesi Qiu Ji e Xing Lida, era addirittura dotato di quattro lunghissime penne caudali, probabilmente molto colorate e perciò usate per far colpo sulle femmine. Riccamente piumata sembra essere stata la famiglia dei dromeosauridi, in particolare il Cryptovolans, che sembra fosse in grado anche di volare. Alcuni scienziati ipotizzano che questi Dromeosauridi potrebbero addirittura essersi evoluti dagli uccelli, perdendo la capacità di volare, ma conservando le piume!!
Di recente un gruppo di ricercatori dell'Università del Kansas e della cinese Northeastern University a Shenyang hanno descritto con cura uno strano fossile, battezzato Microraptor gui, non più lungo di 75 centimetri, dimostrando come questo piccolo dinosauro possedesse addirittura quattro "ali", probabilmente adatte al volo. Infatti anche le sue zampe posteriori erano dotate di lunghe penne, rendendo questi arti quasi due ali supplementari. I fossili straordinariamente ben conservati del Microraptor hanno fornito ai paleontologi immagini estremamente dettagliate non solo delle articolazioni dello scheletro, ma anche del piumaggio e degli angoli d'innesto, rendendo possibile la costruzione di un modello reale accurato. « Siamo stati in grado di articolare le teste dei femori e mostrare che era in grado di veleggiare », ha osservato David Burnham, uno degli autori dello studio, « e con risultati molto migliori di quelli degli attuali "lemuri volanti" ». Dai risultati dello studio risulta inoltre che la postura "a biplano" e la pesantezza della testa, unite alle lunghe penne posteriori, avrebbero reso estremamente difficile a Microraptor restare a lungo in posizione eretta al suolo e camminare, portando alla conclusione che esso doveva condurre un'esistenza esclusivamente arboricola. La scoperta mette a segno un punto importante a favore della tesi degli uccelli discesi da animali arboricoli non in grado di correre sulle zampe posteriori.
E non è tutto. Un team di paleontologi inglesi dell'Università di Bristol, cinesi dell'Institute of Vertebrate Paleontology and Paleoanthropology a Pechino e irlandesi dell'Università di Dublino hanno scoperto che il già citato Sinosauropteryx era coperto di semplici setole, precursori delle piume, che formavano anelli bianchi e arancioni alternati. Essi hanno anche scoperto che Confuciusornis, un uccello preistorico con le dimensioni di un corvo, aveva un piumaggio con macchie bianche, nere e marroni. Questa è la prima volta che ci pervengono informazione sul colore dei dinosauri! « La nostra ricerca fornisce inoltre nuovissime informazioni sull'origine delle piume », ha dichiarato il professor Mike Benton dell'Università di Bristol, uno degli scienziati coinvolti nello studio. « In particolare, consente di risolvere un dibattito di lunga data circa la funzione originale delle piume: servivano a volare, a scopo di termoregolazione o per motivi di corteggiamento delle femmine, come fanno i pavoni? Noi ora sappiamo che le piume sono nate prima delle ali, dunque non hanno avuto origine come strutture atte a volare, ma per fare bella mostra di livree molto colorate, e solo più tardi nella loro storia evolutiva sono diventate uno strumento utile per il volo e per consentire l'omeotermia ». Lo studio ha anche riscontrato che le penne del Sinosauropteryx erano presenti solo dinosauri in alcune parti del corpo, e precisamente su una cresta che correva al centro della sua schiena e intorno alla coda. « Questo dimostra che avevano solo un ruolo limitato nella regolazione della temperatura », ha aggiunto Benton.
Nel più grande deposito di ambra del Canada, situato in prossimità del lago di Grassy nel sud-ovest dello Stato dell'Alberta, sono stati ritrovati ben 11 campioni, rappresentanti diverse fasi evolutive delle penne di dinosauro, conservate per ben 80 milioni di anni (per sei giorni e mezzo) nella resina fossile. La scoperta è stata effettuata nel 2011 da ricercatori dell'Università dell'Alberta e dell'Università di Manchester. « Abbiamo ritrovato penne che sembrano essere poco filamentose, simili a capelli; filamenti aggregati in gruppi; e altre che a tutti gli effetti sono identiche alle penne moderne », ha dichiarato Shelley McKellar: « quelle più evolute sono molto simili a quelle degli odierni uccelli acquatici, ma nessuna di quelle ritrovate è adatta al volo: la loro funzione doveva essere squisitamente ornamentale ». I paleontologi hanno analizzato in particolare i melanosomi, strutture cellulari che contengono melanina, il pigmento più comune negli animali. Essi si trovano all'interno della struttura di piume e pellicce degli uccelli e dei mammiferi moderni, e sono responsabili delle tonalità di nero, grigio, arancio e marrone alle loro livree. Queste strutture cellulari sono molto resistenti, e possono sopravvivere all'interno di una penna per centinaia di milioni di anni. Il Sinosauropteryx, per esempio, possedeva una livrea presumibilmente rossa. In ogni caso quei colori non erano affatto opachi, come quelli che caratterizzano gran parte dei rettili odierni, ma assai brillanti. Gli scienziati sperano che il futuro ci consenta di mappare la posizione dei colori e dei modelli di piume intorno al corpo di tutti questi bizzarri dinosauri piumati.
I dinosauri piumati cinesi
Che la Cina è la vera e propria Mecca degli studiosi dei dinosauri lo dimostra il ritrovamento dei resti dello Yutyrannus huali, il cui nome significa "bellissimo tiranno piumato", lungo 9 metri e pesante 1.400 chili, parente degli enormi Tirannosauri. L'Accademia Cinese delle Scienze ne ha trovati tre esemplari quasi completi nella provincia nord-orientale di Liaoning: si tratta del primo dinosauro di grandi dimensioni in cui è stata accertata la presenza di piume. « Le piume sono semplici filamenti che assomigliano al "piumino" dei pulcini degli uccelli attuali », ha spiegato il professore Xu Xing, specialista dei vertebrati dell'Istituto di Paleontologia di Pechino. Il piumaggio di questi animali aveva probabilmente una funzione di isolamento termico. Ma questo pone un dilemma ai paleontologi: infatti i dinosauri, più grandi erano, maggiore era il problema della dissipazione del loro calore in eccesso (per esempio oggi gli elefanti hanno enormi orecchie proprio per dissipare il calore prodotto dai loro grandi corpi). Il clima potrebbe essere la soluzione giusta: questi rettili sono vissuti infatti nel Cretacico Superiore, 125 milioni di anni fa (le 20.40 del 21 dicembre): un periodo freddo (le temperature medie si aggiravano sui 10°), precedente a quello caldo (18°) in cui sono vissuti i tirannosauri. In questi ultimi, infatti, si siano conservati solo strati di pelle senza piume, ma non si può escludere del tutto la possibilità che avessero anch'essi piccole aree piumate. Secondo Xing « è possibile che le piume fossero molto più diffuse, almeno tra i dinosauri carnivori, di quanto ipotizzato fino a pochi anni fa ».
Il dibattito è stato ulteriormente arricchito dal ritrovamento, sempre avvenuto in Cina, di un altro piccolo dinosauro pennuto, il Sinornithosaurus, un dromeosauride vissuto circa 128 milioni di anni fa (alle 14.49 del 21 dicembre), che a quanto pare era in grado di uccidere le proprie prede mediante il suo... veleno. La scoperta la dobbiamo ad un gruppo di ricercatori diretti da Enpu Gong, della Northeastern University a Shenyang, in Cina, e Larry Martin dell'Università del Kansas: si tratta del primo fossile che attesta la produzione di veleno in un dinosauro, per di più membro della linea filogenetica degli uccelli. « Lo si può considerare a tutti gli effetti un uccello velenoso », ha commentato Martin. « Si trattava di un animale della taglia di un tacchino; era un predatore specializzato in piccoli dinosauri e uccelli, era quasi sicuramente dotato di penne ed era strettamente imparentato con il Microraptor. » L'animale era dotato di una particolare depressione ai lati del muso, destinata ad ospitare ghiandole velenifere, collegata a un'ulteriore lunga depressione laterale in collegamento con la base di una serie di lunghi denti scanalati presenti nell'arcata superiore. Questa struttura ricorda in particolare il sistema di inoculazione del veleno a bassa pressione che si osserva oggi nella lucertola perlinata (Heloderma horridum), ma Sinornithosaurus era dotato di denti ben più lunghi, in grado di trapassare agevolmente il piumaggio delle sue probabili prede preferite. Un aspetto veramente impensato fino a poco tempo fa dell'etologia dei dinosauri, considerando che Sinornithosaurus apparteneva alla stessa famiglia del più noto Velociraptor!
Lo Jianianhualong tengi (disegno di Julius T. Csotonyi) |
Si è inoltre rivelata importantissima la scoperta effettuata dal cinese Xing Xu e dai canadesi Philip Currie e Michael Pittman nella primavera del 2017. È stato battezzato Jianianhualong tengi, è vissuto in Cina nel Cretacico Inferiore tra 145 e 100 milioni di anni fa (tra le 05.44 del 20 dicembre le 21.20 del 23 dicembre) e si tratta di un fossile appartenente alla famiglia dei troodontidi, piccoli dinosauri molto simili ai moderni uccelli. Esso aveva infatti piume asimmetriche, le cosiddette piume remiganti, lunghe e rigide che consentono agli uccelli di avere una spinta sufficiente per spiccare il volo e di manovrare in aria. Si tratta di piume caratteristiche degli uccelli, che possiedono anche quelli che non volano, ma finora tra i dinosauri erano state rinvenute solo una volta tra i dromeosauri. In base alla ricostruzione effettuata, la nuova specie assomigliava a un grosso fagiano: era lungo un metro coda compresa, e pesava circa due chili e mezzo. Aveva però un becco dotato di denti, caratteristica tipica dei primi uccelli. La scoperta fa supporre che le penne adatte al volo si siano evolute prima della separazione degli uccelli dai rettili.
