ERA PRIMARIA O PALEOZOICA  

 

(da 542 milioni a 251 milioni di anni fa)

 

Il nome Paleozoico ("vita antica"), così come quello di Era Primaria, deriva dal fatto che, in passato, essa era considerata la prima era geologica, coincidente con la comparsa dei primi esseri viventi di cui si siano scoperte le testimonianze; convinzione che venne smentita dalla scoperta di rocce più antiche contenenti reperti fossili, come si è visto parlando dell'era Precambriana. L'era Paleozoica copre l'intervallo di tempo che va da 542 a 251 milioni di anni fa, fino alla comparsa dei progenitori dei dinosauri, i Tecodonti. In termini di Anno della Terra, esso dura più o meno dal 18 novembre all'11 dicembre.

 

Il Paleozoico è diviso in sei periodi:

 

 

CAMBRIANO

(da 542 a 488 milioni di anni fa)

Il nome Cambriano, o Cambrico, deriva dal latino Cambria, termine con il quale i Romani indicavano il Galles, dove le rocce risalenti a questo periodo sono più significative. Esso va da 542 a 488 milioni di anni fa;  in termini di Anno della Terra, esso dura più o meno dalla mezzanotte del 17 novembre alle dieci antimeridiane del 22 novembre. Questo periodo fu introdotto nel 1835 dal canonico inglese Adam Sedgwick (1785-1873).

Il Cambriano è suddiviso in tre piani (cioè stratificazioni geologiche, cui corrispondono dei periodi di tempo nella storia del pianeta, necessari per la loro formazione), a loro volta divisi in sottoperiodi:

 

Cambriano inferiore o Croixano Cambriano medio o Albertiano Cambriano superiore o Furongiano

Nemakit-Daldyniano

Amgano

Paibano o Maentwrogiano

Tommotioano

Drumiano

Dolgelliano o Franconiano

Atdabaniano

Guzhangiano

 
Botomiano    
Toyoniano    

Faccio notare che il secondo sottoperiodo del Cambriano inferiore non ha ancora ricevuto alcun nome dalla Commissione Internazionale di Stratigrafia (ICS); le dispute tra esperti sono molto accese. Un tempo il Cambriano veniva suddiviso in tre piani: il Georgiano, l'Acadiano e il Potsdamiano, caratterizzati soprattutto da diversi generi di trilobiti.

La "foresta dei Gondi"

Il supercontinente Pannotia, esistito alla fine del Proterozoico, cominciò a rompersi in tre continenti più piccoli detti Laurenzia (cioè Nordamerica, Groenlandia e Scozia, dal nome del fiume San Lorenzo), Baltica (l'Europa centrosettentrionale fino agli Urali, che allora non esistevano) e Gondwana (la parte meridionale del mondo), per lo più posizionati a basse latitudini e in parte sommersi da mari poco profondi, detti mari epicontinentali, mentre Cina e Siberia vagavano per i mari come grandi isole. Laurenzia e Baltica erano separate da un oceano chiamato Giapeto o Protoatlantico, visto che in quel punto 300 milioni di anni più tardi avrebbe cominciato ad aprirsi il nostro oceano Atlantico; il nome è quanto mai azzeccato, visto che il titano Giapeto, figlio di Urano e di Gea, era il mitologico padre di Atlante. Baltica era invece separata da Gondwana dal vasto oceano Reico (dal nome di Rea, in latino Cibele, la madre di Zeus). Il nome Gondwana deriva invece dal sanscrito Gondavana, cioè "foresta dei Gondi", una regione della penisola indiana formata da un altopiano delle province centrali, abitato in maggioranza per l'appunto dalla popolazione dei Gondi. Il nome fu assunto dai geologi per indicare una formazione continentale paleozoica le cui rocce si trovano rappresentate in questa regione. Una vera sineddoche: la parte per il tutto...

I continenti all'inizio del Cambriano, disegno dell'autore

Le rocce, prevalentemente sedimentarie e di notevole spessore (in alcune zone delle Montagne Rocciose il loro spessore va oltre i 3600 metri!), si sono formate sugli strati precedenti dopo un periodo di relativa inattività dovuta all'innalzamento dai fondi oceanici. Non sono state invece ritrovate tracce di costruttori di scogliere d'acque calde, il che fa supporre temperature dell'oceano piuttosto basse.

Citiamo anche l'ipotesi avanzata da Ian Dalziel dell'Università del Texas a Austin, secondo cui la geografia del Cambriano sarebbe diversa da quella finora disegnata. Le ricostruzioni più accreditate della geografia terrestre di mezzo miliardo di anni fa mostrano l'antico continente di Laurasia, progenitore dell'attuale America del Nord, già separato dal supercontinente meridionale del Gondwana in cui era raccolta gran parte delle restanti terre emerse. Dalziel afferma che le formazioni rocciose tezane mostrano, per esempio, straordinarie affinità con quelle che si trovano nelle Ellsworth Mountains, in Antartide. Secondo lui perciò originariamente il Nord America non sarebbe stato connesso all'Europa e all'Africa come nelle ricostruzioni attuali, ma all'Antartide e a una parte del Sud America. La separazione delle due masse continentali di Gondwana e di Laurenzia sarebbe avvenuta proprio all'inizio del Cambriano, con l'apertura di un profondo canale tra l'oceano Giapeto, il precursore dell'oceano Atlantico, e un oceano Pacifico in parte già ben formato. Si attendono conferme di questa ricostruzione.

L'esplosione cambriana

Con il Cambriano ha inizio l'EONE FANEROZOICO ("della vita palese"), perchè il mare cominciò veramente a brulicare di vita. A questo proposito, il Cambriano rappresenta ancor oggi per gli studiosi un vero e proprio rebus, perchè all'inizio di questo periodo avvenne una straordinaria moltiplicazione delle specie viventi nei mari, oggi nota come "esplosione cambriana". Nel Proterozoico vi erano solo quattro phyla, cioè quattro grandi famiglie di esseri viventi, tutte simili a vermi o già di lì; nel corso di appena cinque milioni di anni (poco meno di dieci ore: un'inezia, in termini geologici) si passa a 50 phyla, cioè lo stesso numero di grandi famiglie oggi viventi sulla Terra. Una stima dei tassi di speciazione dei primi artropodi (che attualmente comprendono insetti, aracnidi, anellidi e crostacei), dimostra che questa sorta di Big Bang di nuove specie animali è compatibile con le leggi della selezione naturale. Con tassi di speciazione più bassi, infatti, l'evoluzione non può che operare più lentamente e gradualmente, e non può rendere conto dello scarto tra l'abbondanza di fossili del Cambriano e l'esiguità dei fossili delle epoche precedenti. Questo era un problema che lo stesso Charles Darwin ammetteva di non poter risolvere e che ha lasciato perplesse generazioni di paleontologi. « Questa esplosione delle forme viventi, a partire da un numero di precursori trascurabile, sembrava fare a pugni con l'idea darwiniana di un'evoluzione graduale regolata dalla selezione naturale », ha dichiarato Mike Lee, ricercatore dell'Università di Adelaide. « Tuttavia, una moderata accelerazione, protratta per poche decine di milioni di anni, nel tasso di speciazione sarebbe stata sufficiente a produrre gli schemi dell'evoluzione che osserviamo oggi: un incremento di cinque volte nei tassi di evoluzione avrebbe compresso circa 100 milioni di anni di cambiamenti in 20 milioni di anni, un periodo relativamente breve in termini geologici. » I ricercatori hanno considerato gli artropodi perché nel Cambriano sono stati quelli che hanno sperimentato la maggiore espansione e la maggiore diversificazione, mantenute ancora oggi: con oltre un milione di specie finora descritte, pari all'83 % delle specie animali di tutto il pianeta, si tratta del phylum più adattabile alle diverse condizioni che si trovano sulla Terra. Grazie all'analisi delle differenze anatomiche e genetiche dei fossili di artropodi risalenti al Cambriano, confrontata con quelle degli artropodi viventi, Lee e colleghi hanno stimato gli antichi tassi di speciazione di questo phylum: si tratta di un valore da quattro a cinque volte maggiore di quello delle epoche successive. « Questo tipo di accelerazione dell'evoluzione si verifica tipicamente quando gli animali colonizzano un nuovo ambiente, come nel caso di mammiferi o uccelli sulle isole, oppure i serpenti nel mare », ha sottolineato Lee. « Spesso è il frutto di un nuovo adattamento, reso possibile da una mutazione nella capacità di predazione o di movimento: crediamo questo si sia verificato durante il Cambriano. »

Ma come si spiega questo balzo in avanti? Come c'era da aspettarsi, le spiegazioni date dagli esperti sono state molteplici e di solito contrastanti tra di loro. Secondo alcuni la cosiddetta "esplosione cambriana" sarebbe stata innescata dagli immani sommovimenti tettonici che provocarono l'innalzamento del livello dei mari e altri cambiamenti ambientali in quell'era remota. Infatti la concomitante diffusione di acque marine poco profonde avrebbe provocato la rapida diversificazione della vita animale e l'improvvisa comparsa di quasi tutti i gruppi di animali moderni. La proliferazione di forme di vita puricellulare e la comparsa e diffusione di forme animali dotate di un guscio duro richiede infatti che negli antichi oceani sia drasticamente aumentato il tenore di ossigeno e la disponibilità degli elementi nutritivi alla base della catena alimentare, aumento plausibilmente determinabile solo da imponenti fenomeni geologici. Invece Andrew Parker, biologo marino della Royal Society ad Oxford, nel suo libro "In un batter d'occhio", ed. Zanichelli, ha riproposto la cosiddetta "light switch theory", la quale ipotizza che il Big Bang della vita nei mari cambriani sia stata dovuta all'invenzione dell'occhio. Prima del Cambriano i viventi possedevano solo dei fotoricettori, in grado di distinguere fra luce e buio, ma non di delineare immagini nitide degli oggetti. Quando improvvisamente il primo predatore sviluppò un organo in grado di fornirgli una visione chiara del mondo circostante, e soprattutto delle possibili prede, ci fu una vera rivoluzione. Un simile predatore infatti divenne subito il terrore delle specie allora viventi che, per sopravvivere, dovettero escogitare nuove strategie; sviluppare anch'esse occhi efficienti, sviluppare gli altro sensi, adottare soluzioni mimetiche, difendersi mediante corazze, aculei o ghiandole velenifere... Tutto ciò provocò insomma una moltiplicazione esponenziale delle linee evolutive dando vita alle forme di vita più svariate, alcune veramente bizzarre, altre talmente azzeccate da sopravvivere fino ad oggi (è il caso dei brachiopodi, degli onicofori e degli anellidi). La prova definitiva in favore di questa teoria è stata la scoperta del sito cinese di Chengjiang (provincia di Yunnan, sudovest della Cina), dove uno smottamento di fango seppellì la fauna del tempo preservandoci una "fotografia" del mare cambriano popolato da tutte quelle strambe creature. Il 95 % delle specie di Chengjiang possiede occhi, e l'epoca a cui risale il sito coincide praticamente con quella dell'esplosione evolutiva (mentre sinora il sito più antico ricco di animali dotati di visione oculare, quello canadese di Burgess Shale, era posteriore di 15 milioni di anni (quasi due minuti dell'Anno della Terra), giudicati troppi per poter affermare l'esistenza di una relazione causa-effetto tra la comparsa dell'occhio e il Big Bang del Cambriano): la prova definitiva della teoria dell'"interruttore della luce" può dirsi trovata, come ha riconosciuto anche il genetista Francis Crick, uno dei due scopritori della struttura a doppia elica del DNA, che per risolvere la questione puntava in precedenza sugli studi di genetica.

Aggiungiamo che il processo che ha portato gli invertebrati a diventare vertebrati è stato un mistero per gli scienziati per decenni. Fino al 2022, quando alcuni ricercatori della Nanjing University e del Nanjing Institute of Geology and Paleontology hanno affermato che i più antichi antenati dei vertebrati sarebbero gli yunnanozoi, creature vissute 518 milioni di anni fa (alle 23.37 del 19 novembre), all'inizio del Cambriano, ritrovati nella provincia cinese dello Yunnan, da cui il nome. Tian Qingyi e colleghi hanno effettuato analisi geochimiche e osservazioni strutturali su 127 campioni fossilizzati di queste antiche creature. Combinando diverse tecniche di imaging, come la microtomografia a raggi X, la microscopia elettronica a scansione e la spettroscopia a infrarossi, gli autori hanno esaminato gli archi faringei, strutture che producono parti del capo e del collo degli yunnanozoi, trovandovi parti cartilaginee: una caratteristica specifica dei vertebrati. Gli archi faringei erano inoltre collegati fra loro da aste orizzontali, dorsali e ventrali, che formavano una struttura a forma di cesto, simile a quella presente oggi nella faringe di lamprede e missine, gli unici vertebrati senza mascella (gli agnati) esistenti. Il Myllokunmingia fengjiaoa, in particolare, è stato identificato come l'antenato di tutti i cordati (e dunque anche dell'uomo!), possedendo per primo un'evidente corda dorsale. Secondo gli autori, queste osservazioni supportano il posizionamento degli yunnanozoi alla base dell'albero filogenetico dei vertebrati e chiariscono il passaggio evolutivo da invertebrati a vertebrati, a lungo ricercato dagli scienziati. Dunque anche noi esisteremmo solo perchè un bel giorno uno strano animale si è dotato di occhi ed ha cominciato ad usarli per cacciare...

Appaiono i trilobiti

Tra gli altri, durante l'esplosione cambriana fecero il loro debutto i celenterati ("cavi all'interno"), oggi rappresentati da polipi e meduse, animali che devono il nome all'unica cavità del loro corpo che coincide con il sistema gastrovascolare; gli echinodermi, animali esclusivamente marini a simmetria spesso apparentemente raggiata, con un dermascheletro costituito da piastrine calcaree, spesso munite di aculei, da cui il loro nome ("pelle con aculei"); e gli ostracodi, tuttora presenti con piccoli animaletti che non superano i 23 millimetri di lunghezza, il cui corpo è racchiuso in un carapace formato da un guscio bivalve simile a quello dei molluschi. Particolarmente diffusi erano i gigli di mare e le stelle marine, mentre le spugne erano praticamente già identiche a quelle attuali.

Ma soprattutto in questo periodo esplosero gli artropodi ("piedi articolati"), probabilmente derivati da anellidi marini del Precambriano, i quali furono i primi esseri viventi a costruire attorno al corpo molle un vero e proprio esoscheletro, costituito da chitina e talvolta reso ancora più resistente da sali calcarei. Oggi sono presenti con oltre 4 milioni di specie viventi, di cui solo un milione e mezzo classificate! Molti di essi erano simili a crostacei con occhi ben sviluppati, posti sopra la testa; altri, invece, erano privi di capacità motorie o racchiusi in conchiglie. Altri ancora, come tutti i Calimenidi, avevano la possibilità di arrotolarsi su se stessi. Tra i primi Artropodi a munirsi di esoscheletro ci furono i trilobiti, oggi completamente estinti, dalle cui testimonianze fossili sono state classificate oltre quattromila specie. La maggior parte di essi viveva nei mari poco profondi, e le loro dimensioni variavano da 10 cm a qualche millimetro, ma ve n'erano anche di notevoli dimensioni. La caratteristica principale di questi animali, cui devono il nome, è la suddivisione in tre parti dell'esoscheletro, sia lungo l'asse cefalocaudale, sia lungo quello perilaterale: la testa, il torace e la coda, come mostra il mio disegno sottostante.

Un trilobite, disegno dell'autore

Un Trilobite nuota in un mare del Cambriano, disegno dell'autore

Il torace e la coda erano formati da segmenti, ognuno dei quali muniti di zampe per la deambulazione e branchie piumose per la respirazione. Durante lo sviluppo, quando lo scheletro esterno si faceva troppo stretto veniva abbandonato dall'animale che provvedeva alla sua ricostituzione com'è testimoniato dagli innumerevoli resti fossili. Si nutrivano di particelle planctoniche ed erano dotati di grandi occhi composti. Ed infatti apparteneva a un trilobite della specie Schmidtiellus reetae rinvenuto in Estonia il fossile dell’occhio più antico finora rinvenuto; esso ha 530 milioni di anni (alla mezzanotte del 19 novembre). La straordinaria scoperta paleontologica è avvenuta grazie a un campione in eccezionali condizioni di conservazione e con l’occhio destro in parte abraso, il che ha consentito ai ricercatori di osservare le parti interne e scoprire che la struttura dell’occhio composito è sostanzialmente simile agli occhi compositi che posseggono gli insetti e i crostacei attuali. L’unica differenza è che gli occhi di quegli antichi artropodi non avevano la lente (il sistema cornea-cristallino) che invece fa parte degli odierni occhi composti. Il risultato è che gli occhi degli animali che vivono oggi hanno avuto origine e sono rimasti nella loro struttura quasi invariati da oltre 500 milioni di anni!

In confronto agli esseri viventi attuali i trilobiti appaiono assai semplici, come denota la forma primitiva del capo, l'uniformità di tutte le appendici deambulatorie e l'assenza di organi masticatori; ma, per quei remoti tempi, potevano già considerarsi particolarmente evoluti, soprattutto in rapporto alla fauna di Ediacara. Evolvendosi, i Trilobiti si trasformarono in animali privi di vista in grado di scavare nella sabbia, o svilupparono occhi enormi posti sopra la testa e protuberanze ad aculeo sullo scudo cefalico. La loro estinzione definitiva avvenne alla fine del periodo Permiano per lasciare il posto ad altri artropodi meglio sviluppati come granchi, gamberi e simili.

I bizzarri Anomalocaridi

Altri animali tipici del Cambriano erano gli Anomalocaridi (tale nome significa « strano gamberetto »), curiosi invertebrati dotati di lunghi arti anteriori spinosi, utilizzati presumibilmente per catturare vermi e altre piccole prede, e di una bocca circolare a placche che si apriva e chiudeva come il diaframma di una macchina fotografica. I più ritengono che essi siano uno dei primi prodotti della linea evolutiva che portò ai moderni crostacei, altri invece pensano che si estinsero alla fine del Cambriano senza lasciare discendenti. I loro resti finora disponibili portavano a ipotizzare che questi predatori marini crescessero fino a raggiungere i 60 centimetri di lunghezza, ma grazie a fossili straordinariamente ben conservati ritrovati in Marocco si è scoperto che le sue dimensioni erano ancora maggiori. Peter Van Roy, della Ghent University in Belgio, e Derek Briggs, direttore del Yale Peabody Museum of Natural History, hanno scoperto un Anomalocaride gigante, di un metro circa di lunghezza, che mostra una serie di filamenti in ciascun segmento lungo il dorso dell'animale: secondo gli scopritori potrebbero aver avuto la funzione di branchie. Inoltre fino a poco tempo fa si riteneva che questi invertebrati si fossero estinti alla fine del Cambriano, mentre i recenti ritrovamenti sono stati datati al periodo Ordoviciano. « Gli Anomalocaridi sono tra gli animali più rappresentativi del Cambriano », ha dichiarato Briggs: « questi invertebrati giganti, predatori e saprofagi, mostrano le poco familiari morfologie esibite dagli organismi appartenenti alle prime linee evolutive che hanno portato agli animali marini moderni, poi estinte. Ora sappiamo che ciò è avvenuto molto più tardi di quanto ritenuto finora. » Gli Anomalocaridi alla fine si estinsero, senza lasciare discendenti viventi: secondo Briggs, « è presumibile che siano stati soppiantati da pesci o da altri predatori marini ». Uno dei più famosi tra gli Anomalocaridi è il Tamisiocaris borealis, che è stato definito il corrispondente di una balena dei suoi tempi, non solo perchè era una sorta di crostaceo lungo ben due metri, ma anche perché si alimentava nello stesso modo. Fino a poco tempo fa i resti fossili del Tamisiocaris in nostro possesso erano così strani da non assomigliare a nulla di conosciuto, e ciò rendeva difficile arguire l'aspetto dell'animale, come viveva e come si alimentava. Tuttavia nuovi reperti rinvenuti nella Groenlandia settentrionale tra il 2009 e il 2011, e risalenti a 520 milioni di anni fa (ore 19.44 del 19 novembre), hanno consentito ai paleontologi dell'Università di Bristol guidati da Jakob Vinther di comprendere meglio le sue caratteristiche e di realizzarne una ricostruzione animata. È stato così accertato che il Tamisiocaris accanto alla bocca possedeva due strutture lunghe 12 centimetri che potevano avvolgersi come una proboscide, e con esse lo strano "gambero" preistorico filtrava il microplancton che galleggiava nei mari primordiali, più o meno come fanno oggi le balene con i loro fanoni.

Ma non basta. Analizzando alcuni fossili del Cambriano inferiore, risalenti anch'essi a circa 520 milioni di anni fa, come il Tamisiocaris borealis, Peiyun Cong e colleghi della Yunnan University e dell'Università dell'Arizona a Tucson hanno scoperto che i più efficienti predatori del tempo avevano un cervello molto meno complesso di gran parte delle loro prede. La struttura dell'organo, inoltre, somiglia sorprendentemente a quella di un moderno gruppo di odierni animali vermiformi, gli onicofori. A questa conclusione sono giunti esaminando un gruppo di fossili della cosiddetta fauna di Chengjiang ( una località dello Yunnan che per la ricchezza del suo sito fossilifero è stata iscritta nella lista dei luoghi naturali patrimonio dell'umanità), identificando una nuova specie, Lyrarapax unguispinus, appartenente proprio a gli anomalocaridi.

Lungo poco più di cinque centimetri, in realtà Lyrarapax era uno più piccoli del gruppo, alcune specie del quale come si è visto raggiungevano i tre metri di lunghezza. Molti di essi inoltre avevano enormi occhi composti, una caratteristica vantaggiosa per un cacciatore efficiente e condivisa anche da Lyrarapax, i cui occhi erano una decina di volte più grandi di quelli di una libellula, un predatore attuale di taglia paragonabile. Questi predatori del Cambriano avevano una caratteristica distintiva, un singolo paio di appendici, probabilmente usate per afferrare le prede, che si estendevano dalla parte anteriore della testa, e che appaiono totalmente diverse da quelle degli insetti e dei crostacei. Queste appendici frontali non si riscontrano in alcun altro animale vivente, a eccezione degli onicofori, piccoli predatori lunghi un paio di centimetri che vivono nel sottobosco di molte foreste dell'emisfero australe nutrendosi di coleotteri e altri piccoli insetti, la cui collocazione tassonomica è rimasta incerta, mostrando alcuni tratti che ricordano gli anellidi e altri che li avvicinano agli artopodi. A corroborare ulteriormente la parentela fra anomalocaridi e onicofori sono le impronte lasciate dal sistema nervoso di Lyrarapax, rilevabili grazie all'eccezionale stato di conservazione dei fossili. Al pari di quello degli onicofori, esso è formato da un cervello molto semplice situato in posizione leggermente anteriore rispetto alla bocca e da una coppia di gangli di cellule nervose situato nella parte anteriore del nervo ottico e alla base delle lunghe antenne. Di conseguenza, è plausibile che gli onicofori siano da collocare sulla linea filogenetica che ha portato agli artropodi e non su quella dei vermi. Inoltre, il fatto che il cervello dei più antichi predatori noti sia di forma molto più semplice rispetto ai cervelli dei suoi contemporanei pone interessanti domande, per esempio se sia stata proprio la presenza dei predatori a guidare l'evoluzione verso cervelli più complessi.