Era un gigantesco oviraptor piumato anche il dinosauro che deponeva enormi uova in nidi di due o tre metri di diametro per poi covarle sotto il suo peso. A descrivere questa specie nel 2017 è stato un gruppo di paleontologi cinesi guidati da Hanyong Pu dello Henan Geological Museum, che quasi 25 anni dopo la scoperta di quelle antichissime uova ha potuto studiare l'embrione fossile ben conservato contenuto in una di esse. Agli inizi degli anni novanta, infatti, vennero scoperte in varie formazioni rocciose della provincia cinese di Henan numerose uova di dinosauro, molte delle quali furono però trafugate all'estero. Fra queste vi era anche un fossile eccezionalmente ben conservato, che arrivò negli Stati Uniti nel 1993, dove si guadagnò fama mondiale con il nomignolo di "Baby Louie", e fu poi esposto per diversi anni all'Indianapolis Children's Museum, per essere poi restituito allo Henan Geological Museum nel 2013. La specie, chiamata Beibeilong sinensis ("beibei" in cinese significa "bambino", e "long" significa "drago"), è vissuta nel Cretaceo fra 100 e 90 milioni di anni fa (tra le 21.20 del 23 dicembre e le 16.48 del 24 dicembre), e deponeva uova lunghe fino a 45 centimetri e pesanti circa 5 chilogrammi in grandi nidi che potevano contenerne una ventina. L'embrione descritto dai ricercatori, che morì durante la schiusa, è lungo appena 38 centimetri dal muso alla base della coda, ma l'analisi delle sue ossa e dell'uovo fossile ha rivelato che si trattava di una nuova specie di oviraptor decisamente imponente. Pur non disponendo di ossa di esemplari adulti, sulla base del confronto con i dinosauri strettamente imparentati, Pu e colleghi sono riusciti a stabilire che doveva raggiungere gli 8 metri di lunghezza e un peso compreso fra 1,4 e 3,2 tonnellate. Diversi indizi indicano inoltre che covasse le sue uova. Finora tutti gli oviraptor noti erano di taglia decisamente più piccola, fra quella di un tacchino e quella di un emù, con la sola eccezione di Gigantiraptor, che aveva una stazza paragonabile a quella di Beibeilong. La scoperta di Pu e colleghi fa quindi ipotizzare che fra questi dinosauri il gigantismo potesse essere più diffuso di quanto finora pensato.
Impossibile non citare anche il cosiddetto "dinosauro arcobaleno", che aveva la testa di un velociraptor e le piume colorate e iridescenti come quelle di un colibrì. Tanto strano da sembrare uscito da un film di fantascienza, in realtà esistette davvero 160 milioni di anni fa (alle 00.32 del 19 dicembre): era un mix fra un uccello colorato e un rettile e il suo aspetto è stato finalmente ricostruito grazie a tecniche computerizzate. Il nuovo dinosauro scoperto si chiama Caihong juji, che in cinese significa "arcobaleno con la grande cresta". Come ha spiegato Xing Xu, paleontologo della Chinese Academy of Sciences, era grande più o meno come un'anatra e dal peso di circa 500 grammi: carnivoro, si spostava da un albero all'altro a caccia di lucertole. Nel 2014 un agricoltore locale ritrovò il fossile di un Caihong nella provincia cinese di Hebei e da allora, conservato in un museo, il reperto è stato oggetto di studio da parte di più paleontologi. A guidare il team Dongyu Hu, paleontologo della Shenyang Normal University, che in quei resti ha individuato sacche di pigmenti chiamati melanosomi. Dalle successive analisi è stato dedotto che le strutture dei colori di quelle piume erano simili a quelle dei colibrì, capaci di formare giochi di luce e lucentezze metalliche: l'ipotesi è che i colori del piumaggio del Caihong fossero quelli dell'arcobaleno. Le piume, come per i pavoni oggi, secondo alcuni potevano servire per corteggiamenti sessuali o per mostrare il proprio "status", ma secondo altri erano un avviso ad altri eventuali predatori, affinché non arrivassero a tiro dei suoi artigli, come in molti serpenti velenosi moderni. E non è tutto: questo strano dinosauro aveva anche una curiosa cresta di osso davanti agli occhi, anche questa probabilmente utilizzata per mettersi in mostra. Altre caratteristiche di questo bizzarro animale sono la coda simile a una foglia di felce e le particolari penne asimmetriche capaci di sostenere il carico aerodinamico del volo, dettaglio che lo rendeva unico. Più dinosauri piumati troviamo, più ci accorgiamo di quanto fossero simili agli uccelli.
Squame, piume o entrambe?
Alcuni paleontologi dell’Università di Namur e dell’Università di Gand, in Belgio, e del College Universitario di Cork, in Irlanda, hanno dimostrato nel 2021 che le prime piume comparse sulla Terra milioni di anni fa erano colorate e, come per gli uccelli moderni, rappresentavano già importanti strumenti per la comunicazione visiva fra gli individui. La scoperta, oltre a far luce sulle caratteristiche e le funzioni delle piume più antiche, riscrive la storia evolutiva di queste importanti strutture. Per riuscirci, i paleontologi hanno analizzato i resti fossilizzati di uno pterosauro vissuto 110 milioni di anni fa (alle ore 01.52 del 23/12), Tupandactylus imperator, trovando le prove di un piumaggio riccamente colorato. Si trattava di uno pterosauro di grandi dimensioni, con ampie ali membranose che potevano raggiungere un’apertura di oltre cinque metri, una testa leggera ma possente, una mascella senza denti simile a un becco e una grande cresta sopra la testa, le cui funzioni non sono ancora ben chiare. Fin dai tempi delle prime scoperte su queste creature sono stati trovati dei monofilamenti, considerati baffi a filo singolo, e strutture tegumentarie ramificate chiamate picnofibre, che i paleontologi hanno interpretato come piume. La scienza era però ancora alla ricerca di conferme che si trattasse o meno di un vero e proprio piumaggio. Il reperto di Tupandactylus imperator è un cranio incompleto fossilizzato, rinvenuto nella formazione del Cretaceo inferiore del bacino di Araripe, in Brasile, che presenta parti molli ben conservate, diversi monofilamenti e strutture tegumentarie considerate piume. Per studiare queste strutture, portate alla base e sulla parte posteriore della cresta cranica, i ricercatori hanno usato la microscopia elettronica a scansione (SEM), una tecnica che consente di eseguire indagini morfologiche sulle superfici.
La pelle degli uccelli di oggi è morbida e si è evoluta per sostenere, controllare, far crescere e pigmentare le penne, a differenza della pelle squamosa dei rettili. Le scaglie dei rettili sono dure e rigide perché ricche di un tipo di proteina che costruisce la pelle, la robusta beta-cheratina. La pelle morbida degli uccelli, invece, è composta da un altro tipo di proteine, le cheratine, che sono il materiale strutturale fondamentale di peli, unghie, artigli, zoccoli e della nostra parte esterna della pelle. Tuttavia, uno studio del 2018 su quattro fossili con pelle conservata, ha dimostrato che la pelle dei primi uccelli e dei loro stretti parenti dinosauri, i celurosauri,era già molto simile alla pelle degli uccelli di oggi. La pelle degli uccelli, insomma, si è evoluta prima che arrivassero i dinosauri simili agli uccelli. Un'ulteriore ricerca, condotta da Zixiao Yang e Maria McNamara dello University College di Cork, in Irlanda, intorno ad un esemplare di Psittacosaurus, un dinosauro vissuto 130 milioni di anni fa (alle 10.56 del 21 dicembre) e dotato di corna, che sulla coda aveva penne simili a setole, ha dimostrato che almeno alcuni dinosauri pennuti avevano ancora una pelle squamosa, come i rettili di oggi. In questo fossile i tessuti molli non sono visibili a occhio nudo, ma sotto la luce ultravioletta la pelle squamosa, conservata sul torso e sugli arti, parti del corpo che non avevano penne, si rivela di un colore giallo-arancione, dovuto ai minerali di silice che sono responsabili della conservazione della pelle fossile. Durante la fossilizzazione, i fluidi ricchi di silice hanno permeato la pelle prima che si decomponesse, replicando la struttura della pelle con incredibile dettaglio: si sono conservate le caratteristiche anatomiche più fini, tra cui l'epidermide, le cellule della pelle e i pigmenti cutanei chiamati melanosomi. La distribuzione del pigmento della pelle fossile è identica a quella delle squame dei coccodrilli moderni, ma la pelle fossile sembra relativamente sottile per gli standard dei rettili. Ciò suggerisce che anche le scaglie fossili di Psittacosaurus erano simili per composizione a quelle dei rettili. Per fornire una protezione efficiente, la pelle sottile e nuda di Psittacosaurus doveva essere composta da proteine cornee beta di tipo rettile: una pelle più morbida, simile a quella degli uccelli, sarebbe stata troppo fragile senza penne come protezione. Insomma, le nuove prove fossili indicano che Psittacosaurus aveva una pelle da rettile nelle aree in cui non aveva le penne. La coda del fossile esaminato purtroppo non ha conservato né penne né pelle, ma le penne della coda di altri esemplari dimostrano che alcune caratteristiche della pelle simili a quelle degli uccelli dovevano già essersi evolute per mantenere le penne al loro posto. Questa ricerca suggerisce quindi che i primi animali pennuti avessero un mix di tipi di pelle, con pelle simile a quella degli uccelli solo nelle regioni del corpo pennuti e il resto della pelle ancora squamosa, come nei rettili moderni. La prossima lacuna di conoscenza che i paleontologi dovranno esplorare è la transizione evolutiva dalla pelle da rettile di Psittacosaurus alla pelle di altri dinosauri più pennuti e dei primi uccelli.
C'è anche chi ha portato queste conclusioni alle estreme conseguenze. Un gruppo di ricercatori guidati dal paleontologo belga Pascal Godefroit del Muséum des Sciences Naturelles de Belgique ha trovato in Siberia un fossile di un dinosauro con piume sottilissime, e lo ha battezzato Kulindadromeus zabaikalicus. Visse tra i 169 e i 144 milioni di anni fa (dalle 7.00 del 18/12 alle 7.41 del 20/12), era lungo circa un metro e mezzo, aveva zampe grandi ma corte e una lunga coda ed aveva piume su schiena, busto e collo, non su muso e zampe. Questa scoperta è rilevante perché si tratta del primo dinosauro non carnivoro con piume diffuse su tutto il corpo. Se a livello scientifico si desse conferma alla scoperta, molto di ciò che sappiamo sui dinosauri verrebbe stravolto. Finora le specie antenate degli uccelli erano considerate tutte carnivore. L’erbivoro Kulindadromeus zabaikalicus avrebbe invece dato vita ad una evoluzione indipendente. « Ciò suggerisce » è la convinzione di Pascal Godefroit « che potenzialmente tutti i dinosauri possano essersi sviluppati con le piume! » Insomma, i dinosauri come ce li immaginiamo e come li abbiamo sempre visti sui libri o nei film potrebbero non essere affatto realistici: forse le lucertole terribili non avevano la pelle dura e squamata come quella delle lucertole, era ma ricoperta anche di piume. Solo gli studi futuri potranno dirci se questa ricostruzione è realistica oppure no.
Il primo trampoliere
Nel 2022 un gruppo di paleontologi del Fujian Institute of Geological Survey di Fuzhou e dell’Accademia Cinese delle Scienze ha scoperto a Zhenghe, nella provincia del Fujian (Cina sudorientale) un fossile che ha aggiunto indizi importanti sulle prime fasi dell’evoluzione degli uccelli. Battezzato Fujianvenator prodigiosus, esso appartiene a un dinosauro teropode aviano, cioè con caratteristiche simili a quelle degli uccelli, vissuto 150 milioni di anni fa (alle ore 20 del 19 dicembre). Ancor oggi, oltre un secolo e mezzo dopo la scoperta di Archaeopteryx lithographica, l’evoluzione degli uccelli e delle caratteristiche che hanno portato al volo dei primi dinosauri aviani rimane una questione largamente aperta, poiché le prove fossili per questo ramo dell’evoluzione sono limitate e non permettono una piena comprensione della storia antica di questi animali. Fujianvenator, coevo di Archaeopteryx, suggerisce che nelle fasi finali del Giurassico i dinosauri avessero già iniziato a diversificarsi in diversi tipi di uccelli e fossero in grado di abitare diversi ambienti. Con altri dinosauri aviani, Fujianvenator condivide alcune caratteristiche tipiche dei dinosauri simili agli uccelli; il reperto, delle dimensioni di un fagiano e mancante di testa e coda completa, ha la lunghezza delle dita, le dimensioni delle vertebre del tronco e il bacino paragonabili a quelle di Archaeopteryx e altri esemplari fossili aviani. Le analisi comparative effettuate dai ricercatori dimostrano dunque come i cambiamenti del piano corporeo dei dinosauri aviani siano avvenuti presto nella linea evolutiva degli uccelli, principalmente a carico degli arti anteriori. Nonostante la presenza delle ali, in Fujianvenator mancano però le caratteristiche aviane in grado di supportare il volo: il cinto pettorale è troppo poco sviluppato per permettere l’inserzione di muscoli potenti adatti al volo, un aspetto che si riscontra anche in Archaeopteryx e che nel nuovo dinosauro aviano è più marcato.
A sorprendere i ricercatori però sono i tratti insoliti degli arti posteriori del fossile: le zampe risultano infatti insolitamente lunghe, con la tibia lunga il doppio del femore. Questo è l’aspetto più interessante della scoperta: secondo gli autori, gambe così lunghe suggerirebbero che Fujianvenator fosse un corridore ad alta velocità o un trampoliere che usava le lunghe leve degli arti posteriori per guadare gli specchi d’acqua. Rispetto ad altri primi dinosauri aviani, con caratteristiche morfologiche coerenti con ambienti arborei e aerei, Fujianvenator potrebbe essere stato quindi una specie adatta a vivere negli ambienti di palude, una nicchia ecologica mai considerata in precedenza per i primi aviani. La teoria della palude è supportata inoltre da altri resti scoperti nello stesso giacimento fossilifero di Zhenghe dal quale proviene Fujianvenator. I ricercatori hanno trovato infatti resti di molti altri vertebrati, tra i quali pesci teleostei, testudini e coristoderi, un gruppo di rettili semiacquatici vissuto fra il Giurassico e il Miocene. I ricercatori chiamano questo insieme di vertebrati Fauna Zhenghe, e la datazione radioisotopica la colloca fra i 150 e i 148 milioni di anni fa (tra le 20.00 e le 23.53 el 19/12). In realtà secondo molti esperti del ramo la capacità degli uccelli di abitare diversi ambienti già nel Giurassico superiore non deve sorprendere: è probabile che nel Giurassico medio ci sia stata una radiazione adattativa, ma i fossili di questo periodo sono rari. Non è inaspettato che nel Giurassico superiore ci siano forme, come Fujianvenator, già differenziate; mancano solo i dati per capire quello che è successo prima.
La diversificazione degli uccelli
Come abbiamo visto, gli uccelli moderni sono il gruppo di vertebrati terrestri più diversificati in termini di numero di specie e di distribuzione nel pianeta, ma la loro storia evolutiva su scala globale presenta ancora molti lati oscuri a causa di grandi lacune nella documentazione fossile. Con pochissime eccezioni, infatti, oggi si dispone di fossili di uccelli risalenti solo al periodo successivo all'estinzione di fine Cretaceo. Questo ha indotto diversi ricercatori a ipotizzare che gli uccelli moderni abbiano iniziato a diversificarsi solo dopo questo evento, quando erano scomparsi i principali concorrenti. Invece oggi sappiamo che gli uccelli moderni iniziarono a diversificarsi in quello che oggi è il Sudamerica circa 90 milioni di anni fa (alle 16.48 del 24 dicembre), e la loro diffusione nel resto del mondo fu condizionata dalla tettonica a placche del pianeta. A stabilirlo è stato uno studio condotto su 130 resti fossili di uccelli moderni da Santiago Claramunt e Joel Cracraft, dell'American Museum of Natural History a New York. Cracraft e Claramunt hanno incrociato i dati ottenuti dai fossili con quelli di precedenti ricerche che avevano analizzato le sequenze di DNA delle famiglie di uccelli moderne. Successivamente, con sofisticati modelli statistici, hanno definito quale fra le possibili ricostruzioni filogenetiche concordasse maggiormente con la distribuzione delle specie viventi e dei fossili, e con le modifiche della geografia causate dai movimenti dei continenti dovuti alla tettonica a placche.
Da questa analisi è risultato che la diversificazione degli uccelli in più generi e specie adatte a differenti nicchie ecologiche è cominciata ben prima dell'estinzione di massa che spazzò via i dinosauri. Tuttavia, fu solo dopo quell'evento che dal Sudamerica iniziarono a diffondersi nel resto del globo prima verso il Nordamerica attraverso il ponte di terra dell'America centrale, per poi raggiungere il Vecchio Continente; e parallelamente, verso l'Australia e la Nuova Zelanda attraverso l'Antartide, che all'epoca era un continente relativamente caldo. Claramunt e Cracraft hanno anche scoperto che i tassi di diversificazione degli uccelli aumentarono durante i periodi di raffreddamento globale: « Quando la Terra si raffreddò e il clima divennne più asciutto », ha dichiarato Cracraft, « la frammentazione delle foreste tropicali diede origine a popolazioni di uccelli isolate le une dalle altre. Molte volte, queste piccole popolazioni si estinsero, ma la frammentazione offrì anche l'opportunità di una diffusa speciazione a cui è seguita una proliferazione delle popolazioni quando gli habitat sono diventati di nuovo caldi. »
Aggiungiamo che nel 2020 l'Università di Cambridge ha annunciato la scoperta in Belgio del più antico uccello moderno del mondo, prontamente battezzato "wonderchicken", cioè "pollo delle meraviglie". Esso era grande come mezza anatra selvatica, pesava circa 400 grammi e aveva piume marroni, castane e a tratti dorate. Il dottor Daniel Field, autore dello studio, ha dimostrato che viveva 66,8 milioni di anni fa (alle 13.58 del 26 dicembre) insieme ai dinosauri, e rappresenta la prova più antica di uccello moderno perché si è evoluto dai dinosauri teropodi carnivori, emergendo sulla terra tra 110 e 70 milioni di anni fa e, a differenza delle specie "antiche", non ha denti, code ossute o artigli sulle ali. Il wonderchicken, è molto vicino all'antenato comune dei due principali gruppi di uccelli viventi nella nostra epoca: il primo ha dato origine a polli, galline e simili, mentre il secondo alle anatre e ai loro parenti. Precedentemente il record di uccello moderno più antico del mondo apparteneva al Vegavis, attivo fino a 66,5 milioni di anni fa (alle 14.33 di Santo Stefano), i cui fossili vennero ritrovati in Antartide. Il piccolo teschietto del wonderchicken, invece, è stato rinvenuto nel 2000 dai ricercatori del Museo di Storia Naturale di Maastricht in una cava in Belgio, all'interno di una roccia marina sedimentaria, e per questo il fossile è stato battezzato Asteriornis maastrichtensis.
La penna di
dinosauro di Myitkyina |
"Jurassic Park" in Birmania
Era appoggiato su un banco, nel mercatino dell’ambra di Myitkyina, all'interno di Myanmar (Birmania). Sembrava un monile, già levigato dai venditori, con i resti di qualcosa che traspariva dall’interno. A Lida Xing, dell'Università di Pechino, durante il 2015 capitò di passare da lì. I suoi occhi esperti gli suggerirono però un’interpretazione diversa. Comprò il monile, lo portò a casa e lo esaminò con tutti i microscopi più avanzati che aveva in istituto, fino ad arrivare a 'una scoperta stupefacente: una penna di dinosauro di 99 milioni di anni fa perfettamente conservata nell'ambra.
Anche se da questo tipo di dinosauri, chiamati celurosauri, discesero tra gli altri i tirannosauri, l'esemplare rimasto con la coda intrappolata nell’ambra era probabilmente un giovane di taglia piccola, non più grande di un passerotto. La coda piumata, con otto vertebre e mezza da due millimetri ciascuna, è lunga in tutto 3,6 centimetri. Accanto ai resti ossei ci sono tracce di muscoli, legamenti e pelle mummificata. E anche di ferro: quel che resta probabilmente del sangue di questo giovane dinosauro. Le sue piume, a differenza di quelle che sono state trovate fossilizzate nella roccia, non sono schiacciate: rappresentano un’immagine a tre dimensioni, e quindi particolarmente realistica, di quella che era la loro forma e disposizione mentre il cucciolo era in vita. Xing e i suoi colleghi le hanno esaminate con uno speciale apparecchio ai raggi X capace di scendere al dettaglio del millesimo di millimetro, oltre che con microscopi tradizionali ed elettronici. Dopotutto Michael Crichton aveva ragione: l'ambra conserva interi frammenti degli ecosistemi del passato e preserva dettagli microscopici e tessuti deperibili che non potrebbero essere osservati in altri tipi di fossili.
I celurosauri camminavano su due zampe, ma non necessariamente gli arti anteriori erano tanto sviluppati da permettere loro di volare. Le penne erano piuttosto primitive: una sorta di piumino come quello dei pulcini, marroni in alto e chiare, quasi bianche nella parte inferiore. Troppo deboli, verosimilmente, per sostenere un corpo in aria. Per i paleontologi la scoperta offre un'illuminazione importante: il piccolo celurosauro di Myitkyina è una conferma che le bellissime penne intrappolate nell'ambra non avevano nulla a che fare con la morfologia dei rettili più antichi, ma erano quasi pronte per far spiccare il volo agli uccelli così come li conosciamo oggi.
Una questione di zampe
La singolare postura accovacciata degli uccelli, che camminano mantenendo la coscia e il femore in una posizione quasi orizzontale, è un'eredità dei loro antenati dinosauri ad andatura bipede, come il Velociraptor, ed è legata al progressivo allungamento delle zampe posteriori che assicurava loro una maggiore agilità. È questo il risultato a cui è giunta una ricerca effettuata da biologi e paleontologi della Friedrich Schiller University di Jena, in Germania, e del Royal Veterinary College a Hatfield, nel Regno Unito, grazie all'analisi di modelli virtuali tridimensionali ottenuti dalla scansione delle strutture ossee di 17 dinosauri appartenenti a diversi periodi geologici. Grazie alle scansioni, gli scienziati hanno ottenuto immagini tridimensionali degli scheletri dei dinosauri, ai quali poi è stata applicata digitalmente un'anatomia muscolare.