 

Fossile di Hallucigenia sparsa

Fossile di Hallucigenia sparsa (da questo sito)

 

Risale al Cambriano anche il Titanokorys gainesi, una specie fossile scoperta dai paleontologi del Royal Ontario Museum. in Canada, che hanno analizzato l'area intorno al Marble Canyon, nel Parco Nazionale di Kootenay, nella Columbia Britannica. Esso poteva raggiungere una lunghezza totale stimata di mezzo metro, molto più della maggior parte degli animali che nuotavano nei mari del Cambriano. Si tratta di un artropode primitivo, membro del gruppo dei Radiodonti, cui appartengono anche i suddetti Anomalocaridi, ed era caratterizzato da occhi multisfaccettati, molti denti, un paio di artigli spinosi e una serie di strutture necessarie agli spostamenti in acqua. In particolare il Titanokorys, bizzarro ed enigmatico come molti degli animali vissuti in quelle epoche remote, apparteneva a un sottogruppo di Radiodonti detti Hurdiidi, caratterizzati da una testa incredibilmente lunga ricoperta da un carapace che poteva assumere forme differenti. Non sappiamo ancora con certezza quali siano le ragioni delle enormi dimensioni del carapace di questi artropodi, ma potrebbero essere legate all'adattamento evolutivo.

L'antenato microscopico

Bizzarro e quasi  invisibile a occhio nudo, ma con una bocca enorme circondata da diverse file di piccole escrescenze che ricordano dei denti. Non è l'inquietante protagonista di un film di fantascienza, ma molto probabilmente il più antico progenitore conosciuto dell'uomo. Si tratta di un microrganismo marino vissuto 540 milioni di anni fa (ore 04.48 del 18 novembre), dalla fisiologia piuttosto particolare: aveva la forma di un sacchetto ed era privo di ano. La scoperta è dovuta al gruppo di ricerca della cinese Northwest University di Xìan coordinato da Han Han ed al gruppo dell'università britannica di Cambridge coordinato da Thomas Harvey.

Chiamato Saccorhytus proprio per via del suo aspetto, è stato identificato tra i microfossili trovati nella Cina centrale, nella provincia dello Shaanxi, ed è l'esempio più primitivo di una più ampia categoria biologica, quella dei i cosiddetti deuterostomi, dalla quale si sono sviluppati i vertebrati. Il ritrovamento di questi esemplari non è stato semplice: per isolarli dalla roccia circostante, i paleontologi hanno dovuto elaborare enormi volumi di calcare e successivamente sottoporli al microscopio elettronico e alla TAC. Ma alla fine sono stati in grado di ricostruire l'aspetto di questo antichissimo microrganismo e il suo modo di vivere. In quell'angolo di mondo il mare era poco profondo, e il Saccorhytus era così piccolo (aveva le dimensioni di un millimetro) che probabilmente viveva tra i granelli di sabbia sul fondo del mare. Secondo i ricercatori il suo corpo era a simmetria bilaterale: una caratteristica ereditata da molti dei suoi discendenti, compresi gli esseri umani. Inoltre era coperto di una sottile pelle, relativamente flessibile, il che suggerisce che questo essere era dotato di una sorta di muscolatura che gli permetteva di muoversi contraendosi in modo simile a quello dei lombrichi. Ma forse la sua caratteristica più sorprendente era il modo in cui si nutriva: il Saccorhytus aveva una bocca enorme rispetto al resto del corpo, e probabilmente ingoiava pezzi di cibo anche molto grandi o addirittura interi animali. Se le conclusioni dello studio sono corrette, allora il Saccorhytus è stato l'antenato comune di moltissime specie e al tempo stesso il primo passo sul percorso evolutivo che centinaia di milioni di anni più tardi porterà all'uomo.

Gli animali... allucinanti delle Burgess Shales

Parliamo ora di Hallucigenia, un misterioso quanto bizzarro animale vissuto circa 505 milioni di anni fa (all'una di notte del 21 novembre). Quelli di Hallucigenia sono forse i reperti più incredibili tra quelli riportati alla luce nei giacimenti delle Burgess Shales, in Canada, affioramenti di argillite scura che conservano un'enorme quantità di fossili originari del Cambriano medio. Il suo corpo è infatti organizzato intorno a una struttura tubolare longitudinale, alle cui estremità si trovavano una "testa" tondeggiante, priva di bocca e occhi, e un ano. Dal lungo corpo si dipartivano poi 14 spine, appaiate su due file, e sul lato opposto sette tentacoli, ciascuno dei quali dotato di due artigli. Scoperti nel 1911, gli Hallucigenia furono classificati come anellidi, e battezzati Canadia sparsa, dal paleontologo Charles Doolittle Walcott (1850-12927). La questione della classificazione dei fossili rimase pressoché dimenticata fino al 1977, quando Simon Conway Morris (1951-), nell'ambito della sua approfondita analisi dei reperti delle Burgess Shales, ipotizzò che doveva trattarsi di una specie a sé stante, che battezzò Hallucigenia sparsa. Sul tema della classificazione intervenne il grande paleontologo Stephen Jay Gould (1941-2002), che descrisse i fossili delle Burgess Shales nel suo celebre saggio "La vita meravigliosa" (1990), e secondo il quale Hallucigenia non avrebbe avuto alcuna relazione con altre specie viventi.

Nel 1991, Lars Ramskold e Hou Xianguang scoprirono in Cina un nuovo fossile battezzato Microdictyon sinicum, una sorta di verme primitivo appartenente al gruppo dei lobopodi. I due paleontologi utilizzarono i dati ricavati da questa scoperta per ipotizzare che gli Hallucigenia potessero essere gli antenati degli attuali onicofori, un phylum di vermi che vivono nelle foreste tropicali. Nel 2014 un gruppo di ricercatori dell'Università di Cambridge guidati da Martin Smith ha confermato la loro conclusione: il confronto tra fossili di Hallucigenia e di onicofori ha infatti stabilito un collegamento filogenetico inequivocabile, rivelando che gli artigli della creatura sono molto simili a quelli dei moderni onicofori, formati da diversi strati di cuticola. « Un risvolto inaspettato del nostro risultato è che consente una svolta anche nella comprensione della filogenesi degli artropodi, che comprendono ragni, insetti e crostacei », ha spiegato Javier Ortega-Hernandez, coautore dello studio. « La maggior parte degli studi genetici suggerisce che gli artropodi e gli onicofori siano strettamente imparentati, ma i nostri risultati indicano che gli artropodi in realtà sono più vicini ai tardigradi, un phyulm di invertebrati noti per la loro capacità di sopravvivere nello spazio o in condizioni di temperatura inferiori allo zero, relegando gli onicofori nella posizione di distanti cugini. »

Sempre nel giacimento di Burgess Shale alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso fu trovato un altro fossile di 505 milioni di anni fa che, studiato dai ricercatori del Royal Ontario Museum, si è rivelato rappresentare la medusa più antica mai trovata,battezzata Burgessomedusa phasmiformis. Questa scoperta dimostra in modo inequivocabile che le grandi meduse nuotatrici con un tipico corpo a forma di piattino o campana si erano già evolute più di cinquecento milioni di anni fa. Burgessomedusa, in particolare, era capace di nuotare liberamente ed era dotata di tentacoli con cui poteva catturare prede di dimensioni considerevoli, proprio come le meduse moderne. « Trovare animali così incredibilmente delicati conservati negli strati rocciosi in cima a queste montagne è una scoperta incredibile », ha commentato Jean-Bernard Caron, coautore dello studio. « Burgessomedusa arricchisce la complessità delle reti alimentari del Cambriano, e dimostra che la predazione era messa in atto anche dalle semplici meduse. »

Un'altra strampalata creatura marina vissuta circa 500 milioni di anni fa (alle 10.40 del 21/11) nell'attuale regione delle Montagne Rocciose canadesi nota come Burgess Shales sfida ogni possibilità di classificazione. Si tratta del Siphusauctum gregarium, un animale a forma di... tulipano: lungo una ventina di centimetri, ha un sottile "gambo" che sorregge un calice al cui interno è racchiuso un insolito sistema di filtraggio per l'alimentazione. Si pensa che l'animale si nutrisse filtrando le particelle presenti nell'acqua, attivamente pompata nel calice attraverso piccoli fori. All'estremità inferiore il gambo termina con un piccolo disco che ancorava l'animale al fondo marino. Siphusauctum viveva in grandi gruppi, come indica il ritrovamento di lastre di roccia contenenti oltre 65 esemplari. « La principale ragione di interesse è che questo sistema di alimentazione sembra essere unico tra gli animali. Grazie ai più recenti progressi si è potuto stabilire che tante bizzarre creature delle Burgess Shales sono membri primitivi di svariati gruppi animali esistenti anche oggi, ma Siphusauctum sfida questa tendenza. Non sappiamo dove si inserisca in relazione agli altri organismi », hanno dichiarato Lorna O'Brien, dell'Università di Toronto, e Jean-Bernard Caron, curatore di paleontologia degli invertebrati al Royal Ontario Museum, che hanno studiato centinaia di esemplari fossili di Siphusauctum. Negli ultimi due decenni la fauna fossile degli argilloscisti di Burgess Shales, iscritta dall'UNESCO nell'elenco delle località naturali patrimonio dell'umanità nel 1984, ha ricevuto nuova attenzione con un più accurato studio degli organismi problematici che non possono essere facilmente assegnati a phyla moderni. Grazie a Burgess Shale ci si è accorti che nel Cambriano esisteva un livello di diversità maggiore rispetto a quello che possiamo osservare oggi, e animali come Siphusauctum attendono ancora una classificazione convincente.

Il mistero dei microfossili cinesi

Dobbiamo poi ricordare degli stranissimi fossili ritrovati in Cina, vecchi di 570 milioni di anni (risalgono alle 18.24 del 15 novembre), che somigliano a granelli di sabbia: fanno parte della cosiddetta Formazione di Doushantuo, uno dei siti di fossili più ricchi del mondo. Ma cos'erano davvero? Forse embrioni di animali, morti durante la divisione cellulare, come avevamo portato inizialmente a pensare le strutture osservate al loro interno, molto simili a nuclei cellulari? O forse Thiomargarita, batteri giganti in grado di ossidare lo zolfo, che esistono tuttora, come avevano suggerito altri studiosi? Secondo i paleontologi dell'Università di Bristol e del Museo Svedese di Storia Naturale di Stoccolma che li hanno ritrovati, sarebbero invece microrganismi unicellulari non classificabili nel regno dei procarioti né in quello animale. Per sciogliere il dubbio, è stata usata una tecnica di tomografia microscopica a raggi X, che produce immagini tridimensionali delle strutture interne, tanto precise da riuscire a distinguere i singoli nuclei all'interno delle cellule. In uno dei campioni, tre delle otto strutture esaminate avevano la tipica forma allungata che si osserva dopo la replicazione cellulare. « Siamo rimasti affascinati nell'osservare la divisione cellulare preservata dalla fossilizzazione », ha dichiarato Stefan Bengtson, paleontologo del Museo Svedese di Storia Naturale di Stoccolma. « Osservando come avviene questo processo, abbiamo avuto conferma del fatto che non si poteva trattare di batteri, ma neanche di animali, i cui nuclei tendono a perdere i loro contorni durante la divisione cellulare, mentre questo processo non era visibile nei fossili, le cui membrane rimanevano abbastanza nette. »

Quando sono riusciti ad osservare i granelli più da vicino, gli scienziati hanno notato che quelle che sembravano essere cellule in stadi di sviluppo più avanzati non lo erano affatto. Erano invece una sorta di contenitori dalle membrane spesse, pieni di centinaia di migliaia di cellule più piccole. Sulla base di questa osservazione, hanno ipotizzato che le creature fossero simili agli attuali Mesomicetozoi, microrganismi unicellulari che non sono né batteri né animali. Questi esseri si riproducono creando delle minuscole spore, racchiuse da un involucro che si apre al momento giusto per diffonderle nell'ambiente circostante. Quando le piccole cellule giungono nel giusto habitat cominciano a fabbricare un nuovo involucro, e il ciclo di replicazione ricomincia. Questo, secondo i ricercatori inglesi e svedesi, spiegherebbe tutte le caratteristiche dei fossili. Ma l'interpretazione non convince tutto il mondo accademico: « Molti dei microrganismi considerati dai miei colleghi nascono effettivamente come una singola grande cellula che si divide al suo interno, protetta da una membrana piuttosto spessa », ha affermato Iñaki Ruiz-Trillo, biologo dell'Institut de Biologia Evolutiva di Barcellona. « L'idea dunque non è sbagliata, ma ci sono molti altri organismi che si comportano in maniera simile, compresi alcuni tipi di funghi. » E Nicholas Butterfield, paleobiologo dell'Università di Cambridge, ha aggiunto: « È prematuro scartare l'ipotesi che si tratti di organismi pluricellulari. Ad esempio, ci sono caratteristiche che accomunano questi fossili ad alcuni tipi di alghe, come le Volvox. Queste sono ancora organismi con più cellule, ma di tipo molto meno complesso di quelli che conosciamo oggi. » Il giallo resta tuttora irrisolto.

Aggiungiamo che la scoperta di un nuovo deposito fossilifero, ricco e dai reperti eccezionalmente ben conservati, risalente a 518 milioni di anni fa (alle 23.37 del 19 novembre) promette di far fare grandi progressi nella comprensione della cosiddetta Esplosione del Cambriano. A scoprire il nuovo deposito fossilifero, situato a Qingjiang, nella provincia cinese dello Hubei, è stato un gruppo di ricercatori della Northwest University di Xi’an, in Cina, che hanno annunciato la scoperta nel marzo 2019. Oltre all’ottima conservazione delle tracce dei tessuti molli, il particolare pregio dei fossili di Qingjiang è legato alla loro varietà, e al fatto che delle 101 specie animali finora identificate, il 53 % non era stata mai descritta. Inoltre, solo un piccolo numero di specie (appena otto) si trova anche nel sito di Chengjiang, e i taxa che sono più abbondanti in quel sito, a Qingjiang sono del tutto assenti. Considerato che i due siti sono coevi e si trovano in una posizione geografica molto simile, la differenza nella composizione delle popolazioni è legata a differenze ecologiche locali, e questo aiuterà a definire le condizioni paleoambientali e i fattori evolutivi che hanno favorito l'Esplosione del Cambriano. Inoltre, a Chengjiang sono rappresentati molti ctenofori e artropodi (insetti, crostacei, millepiedi e aracnidi), mentre gli cnidari (coralli, anemoni di mare e meduse) sono quasi assenti; questi ultimi sono invece particolarmente abbondanti a Qingjiang. Poiché gli cnidari rappresentano una delle prime forme di vita multicellulare che si sono evolute, i dati raccolti a Qingjiang potranno avvicinarci maggiormente alla comprensione dei meccanismi che hanno permesso l’Esplosione del Cambriano.

Nel "cuore" del Cambriano

Proprio in un fossile risalente al Cambriano è stato riconosciuto il più antico sistema cardiovascolare mai osservato. La scoperta, realizzata da Nicholas Strausfeld e colleghi dell'Università dell'Arizona grazie allo sviluppo di nuove tecniche di rilievo, mostra che i primi animali di quella remota era avevano già una struttura interna che richiama fortemente quelle dei loro discendenti moderni. I fossili, lunghi circa una decina di centimetri, sono stati scoperti in un sito nei pressi della città di Kunming, nello Yunnan (Cina), e appartengono alla specie Fuxianhuia protensa, classificata nel subphylum dei chelicerati, un gruppo estinto di artropodi vissuto 520 milioni di anni fa (le 19.44 del 19 novembre), che coniugava una struttura generale del corpo apparentemente elementare con un'anatomia interna incredibilmente complessa. Il sistema vascolare di Fuxianhuia è più articolato di quello che si trova in molti crostacei moderni: « Nel corso dell'evoluzione, alcuni segmenti del corpo degli animali si sono specializzati in alcune funzioni, mentre altri sono diventate meno importanti e, di conseguenza, alcune parti del sistema vascolare sono divenute meno elaborate », ha commentato Strausfeld. « Grazie alla definizione degli organi interni, ora è anche possibile iniziare a speculare sul comportamento di questi animali. Considerata la buona vascolarizzazione del loro cervello, possiamo supporre che fosse un animale molto attivo, in grado di compiere molte scelte comportamentali diverse ».

La scoperta è stata resa possibile dalle particolari condizioni di fossilizzazione dell'animale. I fossili di Fuxianhuia non sono rari, tuttavia è estremamente difficile che i tessuti molli riescano a conservarsi, cosa che invece è avvenuta per i reperti di Kunming. « Crediamo che questi animali si siano conservati così perché sono stati sepolti rapidamente sotto sedimenti a grana molto fine durante un qualche tipo di evento catastrofico, e sono stati poi permeati da alcune sostanze chimiche disciolte in acqua mentre venivano compressi dai depositi soprastanti. Si tratta di una versione cambriana dell'eruzione di Pompei », ha dichiarato Strausfeld. Quest'ultimo ha usato una tecnica di visualizzazione "intelligente", che ha consentito di mettere selettivamente in evidenza le diverse strutture in base alla composizione chimica: i tessuti delle arterie, per esempio, sono stati mineralizzati da sostanze particolarmente ricche di carbonio. E così, l'immagine fossile di quell'antichissimo cuore è stata preservata per la bellezza di mezzo miliardo di anni.

Fossile di Fuxianhuia protensa

Fossile di Fuxianhuia protensa (da Nature)

E non è tutto. Le più antiche tracce di un cervello con tutte le sue strutture secondarie sono state trovate nella Cina meridionale, risalgono anch'esse a 520 milioni di anni fa (alle 19.44 del 19 novembre) e appartengono al Chengjiangocaris kunmingensis, un esponente dei fuxianhuiidi, lontani antenati di insetti e ragni. A scoprirle nel 2013 è stato Javier Ortega-Hernandez, dell'università britannica di Cambridge. Il Chengjiangocaris visse durante la cosiddetta esplosione cambriana. Il nostro fossile somigliava a un crostaceo, e fu probabilmente uno degli antenati dei moderni artropodi. Nel recente passato erano stati già rinvenuti fossili, anche più antichi, che conservavano tracce di cervello, ma questa è la prima volta in cui vengono scoperte anche le strutture nervose periferiche. Grazie al ritrovamento i ricercatori hanno scoperto che nei Chengjiangocaris era presente un cordone nervoso che attraversava tutto il corpo, qualcosa di analogo al midollo spinale dei vertebrati. Il cordone presentava inoltre dei "nodi" dai cui partivano le terminazioni nervose per il controllo degli arti. Il sistema nervoso del fossile presenta anche delle caratteristiche presenti solo in pochissime famiglie di artropodi attuali, che sarebbero scomparse nel corso dell'evoluzione. Per tutte queste particolarità il fossile del Chengjiangocaris rappresenta un reperto unico nel suo genere e fondamentale per aiutare a comprendere come sia evoluto nel tempo il sistema nervoso centrale.

 

L'antenato di tutti i cordati

L'eccezionale ritrovamento di un centinaio di esemplari di uno dei più antichi e primitivi pesci conosciuti permette di chiarire alcune caratteristiche dei primi cordati, animali dotati di una struttura dorsale di sostegno, la corda, che nei vertebrati avrebbe dato origine alla colonna vertebrale. Gli esemplari, risalenti a circa 500 milioni di anni fa (alle 10.40 del 21 novembre), sono stati scoperti nei depositi fossiliferi delle Burgess Shale e del Marble Canyon, in Canada, ed appartengono alla specie Metaspriggina walcotti, della quale finora erano noti solo due fossili piuttosto incompleti, tanto da far sorgere controversie sulla loro collocazione nell'albero della vita. I campioni più completi, scoperti da Simon Conway Morris dell'Università di Cambrdge e da Jean-Bernard Caron dell'Università di Toronto, arrivano a una lunghezza di sei centimetri, e rivelano chiaramente la presenza di una notocorda, la struttura tubolare di sostegno dell'animale, di due occhi prominenti a sezione circolare dotati di cristallino, e di due sacche nasali accoppiate. Il corpo dell'animale era fusiforme, più ampio in prossimità del centro, per assottigliarsi posteriormente in una punta fine, mentre l'estremità anteriore, dalla quale spuntavano vistosamente gli occhi, era decisamente arrotondata. Metaspriggina era curiosamente priva di pinne.

Queste e altre caratteristiche fanno ascrivere Metaspriggina walcotti ai più antichi pesci vertebrati, ponendola evolutivamente molto vicina a Haikouichthys ercaicunensis e a Myllokunmingia fengjiaoa, due antichi pesci scoperti in diversi depositi fossiliferi dello Yunnan, in Cina, a dimostrazione che questo gruppo primitivo di pesci era molto diffuso durante il Cambriano inferiore e medio. Tuttavia, in Metaspriggina la disposizione delle strutture branchiali è differente, ed essa mostra alcune caratteristiche che la avvicinano agli agnati, i pesci privi di mandibole; invece la posizione esterna della branchie appare piuttosto tipica degli gnatostomi, i pesci dotati di mandibole, che hanno fatto la loro comparsa poco meno di 450 milioni di anni fa (a mezzogiorno del 25 novembre).

L'antichissima origine della bioluminescenza

Risale al Cambriano anche la comparsa di una delle principali proprietà degli animali che vivono nelle profondità oceaniche: la bioluminescenza, ovvero la capacità di produrre luce dal proprio corpo. Può essere utilizzata tra l'altro come strumento per attirare le prede e scoraggiare i predatori. Questo fenomeno è sorprendentemente comune; diversi meccanismi di bioluminescenza si sono evoluti in modo indipendente innumerevoli volte nel corso di centinaia di milioni di anni. I primi a svilupparla però sarebbero stati degl strani animali chiamati octocoralli, un gruppo che comprende i cosiddetti coralli molli, circa 540 milioni di anni fa (alle 04.48 del 18 novembre). Purtroppo la bioluminescenza degli organismi del passato è molto difficile da studiare, perché questo comportamento raramente lascia una traccia nei fossili: i coralli molli, per esempio, non formano massicce barriere, ma costruiscono colonie espellendo una struttura soffice, in cui sono incorporati minuscoli frammenti di materiale simile a uno scheletro. Questo stile di vita fa sì che i coralli molli lascino dietro di sé solo fossili minuscoli, una sfida per gli scienziati che cercano di ricostruire la loro storia. Nel 2024 però Andrea Quattrini, zoologa e curatrice della sezione coralli presso il National Museum of Natural History di Washington D.C., ha ricostruito un albero evolutivo che mostra come i diversi octocoralli moderni siano imparentati tra loro, consentendo di cercare configurazioni in cui i distinti rami possono o non possono creare luce. Cercando la storia evolutiva più semplice possibile che corrispondesse a queste osservazioni, i ricercatori hanno concluso che probabilmente in questi animali la bioluminescenza si è evoluta una sola volta, e poi hanno utilizzato i rari fossili identificati con certezza come octocoralli per collocare l'albero nel tempo.

L'analisi suggerisce che il primo caso conosciuto di evoluzione della bioluminescenza in un ambiente marino si sia verificata proprio durante l'esplosione cambriana: essa fra l'altro coincise con il periodo in cui gli animali si spostarono per la prima volta dalle zone superficiali degli oceani alle profondità, dove la luce solare non penetra, e questo fu anche il periodo in cui si svilupparono rudimentali sensori di luce. In questo contesto, la bioluminescenza è diventata uno strumento comunicativo che i coralli hanno utilizzato per confondere le prede o spaventare i predatori, "come un allarme antifurto", come ha affermato la stessa Quattrini. Ovviamente c'è chi obietta che al bioluminescenza negli octocoralli è nata più volte in modo indipendente, nel qual caso, il fenomeno sarebbe più recente di quanto suggerito dalla Quattrini. Secondo quest'ultima, però, il fatto che il meccanismo con cui si realizza la bioluminescenza sia lo stesso nei vari octocoralli supporta l'idea di un'unica comparsa evolutiva di quella che fu una delle prime forme di comunicazione negli oceani, e forse una delle prime forme di comunicazione sulla faccia della Terra. Il prossimo passo consisterà nell'analizzare il gene che codifica per la proteina responsabile della bioluminescenza negli octocoralli, chiamato luciferasi.

L'antichissima origine dei retrovirus

I retrovirus hanno fatto la loro comparsa almeno mezzo miliardo di anni fa (alle 10.40 del 21 novembre) in un ambiente marino, e hanno probabilmente segnato lo sviluppo di una parte del nostro sistema immunitario. Questa scoperta, avvenuta nel 2016, è opera di due ricercatori dell'Università di Oxford, Pakorn Aiewsakun e Aris Katzourakis, e confuta l'ipotesi che questi microrganismi siano un frutto recente dell'evoluzione, risalente a non più di cento milioni di anni fa. I retrovirus sono una famiglia di virus a cui appartengono fra l'altro il virus HIV e altri virus capaci di provocare l'insorgenza di tumori, che hanno un genoma a RNA il quale, una volta che il virus è penetrato nella cellula dell'ospite, può essere convertito in DNA e inserito nel genoma dell'ospite. Occasionalmente può avvenire che questa integrazione del genoma virale avvenga nelle cellule della linea germinale dell'ospite, nel qual caso può essere ereditato e passare da una generazione all'altra sotto forma di retrovirus endogeno. Di fatto questo processo è avvenuto molte volte nella storia dei vertebrati e oggi queste antiche sequenze genetiche possono essere considerate alla stregua di "fossili genomici" utili per ricostruire la storia evolutiva, finora ben poco conosciuta, di questi lontani colonizzatori di genomi.

Katzourakis e Aiewsakun hanno studiato una classe di retrovirus endogeni le cui sequenze genetiche sono caratteristiche e molto simili a quelle degli spumavirus, così chiamati per la loro capacità di provocare una proliferazione di vacuoli nelle cellule invase, che assumono così un aspetto schiumoso. I ricercatori hanno scoperto che questi retrovirus endogeni, scelti perché molto diffusi nei mammiferi, in realtà sono presenti anche negli anfibi e nei pesci. Il confronto fra le variazioni geniche subite da questi retrovirus in una gamma così ampia di gruppi animali ha permesso a Katzourakis e colleghi di costruire un modello della loro evoluzione, che ne fa risalire la comparsa nei vertebrati a un periodo precedente alla colonizzazione animale della terraferma. Questo risultato fornisce il contesto in cui analizzarne l'attività attuale e la storia delle loro interazioni con l'ospite, e in particolare dello sviluppo delle nostre difese dagli attacchi virali: la data d'origine di questi retrovirus coincide con le origini dell'immunità adattativa, e quindi è probabile che i retrovirus abbiano avuto un ruolo importante nella nascita di questo fondamentale strumento di difesa antivirale dei vertebrati.

 

ORDOVICIANO

(da 488 a 444 milioni di anni fa)

 

Il nome Ordoviciano o Ordovicico deriva dagli Ordovici, il nome latino di un popolo del Galles. È il secondo periodo del Paleozoico, successivo al Cambriano e precedente il Siluriano, e va da 488 milioni a 444 milioni di anni fa. In termini di Anno della Terra, esso dura più o meno dalle dieci di mattina del 22 novembre alle ore 23.40 del 25 novembre.

Questo periodo fu introdotto nel 1879 dal geologo inglese Charles Lapworth (1842-1920) per risolvere una disputa tra alcuni suoi colleghi, che avevano attribuito le stesse rocce nel nord del Galles al Cambriano ed al Siluriano. Lapworth risolse il problema proponendo un nuovo periodo, avendo riconosciuto che la fauna fossile negli strati oggetto della disputa era diversa da quella di entrambi i periodi suddetti.

L'Ordoviciano è suddiviso nei seguenti periodi:

 

Ordoviciano inferiore Ordoviciano medio Ordoviciano superiore

Tremadochiano

Llanvirniano

Caradochiano

Arenigiano

Darriwilliano

Ashgilliano

    Hirnantiano

Prosegue la danza dei continenti

La gran parte dei continenti occupava ancora la fascia equatoriale ed era ricoperta da mari poco profondi. Verso la fine dell'Ordoviciano una parte di Gondwana si mosse verso il Polo Sud, e l'attuale Nordafrica viene ricoperta da estesi ghiacciai: sono state trovate testimonianze di un'estesa glaciazione di quel periodo nell'odierno Sahara, per quanto incredibile ciò possa sembrare. Ne conseguì un rapido abbassamento del livello marino a scala globale, essendo l'acqua intrappolata nei ghiacci. Laurenzia e Baltica, che nel Cambriano erano separate dall'oceano Giapeto, anche più largo dell'Atlantico attuale (la riva settentrionale aveva un clima tropicale, quella meridionale un clima quasi artico), cominciarono a riavvicinarsi, e quel vasto oceano andò chiudendosi. Comparvero poi vasti archi vulcanici e le prime avvisaglie della successiva orogenesi caledoniana. Uno di questi archi vulcanici comprendeva il cosiddetto microcontinente di Avalonia, il cui nome ricalca quello della mitica isola dei druidi nella saga di re Artù. Esso è molto popolare in America perchè le rocce che lo costituivano esistono tuttora e formano parte di Terranova ed il New England (ad es. vedi questo link), oltre a parte della Gran Bretagna e dell'Europa centrale. Avalonia era separata da Baltica dal cosiddetto Mare di Törnquist, introdotto dal geologo britannico Richard Fortey (1946-vivente) in onore del suo collega svedese Sven Leonhard Törnquist (1840-1920), il quale individuò una linea tettonica che corre attraverso l'Europa, e che Fortey dimostrò essere la linea di sutura tra Avalonia e il continente di Baltica. Mentre più avanti, nel Permiano, i continenti ci appariranno uniti in un'unica massa (Pangea), nell'Ordoviciano erano piuttosto sparsi sulla superficie terrestre, come ci appaiono oggi, con la differenza che oggi sono addensati soprattutto nell'emisfero boreale, allora lo erano soprattutto nell'emisfero australe (come conseguenza della distruzione della Pannotia).

I continenti all'inizio dell'Ordoviciano, disegno dell'autore

Gli scorpioni di mare

L'Ordoviciano è testimoniato da scisti e da calcari con Graptoliti e Trilobiti con presenze anche in Italia, nelle Alpi Carniche (scisti e calcescisti), ed in Sardegna (scisti argillosi e arenacei fossiliferi). L'Ordovicinano fu un'epoca di intensa biodiversificazione; tipici abitanti dei mari in quel periodo erano gli ortoceratidi, molluschi della famiglia dei nautiloidei, come quello rappresentato qui sotto, in un disegno della mia allieva Francesca Piotti. Si trattava di cefalopodi dal guscio diritto, conico ed appuntito (da cui il nome, in greco "corno diritto"), alcuni dei quali raggiungevano il metro di lunghezza! Nei mari ordoviciani comparvero anche gli Euripderidi, orribili scorpioni marini lunghi fino ad un metro e ottanta, uno dei quali è rappresentato più sotto, probabilmente antenati degli attuali ragni e scorpioni.

Un ortoceratide, disegno della mia brillante allieva Francesca Piotti

Un ortoceratide, disegno della mia allieva Francesca Piotti (IV C ginnasio a.s. 2004/05)

Nel novembre 2007 è stata annunciata la scoperta di Jaekelopterus rhenaniae, un euripteride o scorpione di mare (ma in realtà la loro parentela con gli scorpioni attuali è molto alla lontana) lungo due metri e mezzo e con una chela di 46 centimetri di lunghezza, vissuto tra Ordoviciano e Siluriano e sparito in corrispondenza della più grande estinzione di massa della storia della Terra, che avvenne alle fine del Permiano. I suoi resti sono stati scoperti in Germania in una cava nei pressi della cittadina di Prum. Lo studio dei resti è stato coordinato dall'Università di Bristol. « La scoperta indicherebbe che gli artropodi in passato erano ben più grandi di quanto pensato finora », sottolineano gli autori della scoperta, il tedesco Markus Poschmann del dipartimento per la protezione dei monumenti culturali della Renania-Palatinato, e l'inglese Simon Braddy dell'università di Bristol. Questi giganti dei mari occupavano probabilmente le posizioni più alte della catena alimentare, al pari del moderno squalo bianco, erano predatori agili che utilizzavano le loro grandi chele anteriori per catturare le prede (probabilmente pesci e artropodi di taglia minore) e poi frantumarle con una serie di appendici taglienti simili a denti, chiamate spine gnatobasiche, poste sulle loro zampe posteriori. « È la prima volta che si trovano resti così grandi di un Euriptero ed è sorprendente: dalle dimensioni della pinza, infatti, si evince che l'animale era lungo 2,5 metri, almeno mezzo metro più grande di quanto stimato finora per questi artropodi ».

A parte il nome e l’aspetto fisico, gli scorpioni di mare hanno poco altro in comune con gli scorpioni moderni. Anche da un punto di vista evolutivo, la loro parentela è piuttosto remota: ad accomunarli infatti è l’appartenenza al subphylum dei chelicerati, un vastissimo gruppo di artropodi di cui fanno pare aracnidi (e quindi gli scorpioni), picnogonidi (a volte chiamati anche ragni marini) e diverse antiche classi di artropodi ormai estinti, come appunto gli euripteridi. La loro esistenza è attestata da moltissimi fossili rinvenuti sin dai primi anni dell'ottocento, principalmente nell’emisfero boreale. Nel 2020 però i paleontologi australiani Russell D.C. Bicknell, Patrick M. Smith e Markus Poschmann hanno rianalizzato tutti i fossili di euripteridi scoperti nel continente australiano per comprendere meglio le caratteristiche tassonomiche di questo antico gruppo di animali. Per la prima volta essi sono andati a caccia di tutti i fossili custoditi nei musei e nelle università australiane, per catalogarli, analizzarli, e vedere cosa raccontano sulla storia e la vita degli euripteridi australiani: un lavoro che ha portato alla luce diversi nuovi esemplari passati inosservati negli scorsi decenni, e ha permesso di scoprire che esistevano probabilmente sei distinti gruppi di euripteridi nelle acque di quello che oggi è il continente australiano, che questi artropodi nell’emisfero australe erano più comuni di quanto si pensasse in precedenza, e che i più diffusi erano quasi sicuramente gli appartenenti al gruppo degli Pterygotidae, di cui faceva parte anche il gigantesco Jaekelopterus rhenaniae sopra menzionato.

Verso un albero genealogico degli insetti

Gli insetti, gli animali che hanno conosciuto il maggior successo evolutivo sul nostro pianeta, hanno iniziato a colonizzare la terraferma 480 milioni di anni fa (alle 01.36 del 23 novembre), contemporaneamente alle piante, in un periodo in cui tutte le altre forme di vita animale erano confinate nell'ambiente acquatico, ed hanno cominciato a evolvere le ali circa 406 milioni di anni fa (alle 01.39 del 29 novembre), subito dopo che i primi vegetali terrestri hanno iniziato a svilupparsi in altezza: questi primi insetti erano i progenitori delle attuali libellule, che somigliano ancora straordinariamente a quei loro lontanissimi antenati. Oggi lo sappiamo con certezza, grazie alla mappatura del genoma e del trascrittoma (l'insieme dei geni espressi) di 1200 specie di insetti, analizzati e confrontati tra loro con l'obiettivo di ricostruire l'albero filogenetico e la cronologia di una delle più vaste classi di animali. Nonostante il ricorso alla potenza di calcolo del sistema di supercomputer SuperMUC del Leibniz-Rechenzentrum a Garching, in Germania, il terzo in Europa per prestazioni e il decimo a livello mondiale, l'immensa mole dei dati raccolti in due anni di ricerche e la complessità delle elaborazioni richieste, i risultati ora pubblicati tracciano solo un quadro provvisorio, desumibile sulla base dei dati relativi a sole 144 specie. Per quanto parziali, questi dati hanno comunque già permesso di definire la cronologia dei principali eventi che hanno segnato l'evoluzione degli insetti. « Grazie a queste analisi », ha dichiarato Jessica Ware, della Rutgers University, « siamo ora in grado di dire quando si sono evoluti il volo, l'alimentazione erbivora, il parassitismo e molto altro ancora ».

Fra le tante scoperte vi è per esempio quella che la radiazione delle piante da fiore è stata accompagnata da una vera e propria esplosione di biodiversità tra gli insetti volanti, come le api, vespe e farfalle. Ma non mancano altre sorprese: la specie parassita dei pidocchi si è diversificata solamente dopo la comparsa dei loro attuali ospiti preferiti, uccelli e mammiferi, contraddicendo la teoria secondo cui essi avrebbero avuto origine e infestato già i dinosauri piumati. La varietà di scarafaggi e termiti che vediamo oggi si sarebbe invece evoluta in seguito alla grande estinzione del Permiano, avvenuta circa 252 milioni anni fa (alle 13.26 dell'11 dicembre), l'unica estinzione di massa conosciuta che abbia interessato significativamente anche gli insetti. A giustificare l'imponenza di questo impegno di ricerca è il fatto che gli insetti sono il gruppo di organismi più ricco di specie sulla terra. Sono di grande importanza ecologica, economica e medica e influenzano la nostra vita quotidiana, dall'impollinazione dei raccolti fino alla trasmissione delle malattie. La ricerca avrà anche notevoli ricadute applicative, ha spiegato Xin Zhou, vice direttore del China National GeneBank, in quanto « sarà possibile realizzare un'analisi comparata delle vie metaboliche dei diversi insetti e utilizzare queste informazioni per contrastare in modo molto più specie specifico insetti e parassiti che colpiscono le nostre risorse alimentari ».

Un altro gruppo di entomologi dell'Imperial College di Londra intanto ha ricostruito la storia evolutiva dei coleotteri, scoprendo come essi si siano diversificati poco dopo la loro comparsa sul pianeta. Attualmente sono note circa 350.000 specie di coleotteri, e probabilmente ve ne sono ancora alcuni milioni da scoprire: rappresentano insomma il 25 % di tutte le forme di vita del mondo, e da molto tempo questa sovrabbondanza di specie e di popolazioni è una questione assai dibattuta. Confrontando i dati riguardanti 1880 specie di coleotteri, i ricercatori sono riusciti a raggruppare le specie che discendono da un comune antenato e a datare i momenti cruciali dal punto di vista evolutivo. Lo studio conferma l'eccezionale abilità di questo ordine di insetti nel cogliere le opportunità ambientali, sviluppando un'ampia gamma di comportamenti adattativi, in particolare per quanto riguarda il nutrimento. L'enorme numero di specie di coleotteri attualmente esistenti potrebbero essere un risultato diretto di questa originaria evoluzione, combinata con l'alto tasso di sopravvivenza e la continua diversificazione delle specie.

Arrivano i cordati

Intanto però comparivano i cordati, antenati dei vertebrati. Oggi ne sono testimonianza le ascidie, che nella fase larvale si muovono nuotando, ma da adulti si fissano sul fondo perdendo la corda dorsale, un embrione di colonna vertebrale. Alcuni cordati tuttavia  cominciarono a conservare la corda anche da adulti, ed iniziarono a vivere nuotando in superficie. Nella testa, dove si concentravano i centri nervosi, si raccolse del calcio che produsse placche di rivestimento, le quali poi si diffusero sull'intero corpo. 

E così, i più antichi vertebrati di cui si ha conoscenza sono gli ostracodermi o pesci corazzati, organismi ittiomorfi (ossia  simili ai pesci di acqua dolce), protetti da uno scudo osseo e privi di mascelle; le loro dimensioni non superavano i 50 centimetri. Comparvero nel periodo Ordoviciano e si estinsero alla fine del Devoniano; si svilupparono probabilmente in acque dolci e si imposero come gruppo dominante al pari dei Trilobiti. Li conosciamo bene grazie ai ritrovamenti nella Scozia, ma i più antichi sono stati ritrovati in Norvegia e risalgono a circa 460 milioni di anni fa (al 24 novembre). Queste forme di vita primitiva erano prive di mascelle ed avevano un'unica narice, impari e mediana; da qui i termini agnati e monorrini. Tra i vertebrati privi di mascelle sono giunti fino a noi solo i ciclostomi, rappresentati dalle lamprede e dalle missine.

Le prime piante terrestri

Durante l'Ordoviciano, vaste regioni erano ricoperte da acque poco profonde, e così su di una deserta spiaggia alcune alghe cominciarono a sopravvivere sulla battigia dando vita alle più primitive tra le piante terrestri, le Boyofite. Nonostante fossero ancora assai primitive, esse svilupparono per prime uno stelo rigido e vascolare, attraversato cioè da un sistema di tubi (vasi) che trasportavano l'acqua nel corpo della pianta.

Di questa prima colonizzazione della terraferma da parte di vegetali provenienti dal mare si hanno testimonianze fossili rinvenute da Claudia Rubinstein, del Dipartimento di Paleontologia dell'Università di Mendoza, nei sedimenti del Rio Capillas, nella Sierra andina nel nord-ovest dell'Argentina, e risalenti a circa 472 milioni di anni fa (alle 17.10 del 23 novembre). Tra le prime pioniere ci furono le Riniide, prive di radici ma con accenni di foglie; le Zosterofilide, che trascorrevano tutta la vita sott'acqua, protendendo fuori dal pelo di essa le ramificazioni del fusto piatto e privo di foglie; e le Psilofitide, anch'esse prive di foglie ma ricoperte di spine, che in alcune specie svilupparono rizomi di notevoli dimensioni a sostegno delle ramificazioni che ripiegavano verso il basso.

Un euripteride, terribile predatore dei mari dell'Ordoviciano, disegno dell'autore

Un euripteride, terribile predatore dei mari dell'Ordoviciano, disegno dell'autore

 

A proposito di piante, secondo una ricerca condotta da studiosi delle Università di Exeter e di Oxford, furono proprio le prime piante che colonizzarono le terre emerse a provocare un'era glaciale in pieno Ordoviciano Inferiore, circa 470 milioni di anni fa (alle ore 21 del 23 novembre). L'arrivo delle piante sulla terra emersa avrebbe provocato un brusco calo del contenuto di anidride carbonica nell'atmosfera: da 7 mila a 4.400 parti per milione (attualmente è di circa 390). Di conseguenza diminuì l'effetto serra causato dalla CO2, e il clima divenne via via più freddo, fino a provocare vere e proprie glaciazioni. Oltre al crollo della CO2, quelle ancestrali piantone avrebbero asportato dal terreno elementi come calcio, magnesio, fosforo e ferro. Ciò provocò un impoverimento dei terreni e una maggiore sedimentazione di rocce carbonatiche nei mari, che provocò un'ulteriore caduta della temperatura. La diminuita quantità di nutrienti che arrivavano tramite i fiumi nei mari avrebbe danneggiato gli ecosistemi marini. E dire che le piante erano appena arrivate sulla terraferma! Naturalmente non tutti sono d'accordo: alcuni giudicano che le prime piante terrestri non davano certo luogo a foreste d'alto fusto, e dunque difficilmente avrebbero potuto influenzare sensibilmente il clima terrestre.

Cure parentali paleozoiche

Potrà sembrare strano, ma già 450 milioni di anni fa (a mezzogiorno in punto del 25 novembre), alla fine dell'Ordoviciano, gli esseri viventi si prendevano cura della proprie uova. Lo dimostra l'eccezionale reperto fossile visibile qui sotto di un ostracode risalente a quell'epoca e rinvenuto nello Stato di New York da un gruppo internazionale di scienziati guidati da David Siveter dell'Università di Leicester. Gli ostracodi erano crostacei imparentati con granchi, aragoste e gamberi. La specie è stata denominata Luprisca incuba, dal nome della dea romana Lucina, protettrice del parto, e da prisca (antica); "incuba" invece deriva dal fatto che sta proteggendo le uova esattamente come fanno oggi i suoi discendenti ostracodi moderni. Si tratta del più antico esemplare di ostracode mai ritrovato; l'immagine è stata ottenuta con una tomografia computerizzata ai raggi X, in essa le uova e gli embrioni sono stati colorati in giallo.

Un ostracode dell'Ordoviciano incuba le sue uova

 

Quando si dice la sfortuna...

Alla classica domanda: « cosa c’è di peggio di essere colpiti da un asteroide? » si potrebbe rispondere: « essere colpiti nello stesso momento da due asteroidi ». Troppo improbabile? Eppure, è quanto avvenne 458 milioni di anni fa in un'area che oggi fa parte della Svezia, ma che nell'Ordoviciano superiore era parte del continente di Baltica e si trovava molto più a sud, più o meno alla latitudine alla quale si trova oggi il Sudafrica. L'area dell’impatto in quell'epoca lontana si trovava 500 metri sotto il livello del mare.

Un gruppo di ricercatori, guidati da Erik Sturkell dell'Università di Göteborg, hanno identificato un grande cratere con un diametro di 7,5 km a una ventina di chilometri a sud di Östersund, nella contea di Jämtland. Un secondo cratere più piccolo, di 700 metri di diametro, si trova a una distanza di 16 km dal primo. Gli impatti doppi sono molto rari, e questa è la prima volta che vengono provati in modo inequivocabile, perchè « i sondaggi hanno dimostrato che in entrambi i crateri sono presenti le identiche sequenze rocciose della medesima età », ha spiegato Sturkell.

L’impatto deve essere stato devastante: in parte l’acqua evaporò all'istante, e in parte provocò uno tsunami. Gli esperti hanno calcolato che per una durata di circa 100 secondi entrambi i crateri rimasero completamente a secco, circondati da una colonna d’acqua di 500 metri che poi si richiuse sopra di loro con una forza spaventosa. L'Ordoviciano superiore fu caratterizzato da numerosi impatti meteoritici sulla Terra, forse dovuti a una collisione che circa 470 milioni di anni fa vide due grandi asteroidi della fascia tra Marte e Giove andare in frantumi e produrre numerosi corpi più piccoli vaganti nello spazio, alcuni dei quali vennero catturati dalla gravità della Terra, ma si tratta solo di un'ipotesi.