La postura accovacciata è indispensabile agli uccelli per mantenere il loro equilibrio, assicurando che il centro di massa si trovi sulla verticale delle zampe, ed è stata osservata anche negli ultimi dinosauri. I primi di essi, circa 245 milioni di anni fa (alle 03.00 del 12 dicembre), avevano un aspetto vagamente simile ai rettili moderni: animali a quattro zampe, dotati di lunghe e pesanti code, con lunghi arti per spostarsi agevolmente sulla terraferma. Piuttosto presto, però, circa 235 milioni di anni fa (alle 23.32 dello stesso giorno), acquisirono un'andatura bipede. Per lungo tempo i paleontologi hanno ipotizzato che la postura accovacciata, e lo strano modo di muoversi che ne consegue, si sia evoluta con il progressivo accorciamento della coda, quindi con un graduale spostamento del centro di massa, che alla fine ha portato alcuni dinosauri ad avere un assetto simile a quello degli uccelli attuali. La nuova ricerca tuttavia modifica sostanzialmente questo quadro. « I nostri risultati ci hanno sorpreso », ha dichiarato John Hutchinson, che ha diretto lo studio: « più che l'accorciamento della coda, è stato l'allungamento degli arti a determinare il cambiamento di postura. Ovviamente gli uccelli e i dinosauri volanti avevano grandi arti anteriori utili al volo. Ma i dinosauri più vicini all'origine degli uccelli avevano sviluppato gli arti per motivi diversi dal volo, come la cattura delle prede o lo spostarsi su un terreno difficile. Questi arti anteriori più sviluppati divennero evidenti in animali come i famosi dinosauri piumati Microraptor e Velociraptor, e come nel primo uccello, Archaeopteryx." »
Il paperodinosauro
Una nuova e bizzarra specie di dinosauri, dall'aspetto simile a quello di una papera, ma fornita di denti, e con uno stile di vita diverso da quello di tutti gli altri dinosauri predatori, è stata identificata da un gruppo di paleontologi guidati da Andrea Cau, del Museo Geologico "Giovanni Capellini" di Bologna. Scoperto nel sito di Ukhaa Tolgod, nella Mongolia meridionale, il fossile di Halszkaraptor escuillie risale a un periodo compreso fra 75 e 71 milioni di anni fa (tra le 22.00 del 25/12 e le 05.47 del 26/12), e le sue caratteristiche indicano che apparteneva alla stessa famiglia dei Velociraptor, dalla quale si è poi separata la linea evolutiva che ha portato agli uccelli. Sulla terraferma l'animale aveva un'andatura bipede, ma le zampe anteriori modificate a pinna indicano che era parzialmente adattato a una vita acquatica, avanzando probabilmente in modo analogo ai pinguini e ad altri uccelli acquatici. Le zampe posteriori erano dotate di artigli a falce, e il lungo collo di Halszkaraptor escuilliei, che ricorda quello di un cigno, doveva aiutarlo a catturare le prede. In un primo momento, il singolare mosaico di caratteristiche, per lo più assenti negli altri dinosauri di questa famiglia, aveva indotto i ricercatori a nutrire sospetti sul reperto, che era stato recuperato dall'Accademia delle Scienze Mongola nel 2015, dopo essere stato trafugato dal sito della scoperta e passato di mano in mano fra diversi collezionisti privati.
Cau e colleghi hanno quindi sottoposto il fossile a una tomografia con luce di sincrotrone all'European Synchrotron Radiation Facility di Grenoble, in Francia, che non solo ha confermato l'assenza di manipolazioni sul reperto, ma ha anche permesso di ricostruire con grande precisione le parti del fossile ancora all'interno della roccia. In particolare, la ricostruzione in 3D dei resti ha evidenziato la presenza nella bocca di numerosi denti, non visibili esternamente, e anche di un reticolo neurovascolare all'interno del muso che somiglia molto a quello dei coccodrilli moderni. Tutti dettagli che corroborano l'ipotesi secondo cui Halszkaraptor escuilliei fosse un predatore acquatico. Il nome del genere, Halszkaraptor, è stato attribuito come omaggio alla scomparsa paleontologa polacca Halszka Osmólska (1930-2008), una dei primi a studiare approfonditamente i dinosauri del deserto del Gobi, mentre il nome della specie deriva da quello del francese François Escuillié, che per primo riconobbe l'importanza del fossile durante una visita a una collezione privata e si adoperò affinché tornasse in Mongolia.
Gli uccelli senza denti
Quello che tutti sanno è che gli uccelli, a partire dalla fine del Mesozoico, sono privi di denti. Quello che pochi sanno è che gli uccelli del Mesozoico i denti ce li avevano eccome. Quello che nessuno sa con certezza, è per quale motivo li hanno persi. Di solito questa perdita era spiegata attraverso la riduzione del peso corporeo, ma i paleontologi degli anni Duemila pensano che l'adattamento dietetico avrebbe potuto essere un fattore ancora più importante. Una conferma indiretta viene dalla scoperta e dall'analisi di due nuovi reperti fossili di due specie di uccelli del Cretacico inferiore, Hongshanornis e Sapeornis, ad opera di ricercatori dell'Accademia Cinese delle Scienze, del Museo Tianyu di Scienze Naturali e dell'Università del Kansas.
Analizzando i fossili, i ricercatori hanno infatti trovato tracce della presenza in questi animali del gozzo, una caratteristica degli odierni uccelli che si nutrono di semi. Ma di questa caratteristica non era ancora stata trovata testimonianza fossile, dato che riguarda i tessuti molli. Nei moderni uccelli granivori la presenza del gozzo permette una rapida raccolta dei semi, che vengono poi digeriti quando l'animale è al sicuro, lontano dai concorrenti e dai possibili predatori. Il muco secreto dal gozzo ammorbidisce i semi, permettendo un'agevole macinazione da parte del ventriglio, che ospita numerosi gastroliti.
« In questi reperti i semi si sono conservato nella posizione anatomica del gozzo negli uccelli attuali. In alcuni casi, anche il profilo dei tessuti molli del gozzo può essere osservato, e ricorda da vicino la struttura negli uccelli moderni », ha dichiarato Zhou Zhonghe, che ha diretto lo studio. L'evidente legame tra la comparsa del gozzo e la perdita dei denti suggerisce che il fatto di essere granivori sia stato probabilmente uno dei fattori nella riduzione dei denti nei primi uccelli. « Va anche notato che molti rapaci, come falchi, e uccelli nettivori come il colibrì hanno un gozzo. Tuttavia, le prove da noi raccolte sembrano suggerire che il nutrirsi di semi sia stato un fattore di primaria importanza nella prima evoluzione degli uccelli », ha concluso il ricercatore cinese.
Occorre anche citare la scoperta, avvenuta nella Cina nordorientale, dei fossili di undici uccelli primitivi vissuti durante il Cretaceo Inferiore, appartenenti a quattro diversi generi: Sapeornis, Yanornis, Confuciusornis ed Enantiornithes. Come si vede nell'esemplare qui sopra riportato, tutti presentano grandi piume in corrispondenza delle zampe posteriori, una caratteristica che finora era stata ritrovata solo in alcuni dinosauri piumati, mai negli uccelli. Questo dimostrerebbe l'ipotesi avanzata da alcuni, secondo cui i primi uccelli sarebbero stati dotati non di due, ma... di quattro ali. Secondo questi paleontologi gli uccelli nel corso dell'evoluzione avrebbero perso gradualmente le piume sulle zampe posteriori, che si sarebbero ricoperte di squame, diventando così più adatte per camminare sul terreno.
Vorrei aggiungere che nel 2018 un gruppo di paleontologi dell’Università di Manchester guidati da Fabien Knoll ha descritto un minuscolo fossile risalente a 127 milioni di anni fa (alle 16.46.24 del 21 dicembre) che ha dato un contributo decisivo a capire le caratteristiche anatomiche e di sviluppo dei primi uccelli. Si tratta di un pulcino, non più grande di cinque centimetri, che da vivo pesava circa 10 grammi, ed è stato catalogato come un esemplare di Enantiornithes, un gruppo di uccelli preistorici. Il fatto che sia morto poco tempo dopo la nascita ha consentito ai ricercatori di analizzare la struttura e lo sviluppo osseo della specie, e di ricavare così preziose informazioni sulle sue caratteristiche anatomiche e le sue abitudini di vita. « La diversificazione evolutiva degli uccelli ha prodotto una vasta gamma di strategie di sviluppo dei pulcini e importanti differenze nei loro tassi di crescita. Analizzando lo sviluppo osseo possiamo osservare una serie di tratti evolutivi », ha spiegato Knoll. Cruciale, per esempio, è la scoperta che lo sterno del piccolo uccello era ancora in gran parte costituito da cartilagine, il che probabilmente gli avrebbe impedito di volare. Tuttavia, la mancanza di sviluppo osseo non significa necessariamente che il cucciolo fosse molto dipendente dai genitori, e cioè che la specie sia da classificare come nidicola. Nella classe degli uccelli infatti si osserva un’ampia variabilità rispetto alla precocità dei cuccioli e alla necessità di cure parentali dopo la schiusa delle uova. È sorprendente rendersi conto di quante delle caratteristiche che vediamo tra gli uccelli attuali siano già state sviluppate più di 100 milioni di anni fa! All’avanguardia è la metodica usata dai paleontologi, senza la quale probabilmente il risultato sarebbe stato fuori dalla nostra portata. Dato che il fossile è così piccolo, l’unico modo per osservare le microstrutture anatomiche del reperto prevedeva il ricorso alla radiazione di sincrotrone, raggi X molto energetici prodotti da un acceleratore di particelle che possono essere concentrati su un’area molto piccola, come nel caso del reperto analizzato. « Le nuove tecnologie offrono ai paleontologi capacità senza precedenti per indagare su fossili che sfidano le conoscenze comuni », ha concluso Knoll. « Nel nostro studio abbiamo sfruttato il massimo delle strutture all'avanguardia in tutto il mondo, inclusi tre diversi sincrotroni in Francia, Regno Unito e Stati Uniti ».