Ma non basta. Un gruppo ddi ricercatori guidato da Andrew Tomkins, della Monash University a Melbourne, sostiene che 466 milioni di anni fa (alle 04.51 del 29 novembre) la Terra potrebbe aver avuto un sistema di anelli simile a quello di Saturno! L'affascinante ipotesi nasce dall’analisi di 21 crateri da impatto risalenti agli eventi meteorici dell’Ordoviciano di cui si è detto sopra che, tenendo conto della deriva dei continenti, all’epoca si trovavano tutti in prossimità dell’equatore. Questa distribuzione secondo Tomkins non può essere casuale, e suggerisce che non derivino da asteroidi provenienti dalla fascia principale tra Marte e Giove, ma da un singolo grande asteroide che, avvicinatosi troppo alla Terra, si sarebbe frantumato,formando un grande anello di detriti. I detriti rocciosi sarebbero poi piombai sulla superficie, generando depositi di materiale meteoritico. L'anello, orbitando attorno all’equatore, avrebbe potuto anche funzionare come un gigantesco "parasole", riducendo l’insolazione e contribuendo così alla cosiddetta glaciazione dell’Hirnantiano, l'ultimo periodo dell'Ordoviciano Superiore, che coincise con uno dei periodi più freddi degli ultimi 500 milioni di anni!

La prima estinzione di massa

È ben noto che quasi tutti i periodi geologici terminano in coincidenza con grandi estinzioni di massa, durante le quali buona parte delle specie viventi furono spazzate via. Questo è il caso anche dell'Ordoviciano: oggi sappiamo che a porre fine ad esso fu un'immane glaciazione che 444 milioni di anni fa cancellò due terzi delle forme di vita. Secondo uno studio dell'Università dell'Ohio, questa glaciazione fu causata dagli sconvolgimenti climatici innescati da inimmaginabili eruzioni dei supervulcani situati lungo la costa atlantica dell'attuale Nordamerica: forse le eruzioni più colossali che la Terra ricordi nella sua lunghissima storia geologica. Paradossalmente, però, fu la fine delle eruzioni a dare inizio all'era glaciale che pose fine a questo periodo.

Per oltre 10 milioni di anni, infatti, i vulcani liberarono nell'atmosfera enormi quantità di CO2, il cui livello superò di 20 volte quello attuale, provocando un formidabile effetto serra. Conseguentemente le piogge acide erosero gli Appalachi, ed enormi quantità di carbonati venivano intrappolate nei sedimenti, cosicché si creò un equilibrio stabile nel ciclo dal carbonio. Quando le eruzioni terminarono, il crollo dei livelli di anidride carbonica causò la suddetta glaciazione, che fece estinguere moltissimi organismi marini. I paleontologi hanno ricostruito gli eventi confrontando i livelli di isotopi di stronzio e neodimio derivanti dal processi erosivi con le misure dei letti di cenere vulcanica depositati nelle stesse zone.

Ma c'è chi ha proposto teorie alternative. Secondo gli astrofisici Brian Thomas e Adrian Melott della Washburn University in Kansas, l'estinzione di massa sarebbe dovuta all'esplosione di una stella di grande massa nelle vicinanze della Terra. Essa avrebbe provocato quello che si chiama in gergo un gamma-ray burst, cioè l'emissione di letali raggi gamma di forte intensità, i quali avrebbero irradiato l'atmosfera e distrutto gli strati di ozono dell'atmosfera terrestre, permettendo ai raggi ultravioletti solari di raggiungere la superficie. A lungo termine, le reazioni chimiche derivate da questo stato di cose avrebbero prodotto gas che avrebbero schermato le radiazioni solari, impedendo il passaggio della luce e causando il raffreddamento globale. Secondo gli studi di Thomas e del suo team, per attraversare lo strato di ozono e causare simili danni al nostro ecosistema, un'esplosione stellare del genere deve essere avvenuta nel raggio di almeno 6.500 anni luce: per nostra fortuna, una simile circostanza si verifica in media una volta ogni miliardo di anni. Attualmente la stella che rappresenta la nostra peggiore minaccia in caso di violenta esplosione è WR104, una stella massiccia posta a 8.000 anni luce di distanza nella costellazione del Sagittario. « Ma non è un pensiero che mi tiene sveglio di notte », ha commentato David Thompson, astrofisico della NASA: « un'esplosione del genere abbastanza vicino a noi potrebbe avere luogo, ma è così improbabile che non vale la pena di allarmarsi: ho la stessa probabilità di trovare un orso polare nel mio armadio. Si tratta comunque di una nuova prospettiva sulla selezione e l'adattamento naturale ».

Delle estinzioni di massa riparleremo comunque diffusamente più avanti.

 

 

SILURIANO

(da 444 a 416 milioni di anni fa)

 

Il periodo Siluriano o Silurico prende il nome dai Siluri, antica popolazione del Galles, nel cui territorio sono presenti i più tipici terreni risalenti a questo periodo. Esso va da 444 a 416 milioni di anni fa. In termini di Anno della Terra, esso dura più o meno dalle 23.40 del 25 novembre alle ore 6.11 del 28 novembre. Esso venne introdotto nel 1839 dal geologo inglese Roderick Impey Murchison (1792-1871), ed un tempo esso comprendeva l'Ordoviciano come sottoperiodo.

Il Siluriano è suddiviso nei seguenti piani:

 

Llandoveriano Wenlockiano Ludlowiano Pridoliano

Rhuddaniano

Sheinwoodiano

Gorstiano

(non suddiviso)

Aeroniano

Homeriano

Ludfordiano

 
Telychiano      

I continenti alla metà del Siluriano, disegno dell'autore

L'orogenesi caledoniana

Verso la fine del periodo, con la chiusura dell'oceano Giapeto a causa della collisione fra Laurenzia e Baltica, si formò un continente chiamato Laurussia, e il microcontinente di Avalonia fu schiacciato contro la Laurenzia, dando definitivamente origine all'odierno Nordamerica. Lungo la zona di subduzione si verificò l'orogenesi caledoniana, che diede vita all'altissima catena caledonica, oggi in gran parte livellata dall'erosione. Si innalzarono così i monti Grampiani, gli Appalachi, le colline caledoniane (da cui il nome dell'orogenesi) e le Alpi Scandinave, su su fino alle isole Svalbard, oltre a tracce nell'Europa Centrale, che subì la successiva orogenesi ercinica. La scoperta della continuità della catena caledonica nel caso in cui Nordamerica ed Europa siano poste a contatto, fu una delle prove devisive per l'accettazione della teoria della deriva continentale. Intanto le isole di Siberia e Kazakhistania si saldavano a loro volta, dando vita agli attuali monti Stanovoj e Jablonovy; anche il Gondwana si avvicinava a grandi passi, lasciando il circolo polare antartico per spostarsi verso latitudini più settentrionali.

Graptoliti e "Blob"

Graptolite, disegno dell'autoreDurante il periodo Siluriano la fauna era caratterizzata da una gran numero di Trilobiti, di Echinodermi primitivi e soprattutto di Graptoliti ("pietre scritte"), delle specie di coralli dai bordi seghettati (vedi a fianco un disegno dell'autore), i cui fossili hanno appunto il curioso aspetto di pietre disegnate a matita.

Tra gli invertebrati che prosperarono in quell'epoca remota vi è anche una singolare creatura chiamata Drakozoon kalumon, vissuta circa 425 milioni di anni fa (poco dopo il mezzogiorno del 27 novembre), e conosciuta tramite un unico campione fossile esistente. Di essa nel 2010 i ricercatori dell'Imperial College di Londra hanno sviluppato un dettagliato modello in 3D, che ci ha svelato molti dei suoi segreti, Anzitutto, si tratta di un invertebrato privo di esoscheletro, e il suo ritrovamento rappresenta un evento eccezionale, dato che normalmente si decompongono troppo rapidamente per fossilizzarsi: quell'esemplare di Drakozoon è arrivato a noi grazie a una eruzione vulcanica che ha prodotto una notevole quantità di ceneri, massicciamente e rapidamente ricadute nell'area in cui viveva l'animale, un sito nello Herefordshire, in Gran Bretagna. Drakozoon era lungo circa tre millimetri, aveva una forma vagamente conica e probabilmente era dotato di una sorta di "cappuccio" coriaceo, che poteva utilizzare per nascondersi dai predatori, e di "tentacoli" filamentosi assai utili per catturare le particelle organiche presenti nell'acqua, delle quali si nutriva. Non è certo un caso se Mark Sutton, uno degli autori del modello 3D, lo definito « una sorta di "blob" gelatinoso », aggiungendo: « ritengo che Drakozoon sopravvivesse attaccato alle rocce e alle creature dotate di un guscio rigido. Osservando questa creatura primitiva, abbiamo compiuto un affascinante passo verso la comprensione di come potevano apparire le creature del Siluriano ». Si pensa che Drakozoon appartenesse ad un gruppo di invertebrati chiamati Lofoforati, tra i quali sono da annoverare i Brachiopodi, molluschi senza spina dorsale assai comuni nel periodo Siluriano: il fossile di Drakozoon è stato trovato proprio aggrappato al guscio fossilizzato di un brachiopode.

I funghi giganti del Siluriano

Parlando di questo periodo geologico, è impossibile non fare cenno ai Prototaxiti, funghi fossili terrestri vissuti fino al tardo Devoniano, tra 430 e 360 milioni di anni fa (tra le 02.56 del 27 novembre e le 19.12 del 2 dicembre). I prototaxiti infatti formavano grandi strutture simili a tronchi larghi fino a un metro, raggiungendo un'altezza di 8 metri. Tali strutture erano formate da tubuli intrecciati di circa 50 micrometri di diametro, che li rendevano di gran lunga i più grandi organismi terrestri del loro tempo. Tradizionalmente è molto difficile assegnarli a un gruppo di organismi oggi esistenti, ma l'opinione corrente suggerisce di classificarli tra i funghi. La recente scoperta di quelli che probabilmente sono simbionti di alghe e prototaxiti li renderebbe dei licheni, piuttosto che dei funghi, però le principali cellule tubolari dei Prototaxiti sono più simili a quelle del phylum fungino dei Glomeromicoti, e le sue caratteristiche riproduttive indicano una relazione con i funghi Taphrinomycotina.

I fossili di Prototaxiti hanno l'aspetto di tronchi d'albero, che si espandono leggermente vicino alla loro base in un modo che suggerisce una connessione con le strutture non fossilizzatesi delle radici (qui a sinistra si vede una loro possibile ricostruzione). I calchi nelle rocce che possono rappresentare gli spazi precedentemente occupati dalle "radici" dei Prototaxiti sono comuni negli strati siluroani e devoniani. Gli anelli di crescita concentrici, a volte contenenti materiale vegetale incorporato, suggeriscono che l'organismo è cresciuto sporadicamente con l'aggiunta di strati esterni. È probabile che i "tronchi" conservati rappresentino il corpo fruttifero, o "sporoforo", di un fungo, che sarebbe stato alimentato da un micelio, una rete di filamenti dispersi detti "ife". Su scala microscopica, i fossili sono costituiti da strette strutture tubolari, che si intrecciano l'una con l'altra. Questi sono di due tipi: "tubi" scheletrici, tra i 20 e i 50 μm, hanno pareti spesse (2-6 μm) e sono indivisi per la loro lunghezza, e "filamenti generativi", che sono più sottili (5-10 μm di diametro) e si diramano frequentemente; questi si uniscono tra loro  per formare la matrice dell'organismo. Questi filamenti più sottili contengono un poro, un tratto presente solo nelle moderne alghe rosse e nei funghi. La somiglianza di questi tubi con le strutture della prima pianta Nematothallus ha portato a suggerire che esse possano rappresentare foglie di Prototaxiti. Sfortunatamente per questa ipotesi, i due non sono mai stati trovati in connessione, anche se questo potrebbe essere una conseguenza del loro distacco dopo la morte degli organismi.

Scoperto per la prima volta nel 1843, solo 14 anni dopo il canadese John William Dawson (1820-1899) studiò i fossili dei Prototaxiti, descrivendoli come conifere giganti parzialmente marcite, contenenti i resti dei funghi che li avevano decomposti. Questo modello non fu contestato fino al 1872, quando il suo rivale, lo scozzese William Carruthers (1830-1922), mise in ridicolo questa idea. Tale fu il suo fervore che censurò il nome di Prototaxiti (liberamente tradotto come "primo tasso") e insistette affinché il nome Nematophycus ("alga rigida") venisse adottato da tutti, una mossa fortemente contraria alle convenzioni scientifiche. Dawson lottò categoricamente per difendere la sua interpretazione originale, fino a quando gli studi della microstruttura chiarirono che la sua posizione era insostenibile, cosicché prontamente tentò di rinominare il genere Nematophyton, ("pianta filante"), negando con grande veemenza che lo avrebbe mai considerato come un albero. Nonostante questi tentativi politici di rinominare il genere, il nome "Prototaxiti", per quanto inappropriato nel significato, rimane in uso ancor oggi.

Nonostante la schiacciante evidenza che l'organismo sia cresciuto sulla terra, l'interpretazione di Carruthers che i Prototaxiti erano gigantesche alghe marine fu messa in dubbio solo una volta, nel 1919, quando il botanico Arthur Harry Church (1865-1937) suggerì che i Carruthers fosse stato troppo sbrigativo nrll'escludere la possibilità che i Prototaxiti fossero funghi. Solo nel 2001, dopo vent'anni di ricerche, Francis Hueber del National Museum of Natural History di Washington ha pubblicato uno studio molto atteso che tentava di classificare i Prototaxiti proprio come funghi. Questa idea è stata accolta con incredulità, diniego e forte scetticismo, ma stanno emergendo ulteriori prove per sostenerla. Nel 2007 l'analisi isotopica da parte di un team guidato da Kevin Boyce dell'Università di Chicago ha concluso che i Prototaxiti erano funghi giganti, perché i ricercatori hanno trovato un intervallo di valori altamente variabile dei rapporti isotopici di carbonio in una gamma di campioni di Prototaxiti; gli autotrofi (organismi come le piante e le alghe, che vivono attraverso la fotosintesi) vissuti nella stessa epoca attingevano alla stessa fonte di carbonio (cioè alla stessa atmosfera); dal momento che organismi dello stesso tipo condividono lo stesso meccanismo chimico, essi riflettono questa composizione atmosferica con una traccia costante di isotopi di carbonio. La squadra di Boyce ne ha dedotto che l'organismo si alimentava su una serie di substrati, come i resti di altri organismi nelle vicinanze. Tuttavia, le dimensioni dell'organismo richiederebbero un'estesa rete di miceli sotterranei per ottenere abbastanza carbonio organico per accumulare la biomassa necessaria. Le strutture simili alle radici sono state interpretate come rizomorfi prototassici e potrebbero supportare l'ipotesi che l'organismo trasportasse sostanze nutritive fin da grandi distanze per sostenere il suo fusto fuori dalla terra. Altre ricerche recenti hanno suggerito che i prototaxiti fossero una pianta vascolare come gli alberi di tasso (da cui il nome).

Questo organismo sarebbe stato di gran lunga l'essere vivente più alto del suo tempo, e torreggiava sopra le "foreste di muschio": l'"albero" di Cooksonia raggiungeva solo un metro di altezza. Gli invertebrati erano l'unica altra forma di vita pluricellulare terrestre. I prototaxiti si estinsero quando arbusti e alberi vascolari salirono alla ribalta della biosfera. La presenza di biomolecole spesso associate alle alghe può suggerire che l'organismo fosse coperto da alghe simbiotiche (o parassitarie) che lo facevano somigliare a un enorme lichene. Vi sono anche prove che alcuni animali abbiano abitato dentro i Prototaxiti: labirinti di tubi sono stati trovati in alcuni esemplari, con il fungo che ricresceva nei vuoti.

Gli antenati dei pesci

Circa 420 milioni di anni fa (alle 22 del 27 novembre) fecero la comparsa i primi pesci, vertebrati eterotermi (cioè la cui temperatura corporea non è costante, ma varia assieme a quella dell'ambiente esterno), che si differenziarono dai loro antenati privi di mascelle e di arti per aver sviluppato mascelle, due narici ed arti costituiti da pinne adatte alla locomozione. Avevano dimensioni molto diverse, che andavano dai 15 cm degli esemplari disegnati qui sotto fino ai 12 metri del duncleosteo (vedi), il primo gigantesco predatore dei mari paleozoici, capostipite di una lunga prosapia di famelici divoratori, e dotato di una dentatura così formidabile che non doveva disdegnare come pasto neppure gli antenati dei pescecani. Di quasi tutte le specie che vissero e prosperarono in questo periodo si hanno solo testimonianze fossili, perché il 95 % di esse si estinse alla fine del periodo Permiano.

Erano gli Acantodi ("spinosi"), gli Ostracoderm ("guscio-crosta") ed i Placodermi ("pelle-crosta"), animali ricoperti da una corazza formata da placche ossee che talvolta si estendeva anche al capo ed alle pinne. Vivevano sul fondo marino, strisciando grazie alle grandi e robuste pinne. Eccone alcuni: in alto a sinistra: Pteraspis stensioei, privo di mascelle e di scheletro interno, con un "naso corazzato". In alto a destra: un Ostracodermo pesantemente corazzato. In basso:  un Acantode, il più antico tra i pesci con endoscheletro osseo, abitante delle acque dolci. Siccome però nei mari del Siluriano e del Devoniano sopravvivevano e continuavano a spadroneggiare i grandi euripteridi, che grazie alla loro mole ed alla potenza delle loro chele rappresentavano il vertice della catena alimentare, i pesci ora descritti erano ben lungi dal rappresentare una minaccia per gli enormi scorpioni d'acqua, che dovevano anzi annoverarli spesso tra le loro prede preferite.

 

Tre pesci del Siluriano (vedi testo), disegno dell'autore

Tre pesci del Siluriano (vedi testo), disegno dell'autore

 

Secondo uno studio dell'Università di Chicago, proprio un Acantode, e precisamente l'Acanthodes bronni, sarebbe il più remoto progenitore conosciuto dei vertebrati terrestri, e quindi dell'uomo. La scoperta, di fondamentale importanza per ricostruire l'evoluzione dei vertebrati sulla Terra, si basa sul ritrovamento di un teschio di questo pesce vissuto 290 milioni di anni fa (alle 11.28 dell'8 dicembre), quindi a cavallo tra Carbonifero e Permiano. Fino ad oggi c'è stata molta confusione circa la collocazione degli Acantodi nella storia evolutiva estremamente complessa dei vertebrati. « Il nostro lavoro ci porta a concludere che i primi pesci ossei somigliavano agli squali, e non viceversa », ha spiegato Michael Coates, professore di biologia e anatomia a Chicago.

Il gruppo degli gnatostomi, di cui fa parte l'Acanthodes bronni, comprende decine di migliaia di specie di vertebrati: pesci, squali, uccelli, rettili, mammiferi ed esseri umani. Tuttavia si sa molto poco di specie come le mante o gli squali bianchi, e mancano ancora degli anelli per definire in modo completo la catena evolutiva. Per questo lo studio condotto dal team di Coates è rivoluzionario: si basa sull'analisi in tre dimensioni del cranio, che permette di comprendere l'anatomia delle mandibole, dell'apparato digestivo, circolatorio e uditivo. « La zona del cranio è molto meglio di bilance, denti o spine della pinna, perché da solo fornisce un segnale sconcertante di relazioni evolutive. Questo studio ci mostra importanti transizioni della storia della vita, fornendo una nuova finestra nella sequenza di cambiamenti evolutivi durante la prima evoluzione dei vertebrati », ha chiarito Coates. Utilizzando più di 100 caratteri morfologici, i ricercatori hanno evidenziato un'enorme somiglianza dell'Acanthodes bronni con l'attuale squalo bianco: la parentela che non ti aspetti.

Le prime mandibole

Nel settembre 2013 la rivista scientifica "Nature" ha annunciato al mondo la scoperta del fossile di un pesce, Entelognathus primordialis, vissuto 419 milioni di anni fa (alle 00.21 del 28 novembre) e molto ben conservato, tanto da mostrare con chiarezza le fattezze del suo muso. Secondo i ricercatori si tratta del muso più antico mai osservato di un animale, dal quale probabilmente si evolsero molte delle caratteristiche che ritroviamo ancora oggi in migliaia di altri specie, esseri umani compresi. Il fossile è stato ritrovato nella regione dei laghi di Xiaoxiang, nella Cina sudorientale, da un gruppo di ricercatori dell'Accademia Cinese delle Scienze. Fino ad ora i reperti di questo periodo appartenevano tutti a pesci privi di mandibole; questo invece è il primo a mostrare chiaramente la forma della bocca, del naso e degli occhi. Considerate le sue caratteristiche fisiche, si pensa che l'Entelognathus primordialis fosse uno dei principali predatori degli oceani di allora. Il reperto mostra chiaramente le caratteristiche di due diversi gruppi: i placodermi o pesci corazzati e i pesci ossei, che hanno dato origine a tutti i pesci con lisca e mandibole oggi conosciuti. Fino a ora si pensava che i placodermi si fossero estinti senza lasciare eredi, e che quindi i pesci ossei moderni si fossero evoluti dagli Acantodi.

Secondo Matt Friedman, paleobiologo presso l'Università di Oxford, il fossile dà qualche indizio sulla possibilità che le cose siano andate diversamente: « Se si osserva la parte superiore del cranio e il corpo, l'animale sembra un placodermo. Ma quando si osservano le parti laterali e frontali, si vede che ha una mandibola che ricorda quelle dei pesci ossei ». Capire come andò realmente questo passaggio è importante per comprendere ciò che accadde dopo nella scala evolutiva che porterà fino agli esseri umani. L'ipotesi è che i placodermi non si estinsero, ma semplicemente si evolsero nella grande varietà di specie che vivono sia in acqua sia sulla terra.

E dopo le mandibole, veniamo ai denti. All'origine dei denti ci sarebbero le scaglie dei pesci più antichi. L'ipotesi è contestata, perchè negli anni Duemila gli studi sul pesce zebra (Danio rerio) hanno mostrato che le sue scaglie e i suoi denti si sviluppano a partire da gruppi di cellule nettamente diversi nell'embrione. J. Andrew Gillis dell'Università di Cambridge ha osservato però che i pesci cartilaginei come gli squali e le razze conservano varie caratteristiche molto antiche, perdute dai pesci con scheletro osseo come Danio rerio, fra cui la presenza di piccole scaglie spigolose incastonate nella pelle chiamate "denticoli cutanei". Analizzando lo sviluppo embrionale dei pesci zebra, i ricercatori di Cambridge hanno scoperto che questi denticoli cutanei derivano proprio dallo stesso tipo di cellule dei denti, le cosiddette cellule della cresta neurale: le stesse cellule sono al centro dello sviluppo dei denti nei mammiferi. Secondo Gillis, i denticoli cutanei su squali e razze sarebbero i resti del primo scheletro mineralizzato dei vertebrati vissuti nel Siluriano: una serie di placche che fungevano da armatura contro i predatori. Il nostro scienziato ha ipotizzato che queste prime placche fossero formate da più strati: un substrato osseo e uno strato esterno di dentina. Nel corso dell'evoluzione nei diversi lignaggi dei vertebrati, questi strati sarebbero stati poi variamente conservati, ridotti o persi: gli squali e le razze hanno perduto lo strato inferiore osseo, mentre la maggior parte dei pesci ha perso lo strato esterno di dentina. Solo alcune specie, come il Polypterus bichir, hanno conservato alcuni aspetti di entrambi gli strati di questo antico scheletro esterno.

L'origine delle branchie

Le branchie hanno un'origine evolutiva molto più antica di quanto creduto, segnando il passaggio dai primi, immobili animali filtratori a quelli che cercano attivamente il nutrimento spostandosi nelle acque. Questo tipo di apparato respiratorio si è infatti evoluto prima dell'ultimo antenato comune a tutti i vertebrati, ossia prima della separazione fra gli animali dotati di mascelle, gli gnatostomi, e quelli privi di mascelle. A scoprilo sono stati due biologi dell'Università di Cambridge, il già citato J. Andrew Gillis e Olivia R.A. Tidswell. Gli gnatostomi (come pesci, uccelli e mammiferi) oggi costituiscono il 99 % di tutti i vertebrati viventi, mentre i vertebrati senza mascelle sono rappresentati solo da alcune creature acquatiche anguilliformi, raggruppate nei due ordini delle lamprede e dei missinifirmi.

Fin dalla metà del XX secolo, in seguito ad alcuni studi sugli embrioni, si era diffusa l'idea che negli gnatostomi le branchie derivassero da un tipo di tessuto, quello dell'ectoderma embrionale, differente dal tessuto da cui hanno origine nei pesci privi di mascelle, l'endoderma. Ciò implicava che la presenza delle branchie in entrambi fosse un esempio di evoluzione convergente, ossia di quel fenomeno per cui la natura trova più volte e indipendentemente la stessa soluzione a un problema. Gli studi embriologici che avevano portato a questa conclusione erano però stati condotti solo su sezioni sottili di embrioni di pesce prelevate in diversi momenti dello sviluppo. Si trattava, in un certo senso, di alcune "istantanee" del processo di sviluppo, e non del "film" completo.

Grazie a una tecnica che permette di marcare con sostanze fluorescenti la membrana delle cellule di embrioni, e di seguire passo passo il loro sviluppo, Gillis e Tidswell hanno dimostrato che in realtà le branchie derivano dalla linea cellulare dell'endoderma anche negli gnatostomi. « Le branchie hanno dotato i vertebrati di un organo di respirazione specializzato a livello della testa, rispetto agli animali che dovevano respirare esclusivamente attraverso la pelle di tutto il corpo. Non possiamo dire con assoluta certezza se lo sviluppo di questo nuovo meccanismo respiratorio sia stato indispensabile per iniziare a muoversi o se ha solo permesso loro di muoversi più velocemente », ha dichiarato Gillis. « Tuttavia, il nostro lavoro indica che l'innovazione fisiologica delle branchie si è verificata in alcuni dei nostri più antichi antenati proprio contemporaneamente al passaggio da uno stile di vita passivo a uno attivo. »

L'evoluzione delle pinne

A quanto pare, nei pesci il sistema sensoriale si è evoluto in parallelo con la forma e le proprietà meccaniche delle pinne, in modo da ottimizzare l'efficienza del nuoto in funzione del comportamento delle diverse specie nel loro habitat. A dimostrarlo nell'aprile 2017 è stato un gruppo di ricercatori dell'Università di Chicago guidato da Brett R. Aiello, i quali hanno misurato i rapporti anatomici delle pinne di 340 specie di labridi, viventi ed estinte, conservate al Field Museum di Chicago, per poi costruire un albero genealogico delle relazioni tra di esse sulla base dell'analisi del DNA di specie viventi; hanno quindi mappato la forma delle pinne di ognuna delle specie sull'albero per controllarne l'evoluzione dai tempi più remoti a oggi. Hanno così scoperto che le pinne avevano subito per ben 22 volte un'evoluzione convergente verso due forme basilari e indipendenti tra loro: una larga e tondeggiante, a pagaia, e l'altra stretta e lunga.

Aiello e colleghi hanno quindi analizzato nelle specie viventi le proprietà meccaniche e la sensibilità del sistema sensoriale nelle pinne pettorali di esemplari dotati delle due forme. Le pinne del primo tipo sono risultate più efficienti nelle manovre vicino a fondali, scogliere e barriere coralline, le altre sono capaci di imprimere maggiore velocità. Dalle analisi condotte sul sistema sensoriale dei pesci è poi emerso che il sistema nervoso che innerva le pinne rigide e allungate ha una capacità di risoluzione dei cambiamenti nell'angolo con cui è piegata molto più elevata che nelle pinne a pagaia. Una sensibilità probabilmente legata alla necessità di questi pesci veloci di controllare anche i movimenti più piccoli. I risultati dello studio, osservano i ricercatori, potrebbero avere ricadute anche in un campo del tutto differente dalla biologia, quello dell'ingegneria dei mezzi sottomarini. I sistemi di propulsione di questi dispositivi, infatti, devono essere sia efficienti che reattivi, e copiare i sistemi perfezionati dall'evoluzione nel corso di milioni di anni può essere un'ottima scelta.

L'« ipotesi siluriana »

Dedichiamo due parole alla cosiddetta « ipotesi siluriana ». Si tratta di un esperimento mentale ideato per valutare la capacità degli scienziati di oggi di rilevare le prove di una precedente civiltà avanzata, vissuta diversi milioni di anni fa, in questo caso a cavallo tra Ordoviciano e Siluriano, e distrutta dalla grande estinzione di massa che segnò il passaggio dall'una all'altra epoca geologica. L'esigenza di un tale esperimento è stata sentita a causa del diffondersi, soprattutto grazie al tam-tam di Internet, di teorie pseudoscientifiche sull'origine della vita intelligente sulla Terra, e in particolare della cosiddetta "teoria delle catastrofi", tipica di molte mitologie basate sull'idea del "tempo ciclico", proposta fin dall'antichità da filosofi come Aristotele, e ripresa in tempi moderni da Georges Cuvier come alternativa alle teorie evoluzioniste. Secondo tale ipotesi, in linea teorica non del tutto campata per aria (a differenza di altre idee pseudoscientifiche), sulla Terra potrebbero essersi sviluppate nel corso dei milioni di anni molte civiltà tecnologicamente evolute, con caratteristiche analoghe alla nostra, che di quella successione di civiltà sarebbe solo l'ultima. I sostenitori di questa teoria pensano che le grandi estinzioni di massa documentate nel corso dell'Anno della Terra avrebbero cancellato dalla faccia del pianeta anche civiltà già evolute. Tale teoria ha avuto una notevole influenza culturale sul mondo contemporaneo, come dimostrano opere come "Alle montagne della follia" (1936) del famoso Howard P. Lovecraft (1890-1937), in cui alcuni esploratori dell'Antartide scoprono, al di là delle paurose Montagne della Follia, le rovine di una città costruita da esseri intelligenti vissuti sulla Terra in epoca precambriana.

Orbene, in un articolo del 2018, Adam Frank, astrofisico dell'Università di Rochester, e Gavin Schmidt, direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA, hanno immaginato una civiltà avanzata vissuta prima della nostra, per l'appunto a cavallo tra Ordoviciano e Siluriano, e si sono domandati se sarebbe stato possibile riconoscere i resti archeologici di tale civiltà industriale nella documentazione geologica attuale. Lasciamo a loro la parola: « sebbene dubitiamo fortemente che una civiltà industriale precedente sia esistita prima della nostra, porre la domanda in un modo formale articolando esplicitamente quale potrebbe essere la prova di una tale civiltà solleva utili domande relative sia all'astrobiologia che agli studi sull'Antropocene ». La loro conclusione? Essi sottolinearono l'estrema difficoltà di dimostrare l'esistenza di una simile civiltà a causa del fatto che i suoi resti archeologici sarebbero quasi del tutto scomparsi dopo 400 milioni di anni. Gli unici resti riconoscibili secondo loro deriverebbero dell'inquinamento, tipico di ogni civiltà industriale evoluta, rilevabile nella stratigrafia. Quest'ipotesi è stata riutilizzata anche in varie opere di fiction del genere del "mondo perduto", come ad esempio nella serie fantascientifica "Doctor Who", in cui sono appaiono proprio dei "Siluriani", sopravvissuti fino ai nostri giorni in stato di ibernazione!

 

 

DEVONIANO

(da 416 a 359 milioni di anni fa)

 

Il termine Devoniano o Devonico deriva dalla contea inglese del Devon, dove sono state ritrovate significative testimonianze risalenti a questo periodo. Il periodo Devoniano è compreso tra 416 e 359 milioni di anni fa. In termini di Anno della Terra, esso dura più o meno dalle ore 6.11 del 28 novembre alle ore 21 del 2 dicembre. Siamo già all'ultimo mese e non abbiamo ancora incontrato i vertebrati terrestri!

Il Devoniano segue il periodo Siluriano, precede il periodo Carbonifero ed è suddiviso in sette piani, compresi in tre sottoperiodi:

 

Devoniano inferiore o Renano Devoniano medio Devoniano superiore o Condrusiano

Lochkoviano

Eifeliano

Frasniano

Pragiano

Givetiano

Famenniano

Emsiano

L'orogenesi ercinica

Il Devoniano è rappresentato da calcari e da scisti nella contea di Devon che gli ha dato il nome, ma è particolarmente visibile nelle rocce delle Ardenne, nel Massiccio Renano, nella Westfalia dove si hanno depositi marini:

Anche dalla Turingia alla Russia meridionale, attraverso la Repubblica Ceca e la Polonia, si ritrovano sedimenti marini di questo periodo, mentre nell'Europa settentrionale, dall'Irlanda alla Russia settentrionale, e nell'America Settentrionale il Devoniano è rappresentato da depositi continentali: le « old red sandstones » o arenarie rosse antiche. Nell'Europa mediterranea (Alpi Carniche e Sardegna) si hanno calcari marnosi di mare profondo, successivamente metamorfosati. Il Devoniano è presente anche in America Meridionale, nel Sahara, nel Sud Africa e nell'Australia.

Intanto, che accadeva ai continenti? Nel suo lento ma inesorabile movimento, l'enorme placca che trasportava il continente di Gondwana cominciò ad immergersi sotto la Laurussia, dando origine ad una fossa di subduzione ed alla crescita di un arco insulare vulcanico. L'avvicinarsi dei due continenti provocò l'orogenesi ercinica con la nascita degli Appalachi meridionali.

I continenti alla fine del Devoniano, disegno dell'autore

Uno staff di ricercatori dell'Università di Cardiff guidato da Chris Berry ha scoperto nel 2015 che una foresta fossile di 380 milioni di anni fa (alle 04.16 del 1 dicembre), cresciuta in quelle che oggi sono le isole Svalbard, in pieno Oceano Glaciale Artico, fu probabilmente responsabile di un brusco cambiamento climatico a livello globale avvenuto nel periodo Devoniano. In quell'epoca remota i livelli di anidride carbonica crollarono rapidamente di 15 volte, e gran parte degli esperti ritengono che la causa di tutto fu la rapida diffusione degli alberi, con la formazione di enormi foreste che sfruttavano la CO2 presente nell'aria per completare la fotosintesi. I tronchi fossili trovati nelle isole Svalbard sono i resti di quella "rivoluzione verde". Gli alberi fossili erano licopodi, una specie che raggiungeva anche i 30 metri di altezza e molto diffusa nelle regioni equatoriali, dove si trovavano queste isole prima di essere spinte verso l'estremo Nord dall'inesorabile deriva dei continenti. Tra l'altro, per una curiosa coincidenza, le isole Svalbard sono una delle aree più settentrionali abitate dall'uomo, e ospitano la Svalbard Global Seed Vault (Banca Globale dei Semi), una sorta di arca di Noè sotterranea pensata per resistere a ogni tipo di catastrofe e che raccoglie i semi di quasi tutte le piante del mondo!

Le prime foreste

Le prime foreste fatte di alberi con legno e foglie, come nelle moderne piante a semi, sono apparse proprio nel Devoniano, come ha chiarito nel 2019 uno studio statunitense della Binghamton University guidato da William Stein. Analizzando i terreni fossili della regione dei Catskill, nello Stato di New York, i ricercatori hanno trovato nel sottosuolo dei sistemi complessi di radici appartenenti a piante databili a circa 385 milioni di anni fa (alle 18.32 del 30 novembre). La transizione verso le foreste con l'aspetto attuale, quindi, è avvenuta molto prima di quanto si pensasse, e ha prodotto una trasformazione totale della superficie terrestre e degli oceani.

Questo evento avrebbe provocato effetti sconvolgenti sugli ecosistemi. È aumentata la concentrazione di CO2 nell'atmosfera ed è cambiato il clima globale, variazioni che hanno modificato la Terra per sempre. La ricerca apre quindi una finestra sul periodo di passaggio durante il quale il nostro pianeta si è trasformato in un mondo di foreste. Gli apparati radicali scoperti differiscono tra loro per forme e caratteristiche. Questo indica che le antiche foreste erano eterogenee, proprio come quelle moderne: c'erano alberi diversi che occupavano varie posizioni in base alle condizioni locali. Uno dei sistemi radicali ritrovati in un sito poco distante, nella foresta fossile di Gilboa, considerata per anni la più antica del mondo, è molto primitivo, ed appartiene a Eospermatopteris, una specie vegetale simile a una palma. Come una pianta infestante, Eospermatopteris occupava molti ambienti differenti, ma le sue radici avevano un'autonomia molto scarsa, e probabilmente vivevano solo un anno o due prima di morire ed essere sostituite da altre.

L'altro complesso di radici, invece, era parte di Archaeopteris, un albero dall'aspetto moderno e la prima specie vegetale ad aver sviluppato le foglie e formato le strutture legnose dai tessuti secondari. Nonostante si riproducesse in modo analogo alle felci, rilasciando spore anziché semi, Archaeopteris è la pianta che ha mostrato i segni iniziali delle future piante a semi. Ora che è noto anche il suo sistema sotterraneo, straordinariamente moderno e adattato all'espansione continua, si può ipotizzare che dominasse l'intero ecosistema forestale. Gli scienziati hanno anche trovato un terzo apparato radicale, appartenente a un lepidodendro, una pianta che si pensava esistesse solo durante il periodo Carbonifero, cioè 50 milioni di anni più tardi (quattro giorni prima). Finora nessuno aveva mai rinvenuto delle prove di questo gruppo vegetale in un momento così lontano nel tempo.

Il primo cuore

Proprio al Devoniano risalgono i fossili dei più antichi cuori a due camere separate, risalenti a circa 380 milioni di anni fa (alle ore 04.16 del 1 dicembre). Essi sono stati scoperti in Australia Occidentale da Per Ahlberg, paleontologo dell'Università di Uppsala, e colleghi, all'interno di fossili tridimensionali di placodermi, antichi pesci corazzati che furono i primi vertebrati a sviluppare la mascella. I fossili rivelano che a questo punto della storia evolutiva il cuore a forma di S dei placodermi era già ben separato dagli altri organi, alloggiato vicino alla mascella appena evolutasi. Quei fossili contengono anche fegati e intestini, oltre a stomaci conservati così bene che sono ancora visibili le pieghe delle loro membrane di rivestimento! Si può affermare che i loro organi sono i più antichi conservati in tre dimensioni in qualsiasi vertebrato mascellato. I placodermi in questione, che raggiungevano una lunghezza di circa 25 centimetri, vivevano nei pressi di un'antica barriera corallina fatta di spugne e stromatoliti, rocce sedimentarie depositate da microrganismi. Quando i pesci morivano, alcuni dei loro corpi venivano trasportati dalla barriera corallina in strati d'acqua contenenti pochissimo ossigeno e molto acido solfidrico. I batteri presenti in questi strati formavano una biopellicola intorno ai corpi, che attirava i minerali, racchiudendo i pesci in un involucro protettivo che ha impedito loro di appiattirsi come la maggior parte dei fossili: una catena di eventi piuttosto difficile da realizzarsi, e per questo molto rara.

I fossili tridimensionali sono stati analizzati presso la European Synchrotron Radiation Facility (ESRF) di Grenoble, in Francia, e l'Australian Nuclear Science and Technology Organisation. Le tecniche di imaging di questi istituti sono in grado di mostrare dettagli davvero incredibili. L'intestino appare a spirale, mentre lo stomaco ha uno strato muscolare e uno strato di ghiandole, il che indica che il pesce usava succhi digestivi. Il fegato a due lobi era relativamente grande e probabilmente aiutava a mantenere il galleggiamento, proprio come fa oggi il fegato degli squali. Il cuore era diviso in due camere, simili a quelle dei vertebrati senza mascella come le lamprede, ma le camere erano disposte in modo che l'atrio fosse rivolto verso il dorso dell'animale e il ventricolo verso il ventre. Si tratta di una differenza notevole rispetto alla disposizione vista nei vertebrati senza mascella più antichi, dove le camere sono orientate una accanto all'altra. Altrettanto entusiasmante è ciò che apparentemente manca: i polmoni. Anche se sembra un paradosso, infatti, i pesci sono stati i primi animali a evolvere i polmoni. Alcuni, come i pesci polmonati, li usano ancora per respirare aria. Altri hanno riutilizzato i loro polmoni come vesciche natatorie, sacche piene d'aria che contribuiscono a controllare il galleggiamento in acqua. Ma nei fossili di placodermi non c'era traccia di polmoni, il che suggerisce che lo sviluppo di questi organi sia avvenuto nei pesci ossei dopo la loro separazione dai placodermi. Ora manca solo il ritrovamento di un cervello di placoderma...

Le ammoniti super-resistenti

Come hanno fatto le ammoniti, molluschi cefalopodi parenti dei calamari e dei nautili attuali, a superare indenni ben tre estinzioni di massa? Il segreto della loro longevità (la bellezza di 300 milioni di anni, cioè 23 giorni dell'Anno della Terra) consisterebbe nei mutamenti della strategia riproduttiva, secondo paleontologi dell'Università di Zurigo. All'inizio della loro evoluzione, le ammoniti hanno sostituito una prole esigua e di grandi dimensioni con numerose piccole larve. Anche il loro aspetto è cambiato: i gusci, prima diritti, sono progressivamente divenuti a spirale, forse per sfuggire più rapidamente ai predatori; e da ciò deriva proprio il loro nome (che è quello del dio egizio Amon, i cui montoni sacri avevano corna a spirale come i gusci delle ammoniti!)

Questa evoluzione si osserva anche negli embrioni: i loro gusci appaiono sempre più ridotti e a spirale, mentre da adulti diventano sempre più grandi. Nel Devoniano, la prole era abbastanza numerosa da consentire una rapida ricolonizzazione dopo tre terribili estinzioni di massa. Per qualche motivo ancora sconosciuto, alla fine del Cretacico questa strategia si è rivelata un boomerang, e le ammoniti sono scomparse insieme ai dinosauri.

L'alba della fecondazione interna

L'accoppiamento con fecondazione interna risale proprio al Devoniano, quando comparvero gli gnatostomi, i vertebrati dotati di mascelle, ed è addirittura precedente alla fecondazione esterna, cioè attraverso la liberazione nell'acqua delle uova, tipica dei pesci e di altri animali acquatici odierni. La scoperta la dobbiamo ad un team internazionale di zoologi e paleontologi che hanno studiato un gruppo di fossili scoperti in varie regioni del globo, dalla Scozia all'Estonia fino alla Cina. L'età di questi fossili spazia dall'inizio del Devoniano inferiore, 416 milioni di anni fa (alle 06.11 del 28 novembre), alla fine del Devoniano medio, 385 milioni di anni fa (alle 18.32 del 30 novembre). Questi nuovi fossili appartengono all'ordine degli antiarchi della classe dei placodermi, un gruppo di vertebrati, estintisi alla fine del Devoniano senza lasciare eredi, caratterizzati dalla presenza di un carapace molto sviluppato nella regione toracica e del capo, ma soprattutto da un'innovazione evolutiva che avrebbe avuto grande successo in altri gruppi animali: una bocca dotata di mascelle.

John Long, della Flinders University ad Adelaide, e i suoi colleghi hanno scoperto che i maschi deglii antiarchi avevano robuste appendici dermiche, particolarmente evidenti nei generi Microbrachius e Pterichthyodes; nelle femmine vi erano invece corrispondenti piastre dermiche forate. Queste strutture, incastrandosi le une nelle altre, dovevano rendere più facile l'accoppiamento. Queste appendici ricordano in qualche modo i cosiddetti pterigopodi copulatori degli squali (l'organo usato da questi pesci per bloccare le femmine durante la fecondazione interna), ma hanno un'origine anatomica differente, dato che l'organo degli squali deriva da un'evoluzione delle loro pinne pelviche. I dati paleontologici indicano dunque che i primi gnatostomi si riproducevano grazie alla fecondazione interna, suggerendo che la fecondazione esterna, usata da gran parte degli gnatostomi acquatici esistenti, si sia evoluta in un secondo momento, a dispetto del fatto che questa trasformazione era stata finora considerata poco plausibile.

L'origine della mascella

Ma i placodermi sono importanti anche perché segnarono una fondamentale svolta evolutiva per i primi vertebrati: la comparsa della mascella. A differenza di tutti i moderni vertebrati, che hanno una mascella composta da tre parti, molte specie di placodermi possedevano una proto-mascella costituita da placche ossee. Ma quale fu l'origine di questa fondamentale struttura anatomica, e in che modo si è evoluta? La risposta non è affatto semplice: fino a pochi anni fa scarseggiavano i reperti relativi ai primi placodermi, comparsi nel Siluriano. Nel 2016 però Min Shu e colleghi dell'Accademia delle Scienze di Pechino hanno condotto l'analisi anatomica di un antico fossile scoperto nel sito di Qujing, nella regione dello Yunnan, in Cina meridionale, che getta una luce su un'importante fase dell'evoluzione della mascella, finora sconosciuta. In particolare Min Shu ha ritrovato il più antico progenitore completo dei pesci ossei mai rinvenuto, e di tutti i più antichi placodermi noti.

Uno di questi, Entelognathus, ha permesso di gettare un ponte tra le caratteristiche anatomiche dei placodermi estinti quelle degli osteoitti, i pesci ossei attuali. Rimaneva però il dubbio se fosse da classificare tra i placodermi oppure in qualche gruppo filogeneticamente vicino. Ora il gruppo di Min Zhu e colleghi ha scoperto una nuova specie, battezzata Qilinyu, la cui parte meglio preservata misura 12,6 centimetri, su una lunghezza complessiva del corpo stimata in 20 centimetri. Dotato di una testa simile a quella di un delfino, viveva probabilmente in prossimità del fondo degli specchi d'acqua. Confrontando le caratteristiche anatomiche del nuovo reperto con quelle di altre 372 specie di fossili, il gruppo ha stabilito che Qilinyu apparteneva probabilmente al genere Entelognathus. Il dato più rilevante emerso dall'analisi anatomica è che la sua mascella è suddivisa in tre parti, confermando che questa struttura emerse all'interno dei placodermi, e non in qualche linea filogenetica indipendente da questa classe di vertebrati preistorici.