I versi dei primi uccelli
Una sofisticata analisi tomografica ha permesso di identificare per la prima volta la struttura dell'organo vocale tipico degli uccelli (la siringa, una struttura che si è presentata relativamente tardi rispetto alle penne e al volo) in un gruppo di fossili risalenti ad un'epoca compresa tra 69 e 66 milioni di anni fa (dalle 9.41 alle 15.31 del 26 dicembre). I fossili appartengono a Vegavis iaai, una specie estinta vissuta nel Cretaceo superiore, e sono stati scoperti nel 1992 nell'isola antartica di Vega (da cui il nome). Lo studio è stato realizzato da un gruppo internazionale di ricercatori diretti da Julia A. Clarke dell'Università del Texas ad Austin. La scoperta accresce l'importanza dei fossili di Vegavis iaai, già considerati centrali per la ricostruzione dell'albero filogenetico degli uccelli perché hanno rappresentato la prima testimonianza della presenza di uccelli già nell'era dei dinosauri.
Come si è detto sopra, molti dinosauri non aviari, come Velociraptor, avevano caratteristiche che oggi sono proprie solo degli uccelli, fra cui diversi tipi di penne e piume, e il complesso sistema di sacche pneumatiche dell'apparato respiratorio. Tuttavia finora non erano mai stati condotti approfonditi studi sull'apparato fonatorio né dei dinosauri né dei primi uccelli, a causa dell'estrema rarità dei casi di fossilizzazione delle strutture cartilaginee della trachea come quelle che sostengono le membrane deputate alla produzione dei suoni. L'analisi delle strutture ricostruite suggerisce che Vegavis iaai avesse la capacità di starnazzare, producendo versi analoghi a quelli delle moderne anatre e delle oche. Questo si accorda anche con le altre caratteristiche scheletriche generali dell'animale che suggeriscono una parentela con questa famiglia di uccelli, anche se non sembra che si possa stabilire una relazione di discendenza diretta fra Vegavis iaai e gli odierni anseriformi (gli anatidi). I dinosauri, al contrario, sembra che fossero in grado di produrre solo versi di origine laringea, di frequenza più bassa, come ringhi e sibili, almeno in base ai pochi studi condotti sulla fonazione dei dinosauri. Questi dati suffragano l'ipotesi che l'evoluzione della siringa e via via della vastissima gamma di suoni prodotti dagli uccelli abbia avuto un ruolo di primo piano nell'evoluzione dei loro sistemi comportamentali e sociali e quindi della loro enorme diversificazione.
Rituali dinosaureschi di accoppiamento
A fine 2015 sono state identificate per la prima volta tracce fossili che testimoniano un probabile rituale di accoppiamento dei dinosauri, simile a quello di alcuni uccelli che nidificano a terra. A riuscirci è stato un gruppo di paleontologi dell'Università del Colorado a Denver, guidati da Martin G. Lockley, che hanno studiato e analizzato una serie di impronte lasciate da grandi teropodi in alcune formazioni di arenaria risalenti al Cretaceo. Finora si avevano indizi solo riguardo a una possibile continuità filogenetica fra dinosauri teropodi e uccelli, ma Lockley e colleghi hanno trovato prove che indicano anche un'affinità comportamentale, studiando quattro siti in Colorado in cui sono rimaste impresse le orme lasciate da vari dinosauri. Il più grande di questi siti, che occupa una superficie di circa 750 metri quadrati, ha rivelato la presenza, accanto alle orme, di 60 graffi che consistono di una serie di doppie depressioni parallele formate da graffi ben definiti, separati da una cresta centrale rialzata: l'animale si appoggiava su una zampa e con l'altra grattava il terreno.
Secondo Lockley e colleghi la disposizione e la struttura dei graffi ricorda da vicino quelli lasciati dai maschi di diverse specie attuali di uccelli che nidificano a terra: durante i rituali che precedono l'accoppiamento, i maschi si contendono le femmine esibendo davanti a esse le loro capacità di scavare per approntare un buon nido. L'ipotesi che le tracce rinvenute nei siti siano da attribuire a un comportamento rituale è suffragata dal fatto che in nessuno dei siti esaminati, né nelle immediate vicinanze, siano presenti nidi di dinosauro: quindi non erano stati scelti dai dinosauri perché fossero adatti a un nido reale, ma perché offrivano una buona “arena” in cui esibirsi. I nidi, comunque, non dovrebbero essere troppo lontani. Quei graffi sembrano quindi indicare un comportamento stereotipato di tipo aviario finora sconosciuto tra i teropodi del Cretaceo, probabilmente associato con l'attività territoriale nella stagione riproduttiva. Inoltre, alla luce delle diverse dimensioni e profondità dei graffi è plausibile che siano stati lasciati da teropodi di specie differenti e che, quindi, il rituale di accoppiamento fosse diffuso in questo tipo di animali.
Due paleontologi accanto a un'impronta e a un graffio prodotto da un dinosauro (grazie a M. Lockley) |
I dinosauri pelosi
E non è tutto; sempre dalle foreste preistoriche della Cina nord-orientale, e precisamente dalla provincia di Liaoning, abitata fra l'altro da forme primitive di uccelli, ci arriva un altro bizzarro fossile di dinosauro, un piccolo esemplare vissuto circa 144 milioni di anni fa (alle 7.41 del 20 dicembre) che, diversamente dai dinosauri piumati ritrovati fino ad oggi e appartenenti al sottordine dei teropodi, è invece un eterodontosauride. Gli eterodontosauridi erano piccoli dinosauri ornitischi bipedi estremamente primitivi (fino ad oggi erano stati trovati soprattutto in rocce sudafricane molto più antiche, risalenti a 200 milioni di anni fa, quindi al Triassico). La scoperta conferma che il gruppo esisteva ancora all'inizio del Cretaceo, e che viveva anche in Asia. L'animale era piccolo, agile e scattante, camminava su due zampe, aveva una lunga coda e si cibava probabilmente di piante, insetti e piccoli vertebrati. Ma l'aspetto più incredibile di questo nuovo fossile, battezzato Tianyulong confuciusi, dalla somma del nome del museo dove è conservato e di quello del filosofo Confucio, è la presenza di lunghissime strutture filamentose intertegumentarie sulla schiena e sul collo, meno flessibili e più compatte sia delle penne degli uccelli che di quelle dei cugini teropodi, e certamente inadatte al volo. Ciascuna di queste fibre era cava, relativamente rigida e somigliava incredibilmente ad un pelo. E non si tratta neppure della prima scoperta di questo genere: filamenti dorsali erano già stati trovati sulla coda del ceraropside Psittacosauro, anche se non erano così lunghi e diffusi come nel Tianyulong. Non è chiaro se si tratti di precursori delle penne dei teropodi o di un caso di "convergenza evolutiva" con i mammiferi. Resta oscura anche la funzione di queste appendici, probabilmente molto colorate: per ora prevale l'ipotesi che avessero uno scopo ornamentale per attirare la femmina durante il corteggiamento, come nei nostri uccelli del paradiso. Una cosa è certa: tra peli e penne, le strutture intertegumentarie dei dinosauri cretacici erano molto più comuni di quanto si pensasse solo un decennio fa!
Ecco allora un possibile albero genealogico di tutti i Vertebrati superiori (in blu è segnata la grande estinzione del Permiano, in rosso quella del Cretacico):
Da qualunque gruppo di rettili siano discesi, comunque, nel Cretacico iniziarono ad apparire i primi uccelli come il piccolo Ichtyornis ed il gigantesco Hesperornis, entrambi ancora dotati di denti all'interno del becco. Dopo la fine dei dinosauri, la loro evoluzione sarebbe stata rapidissima. Inoltre, nell'estate 2006 un'équipe mista cinese e americana ha portato alla luce in un sito fossilifero nel nordovest della Cina decine di scheletri di Gansus yumenensis, un uccello straordinariamente simile agli svassi che popolano anche i nostri laghi, benché risalga alla bellezza di 100 milioni di anni fa (alle 21.20 del 23 dicembre dell'Anno della Terra). La cosa stupefacente è che, a differenza dell'Ichtyornis e dell'Hesperornis, esso è quasi identico a un uccello attuale « Non ce lo aspettavamo », ha dichiarato Matt Lamanna del Carnegie Museum di Pittsburgh, che ha finanziato gli scavi: « finora gli antenati degli uccelli contemporanei dei dinosauri non mostravano alcuna parentela diretta con gli uccelli oggi viventi. »
Nicolás Campione, ricercatore dell'Università di Uppsala, grazie all'analisi dei resti di 426 specie di dinosauri, corrispondenti a un periodo evolutivo di circa 160 milioni di anni (12 giorni dell'Anno della Terra), ha proposto che il gruppo di dinosauri da cui sono derivati gli uccelli abbia subito una drastica riduzione delle dimensioni per riuscire a colonizzare con successo la più ampia varietà possibile di nicchie ecologiche del pianeta. Infatti uno dei parametri più indicativi per stimare la massa di un dinosauro è misurare lo spessore delle ossa delle zampe, come il femore. « Nel caso del dinosauro più grande conosciuto, l'Argentinosaurus, la massa stimata è di 90 tonnellate, cioè circa 6 milioni di volte la massa del più piccolo dinosauro del Mesozoico, chiamato Qiliania e pesante 15 grammi: questo indica un "progetto evolutivo" molto versatile », ha commentato Campione. La sua analisi ha portato alla conclusione che poco dopo la loro comparsa sulla Terra, avvenuta circa 220 milioni di anni fa, i dinosauri hanno subito rapidi cambiamenti nelle dimensioni del corpo. Il tasso di evoluzione è poi gradualmente diminuito in tutti i diversi gruppi di dinosauri, con l'importante eccezione della linea evolutiva che portò agli uccelli, in particolare nei dinosauri dotati di penne chiamati maniraptora. In questo ramo filogenetico, l'evoluzione delle dimensioni è continuato con lo stesso tasso per altri 170 milioni di anni, determinando una variabilità ecologica non riscontrabile in altri gruppi di dinosauri. « I dinosauri non sono estinti: ne esistono tuttora circa 10.000 specie in forma di uccelli », ha spiegato Roger Benson, dell'Università di Oxford, che ha partecipato alla ricerca. « Il nostro obiettivo era quello di comprendere i legami evolutivi tra questa classe di animali, che ha avuto un successo evolutivo eccezionale, e i loro antenati del Mesozoico, in cui sono compresi dinosauri più noti quali il Tirannosauro, il triceratopo e lo stegosauro. » La linea filogenetica che ha portato agli uccelli, in sostanza, è riuscita a sopravvivere e ad avere un notevole successo evolutivo “sperimentando” nel tempo dimensioni corporee tra loro molto differenti, spesso decisamente più piccole, che hanno facilitato l'adattamento. Altri gruppi di dinosauri non hanno avuto la stessa sorte: ritrovatisi chiusi in nicchie ecologiche ristrette, hanno finito per estinguersi.