Il Tirannosauro dei mari

Nel periodo Devoniano visse il Dunkleosteus terrelli, considerato uno dei più feroci predatori di tutti i tempi. Si trattava di un pesce corazzato che pesava quattro tonnellate ed era lungo anche 12 metri, ma soprattutto era dotato delle fauci più mostruose che si conoscano: la sua bocca era quattro volte più grande di quella del Tyrannosaurus rex, solitamente considerato uno dei peggiori predatori mai vissuti sulla Terra. Nel 2006 alcuni paleontologi di Chicago hanno ritrovato nuovi resti di questo mostro marino, e finalmente sono riusciti a ricostruirne correttamente le spaventose fauci. Il loro studio ha stabilito che questo pesce riusciva ad aprire la sua bocca in meno di un quindicesimo di secondo. « Sicuramente Dunkleosteus riusciva a divorare qualsiasi altro animale gli si trovasse davanti » ha affermato Philip Anderson, dell'Università di Chicago, che ha condotto lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica « Royal Society journal Biology Letters »: questi ha ricostruito i muscoli intorno alla bocca del pesce per calcolare la forza dell'animale quando chiudeva il morso. La pressione sviluppata dalle sue formidabili mandibole è stata calcolata in 5.600 kg per centimetro quadrato, almeno tre volte più forte di quella del Tirannosauro: abbastanza da spezzare in due uno squalo con un morso. Per fare un paragone, il morso dell'alligatore (il più potente tra le specie non estinte) è pari a "soli" 963 kg/cm2. Mark Westneat, l'amministratore del Chicago's Field Museum, ha dichiarato: « La parte più interessante di questo lavoro consiste nel fatto che questo pesce, così grande e pesante perchè ricoperto di grandi piastre ossee, fosse velocissimo nell'aprire la bocca e avesse una straordinaria potenza nel chiuderla. Ciò era dovuto all'incredibile forma del suo cranio e ai diversi muscoli usati per le operazioni di apertura e chiusura della bocca ». La ricostruzione visibile qui sotto fa spavento anche a 400 milioni di anni di distanza dalla sua estinzione...

Dunkleosteus terrelli

Ricostruzione di Dunkleosteus, disegno dell'autore

 

I pesci polmonati e i crossopterigi

Il Devoniano è l'era dei pesci polmonati, che riuscirono ad avventurarsi sulla terraferma persino per diversi giorni. Non si sa che cosa spinse gli esseri viventi marini verso la terraferma. Forse alcune mutazioni chiave permisero loro di difendersi dalla disidratazione. Forse lo strato d'ozono nell'alta atmosfera raggiunse finalmente una consistenza sufficiente da bloccare gran parte degli ultravioletti solari, nocivi per la vita. Forse, dicono alcuni, in quest'epoca la Terra catturò la Luna, e di conseguenza l'ampiezza degli effetti delle maree crebbe all'improvviso, per cui la vita venne sospinta sempre più verso l'entroterra. Già nel Siluriano, comunque, miriapodi e ragni si erano avventurati nelle prime "foreste" terrestri, fatte di... muschi.

Nel Devoniano fecero la loro comparsa nei mari i Crossopterigi ("con le pinne a frangia"), dalle pinne frangiate nettamente separate dal tozzo corpo anziché spuntare direttamente da esso; una famiglia di questi pesci sopravvive tuttora. Nel 1938, alle foci del fiume Chalumna in Sudafrica, fu infatti pescato un esemplare di Latimeria chalumnae, lungo 1,50 m e pesante 57 kg: la loro preda incuriosì a tal punto i pescatori, che la mandarono imbalsamata al Museo di East London, sempre in Sudafrica. La direttrice del Museo, la dottoressa Marjorie Courtenay-Latimer (1907-2004), da cui il nome della specie, riconobbe in quell'esemplare le caratteristiche dei Crossopterigi del Devoniano, che si credevano estinti da 120 milioni di anni. Le sue pinne hanno un vero e proprio "corpo basale", che in pratica le trasforma in zampe, grazie alle quali esso può "camminare" sul fondo marino: un vero e proprio fossile vivente, dunque, risalente all'epoca in cui i pesci si stavano lentamente trasformando in anfibi. Del resto il Lepidosiren paradoxa del Sudamerica riesce ancor oggi ad interrarsi sul fondo degli acquitrini prosciugati e a respirare aria con un primitivo polmone. Il Lepidosiren è dunque l'ultimo dei pesci polmonati oggi viventi.

Questi due esseri possiedono, separatamente, due caratteristiche dei vertebrati terrestri: una zampa mobile ed un polmone. E se essi si fossero trovati nello stesso animale?

Ciò accadde nel Devoniano, allorché comparvero i tetrapodi, cioè i primi esseri viventi dotati (come suggerisce il loro nome) di quattro arti nettamente caratterizzati e diversi dalle "pinne" dei loro antenati pesci. Fino pochi anni or sono si conosceva un solo esponente della famiglia di tetrapodi primitivi che per primi conquistarono le terre emerse: l'Ittiostega (Ichthyostega watsoni), descritto per la prima volta da Gunnar Säve-Söderbergh nel 1932, che fu anche il primo anfibio. Esso viveva per lo più in acqua, ma poteva permanere per lunghi periodi sulla terraferma. Fu il primo pioniere dei continenti emersi e, naturalmente, il primo antenato terrestre dell'uomo.

Un esemplare di Acantostega, disegno dell'autore

Studi recenti hanno però allargato notevolmente la famiglia dei tetrapodi primitivi, facendo luce anche sui possibili motivi della loro improvvisa evoluzione verso la conquista delle terre asciutte. In particolare l'attenzione degli esperti si è appuntata sull'Acantostega (Acanthostega gunnari), un tetrapode ancor più primitivo dell'Ittiostega e, come questo, vissuto in quella che per noi è la Groenlandia orientale, a qui tempi caratterizzata da un clima assai più mite (si pensa che quell'area fosse un ampio bacino fluviale al confine tra i due supercontinenti di Laurenzia e di Gondwana, caratterizzato addirittura da un clima subtropicale). Questo animale aveva sì quattro arti, ma era privo di tutte le altre caratteristiche necessarie alla vita terrestre. Per esempio le sue caviglie non erano adatte a sostenerne il peso fuori dall'acqua; gli arti avevano la forma di pagaie più che di zampe, ed in effetti erano dotate di otto dita, anziché di cinque come quasi tutti i tetrapodi successivi; e, sebbene fosse dotato di polmoni, le costole erano troppo corte per impedire il collasso della cavità toracica, una volta fuori dall'acqua. Anzi, le proporzioni delle ossa dell'avambraccio ricordano quelle dei pesci polmonati, e l'animale era dotato di una grande pinna causale, del quale invece l'Ittiostega era già privo. In più, questo strano essere manteneva le branchie. Questo fossile ha insomma tutte le caratteristiche del classico "anello di congiunzione"; e non è nemmeno il solo di questo tipo, come ora vedremo.

Il pesce dal nome inuit

Che l'evoluzione delle zampe posteriori sia iniziata già nei pesci, e non solo dopo i primi tentativi di colonizzazione della terraferma da parte di animali che si sarebbero trascinati facendo leva su quelle anteriori, un po' come le foche, è dimostrato dalla scoperta di alcuni reperti di Tiktaalik roseae, una specie di transizione tra i pesci e i primi animali dotati di zampe vissuta 375 milioni di anni fa (alle 14 in punto del 1 dicembre), in pieno Devoniano. La scoperta la dobbiamo ai paleontologi Neil Shubin (1960-), Edward B. Daeschler e Farish A. Jenkins dell'Università di Chicago. Questi nuovi fossili includono anche una pelvi ben conservata e una pinna ventrale parziale, che permettono di ricostruire in modo più dettagliato la struttura anatomica di questo animale, i cui primi reperti sono venuti alla luce nel 2004, ma comprendenti solo la parte anteriore del corpo. Il nome Tiktaalik è una parola inuit che indica la bottatrice (Lota lota), un pesce di acque basse. Il genere ha ricevuto questo nome su suggerimento di un anziano inuit del territorio di Nunavut nel Canada settentrionale, dove è stato scoperto il fossile. L'isola di Ellesmere, su cui Tiktaalik viveva, nel Devoniano era parte del continente di Laurenzia e si trovava nei pressi dell'equatore, ben lontano dalle latitudini artiche attuali.

Tiktaalik era un pesce dalle pinne lobate, con un'ampia testa piatta e denti affilati, che poteva crescere fino a nove metri di lunghezza. Viveva cacciando in ambienti d'acqua dolce poco profondi, tuttavia mostrava già diverse caratteristiche proprie dei tetrapodi, come per esempio un collo mobile, una robusta gabbia toracica e polmoni primitivi. In particolare, le grandi pinne anteriori con articolazioni corrispondenti a quelle di spalle e gomiti, strutture che permettevano a Tiktaalik di spostarsi agevolmente anche sulla terraferma. I nuovi reperti indicano che anche la struttura del suo bacino, pur mostrando le caratteristiche di base tipiche dei pesci, ne condivideva altre con i primi tetrapodi. Il suo cingolo pelvico infatti aveva dimensioni uguali a quelle del cingolo scapolare, una caratteristica da tetrapode. Inoltre aveva un acetabolo (l'incavo che ospita la testa del femore) di dimensioni e forma che provano il collegamento con un femore (non trovato) altamente mobile, articolabile, e forte, come testimoniato dalle strutture di inserzione dei muscoli sulla cresta iliaca. Nel complesso questi tratti indicano che la pinna posteriore era lunga e complessa come quella anteriore.

« È ragionevole ipotizzare che, grazie ai robusti raggi della pinna, Tiktaalik usasse le pinne posteriori come una pagaia per nuotare », ha dichiarato Neil Shubin, « ma è possibile che con quelle stesse pinne potesse anche camminare sul fondo. Indipendentemente dall'andatura di Tiktaalik, è comunque chiaro che il potenziamento della appendici posteriori e la locomozione basata su una propulsione a livello pelvico è una tendenza che ha avuto inizio nel pesce, per essere poi esaltata durante l'origine dei tetrapodi ». Ora si spera nella scoperta anche del resto dello scheletro di questo pesce dal nome inuit. Una cosa però è certa: la scoperta dell'Acantostega e del Tiktaalik, anziché svelare dei misteri, paradossalmente li infittisce.

L'evoluzione dei tetrapodi

Infatti negli anni '50 Alfred Sherwood Romer, professore di paleontologia dei vertebrati presso l'Università di Harvard, aveva fatto l'ipotesi che i primi tetrapodi avessero unito le due caratteristiche suddette, cioè i polmoni e le pinne muscolarizzate, per salvarsi dal prosciugamento dello specchio d'acqua in cui vivevano, trascinandosi verso un altro stagno; poi, i tetrapodi capaci di percorrere distanze maggiori sarebbero stati favoriti dall'evoluzione, sviluppando infine veri e propri arti. Ma la struttura dell'Acantostega fa piuttosto pensare che, a differenza degli odierni pesci polmonati, esso abbia sviluppato le sue caratteristiche già nell'acqua, e che solo in un secondo tempo le abbia utilizzate per spostarsi sulla terraferma. In altre parole, l'esigenza di abbandonare degli stagni in via di prosciugamento era un fattore assolutamente secondario durante l'evoluzione dei tetrapodi più primitivi. Jennifer Clack, dell'università di Cambridge, ha avanzato l'ipotesi che l'innovazione fondamentale, cioè la rotazione morfologica delle pinne, sia avvenuta non per motivi di locomozione, ma per respirare ossigeno direttamente dall'atmosfera. Mi spiego meglio: nei pesci le pinne sono rivolte verso il retro dell'animale; nei primissimi tetrapodi esse ruotarono fino a trasformarsi in arti orientati verso l'esterno, aumentando l'area delle inserzioni dei muscoli e, di conseguenza, la capacità di sostenere il peso dell'animale, che in tal modo diventava capace di issare il proprio corpo sopra il pelo dell'acqua per respirare l'aria; le dita distribuivano meglio il suo peso.

Si può inoltre osservare come i crossopterigi fossero provvisti (così come tutti gli altri pesci) delle "ossa opercolari" che coprono le branchie e collegano il capo alle spalle, impedendo all'animale di voltare il capo senza voltare tutto il corpo; invece esse sono del tutto assenti nell'Acantostega, caratterizzato da una netta separazione tra capo e spalle. Anche questa evoluzione è oggi interpretata come la risposta alla richiesta di poter orientare meglio il capo per sporgerlo fuori dall'acqua. Anche le mascelle si rafforzano, forse per consentire la nutrizione direttamente sulla terraferma. Quanto alle otto dita, il ritrovamento di altri tetrapodi primitivi con più di cinque dita ci aiuta a capire che i primi tetrapodi sperimentarono più soluzioni, anche se poi a vincere furono le cinque dita che abbiamo anche noi, perché a quanto pare consentivano un'articolazione tibio-tarsale abbastanza stabile da sostenere il peso del corpo e abbastanza flessibile da consentire l'andatura a quattro zampe. Infine, anche l'orecchio si evolse notevolmente per poter ascoltare i suoni nell'acqua che, come tutti stanno, si trasmettono in maniera assai diversa rispetto a quanto avviene nell'acqua; fu allora che l'osso chiamato iomandibolare, che nei pesci dirige i movimenti durante la respirazione e l'alimentazione, si rimpicciolì e fu rinchiuso in una cavità del cranio, dando vita a quella che oggi è la nostra staffa, deputata a trasferire i suoini dall'orecchio esterno a quello interno.

Ittiostega invece era un animale già assai più adattato alla vita terrestre, avendo a disposizione spalle ed arti assai più robusti, e costole assai più lunghe in grado di impedire che i polmoni collassassero sotto il loro peso, una volta fuori dall'acqua. La disposizione delle apofisi (cioè delle escrescenze posteriori) lungo la colonna vertebrale ha fatto pensare che esso si spostasse per balzi come fanno le nostre foche, ma si tratta solo di un ipotesi. In ogni caso si attende la scoperta di nuovi membri della famiglia dei tetrapodi primitivi per capire come si sono evolute le zampe posteriori, fondamentali per una locomozione di tipo terrestre, e già troppo evolute nell'Acantostega e nell'Ittiostega per rivelare particolari interessanti sulla loro evoluzione. Insomma, ci sono altri "anelli mancanti" da trovare.

Un esemplare di ittiostega (disegno dell'autore)

Esistono però altre teorie. Malcolm A. MacIver e colleghi della Northwestern University a Evanston sostengono che la colonizzazione della terraferma da parte dei vertebrati marini sarebbe stata stimolata in primo luogo dallo sviluppo di un sistema visivo più grande ed efficiente, e solo in un secondo momento dallo sviluppo degli arti. Secondo loro infatti la grandezza degli occhi degli animali marini è quasi triplicata prima della transizione dall'acqua alla terra, e non dopo, e l'aumento ha coinciso con un cambiamento della posizione degli occhi da laterale e mediana a più alta e frontale. A sua volta, questo ampliamento del campo visivo al di fuori dell'acqua potrebbe aver portato a cervelli più grandi nei primi vertebrati terrestri, e quindi alla capacità di pianificare propria dei pesci. Per ottenere questo risultato, i ricercatori hanno studiato 59 reperti fossili risalenti ai periodi immediatamente precedenti e successivi alla transizione acqua-terra, misurandone le dimensioni delle orbite e della testa per risalire a quella degli occhi. Hanno così scoperto che la dimensione media dell'organo visivo era passata progressivamente da 13 millimetri a 36 millimetri. Gli occhi più grandi sono quasi inutili in acqua perché la visione è in gran parte limitata a ciò che è proprio di fronte l'animale, ma sono molto preziosi per la visione attraverso l'aria: portando gli occhi al di sopra della linea di galleggiamento, i pesci potevano vedere 70 volte più lontano in aria che in acqua. Con la triplicazione delle dimensioni dell'occhio, lo spazio controllabile dall'animale è aumentato di un milione di volte. L'ipotesi è che la visione di un'abbondanza di cibo sul terreno come millepiedi, centopiedi, ragni e altro (gli invertebrati hanno iniziato a colonizzare la terraferma circa 50 milioni di anni prima dei vertebrati) abbia spinto l'evoluzione a sviluppare gli arti dalle pinne.

Altre curiose ipotesi sui tetrapodi

Non basta. Biologi, paleontologi, esperti di robotica e matematici del Georgia Institute of Technology, della Carnegie Mellon University e dell'Università del Tennessee a Knoxville hanno ipotizzato nel 2016 che la conquista della terraferma da parte degli animali acquatici sarebbe avvenuta... a colpi di coda. Essi infatti hanno scoperto che, quando il terreno è in piano, la coda dà un contributo minimo allo spostamento, ed è usata soprattutto negli spostamenti laterali. Ma se la pendenza aumenta, come di solito avviene lungo gli argini, il vantaggio dell'uso della coda aumenta notevolmente: con una pendenza di 10° la coda è coinvolta in un terzo circa di tutti i "passi", mentre per pendenze prossime ai 20° è usata in metà degli spostamenti. Sulla base di queste osservazioni i ricercatori hanno poi costruito un robot in cui potevano variare sistematicamente l'angolo e i movimenti degli arti e della coda. In questo modo sono riusciti a stabilire quando il coordinamento del movimenti delle pinne e della coda erano più efficaci su superfici granulari di diversa pendenza. Infine, hanno usato un metodo matematico sviluppato negli anni ottanta dal fisico e premio Nobel Frank Wilczek (1951-) e dal suo allievo Alfred Shapere per analizzare tutti i possibili modi in cui il robot può muoversi nello spazio e su diverse superfici. Il modello ha permesso di determinare quali tipi di movimento consentono a un animale di salire su un pendio sabbioso o fangoso. I risultati di questi esperimenti hanno permesso di ipotizzare che l'uso propulsivo della coda, un'appendice a cui gli studi precedenti sulla transizione alla vita terricola hanno prestato poca attenzione, sia stato in realtà l'adattamento critico che ha permesso a questi primi animali di spostarsi su pendii difficoltosi.

Vale la pena di accennare ad un'ulteriore ipotesi in merito. Centinaia di milioni di anni fa la Luna era molto più vicina alla Terra di quanto non sia ora. Steven Balbus, astrofisico dell'Università di Oxford, ha analizzato in che modo la vicinanza della Luna alla Terra potrebbe aver influito sulla sua attrazione gravitazionale e quindi sulle sue maree. Nel 2014 Balbus ha suggerito che le escursioni di marea della Terra sarebbero state massime proprio quando i primi vertebrati a quattro zampe apparvero sulla terraferma. Nel 2018 Hannah Byrne, dell'Università di Uppsala in Svezia, ha provato a simulare fin dove le maree sarebbero arrivate sulle coste di tutto il mondo, basandosi sulla disposizione dei continenti in quel momento e sulle forme e profondità delle loro coste. Circa 400 milioni di anni fa (alle 13.20 del 29 novembre), epoca a cui risalgono i primi tetrapodi di terraferma conosciuti, Byrne ha trovato grandi variazioni in molte località, sia per le maree con frequenza bigiornaliera, sia per quelle quindicinali. I cicli di marea con frequenza bisettimanale, che sono generati quando la Luna orbita intorno alla Terra, sono importanti perché determinano per quanto tempo un pesce potrebbe essere bloccato in una pozza isolata dal mare. Se un pesce veniva depositato in una pozza su uno scoglio alla massima altezza possibile della marea, infatti, ci sarebbero voluti altri 14 giorni prima che l'acqua tornasse a bagnarla. Byrne ipotizza che i pesci in grado di uscire dalla pozza di marea e tornare in acqua camminando a quattro zampe avrebbero avuto le maggiori possibilità di sopravvivenza, e in effetti i fossili di alcuni dei primi tetrapodi terrestri conosciuti, come il pesce a pinne lobate Tiktaalik, sull'isola di Ellesmere in Canada, sono stati scoperti proprio in luoghi caratterizzati da queste ampie escursioni di marea. Alcuni ricercatori però sono scettici su questa proposta, affermando che essa potrebbe al massimo rappresentare una delle concause del successo dei tetrapodi. C'è comunque da dire che si tratta di una teoria assai affascinante.

Al Devoniano medio, e precisamente a 385 milioni di anni fa (alle 18.32 del 30 novembre), risale la più antica foresta fossilizzata mai ritrovata, situata a Gilboa, tra i Monti Catskill, nella parte settentrionale dello Stato di New York. Grazie al riempimento di una cava per i lavori di manutenzione di una diga, i paleobotanici sono riusciti a studiarla nei dettagli dopo quasi 80 anni dal rinvenimento, ed hanno scoperto che gli alberi, simili a palme e a felci giganti, erano alti una decina di metri. « Abbiamo dimostrato che la foresta di Gilboa è ecologicamente molto più complessa di quanto si pensava », ha detto Chris Berry, dell'Università di Cardiff, che ha partecipato agli studi. « E probabilmente aveva fissato nel legno molto più carbonio di quanto immaginavamo ». Per visitare il sito del museo dedicato alla foresta fossile, cliccate qui.

 

 

CARBONIFERO

(da 359 a 299 milioni di anni fa)

 

Il periodo Carbonifero o Carbonico deriva il suo nome dalla grande concentrazione di giacimenti carboniferi risalenti a quel periodo, e fu introdotto nel 1822 dai geologi inglesi William Daniel Conybeare (1787-1857) e William Phillips (1775-1828). È compreso tra il Devoniano ed il Permiano e va da 359 a 299 milioni di anni fa. In termini di Anno della Terra, esso dura più o meno dalle ore 21 del 2 alle 17.56 del 7 dicembre.

Il Carbonifero è suddiviso in due piani, il Pennsylvaniano ed il Mississippiano, che alcuni considerano dei veri e propri periodi separati del Paleozoico. A loro volta sono suddivisi in periodi:

 

Pennsylvaniano Mississippiano

Tournaisiano

Baskiriano

Viseano

Moscoviano

Serpukhoviano

Kasimoviano

 

Gzheliano

Il Pennsylvaniano dura da 359 a 318 milioni di anni fa (dalle ore 21 del 2 dicembre alle 5 del mattino del 6 dicembre), il Mississippiano da 318 a 299 milioni di anni fa (dalle 5 del mattino del 6 dicembre alle 17.56 del 7 dicembre).

L'origine del carbone

Laurussia e Gondwana erano ormai un unico continente, ed anche Cina e Siberia si erano fuse in un'unica massa continentale, chiamata continente di Angara (il suo nome deriva dal fiume omonimo della Siberia meridionale, affluente di destra del fiume Jenisej ed unico emissario del lago Bajkal) o Sinosiberiano; oggi la parte centrale della Cina è attraversata da una catena, i monti Tsinling, che si sollevò proprio quando si formò il continente di Angara (eppure oggi questa catena attraversa una delle civiltà più omogenee del mondo, l'etnia Han). Anche Angara e Laurussia, le due grandi masse boreali, andavano avvicinandosi a grandi passi l'una all'altra: cominciò così a formarsi un nuovo grande supercontinente chiamato Pangea. L'orogenesi ercinica continuò in corrispondenza con il mare che limitava a sud il continente settentrionale, detto Mar Mesogeo ("in mezzo alle terre") o Tetide, dal nome della mitologica madre del pelide Achille. Estesi ghiacciai coprirono la regione sud polare.