L'alba della paleontologia molecolare
A questo proposito, vale la pena di citare un'ipotesi davvero bizzarra, pubblicata sul numero di Science dell'aprile 2008 ed avanzata da alcuni ricercatori delle università americane di Harvard e della North Carolina. Al noto paradosso "è nato prima l'uovo o la gallina?" essi risponderebbero: "è nato prima il Tyrannosaurus rex". Infatti, grazie all'identificazione di una proteina, essi avrebbero scoperto che uno dei più mastodontici e pericolosi animali della preistoria a livello molecolare non sarebbe l'antenato delle lucertole, come si è sempre ritenuto, ma dei polli e degli struzzi. La struttura molecolare di quella sua proteina, infatti, sarebbe analoga in tutto e per tutto a quella di un'identica molecola presente nei due pennuti, ma totalmente assente nelle contemporanee lucertole. « Ora siamo in grado di stabilire una fortissima relazione dal punto di vista evolutivo tra il celebre tirannosauro e gli uccelli », ha spiegato John Asara, della Harvard Medical School, precisando che la ricerca si è basata su una tecnica del tutto nuova: non è partita dalla struttura degli scheletri dei fossili a disposizione, ma dalla struttura molecolare delle proteine contenute in quelle ossa. Questa modernissima branca della paleontologia prende il nome di paleontologia molecolare.
Che una proteina così vecchia possa essere trovata intatta nelle ossa di un fossile è però argomento estremamente controverso, tanto che altri paleontologi hanno accolto con scetticismo questo nuovo approccio scientifico, e taluni lo hanno addirittura definito "uno scherzo". Tuttavia la paleontologa molecolare Mary H. Schweitzer, della North Carolina State University, garantisce che la teoria è corretta, avendo estratto con le sue mani intatta intatta quella proteina dalle ossa del dinosauro. "Non c'è alcuna traccia di contaminazione possibile", ha dichiarato, "e siamo certi che la nostra teoria evolutiva è corretta". Probabilmente questo tipo di approccio rappresenta il futuro della paleontologia; per ora si è limitata a mostrarci sotto una luce tutta nuova non solo un pezzo dell'evoluzione, ma anche l'innocuo pollo.
L'Artico temperato?
Un fossile di tartaruga di 90 milioni di anni fa (alle 16.48 del 24 dicembre), la Aurorachelys gaffneyi (tartaruga dell'aurora), rinvenuta nel 2006 da John Tarduno dell'Università di Rochester e Donald Brinkman dell'Alberta Royal Tyrrell Museum sull'isola Axel Heiberg, nell'estremo nord canadese, potrebbe costringerci a riscrivere tutte le conoscenze finora note del clima dell'Artico. Questa famiglia (ora estinta) di tartarughe di acqua dolce era tipica della Mongolia, a migliaia di chilometri dal luogo dove è stato rinvenuto il fossile. « Sappiamo che esisteva un interscambio tra Asia e Nord America nel Cretacico superiore », ha spiegato Tarduno, « ma questo è il primo esempio di un fossile dell'estremo nord artico che dimostra un clima molto caldo e l'assenza di ghiacci che consentiva la migrazione dall'Asia direttamente attraverso il polo Nord (e non solo tramite il "ponte" dell'Alaska) nell'epoca in cui vivevano i dinosauri ». La zona in cui è stato ritrovato il fossile, all'inizio del Coniaciano, si trovava in un'area più o meno simile a quella attuale a 80 gradi nord, quindi non si può ipotizzare un clima diverso a causa di una differente latitudine dovuta allo spostamento della placca continentale di cui fa parte l'isola Axel Heiberg. Evidentemente l'oceano Artico a quel tempo era isolato dagli altri oceani di acqua salata, e negli strati superiori era come un lago di acqua dolce alimentato dai fiumi del Nord America e dell'Eurasia. I paleontologi ipotizzano che le tartarughe siano migrate passando di isola in isola, sfruttando un arcipelago vulcanico ora sommerso chiamato Alpha Ridge che collega le coste siberiane all'Alaska e al Canada, recentemente portato alla ribalta delle cronache per le immersioni di batiscafi russi che intendono rivendicare quella zona di mare a nome della Russia, e in questo modo aumentare le acque territoriali russe, fondamentali per lo sfruttamento di giacimenti di idrocarburi. Lo stesso riscaldamento atmosferico che ha consentito la migrazione delle tartarughe può essere collegato all'aumento di CO2 dovuto alle eruzioni vulcaniche dell'Alpha Ridge.
La fine del Cretacico è segnata da una nuova e più famosa estinzione di massa rispetto a quella di fine Permiano. Si presuppone che essa sia stata dovuta ad un improvviso abbassamento della temperatura. Oltre ai dinosauri, si estinsero gli ittiosauri, gli pterosauri, le ammoniti, i graptoliti e moltissime specie di vegetali. Fino agli anni novanta le migliori stime parlavano di 65,5 milioni di anni fa, più o meno 300.000 anni, ma Paul Renne, direttore del Berkeley Geochronology Center e professore aggiunto di scienze della terra dell'Università della California di Berkeley ha finalmente datato con grandissima precisione quest'evento con il metodo argo/argo, l'unico in grado di coprire quasi l'intera storia della Terra (l'argo e il prodotto del decadimento dell'isotopo naturale potassio 40, che ha un tempo di dimezzamento di 1,25 miliardi di anni). Il limite Cretacico-Terziario è stato così fissato a 65,95 milioni di anni fa (alle 15.37.02 del 26 dicembre), più o meno 40.000 anni (più o meno 4 minuti e 46 secondi).
Perché questo è avvenuto? È un mistero, reso ancora più fitto dalla scoperta, avvenuta negli anni settanta ad opera del geologo Walter Alvarez dell'Università di Berkeley, di depositi di iridio spessi ben due centimetri proprio nella zona di separazione fra le argille cretaciche e quelle paleoceniche, cioè tra l'era Secondaria e quella Terziaria, e quindi in coincidenza con la fine del regno dei dinosauri. Si tratta di una concentrazione di iridio di oltre 30 volte superiore rispetto a quanto si riscontra normalmente nella crosta terreste, nella quale questo elemento è estremamente raro a trovarsi: è stata proprio questa scoperta a dare a questo evento straordinario il nome di "crisi dell'iridio". Questo fenomeno è osservabile anche in Italia, nelle rocce della gola del Bottaccione, vicino a Gubbio (PG). Siccome l'iridio, rarissimo sul nostro pianeta, è invece assai abbondante nelle meteoriti, Alvarez ha avanzato l'ipotesi che il disastroso urto di un grande asteroide contro la Terra abbia provocato una vera e propria catastrofe ecologica, con il sollevamento di un quantitativo di polveri tale da rimanere per anni nell'atmosfera, impedendo ai raggi solari di filtrare e causando un lunghissimo inverno nucleare durato almeno un secolo, in grado di sterminare tutte le specie viventi testé elencate. L'ipotesi si è rafforzata dopo la scoperta, avvenuta nel 1990, del cratere di Chicxulub, nella penisola messicana dello Yucatan. Si tratta di quello che sembra un cratere da impatto di dimensioni enormi (oltre 150 Km di raggio), prodotto da un meteorite gigantesco di almeno 10 Km di larghezza, il quale sarebbe andato a frantumarsi nell'oceano Atlantico in formazione, diffondendo iridio e polveri su terre e mari e dando luogo ai depositi suddetti. Le dimensioni del cratere portano a stimare una potenza esplosiva di circa 190.000 megatoni, cioè circa 10 milioni di volte la bomba sganciata su Hiroshima! Tra l'altro, un misterioso residuo minerale sferico costituito da minute sferule vetrose dette tectiti, grandi come granelli di sabbia, è stato interpretato dagli scienziati dell'American Museum of Natural History e dell'Università di Chicago proprio attraverso la condensazione della nube di vapore caldissimo prodotta da un asteroide che ha impattato contro la Terra giusto 65 milioni di anni fa (ne abbiamo già parlato a proposito della nascita dei continenti nell'Archeano). Alcuni ricercatori ritengono che l'attrito atmosferico fuse il minerale dell'asteroide mentre questi si avvicinava alla superficie terrestre; secondo altri, invece, esse sarebbero state "spruzzate fuori" dal cratere d'impatto di Chicxulub al momento della collisione dell'asteroide con la Terra; secondo Denton Ebel e Lawrence Grossman, invece, le goccioline si sono condensate durante il raffreddamento della nube di vapore che aveva circondato la Terra dopo l'impatto, rafforzando ulteriormente l'ipotesi di un legame causa-effetto fra la catastrofe di Chicxulub e l'estinzione di massa che ha posto fine all'impero dei dinosauri.
Le prime prove dirette che la caduta sulla Terra dell'asteroide di Chicxulub fu seguita da un inverno nucleare, causato dalla diffusione nella stratosfera di polveri che ridussero drammaticamente e per decenni la quantità di radiazione solare in grado di raggiungere la superficie del pianeta, potrebbero essere state trovate da Johan Vellekoop, dell'Università di Utrecht, e colleghi, grazie ad una serie di analisi di paleotermometria su alcuni strati di rocce sedimentarie del Brazos River, in Texas. Infatti finora le testimonianze geologiche del cambiamento climatico tra Cretaceo e Paleocene non avevano una risoluzione temporale sufficiente per distinguere la catena di eventi che portò all'estinzione dei dinosauri: il picco di freddo che provocò l'inizio della catastrofe, infatti, potrebbe essere durato appena qualche decennio, un lasso di tempo che nella documentazione stratigrafica corrisponde a uno strato di roccia sottilissimo e difficilmente identificabile. Invece nella formazione dell'area di Brazos, caratterizzata da una antica sedimentazione quasi continua, si possono distinguere in modo straordinariamente chiaro sequenze di sottili strati in cui sono presenti differenti tipi di detriti e resti di animali marini, prevalentemente conchiglie e foraminiferi. Dalle analisi risulta in particolare che immediatamente dopo l'impatto ci sarebbe stata una fase "palla di fuoco", dovuta all'intenso calore provocato dall'impatto, e caratterizzata da violentissime onde di tsunami. A queste ultime i ricercatori imputano lo strato di conchiglie grossolanamente frantumate di Brazos River, la cui matrice rocciosa circostante (guarda caso!) presenta un picco di concentrazione di iridio. Secondo i modelli, le polveri sollevate dall'impatto e dagli incendi su scala globale avrebbero prodotto una diminuzione del 20 % della luce solare in grado di raggiungere la superficie terrestre, con un abbassamento delle temperature durato alcuni decenni. Anche questo evento trova riscontro nella formazione di Brazos River: le tracce dei lipidi prodotti da un particolare gruppo di archea, i Thaumarchaeota, rinvenute immediatamente al di sopra dello strato di conchiglie sono infatti coerenti con un repentino crollo della temperatura media di almeno 7°C. Dallo studio di questi organismi sappiamo infatti che la composizione della parte lipidica dei biofilm che producono varia in funzione della temperatura dell'ambiente in cui si trovano. L'abbassamento delle temperature, osservano i ricercatori, potrebbe essere stato persino più marcato, dato che è risultato difficile isolare perfettamente gli strati di biofilm di quel breve periodo da quelli immediatamente superiori (successivi) in cui si è assistito a un progressivo ritorno a un clima più mite, un miglioramento climatico anch'esso previsto dai modelli.