 

Paesaggio del Carbonifero disegnato per conto dell'editrice Jaca Book dalla bravissima illustratrice Maria Elena Gonano, tratto dal suo sito e qui pubblicato dietro permesso della stessa autrice

Forte sorpresa ha destato, durante una campagna di ricerche nel Mediterraneo guidata da Roi Granot, geologo della Ben-Gurion University del Negev, il rinvenimento di alcuni tratti di crosta oceanica che, secondo il ricercatore israeliano, potrebbe risalire a 340 milioni di anni fa (alle 10 di mattina del 4 dicembre), cioè al Carbonifero inferiore. La crosta oceanica infatti è generalmente molto più giovane di quella continentale, perché viene prodotta costantemente con le eruzioni delle dorsali medio-oceaniche e distrutta in continuazione quando viene subdotta sotto i margini continentali. La crosta oceanica più antica, scoperta nel Pacifico, non supera i 200 milioni di anni di età (risale alle 18.40 del 15 dicembre). I geofisici ipotizzano che la crosta rinvenuta da Roi Granot sarebbe proprio quella dell’antico mare Tetide, che si chiuse quando la zolla africana si spostò verso nord e di cui il Mediterraneo è l'ultima vestigia. Lo studio è stato realizzato con un’accurata raccolta di dati paleomagnetici nel cosiddetto Bacino Erodoto, la porzione di Mediterraneo delimitata a nord da Creta e Cipro e a sud dalle coste egiziane dal confine con la Libia fino al delta del Nilo. Peraltro tale raccolta di dati è stata eseguita in condizioni molto difficili, perchè le rocce dell'antica crosta oceanica sono coperte da 10-15 chilometri di sedimenti, e ciò rende la scoperta ancora più eclatante.

L'inizio del Carbonifero coincise con l'invasione da parte del mare del continente settentrionale che si estendeva dalla Scandinavia all'Inghilterra, sul quale si depositarono calcari. Successivamente in gran parte della Terra si instaurò un clima uniforme, di tipo caldo ed umido, che favorì la formazione di grandi ambienti lagunari nei quali si sviluppò una flora rigogliosa, fatta di gigantesche felci arboree (cordaitali e sigillarie), le vere dominatrici dei continenti in questo periodo; e così, come si vede nell'illustrazione soprastante, impenetrabili foreste occuparono le pianure di tutto il mondo. Ma, col passare dei millenni, in molte paludi il livello dell'acqua crebbe lentamente, forse perchè il suolo sprofondava. Successivamente i mari si espansero e le foreste furono in gran parte sommerse; fossilizzandosi, i tronchi di quelle immense felci alte fino a 40 metri diedero origine a vastissimi giacimenti di carbon fossile (giacimenti di antracite e litantrace).  

Gli insetti giganti

Fra le felci arboree volavano libellule gigantesche, alcune delle quali (come la Meganeura monyi) raggiunsero il metro di apertura alare: dimensioni che lasciano stupefatti, visto che oggi il massimo insetto vivente è il Titanus giganteus, un coleottero cerambicide dell'Amazzonia, che misura non più di 18 cm. Addirittura sono stati trovati i resti di uno spaventoso millepiedi, Arthopleura armata, che superava i due metri di lunghezza: sicuramente il maggior invertebrato mai comparso sulla terraferma!!

Meganeura

Meganeura monyi, un insetto mostruoso

Il gigantismo degli insetti del Carbonifero, così come degli scorpioni marini dell'Ordoviciano, è stato collegato ad un'elevatissima percentuale di ossigeno nell'atmosfera, oltre il 32 % (contro il 21 % attuale). Questa teoria, assai credibile, si deve ad Alexander Kaiser, della Midwestern University di Glendale, in Arizona. Infatti gli insetti non hanno un apparato respiratorio come quello dei vertebrati, dotati di polmoni, e soprattutto non usano il sangue per trasportare l'ossigeno ai vari organi del corpo. Gli insetti respirano tramite un sistema complesso di trachee, canalicoli che portano l'ossigeno direttamente ai tessuti. Questo sistema si apre all'esterno per mezzo di fori chiamati spiracoli. Aumentando le loro dimensioni, gli insetti hanno bisogno di trachee più grandi e più lunghe per il trasporto dell'ossigeno. Ma, aumentando il volume del corpo, cresce anche la richiesta di ossigeno, e quindi gli insetti avrebbero bisogno di un numero maggiore di spiracoli che si aprono sullo scheletro esterno. C'è un limite nel rapporto tra grandezza del corpo e grandezza delle trachee, che occuperebbero troppo spazio se l'insetto diventasse più grande. Inoltre le trachee hanno un punto critico: la connessione delle zampe dell'insetto al corpo. Qui il diametro delle trachee si riduce drasticamente, facendo passare meno ossigeno. Secondo lo studio di Kaiser, le dimensioni del Titanus giganteus sono quelle massime che un insetto può raggiungere con l'attuale percentuale di ossigeno nell'aria.

Le cose però cambiano se la percentuale di ossigeno aumenta. In presenza di una maggior quantità di ossigeno nell'aria diminuisce la necessità di aumentare in proporzione il diametro delle trachee, e quindi il corpo degli insetti, a parità di dimensioni di trachea, può diventare anche più grande. Esattamente quello che accadde nel Carbonifero, quando l'ossigeno nell'aria era il 35%. Questi insetti dunque non avrebbero mai potuto sopravvivere nella nostra atmosfera.

L'overdose di ossigeno

Secondo una nuova ricerca, fu invece per evitare un'overdose di ossigeno che durante il Carbonifero gli insetti divennero grandi come gabbiani. « L'ossigeno ha degli effetti sugli insetti adulti, ma le sue ripercussioni sono molto più marcate sulle larve », ha spiegato Wilco Verberk, della Plymouth University: « ecco perchè puntare l'attenzione sulle larve ci potrebbe aiutare a capire prima di tutto perchè esistevano insetti così grandi, e poi perchè scomparvero. »

Verberk ha puntato l'attenzione sugli effetti che le variazioni dei livelli di ossigeno hanno avuto sulle larve dei plecotteri, l'ordine a cui appartengono anche le libellule. Durante il Carbonifero, le alte concentrazioni di ossigeno nell'aria si riflettevano in elevate concentrazioni anche nell'acqua, l'ambiente di crescita delle larve di libellula. I risultati della ricerca dimostrano che le larve dei plecotteri sono molto più sensibili alle fluttuazioni di ossigeno rispetto agli individui adulti. Questa diversa sensibilità potrebbe dipendere dal fatto che, in genere, le larve degli insetti assorbono l'ossigeno direttamente attraverso la pelle. In questo modo non riescono a esercitare un controllo efficace sulla quantità di gas che assorbono. Al contrario, gli insetti adulti riescono a regolare l'assorbimento dell'ossigeno grazie all'apertura o alla chiusura di valvole specifiche, gli spiracoli tracheali.

L'ossigeno, elemento cruciale per la vita, se assunto in grandi quantità può però rivelarsi tossico: negli esseri umani un eccesso di ossigeno causa danni a livello cellulare, provocando nausea, danni alla vista, difficoltà respiratorie e convulsioni. Molto probabilmente anche le larve degli insetti preistorici assorbivano l'ossigeno dall'acqua, in maniera passiva e senza una buona capacità di regolazione. Una condizione potenzialmente pericolosa, come accadde appunto nel Carbonifero, quando le concentrazioni di ossigeno diventarono elevate. Una soluzione efficace nel diminuire il rischio di un'intossicazione da ossigeno potrebbe essere stata quello di aumentare le proprie dimensioni. Se mettiamo a confronto due larve, una grande e una piccola, la larva più grande assorbirà una percentuale minore di gas. Questo perchè, se un organismo diventa più grande, la sua superficie totale diminuisce rispetto al suo volume.

Questa nuova teoria potrebbe inoltre spiegare come gli insetti giganti siano riusciti a sopravvivere nonostante l'abbassamento della concentrazione di ossigeno nell'atmosfera terrestre. Secondo Verberk, anche se è stato l'ossigeno a spingere verso l'evoluzione di forme giganti di insetti, questo non significa che concentrazioni minori di ossigeno inducano una morte immediata. Piuttosto, questa diminuzione potrebbe aver compromesso l'esistenza degli insetti più grandi, rendendoli più lenti nel volo. « Proprio queste prestazioni ridotte potrebbero aver favorito altre specie di insetti nella competizione con questi giganti », ha concluso Verberk.

Voglio segnalare un'altra teoria stravagante riguardo agli insetti giganti. Com'è logico, quando l'ossigeno aumentò la propria percentuale nell'atmosfera, gli insetti diventarono più grandi, invece quando essa è diminuita le loro dimensioni si sono ridotte. Ora però Matthew Clapham, paleobiologo dell'Università della California, ha fatto notare che circa 150 milioni di anni fa, durante il periodo Giurassico, i livelli di ossigeno aumentarono, ma gli insetti alati smisero di crescere. Quella è l'epoca in cui comparvero i primi uccelli, noti divoratori di insetti. « La manovrabilità di qualsiasi oggetto volante dipende dalle sue dimensioni », ha spiegato Clapham: « gli oggetti piccoli sono assai più maneggevoli di quelli grandi. ». In altre parole, gli insetti grandi sarebbero stati dei facili bersagli. Inoltre secondo Clapham gli uccelli rubarono il pranzo ai grandi insetti. « Le libellule sono animali predatori e si nutrono di insetti più piccoli; durante il Giurassico, gli uccelli e le libellule giganti potrebbero essere state in competizione per lo stesso cibo ». Da notare che gli pterosauri, anch'essi con una dieta a base di insetti, non ebbero alcun effetto sulle dimensioni degli insetti. « Credo che gli pterosauri non fossero così agili nel volo come gli uccelli », ha concluso candidamente Clapham. Sempre secondo quest'ultimo, se non fosse stato per gli uccelli, gli insetti moderni sarebbero molto più grandi: sulla base dei livelli di ossigeno attuali, « gli insetti moderni oggi potrebbero essere anche tre volte più grandi di quanto non sono ». Sarà.

I primi ragni

Ma nel Carbonifero apparvero anche gli antenati dei ragni moderni, vissuti durante il Carbonifero. Si tratta del Cryptomartus hindi e dell'Eophrynus prestivicii, delle dimensioni di una moneta da 20 centesimi di euro, dei quali i ricercatori dell'Imperial College di Londra hanno recentemente realizzato dei modelli tridimensionali computerizzati, ottenuti scansionando i loro resti fossili fino ad ottenere ben 3000 radiografie di ciascuno. Le nuove immagini, che potete ammirare cliccando qui, rivelano tra l'altro che il Cryptomartus hindi aveva le prime due zampe rivolte in avanti, proprietà che gli consentiva di immobilizzare la preda prima di ucciderla, mentre l'Eophrynus presentava numerose punte difensive sulla schiena, che secondo gli scienziati servivano a renderlo una preda meno appetibile per altri animali. Impossibile invece sapere se già tessevano ragnatele; è più probabile però che attendessero le loro prede nascosti tra la vegetazione o in buche scavate nel terreno, per poi balzare loro addosso come fanno ancora alcuni ragni odierni.

Alla fine di questo periodo risale anche l'Idmonarachne brasieri, vissuto tra i 305 e i 299 milioni di anni fa (tra le 06.16 e le 17.56 del 7 dicembre), che rappresenta uno dei più antichi "cugini" dei ragni finora scoperti. Il suo fossile è stato riportato alla luce molti anni fa in Francia, ma è stato classificato solo nel 2016 perché la parte frontale del corpo era incastonata nella roccia. Quando gli scienziati sono riusciti a farne una dettagliata ricostruzione usando la tomografia computerizzata, gli esperti lo hanno definito come « la cosa più vicina ad un ragno che non è però un ragno », come ha detto alla BBC il professor Russell Garwood dell'Università di Manchester, primo autore dello studio. Il nome della specie è un omaggio al grande paleontologo britannico Martin David Brasier (1947-2014), morto tragicamente in un incidente d'auto. L'aracnide è originario della regione vicino a Montceau les-Mines, nella Francia orientale, e il suo corpo misura in tutto 10,5 mm. Studiandolo, Garwood e colleghi hanno verificato che l'esemplare aveva otto zampe e una mascella molto grande, un elemento che conferma che si tratta di una specie nuova e non di uno dei più distanti cugini noti, risalenti allo stesso periodo. A Idmonarachne brasieri manca però un elemento chiave: le filiere, gli organi da cui i ragni secernono la "seta" per tessere le ragnatele, che si trovano invece nei ragni più antichi. La new entry riempie quindi una sorta di gap fra una famiglia di aracnidi estinta, che viveva milioni di anni prima, e i più antichi progenitori dei ragni moderni. Non a caso il suo nome scientifico deriva da Idmone, il mitologico padre di Aracne, a voler significare la parentela e allo stesso stesso tempo la distanza tra questo fossile e gli aracnidi moderni.

L'era degli anfibi

Intanto, sulla terraferma proliferarono gli anfibi, allora il gruppo dominante. Appena i Crossopterigi del Devoniano riuscirono a vivere in permanenza sulla terraferma, da essi cominciarono a svilupparsi veri e propri animali a quattro zampe: si trattava dei primi anfibi, gli Stegocefali ("con il cranio a tetto"), i quali, pur vivendo la vita adulta sulla terraferma, erano costretti però a depositare le loro uova in acqua, essendo queste prive di qualunque tipo di guscio, e dunque immediatamente soggette alla disidratazione; anche la loro vita larvale si svolgeva in acqua, da cui il nome di anfibi ("dalla doppia vita"). Dovevano inoltre deporre numerosissime uova per far fronte all'attività dei predatori.

Tra gli Anfibi del Carbonifero si distinguono diversi rami evolutivi, da forme abbastanza simili alle salamandre e ai tritoni attuali, fino a colossi simili ai nostri coccodrilli. Tutti avevano denti in cui la dentina e lo smalto erano variamente ripiegati su sé stessi, tanto che la loro sezione ricordava il disegno dì un labirinto, da cui il nome di Labirintodonti. Altri anfibi privilegiavano invece il movimento serpentino, e in molti casi andarono incontro a una riduzione totale degli arti (come negli Aistopodi). Alcuni anfibi cominciarono a diventare enormi, inaugurando una tendenza che sarà costante nella storia della vita: il Diplovertebronte (Diplovertebron punctatum), da me disegnato qui sotto, raggiungeva i due metri di lunghezza! Molti suoi elementi scheletrici alle estremità degli arti erano cartilaginei, e la corda dorsale era persistente negli adulti.

Diplovertebronte

Il Diplovertebronte, grande anfibio del Carbonifero (disegno dell'autore)

 

Tra tutti gli anfibi, i più famosi sono certamente i rospi, oggi considerati antesignani della bruttezza per antonomasia (i più dicono "Sei un rospo" con intenzioni inequivocabili), eppure rispetto ad altri animali più gradini un merito non da poco ce lo hanno: sono tra gli animali che sono riusciti a diffondersi di più e meglio sul nostro mondo. Una ricerca condotta da un team internazionale di cui ha fatto parte anche l'italiano Michele Menegon, ricercatore del Museo Tridentino di Scienze Naturali, ha dimostrato che questi anfibi, grazie alla loro capacità di adattamento e di diversificazione, sono stati tra i più grandi pionieri del regno animale. Partiti dal Sudamerica, dove ha avuto inizio la loro storia evolutiva, si sono poi diffusi a macchia d'olio  su tutti i continenti. « Ciò che la ricerca dimostra - ha dichiarato Menegon alla stampa -  è che i rospi sono stati in grado di evolvere caratteristiche tali da diventare pionieri perfetti, in grado di sopportare ambienti tra loro diversissimi, dall'equatore ai paesi scandinavi, di riprodursi ovunque, di difendersi efficacemente dai predatori, di accumulare acqua nei tessuti, di rendersi indipendenti nello stadio adulto dalla presenza di corsi d'acqua, di riprodursi tramite girini di piccole dimensioni alla nascita, che si accrescono poi assumendo sostanze nutritive dall'ambiente, eccetera ». Le loro dimensioni, ad esempio, variano da quelle del Bufo marinus, di oltre 23 cm di lnghezza e 2 kg di peso, a quelle del rospo viviparo di Wendy, di poco più di un centimetro di lunghezza e pochi grammi di peso. Alcune specie sono vivipare e partoriscono 6 o 8 piccoli per volta, altre depongono oltre 18.000 uova per volta. La presenza combinata di tutti questi caratteri favorevoli ha portato a un organismo ottimale per la massima dispersione sul pianeta, ma la loro dote non si ferma qui: una volta conquistato un nuovo territorio, questa famiglia di anfibi ha saputo difenderlo, occupando le nuove aree in modo duraturo. Perciò dovremo pensare bene a quello che diciamo, quando in futuro daremo del "rospo" a qualcuno!

Alcuni anfibi riuscirono presto a deporre uova che potevano resistere, senza disseccarsi, fuori dall'acqua, e perciò adatti a far fronte a condizioni climatiche sfavorevoli. Questi anfibi erano gli antenati di nuovi animali noti come Cotilosauri, che poi furono i primi rappresentanti della classe dei Rettili; anzi dei Rettili molti li considerano i progenitori. I Cotilosauri avevano ancora caratteri tipici dei loro antenati Anfibi, come la tipica colonna vertebrale, il cranio anapside ed il palato, ma erano caratterizzati da una riduzione del numero delle ossa craniche e da un cinto pelvico robusto, mentre gli arti, per quanto molto forti, conservavano la posizione laterale. La nuova classe di vertebrati esplose particolarmente nel Permiano e poi nel Mesozoico; il Pareiasauro, un Cotilosauro del Permiano ritrovato in Sudafrica e in Russia, raggiungerà i tre metri di lunghezza.

Il primissimo esemplare di Cotilosauro, l'Hylonomus lyelli, comparve 315 milioni di anni fa (alle 10.48 del 6 dicembre), in quella che oggi è la Nuova Scozia, un'isola che si è dimostrata molto generosa di fossili di quei Rettili primitivi. I loro resti si sono conservati in un modo quantomeno insolito: sono stati rinvenuti all'interno di tronchi cavi pietrificati di alberi giganteschi, le Sigillarie, già citate in precedenza ed imparentate con gli attuali licopodi. Questi vegetali raggiungevano i 25 metri e costituivano vere e proprie foreste nelle zone paludose del Carbonifero; la loro fossilizzazione generò gli ampi giacimenti di carbon fossile che diedero nome a questo periodo. Periodicamente la parte bassa dei tronchi veniva sommersa dalle alluvioni provocavando la morte dell'albero, i cui tessuti interni si dissolvevano. Gli spazi vuoti divenivano così profondi cavità cilindriche, ben presto colonizzate da insetti e da altri invertebrati. Attirati da queste prede, piccoli animali come i Cotilosauri cadevano in queste trappole naturali senza riuscire più a risalire; e così la loro fossilizzazione, in queste condizioni, è risultata perfetta.

La visione a colori ha 300 milioni di anni!

Secondo Gengo Tanaka dell'Università di Kumamoto, in Giappone, i recettori che permettono la visione si sono conservati all'interno dell'occhio dei vertebrati per 300 milioni di anni (per 23 giorni e mezzo dell'Anno della Terra). È questa la conclusione cui lo scienziato nipponico è giunto dopo l'analisi dei resti fossili di Acanthodes bridgei, un antico pesce ritrovato negli strati geologici della Formazione di Hamilton, in Kansas, risalenti al Carbonifero Superiore.

L'evoluzione della visione dei vertebrati è un fattore fondamentale nella storia della vita animale: si ritiene che i primi occhi rudimentali siano apparsi con Myllokunmingia, un cordato vissuto nel Cambriano inferiore, circa 520 milioni di anni fa (alle 19.44 del 19 novembre). Tuttavia, finora i paleontologi hanno dovuto ricostruire questa evoluzione basandosi su indizi sparsi, provenienti da diversi campi della scienza. Il primo luogo, le testimonianze fossili sono limitate a cristallini calcificati, per esempio di trilobiti, dal momento che i tessuti molli dell'occhio e del cervello si sono degradati rapidamente dopo la morte. Altre informazioni sono state ricavate dall'analisi di organismi viventi anatomicamente ancora molto primitivi. Le ricerche di genetica, d'altro canto, hanno portato a ipotizzare che quattro delle cinque classi di geni che nei vertebrati codificano le opsine, le proteine che all'interno dell'occhio sono responsabili della percezione dei colori, esistessero già nel Cambriano. Finora però questa ipotesi ha trovato un riscontro solo parziale in tracce di pigmenti sensibili ai colori in alcune parti esterne di vertebrati risalenti al Mesozoico. La svolta è venuta da Acanthodes bridgei, il più antico antenato comune di tutti i pesci dotati di mandibole, che viveva circa 300 milioni di anni fa (alle ore 16 del 7 dicembre) in acque salmastre e poco profonde.

L'eccezionale stato di conservazione del fossile, in cui sono stati preservati il colore e la forma, ha permesso di riscontrare la presenza non solo di eumelanina, un pigmento della retina che assorbe la luce, ma anche di resti mineralizzati di coni e bastoncelli, i due tipi di fotorecettori che traducono la luce in un segnale bioelettrico diretto al cervello tramite il nervo ottico. Questi elementi suggeriscono un certo grado di efficienza e complessità della visione dei vertebrati già 300 milioni di anni fa. La presenza dei coni, in particolare, indica che Acanthodes bridgei era in grado di percepire i colori, anche se la conferma di questa capacità potrebbe arrivare solo con il ritrovamento delle opsine.

 

 

 

PERMIANO

(da 299 a 251 milioni di anni fa)

 

Il Permiano prende il nome dalla provincia russa di Perm, ai piedi degli Urali, e fu introdotto nel 1840 dal già nominato Roderick I. Murchison. Esso durò da 299 a 251 milioni di anni fa. In termini di Anno della Terra, esso durò più o meno dalle ore 17.56 del 7 dicembre alle ore 15.23 dell'11 dicembre.

Il Permiano viene così suddiviso dai geologi:

 

Cisuraliano Guadalupiano Lopingiano

Asseliano

Roadiano

Wuchiapingiano

Sakmariano

Wordiano

Changsinghiano

Artinskiano

Capitaniano

Kunguriano

Nasce la Pangea

Il continente di Angara entrò definitivamente in collisione con la Laurussia, provocando il sollevamento della catena degli Urali, che oggi non supera i 1300 metri, ma che allora era altissima, quanto il nostro Himalaya: simbolo della potenza dell'erosione, che tutto tritura e tutto appiana. Si formò così nell'emisfero boreale un vastissimo continente meglio noto come Laurasia. Si completava in tal modo, dopo lunghissime vicende, il supercontinente Pangea ("tutte le terre").

I continenti all'inizio del Permiano, disegno dell'autore

Il supervulcano della Valsesia

All'inizio del Permiano risale un gigantesco vulcano nelle Alpi Occidentali, collocato tra le vallate e i rilievi della Valsesia, tra gli attuali Varallo e Borgo Sesia: un « supervulcano fossile » che per la prima volta permette di osservare tutte le parti profonde e inaccessibili dei condotti attraverso cui il vulcano era alimentato. « Ciò è stato possibile grazie al fatto che l'orogenesi alpina, cioè quella lenta dinamica che ha portato al sollevamento e alla formazione delle Alpi, ha rivoltato la crosta terrestre facendo emergere tutto l'apparato magmatico che un tempo stava sotto il vulcano, fino a una profondità di circa 25 km, mettendoci a disposizione per la prima volta uno spaccato del suo complesso sistema di alimentazione », ha spiegato il professor Silvano Sinigoi, docente di petrografia all'Università di Trieste, « il che permette di dire che il supervulcano fossile della Valsesia è finora unico al mondo ». L'eccezionale scoperta è frutto di una collaborazione italo-americana con a capo Sinigoi e il geologo James Quick, prorettore dell'università di Dallas.