E non basta. Nell'aprile 2019 è stato dato l'annuncio che in un angolo sperduto del Nord Dakota, a Tanis presso Bowman, sono stati rinvenuti per la prima volta gli effetti diretti della catastrofe che si scatenò pochi minuti dopo l’impatto dell’asteroide di Chicxulub: pesci con sferule di roccia nelle branchie accatastati nella morte uno sull’altro in mezzo a tronchi di alberi fossili, resti di dinosauri, microsfere vetrificate intrappolate nell’ambra. L’eccezionale ritrovamento è stato effettuato a partire dal 2013 nella formazione di Hell Creek, "il torrente dell’Inferno", e mai nome fu più azzeccato per descrivere ciò che avvenne quel giorno nel Nord America e poi si estese su tutto il pianeta. L’impatto tra le altre cose provocò uno tsunami gigantesco che penetrò per decine di chilometri all’interno dei continenti, terremoti di magnitudo 11-12 che ne innescarono altri in molte parti del mondo, una pioggia di rocce e sferule vetrificate incandescenti che provocarono estesi incendi. Mai però finora si erano trovate le prove tangibili delle immediate conseguenze. Il gruppo di ricerca a oltre tremila chilometri dal cratere di Chicxulub ha scoperto in uno strato spesso un metro e mezzo alla fine del Cretacico un vero cimitero di massa: pesci, alberi, ammoniti, mammiferi primitivi, ossa di triceratopo, insetti, fossili di mosasauro accatastati insieme. Le branchie di alcuni pesci sono disseminate di tectiti, rocce di 5 millimetri di diametro eiettate dall’impatto. La ricostruzione che ne deriva è che un’onda trasportò pesci e rettili risalendo le coste e i fiumi e travolgendo tutto ciò che trovava sulla sua strada e accatastando piante e animali morto. Poi si ritirò lasciando il terreno nudo che venne colpito dalle sferule vetrificate che scavarono piccole cavità che a loro volta vennero riempite da sabbia e ghiaia trasportate dalle ondate successive. Ma le onde non furono quelle scatenate dallo tsunami provocato dall’impatto diretto: l’allora Nord Dakota era troppo lontano dalla linea di costa del Golfo del Messico, e l’eventuale tsunami poteva arrivare solo 10-12 ore dopo. Furono provocate dalle sesse, onde stazionarie che si generano all’interno di bacini chiusi a causa di onde sismiche provenienti da lontano. Un fenomeno simile avvenne nei fiordi della Norvegia pochi minuti dopo il terremoto di magnitudo 9 in Giappone dell’11 marzo 2011. La formazione di Hell Creek si depose al limite del Mare Interno Occidentale, un braccio di mare che per 100 milioni di anni tagliò in due l’America da nord a sud, ma che 66 milioni di anni fa si era quasi chiuso e rimaneva solo un canale lungo e stretto che scendeva da settentrione. Qui si verificò il disastro che ora è venuto alla luce in tutta la sua drammaticità.
Come hanno proposto due ricercatori giapponesi, Kunio Kaiho della Tohoku University a Sendai e Naga Oshima del Centro di Ricerca Meteorologica a Tsukuba, i dinosauri sono stati davvero sfortunati: se l'asteroide di Chicxulub fosse caduto in un altro punto del pianeta, l'impatto non sarebbe bastato a innescare gli eventi che determinarono la loro scomparsa. Perché i suoi effetti fossero così catastrofici serviva anche un certo tipo di terreno, che però occupa solo il 13 % della superficie della Terra. Il collasso degli ecosistemi fu infatti causato dal crollo delle temperature, che devastò il manto vegetale terrestre. Tuttavia, le polveri e i solfati sollevati direttamente dall'impatto non erano in grado di permanere in atmosfera abbastanza a lungo da far raffreddare il pianeta in maniera così devastante. Per questo alcuni ricercatori hanno ipotizzato che l'oscuramento del cielo e il conseguente abbassamento delle temperature fosse dovuto alle fuliggini create dagli immensi incendi innescati dall'energia liberata dall'impatto. Le fuliggini sottili possono infatti raggiungere la stratosfera e rimanervi molto a lungo. Il tipo di fuliggini e di solfati presenti negli strati di roccia immediatamente successivi a quelli che testimoniano l'impatto indica però che gran parte di essi aveva un'altra origine: la combustione di idrocarburi che si trovavano nelle rocce sedimentarie colpite dall'asteroide.
Kaiho e Oshima hanno condotto una serie di simulazioni per stabilire la quantità di fuliggini e solfati liberati dall'impatto di un asteroide delle dimensioni di quelle di Chicxulub, e il loro effetto sul clima, in funzione della composizione del suolo. Se l'asteroide si fosse schiantato su un'area continentale a basso tenore di idrocarburi (pari al 17,8 % della superficie terrestre) avrebbe provocato un raffreddamento globale di 2-4°C; se invece fosse precipitato in corrispondenza della crosta oceanica (il 49,9 %), il raffreddamento sarebbe stato di 3-6°C. Le conseguenze sarebbero state gravi per un certo numero di specie, ma non tali da causare un'estinzione di massa. Purtroppo per i dinosauri e per tante altre specie, lo schianto avvenne invece in una regione ad alto tenore di idrocarburi, innescando un processo che ha portato un raffreddamento medio globale di 8-11°C, e di 13-17 °C sulla terraferma. Certo, le cose sarebbero potute andare anche peggio: se avesse colpito il 2,1 % circa del pianeta ad altissimo tenore di idrocarburi, il raffreddamento sarebbe stato ancora superiore, e forse noi ora non saremmo qui.
Bisogna aggiungere a tutto ciò uno studio pubblicato nel 2014, secondo cui i dinosauri sarebbero potuti sopravvivere se il corpo celeste fosse arrivato qualche milione di anni prima o dopo. Infatti la vulnerabilità della subpopolazione di grandi erbivori rese l'impatto particolarmente distruttivo. « Se l'asteroide avesse colpito la Terra cinque milioni di anni prima o dopo, i dinosauri probabilmente vivrebbero ancora », ha affermato il paleontologo Stephen Brusatte dell'Università di Edimburgo. Al momento dell'impatto, secondo lo studio, non era in declino la diversità biologica complessiva dei dinosauri, ma solo quella di un gruppo di erbivori che costituivano la preda preferita dei grandi carnivori. « Il numero di individui era costante, ma le specie erano sempre di meno, e sempre più simili tra loro. Questo calo di diversità in un gruppo particolarmente importante di specie può spiegare la vulnerabilità dei dinosauri nel loro complesso ». Insomma, gli erbivori come i dinosauri e gli adrosauri dal becco d'anatra erano specie cruciali nell'ecologia complessiva dei dinosauri. Quando l'asteroide colpì, la scarsa diversità delle specie si tradusse in una carenza di caratteristiche adattative per i sopravvissuti, che non trovarono altri luoghi in cui rifugiarsi o prede alternative da cacciare. « In ogni ecosistema, la mancanza di legami con le specie chiave causa problemi alla comunità. L'asteroide è stato solo un grande problema che si è verificato nel momento sbagliato ». Un periodo di abbassamento del livello delle temperature determinò la scomparsa dei mari interni, come quello che copriva la regione centrale dell'America del Nord, e che costituiva un habitat fangoso per diversi gruppi di dinosauri non imparentati tra loro. I ponti di terra che si formarono in quel periodo potrebbero aver connesso popolazioni precedentemente isolate, contribuendo all'uniformità fra le specie di erbivori.
Ma non tutti sono d'accordo con questa ipotesi, ed ancor meno con l'esistenza di una stella compagna del Sole che, passando periodicamente accanto al sistema solare interno, scatenerebbe sulla Terra un diluvio di meteoriti (una variante della storia di Noè, come mostra chiaramente il film catastrofico "Deep Impact"), come abbiamo già detto parlando del Permiano. Perchè presupporre un meteorite la cui orbita incroci esattamente quella della Terra, o addirittura una stella invisibile, dicono infatti i geologi, quando l'interno della Terra è ricco di iridio?
I trappi del Deccan
E così, in alternativa alla fantascientifica ipotesi di Nemesi, come causa delle periodiche estinzioni di massa è stata invocata tutta una serie di catastrofiche eruzioni vulcaniche. Infatti l'iridio può provenire anche dal mantello terrestre: studiando i vulcani delle isole Hawaii si è notato come le lave eruttate contengano 10.000 volte meno iridio dei gas provenienti dalle zone più profonde del mantello terrestre. Allora le anomalie nella composizione delle argille di fine Cretacico potrebbero essere dovute ad un'abnorme attività vulcanica ed alle sue catastrofiche conseguenze, del tutto simili a quelle di un impatto meteoritico (un vero e proprio "inverno vulcanico"!) In particolare, secondo i sostenitori di questa teoria le eruzioni dei supervulcani avrebbero interessato i cosiddetti trappi del Deccan, nel centro-ovest dell'India, che proprio al limite tra Secondario e Terziario cominciarono ad eruttare lava basaltica, scaricando sulla superficie terrestre oltre 500.000 chilometri cubi di materiale lavico, tanto da ricoprire un'area di un milione di chilometri quadrati con uno strato di roccia ignea che in alcuni punti arrivò a superare i 2 Km di spessore. Nessun'altra attività eruttiva negli ultimi 100 milioni di anni sulla Terra ha raggiunto una simile violenza ed estensione. Si pensa che ne sia responsabile un pennacchio caldo in risalita dal mantello terrestre, che oggi avrebbe perso gran parte della propria irruenza e si troverebbe sotto l'isola di Réunion, nell'Oceano Indiano.
Se può apparire stravagante che delle eruzioni vulcaniche, per quanto massicce, causino un evento di estinzione su scala globale, si pensi all'anno 1816, passato alla storia come "l'Anno senza Estate" a causa dell'eruzione del vulcano Tambora, situato sull'isola di Sumbawa (nell'arcipelago indonesiano), che l'anno prima era sprofondato in mare durante una delle più catastrofiche eruzioni vulcaniche della storia dell'umanità: si stima che esso abbia sterminato almeno 117.000 persone. L'emissione di ceneri e gas nell'atmosfera velò a tal punto la luce solare da provocare un generale abbassamento delle temperature sull'intero pianeta, e quindi un inverno nucleare in miniatura. Inoltre le polveri eruttate provocarono piogge acide che rovinarono gran parte dei raccolti. Possiamo immaginare allora quale sarebbe stato l'effetto sulla flora e sulla fauna terrestre delle megaeruzioni dei trappi del Deccan, che furono migliaia di volte più possenti di quelle del Tambora. Quanto alla frequenza relativamente regolare con cui le estinzioni si sono succedute nella storia geologica, in questo modello essa sarebbe legata a complesse dinamiche interne alla Terra: secondo David Loper e Kevin McCartney, dal nucleo del nostro pianeta si staccherebbero periodicamente delle grosse "gocce" di materiale fluido, che poi risalirebbero lentamente attraverso strati di rocce più dense e fredde, fino a giungere in superficie con esplosioni vulcaniche ricche di iridio. Il tempo impiegato dalle "gocce" a raggiungere la superficie coinciderebbe allora con la frequenza delle estinzioni. Ma alcuni geologi hanno calcolato che l'esatto inizio della supestinzione di fine Cretacico sarebbe di 400.000 anni posteriore alla "sfuriata" eruttiva dei trappi, ed inoltre secondo questa scuola di pensiero gli effetti della loro rabbia si sarebbero esauriti in tempi abbastanza brevi, contrariamente all'inverno nucleare provocato dalla caduta di un asteroide. Insomma, nessuna risposta da sola appare soddisfacente allo stato delle conoscenze attuali.
L'estinzione come non te la aspetti
A questo proposito, mi sembra giusto citare il parere di alcuni ricercatori dell'Università della California a San Diego, secondo i quali le cicliche estinzioni di massa dipenderebbe anche da una vulnerabilità intrinseca delle discendenze filogenetiche. Essi hanno analizzato diverse specie di bivalvi, le cui conchiglie fossilizzano facilmente, e che perciò rappresentano un ottimo indicatore delle estinzioni dal Giurassico fino al presente. Si è così potuto determinare quando un genere si è estinto, e se i suoi "parenti" filogenetici hanno subito o meno la stessa sorte nel medesimo periodo. In media, si è riscontrato che le specie di bivalvi imparentati sono scomparsi contemporaneamente molto più spesso di quanto stimato finora.
« I biologi hanno sospettato per lungo tempo che la storia evolutiva delle specie giocasse un notevole ruolo nel determinare la loro vulnerabilità all'estinzione, con alcuni "rami" evolutivi molto più suscettibili di altri », ha spiegato Kaustuv Roy, coautore dello studio. « Ora sappiamo che tale perdita differenziale non è limitata alle estinzioni indotte dall'uomo, ma è una caratteristica generale dello stesso processo di estinzione. » « Sia le estinzioni di background, che rappresentano la maggior parte delle estinzioni nella storia della vita, sia le estinzioni di massa tendono a concentrarsi in particolari discendenze filogenetiche », ha aggiunto David Jablonski, dell'Università di Chicago, che ha partecipato alla ricerca.
L'effetto di tutto ciò è particolarmente evidente durante l'estinzione di massa di fine Cretaceo, quando furono colpite in modo drastico le linee filogenetiche che già di per sé avevano i più alti valori di tassi di estinzione di background: tre di queste scomparvero completamente, ed altre subirono pesanti ridimensionamenti, non ancora recuperati nell'epoca attuale. « Le grandi estinzioni hanno un effetto di filtro: tendono a raccogliere i rami filogenetici più vulnerabili, lasciando che quelli più resistenti proliferino successivamente », ha concluso Jablonski.
Invece David Button, dell'Università di Birmingham, sostiene che le periodiche estinzioni di massa che portarono alla scomparsa della maggior parte delle specie viventi furono seguiti da periodi caratterizzati da bassi livelli di biodiversità, in cui alcune nuove specie dominavano ampie regioni del supercontinente Pangea. I suoi risultati indicano che le estinzioni di massa possono avere conseguenze prevedibili e gettano una luce su come le comunità biologiche potranno cambiare in futuro, in risposta all’attuale tasso di estinzione delle specie animali, che le stime indicano come elevato.
L'ipotesi attuale è che, dopo questi "disastri faunistici", la ripresa sia stata caratterizzata dalla diffusione di un piccolo numero di specie. A questo modello, tuttavia, è mancata finora una convincente verifica, perché gli studi condotti sull'argomento si sono limitati a piccole regioni geografiche. Button e colleghi hanno focalizzato l'attenzione sui cambiamenti a lungo termine della biodiversità sulla Pangea, analizzando in particolare i dati riguardanti 900 specie animali presenti sulla Terra tra 260 milioni e 175 milioni di anni fa (tra le 21.52 del 10 dicembre e le 19.29 del 17 dicembre). I loro risultati mostrano che, dopo le estinzioni di massa, le comunità biologiche persero un gran numero di specie, ma furono anche dominate da specie appena evolute, che si diffusero in tutto il globo, determinando così un basso livello di biodiversità. Uno degli animali a grandissima diffusione dopo la grande estinzione di fine Permiano era il Lystrosaurus, un antico parente dei mammiferi, i cui fossili sono stati ritrovati in Russia, Cina, India, Africa e Antartide. Questi schemi comuni indicano che le estinzioni di massa hanno un'influenza prevedibile sulla distribuzione animale e potrebbero perciò servire da guida per gli attuali progetti di conservazione delle specie minacciate di estinzione.
Il vantaggio di essere decidue
Ma che cosa è successo alle piante di cui si cibavano i dinosauri? Uno studio eseguito nel 2014 da un gruppo di ricercatori dell'Università dell'Arizona guidati da Benjamin Blonder ha dimostrato che le piante decidue (quelle che perdono le foglie in autunno), riuscirono a sopravvivere meglio delle sempreverdi alla Crisi dell'Iridio. La scoperta è stata compiuta analizzando circa 1000 foglie fossili raccolte in un sito del North Dakota, in uno strato litico noto come Formazione di Hell Creek, risalente al Cretaceo. Applicando una serie di formule biomeccaniche ai dati ricavati dai fossili, gli autori hanno ricostruito l'ecologia di una famiglia di piante molto diversificate, vissute per un periodo di 2,2 milioni di anni all'epoca dell'estinzione di massa, cioè negli ultimi 1,4 milioni di anni (2 ore e 43 minuti) del Cretaceo e nei primi 800.000 anni (un'ora e 33 minuti) del Paleocene. Ebbene, gli scienziati hanno trovato le prove che, dopo l'impatto, le angiosperme decidue, caratterizzate da una rapida crescita, sostituirono gran parte delle sempreverdi a lenta crescita.
« Se si pensa a un'estinzione di massa causata da un evento catastrofico come l'impatto di un meteorite, si immagina che tutte le specie abbiano avuto la stessa probabilità di estinguersi: il nostro studio fornisce la prova di un drastico spostamento nella diffusione delle piante dalle specie a crescita lenta a quelle a crescita rapida », ha spiegato Blonder. « Ciò indica che l'estinzione non fu casuale, e che il modo in cui le piante si nutrono permette di prevedere in che modo rispondano a un grande cambiamento ambientale, spiegando inoltre perché oggi esiste una preponderanza di foreste decidue sulle sempreverdi ». Il risultato è coerente con le prove di un drastico abbassamento della temperatura causato dalla polvere diffusa nell'atmosfera in seguito all'impatto. « L'ipotesi più probabile è che questo inverno nucleare fu caratterizzato da un clima molto variabile », ha aggiunto Blonder. « Questo può aver favorito le piante che crescono in fretta e possono trarre vantaggio da condizioni che cambiano spesso, come le piante decidue. »
Prima di concludere, però, io ci tengo a far notare come, contrariamente a quanto si crede di solito, i dinosauri NON si sono affatto estinti tutti insieme, in un colpo solo! Questa è un'altra clamorosa "bugia dinosauresca", e le prove contro di essa sono eloquenti. Finora ci sono note 550 specie totali di dinosauri, compresi quelli di cui sono conosciute solo le orme o pochissimi frammenti di ossa, su un presunto totale di 6000-7000 specie che devono essere comparse e scomparse durante i 180 milioni di anni dell'era Secondaria (14 giorni dell'Anno della Terra). Queste specie sono riunite in 400 generi. Comprendendo anche i rettili attuali, che però sono radicalmente diversi dai dinosauri, si perviene ad un totale di 44 ordini. Di essi la metà, e cioè ben 22 ordini, erano già estinti 130 milioni di anni or sono, cioè alla fine del Giurassico, nel corso del quale l'espansione dei rettili terribili aveva raggiunto il suo culmine. Tra le famiglie di dinosauri che non sopravvissero al Giurassico, bisogna ricordare la maggior parte dei Sauropodi, cioè i dinosauri dal corpo enorme e dal lungo collo, sempre rappresentati come i dinosauri per antonomasia da tutta l'iconografia scientifica e non.
Ebbene, di questi 22 ordini sopravvissuti all'inizio del Cretaceo, solo 9 sopravvivevano alla fine dello stesso periodo, 65 milioni di anni fa: ben 13 ordini si erano già estinti durante l'ultimo periodo del Mesozoico. Sopravvissero nel Cretaceo i Tirannosauri, i Triceratopi, i Plesiosauri marini e moltissime specie di rettili volanti. Come si vede, al momento della cosiddetta "crisi dell'iridio" che segnò la fine all'Era Secondaria, i dinosauri erano già manifestamente in declino. Si aggiunga che nel 2016 alcuni ricercatori delle Università di Reading e di Bristol hanno analizzato con sofisticate tecniche statistiche i dati delle registrazioni fossili disponibili a partire da 50 milioni di anni prima della grande estinzione, concludendo che in tale periodo il declino delle popolazioni di rettili fu sì generalizzato, confermando l'ipotesi di un'estinzione di massa, ma che la rapidità con cui scomparvero le diverse specie fu molto varia. Per esempio, i Sauropodi si estinsero in un arco di tempo molto breve, mentre il declino dei Teropodi fu molto più graduale. « Tutte le prove dimostrano che i dinosauri, che dominarono in tutti gli ecosistemi terrestri per 150 milioni di anni, in qualche modo persero la loro capacità di speciazione, cioè di dare origine a nuove specie, piuttosto rapidamente », ha sottolineato Mike Benton, coautore dello studio. « Ciò ha contribuito alla loro incapacità di far fronte alle crisi ambientali causate dall'impatto del meteorite. » Insomma, a fine Cretaceo l'incontrastato impero dei dinosauri era finito ormai da un pezzo; se poi è cascato loro in testa pure un meteorite, questo non ha fatto altro che abbreviare la loro agonia. Ma, d'altro canto, così non fanno anche gli stati e gli imperi di noi uomini?...
Ah già, quasi dimenticavo. Impossibile non citare la surreale proposta della mia amica Cristina circa la fine dell'impero dei dinosauri: "Sono spariti perchè un bel giorno qualcuno ha detto: li metto qui, così poi li ritrovo subito"! Fatto sta che da quel lontano giorno i dinosauri nessuno li ha più visti...
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