Il supervulcano fu attivo circa 290 milioni di anni fa (alle 11.30 dell'8 dicembre), dando luogo a spaventose eruzioni in grado di oscurare l'atmosfera e alterare il clima globale. Poi, dopo alcuni milioni di anni di attività, si spense lentamente e, non essendo più alimentato da magmi profondi, collassò su se stesso, formando una caldera di una quindicina di km di diametro. « Le ricerche condotte dai professori Quick, Sinigoi e loro collaboratori, sono di estremo interesse per almeno due motivi », ha spiegato il professor Giovanni Orsi dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia: « Il primo è che esse permettono di studiare direttamente i processi che avvengono nel sistema di alimentazione di un vulcano, a profondità di chilometri all'interno della crosta terrestre. Il secondo è rappresentato dalle implicazioni che i risultati di queste ricerche hanno sulla definizione del comportamento di un vulcano attivo e, quindi, sulla capacità da parte della comunità scientifica di interpretare correttamente i segnali che esso invia, sia in termini di definizione dello stato attuale sia di previsione di una eventuale eruzione. Questi sono gli obiettivi che la moderna vulcanologia si pone a livello mondiale e, in particolare, in aree vulcaniche densamente abitate come ad esempio l'area napoletana ».

I crateri lunari e gli asteroidi sulla Terra

La ricostruzione dei bombardamenti di asteroidi sulla Terra è sempre stata problematica, perché sul nostro pianeta sono in atto molti processi che potrebbero aver distrutto i crateri d’impatto più antichi, dalla dinamica della tettonica a placche fino ai processi erosivi della più varia natura. La vicinanza della Luna e la regolarità con cui si verificano gli impatti sul nostro satellite naturale implicano che la storia degli impatti lunari riflette ampiamente quella della Terra. Finora però gli astronomi si erano scontrati con un problema: stabilire le età dei crateri della Luna.

La soluzione è arrivata dai dati registrati dal radiometro per l’emissione termica montato sul Lunar Reconnaissance Orbiter, una sonda della NASA in orbita attorno al nostro satellite. Partendo dal fatto che le rocce più grandi presenti nelle vicinanze dei crateri da impatto, proiettate tutto intorno proprio dall’impatto, hanno maggiore inerzia termica ed emettono nella notte lunare più calore di quelle piccole, i ricercatori hanno usato i dati di Lunar Reconnaissance Orbiter per mappare la presenza e le dimensioni delle rocce attorno ai 111 crateri di diametro superiore ai dieci chilometri (la risoluzione dei dati ha permesso di rilevare massi fino a un minimo di un metro di diametro). Quindi, dopo aver calcolato la velocità con cui si sbriciolano le rocce lunari e il tasso con cui sono colpite le stesse rocce dalla costante pioggia di piccoli meteoriti, Rebecca Ghent dell’Università di Toronto e colleghi hanno potuto stimare l’età dei diversi crateri.

I ricercatori hanno scoperto che il tasso di formazione dei crateri negli ultimi 290 milioni di anni (negli ultimi 22 giorni e mezzo dell'Anno della Terra) è stato da due a tre volte superiore a quello dei 700 milioni di anni precedenti. Ma la sorpresa più grande è arrivata quando gli scienziati hanno confrontato età e numero dei crateri sulla Luna con età e numero di quelli sulla Terra, scoprendo che sono estremamente simili. Una conclusione, questa, che è in conflitto con l’idea, finora data quasi per scontata, che sul nostro pianeta molti antichi crateri fossero ormai scomparsi.

I ricercatori hanno quindi cercato una conferma della loro scoperta analizzando i cosiddetti camini di kimberlite, resti di antichissimi vulcani diamantiferi che si estendono per un paio di chilometri sotto la superficie terrestre. Lo studio ha mostrato che i camini di kimberlite formatisi negli ultimi 650 milioni di anni (negli ultimi 53 giorni dell'Anno della Terra) in regioni tettonicamente stabili erano in gran parte intatti, indicando un impatto dell’erosione molto limitato. Questo significa che la ragione per cui la Terra nelle sue regioni più stabili ha un numero ridotto di crateri molto vecchi rispetto al numero di quelli più recenti non va cercata in processi di erosione che li avrebbero fatti sparire, ma nel fatto che prima di 290 milioni di anni fa il tasso di impatto degli asteroidi era inferiore.

Secondo Ghent e colleghi è possibile che quel lontano aumento nei tassi di impatto sia correlato alle grandi collisioni che si sono verificate più di 290 milioni di anni fa nella fascia principale degli asteroidi, tra le orbite di Marte e Giove. Quelle collisioni hanno prodotto numerosi grandi detriti, alcuni dei quali avrebbero raggiunto il sistema solare interno.

L'era dei Rettili

Gli anfibi, i dominatori del Carbonifero, erano forse enormi e differenziati, ma pur sempre legati all'acqua per la loro vita e la loro riproduzione. Ma nel Permiano esplosero i Rettili, nuovi animali dalla pelle impermeabile, e soprattutto le cui uova avevano un guscio duro, in grado di resistere al prosciugamento da parte del sole. Il Permiano fu un periodo di generale regressione dei mari e di desertificazione delle terre emerse, cosicché i nuovi venuti si diffusero fino a rimpiazzare gli Anfibi in quasi tutte le nicchie ecologiche. Iniziò così un dominio incontrastato che sarebbe durato duecento milioni di anni, cioè ben 15 giorni dell'Anno della Terra!!

Uno tra i primi a comparire fu il Seymouria (Seymouria baylorensis), da me disegnato qui sotto, che deve il nome alla città di Seymour, nella contea di Baylor, in Texas, dove ne fu scoperto per la prima volta un fossile: esso misurava circa 60 cm e deponeva già uova dal guscio duro, un vero e proprio "stagno artificiale" per il suo embrione! Oggi il Seymouria è classificato in un gruppo di Rettili assai primitivi detti Antracosauri.

 

Seymouria (Seymouria baylorensis), il primo grande rettile terrestre, disegno dell'autore
Seymouria (Seymouria baylorensis), il primo grande rettile terrestre, disegno dell'autore

 

Dal Seymouria si diramarono varie classi di Rettili. Purtroppo le parentele filogenetiche tra di essi sono difficilissime da ricostruire, anche per l'immensa varietà di fossili diversissimi fra di loro di cui disponiamo, e così siamo molto lontani dall'ottenere un albero genealogico dei rettili in cui si può riporre un sufficiente grado di fiducia. Anche perchè bisogna tenere conto del fatto che questo albero genealogico oltre che dei Rettili attuali (sauri, ofidi, cheloni e loricati) deve tenere necessariamente conto dei Mammiferi e degli Uccelli, che dai Rettili sono certamente discesi; e i paleontologi non sono affatto concordi per esempio sull'esatta sottoclasse in cui collocare i pennuti odierni. Uno dei primi tentativi di mettere ordine nella babele dei fossili rettiliani è stato quello di Samel Wendell Williston (1852-1918), secondo cui i Rettili possono essere classificati in base alla forma e al numero di finestrature esistenti nel loro cranio, in Anapsidi, Diapsidi, Euriapsidi e Sinapsidi. Oggi si sa che questa classificazione non rispecchia il reale procedere dell'evoluzione: ad esempio i Rettili noti come Lepidosauri passarono da uno stadio anapside (Millerettops) a quello sinapside (Millerosaurus) fino a raggiungere quello diapside (Youngina), tuttavia noi per semplicità ci riferiremo ad essa per mettere ordine in questa complicata famigliola (cliccate qui per vedere un possibile albero genealogico dei Vertebrati Terrestri, disegnato dall'autore di questo sito).

Gli Anapsidi, come afferma il loro nome, sono privi di finestrature nella regione temporale nel cranio. Attualmente essi sono rappresentati dai soli Cheloni (cioè dalle tartarughe), ma i primi rettili del Carbonifero e vari gruppi del Permiano e del Triassico appartenevano a questo gruppo, e nell'Era Paleozoica erano certamente i rettili più diffusi. La maggior parte degli Anapsidi scomparve alla fine del Permiano, a seguito dell'estinzione di massa di cui riferiremo in seguito, e gli studiosi dibattono se i Cheloni attuali siano gli unici Anapsidi superstiti dopo quel massacro, o se siano piuttosto dei Diapsidi che hanno perso le loro finestre temporali.

I Diapsidi invece hanno sviluppato due finestrature su ciascun lato del cranio, che permettono alle fauci di aprirsi in maniera più ampia, e forniscono la zona di inserzione per muscoli delle mascelle più grandi e forti. Essi si sono sviluppati già nel Carbonifero superiore (il primo Diapside noto è il Petrolacosaurus kansensis, simile a una lucertola), ma esistono tuttora, ed anzi sono note almeno 15.000 specie di Diapsidi adattati ad una moltitudine di ambienti differenti in tutto il mondo. Sono classificati come tali anche animali come le Lucertole, che nel corso dei milioni di anni hanno perso una delle due finestre, o come i Serpenti, che addirittura le hanno perdute entrambe, ma anche gli Uccelli, che oggi possiedono crani molto modificati, in base alla loro storia evolutiva. I Diapsidi includono anche i Dinosauri, i Crurotarsi (da cui discesero i Loricati, cioè i coccodrilli) e molte forme estinte come gli Avicefali, i Fitosauri e i Coristoderi. La stragrande maggioranza dei Diapsidi si estinse nel corso o alla fine del Mesozoico, ad eccezione dei Coristoderi che si estinsero solo nel Cenozoico. Oggi sopravvivono Ofidi, Sauri e Loricati, oltre ovviamente agli Uccelli.

Gli Euriapsidi sono un gruppo di Rettili caratterizzati da una sola finestra temporale, un'apertura dietro le orbite sotto la quale si articolano l'osso postorbitale e quello squamosale. A differenza di quanto credeva Williston, oggi questo gruppo è considerato polifiletico, cioè non riconducibile ad un antenato comune; secondo alcuni gli Euriapsidi non sarebbero altro che dei Diapsidi che hanno perso la finestra temporale inferiore. Sono Euriapsidi molti Rettili adattati alla vita marina come i Plesiosauri, gli Ittiosauri e i Placodonti, oggi tutti estinti.

I Sinapsidi, oggi meglio noti come Teropsidi, possiedono anch'essi una sola finestratura dietro le orbite, ma essa differisce da quella degli Euriapsidi perché è posta al di sotto dell'articolazione tra l'osso postorbitale e quello squamosale. Certamente questo è il gruppo di Rettili del quale è più difficile ricostruire un albero genealogico, anche per colpa delle infinite dispute tra gli esperti su come siano imparentati fra di loro i fossili noti; tutti però sono concordi nell'affermare che a questo gruppo vadano ascritti anche i Mammiferi, inclusi noi. Il paleontologo Robert T. Bakker ha addirittura proposto l'abolizione delle Classi di Uccelli e Mammiferi, da includere come sottoclassi in quella dei Rettili. I Sinapsidi erano certamente i Rettili più diffusi nel Permiano, periodo che essi letteralmente dominarono, per sparire alla fine di esso. I Sinapsidi sopravvissuti alla grande estinzione di fine Permiano nel corso del Triassico e del Giurassico diedero origine ai primi Mammiferi.

I "Rettili Mammiferi"

Verso la metà del Permiano si evolsero dei Sinapsidi noti come Pelicosauri ("lucertole con il bacino") e detti anche "Rettili Mammiferi" per alcune loro caratteristiche tipicamente mammaliane: essi avevano zampe più verticali dei rettili precedenti, mascelle capaci di esercitare una maggior pressione sia nella masticazione che nella cattura delle prede, e presentavano una migliore specializzazione dei denti: mentre i rettili non riescono a masticare il cibo e inghiottono bocconi interi, i Pelicosauri svilupparono denti per tagliare la carne in pezzi più piccoli, in modo tale da ingerirli e digerirli più facilmente. Uno dei più famosi e giganteschi esemplari era il Dimetrodonte ("denti di due misure diverse"), rappresentato qui sotto e dotato di una cresta dorsale irrorata di capillari sanguigni, presumibilmente utilizzata per riscaldare più velocemente il sangue alla luce del sole. Secondo il ricercatore Joseph Tomkins della Western Australia University, invece, « la cresta dorsale del Dimetrodonte del è il primo esempio conosciuto di tratti sessuali secondari tra i vertebrati e, in assoluto nel mondo animale, tra i più grandi segnali sessuali », cioè servivano per impressionare le femmine durante il corteggiamento, proprio come fa il pavone con la sua coda variopinta. I suoi "denti di due misure" servivano invece per sminuzzare il cibo in bocca, ed è probabile che nella storia evolutiva essi abbiano dato origine ai vari tipi di dentature presenti nei moderni mammiferi. Il Sauroctono (Sauroctonus progressus) raffigurato di seguito è un rappresentante dei "rettili mammiferi" più avanzati; come si vede era certamente carnivoro, essendo dotato di una potentissima dentatura (da cui il suo nome, "distruttore di rettili"). La forma del suo corpo ricordava quella del dimetrodonte, ma senza cresta: era forse già un animale a sangue caldo?

Da notare che il Dimetrodonte e il Sauroctono sono spesso confusi con dinosauri dalla struttura simile, per esempio con lo Spinosauro, protagonista di uno dei film della serie di "Jurassic Park", per via dell'ampia cresta dorsale. Nell'equivoco caddero anche coloro che girarono "Viaggio al Centro della Terra", film del 1959 con James Mason (vedi la sua pagina sull'Internet Movie Database). Invece, essi vissero entrambi molti milioni di anni prima della comparsa dei dinosauri veri e propri!

Questi "rettili mammiferi" vissero comunque sino alla fine del Giurassico, conducendo ai Mammiferi attraverso la tappa dei Terapsidi che comprendevano forme essenzialmente carnivore, alcune delle quali dotate di dentatura ben differenziata dal punto di vista morfologico e funzionale, come il Cinognato (Cynognathus crateronotus, in greco "denti di cane"), scoperto nel 1895 in Africa australe, ed il Gornogonfodonte (Gornogomphodon caffii), quest'ultimo scoperto in Italia, presso Bergamo, nel 2009). Si ritiene, inoltre, che fossero omeotermi e forse già coperti di pelliccia. Il Moscope (Moschops capensis) era lungo fino a cinque metri, era dotato di un corpo robusto sorretto da forti zampe, e pare avesse addirittura un terzo occhio, sensibile alla luce, alla sommità della fronte. I tecodonti invece erano assai più piccoli rispetto ai dominanti Pelicosauri, per scaldarsi assai rapidamente nel modo solito alla luce del sole, senza ricorrere a grandi creste coperte di pelle, ma sarà proprio da essi che discenderanno i dinosauri!

Infine il Diadecte (Diadectes absitus), qui rappresentato per ultimo, era un rettile erbivoro lungo circa un metro e ottanta, vagamente simile alle nostre iguane, che secondo alcuni è il primo capostipite della lunga linea evolutiva la quale, attraverso diversi gruppi di rettili, finì per condurre agli uccelli (la cui genesi però è oggetto tuttora di aspre controversie).

Dimetrodonte (Dimetrodon milleri), uno dei Pelicosauri, disegno dell'autore
Dimetrodonte (Dimetrodon milleri), uno dei Pelicosauri, disegno dell'autore
Sauroctono (Sauroctonus progressus), altro "rettile mammifero", disegno dell'autore
Sauroctono (Sauroctonus progressus), altro "rettile mammifero", disegno dell'autore
Diadecte (Diadectes absitus), uno dei primi rettili erbivori della storia, disegno dell'autore
Diadecte (Diadectes absitus), uno dei primi rettili erbivori della storia, disegno dell'autore

Tre pionieri del Permiano

Accenniamo ora a tre rettili che fecero la loro comparsa nel Permiano e che rappresentarono delle pietre miliari nell'evoluzione della loro Classe. Il primo è l'Eocasea martini, scoperto nel 2014: aveva le dimensioni di una grande lucertola, misurando una ventina di centimetri, e viveva 300 milioni di anni fa (alle ore 16 del 7 dicembre), giusto lungo il passaggio tra il Carbonifero e il Permiano, circa 80 milioni di anni prima (sei giorni e mezzo prima) della comparsa dei dinosauri. I suoi resti ( parte del cranio, la maggior parte della colonna vertebrale, le pelvi e un arto posteriore) sono stati trovati in Kansas e classificati nella famiglia dei Caseidi e nella classe dei Sinapsidi. Se ne parliamo è perchè Eocasea martini rappresenta la più antica testimonianza di un erbivoro terrestre. « La transizione da carnivori ad erbivori sulla terraferma è importantissima sotto il profilo evolutivo », ha spiegato Robert Reisz, dell'Università di Toronto Mississauga e primo autore dello studio, « in quanto questi animali si trovarono a poter disporre di una grandissima quantità di cibo ». L'evoluzione verso gli erbivori si sviluppò quindi per la prima volta in carnivori Sinapsidi che diedero molto più tardi origine ai mammiferi, e non tra i Diapsidi, i progenitori dei dinosauri, degli attuali rettili e degli uccelli. Il passaggio verso una dieta di vegetali cambiò anche profondamente le dimensioni degli animali che nel Permiano diventarono giganteschi. Eocasea pesava meno di due chili, poi i Sinapsidi si evolsero fino a esemplari di mezza tonnellata. Ma questa scoperta, fa notare Reisz, pone altre domande: « Perché gli erbivori non si sono evoluti prima, visto che diventare vegetariani ebbe un tale successo da essersi evoluti indipendentemente altre cinque volte? ». Una risposta a questa domanda non è stata ancora trovata.

A questo punto è di fondamentale importanza citare anche il secondo rettile, frutto di un'eccezionale scoperta avvenuta a fine 2011 in Sardegna, e precisamente a Torre del Porticciolo, a nord di Alghero, ad opera di un gruppo di paleontologi dell'Università di Pavia e dell'Università La Sapienza di Roma. Si tratta dei resti fossili di un grande rettile vissuto circa 270 milioni di anni fa (alle 2.24 del 10 dicembre), il primo grande vertebrato paleozoico scoperto in Italia. L'animale, del genere Cotylorhynchus, era lungo circa 4 metri e faceva parte della famiglia dei Caseidi, come l'Eocasea martini sopra citato. Questi grandi rettili erbivori erano assai diffusi nel Permiano Inferiore, ma il loro ritrovamento è un evento molto raro: in Europa in tutta Europa, infatti, sono stati trovati solo quattro esemplari di caseidi, come ha spiegato Umberto Nicosia, paleontologo dell'Università La Sapienza di Roma, ed il genere Cotylorhynchus fino ad ora sembrava fosse diffuso solo in una ristretta area degli Stati Uniti. Questa scoperta quindi conferma l'ipotesi di una continuità terrestre tra il Nord America e il continente europeo che, durante il Permiano, permise la migrazione di questi grandi animali.

E ora, il terzo dei rettili vissuti in quest'epoca destinati ad attirare la nostra attenzione. Si tratta del Bunostegos akakonensis, apparteneva alla sottoclasse dei Pararettili, era grande come una mucca e i suoi resti sono stati rivenuti nel 2003 nella regione dell’Agadez (Niger) da Christian A. Sidor dell'Università di Washington, David C. Blackburn della California Academy of Sciences e Boubé Gado (1944-2015) dell'Université Abdou Moumouni di Niamey. L'analisi dei suoi denti dimostra che era erbivoro, sul cranio presentava caratteristici tubercoli e protuberanze ossee ("Bunostegos" in greco significa "copertura nodosa"), e si pensa che vivesse nei desolati deserti della Pangea 260 milioni di anni fa (alle 21.52 del 10 dicembre), a cavallo tra il Permiano medio e superiore. Non era una gran bellezza, ma per i paleontologi di oggi riveste una grande importanza: infatti fu il più antico animale finora identificato a scorrazzare a quattro zampe sulla terraferma. Le altre specie del gruppo al quale apparteneva infatti avevano le zampe posteriori simili a quelle delle attuali lucertole, e quindi non potevano camminare con le quattro zampe diritte sotto il corpo, ma si limitavano a strisciare con il ventre quasi a contatto con il terreno. Il Bunostegos, invece, con le quattro zampe che spuntavano da sotto il corpo, aveva un’andatura più eretta e possente, che doveva conferirgli un evidente vantaggio evolutivo, vantaggio poi efficacemente sfruttato dai dinosauri nell'era Mesozoica. Il Bunostegos, come la maggior parte degli altri animali del Permiano inferiore, scomparve nella grande estinzione di fine Permiano, ma l'eredità che lasciò ai suoi discendenti fu di incomparabile importanza.

La foresta perduta (e ritrovata)

E non è tutto. Una catastrofica eruzione vulcanica avvenuta 298 milioni di anni fa (alle 19.53 del 7 dicembre), quindi all'inizio del Permiano, ha preservato sotto uno spesso strato di ceneri un'intera foresta. La sensazionale scoperta è stata effettuata nel distretto di Wuda, nella regione autonoma cinese della Mongolia Interna. All'epoca la Cina era divisa in due placche, che si trovavano entrambe in zona tropicale. La zona preservata ha un'estensione di quasi mille metri quadrati, ed è certo che l'eruzione ha sepolto la foresta in pochi giorni, perché gli alberi sono stati conservati così bene che in alcuni casi sono rimasti nella stessa posizione che avevano in vita. « È un fatto straordinario», ha dichiarato entusiasta Hermann Pfefferkorn, paleobotanico dell'Università della Pennsylvania che, insieme a tre colleghi cinesi, ha scoperto la foresta fossile: « possiamo vedere ancora i rami con le foglie attaccate! » Gli studiosi sono riusciti a riconoscere sei gruppi di alberi: due di questi, Sigillaria e Cordaites, formavano una cupola arborea alta fino a 25 metri dal suolo. Questa scoperta è destinata ad aumentare le nostre conoscenze sull'evoluzione delle foreste sul pianeta Terra durante le ere geologiche.

La fine del Paleozoico fu caratterizzata anche dalla diffusione dei Foraminiferi ("portatori di fori"), minuscole creature per lo più unicellulari, rinchiuse in un guscio calcareo e suddiviso in setti. Ciò avvenne contemporaneamente alla scomparsa definitiva dei Trilobiti.

Il dio Shiva e la grande estinzione

Alla fine del Permiano si verificò la più grande estinzione di esseri viventi di tutta la storia della terra: per cause tuttora ignote, il 96 % delle specie viventi negli oceani e il 70 % di quelle terrestri si estinse!! Essa seguì quella avvenuta circa 100 milioni di anni prima, quando, per l'abbassamento degli oceani, ci fu una forte riduzione dell'ossigeno sciolto nelle acque e la morte delle forme di vita che in esse vivevano. Non seguirono invece la stessa sorte quelle specie che avevano scelto come habitat le profondità marine: tra queste gli squali e le razze, giunti fino a noi. Quasi tutte le specie appartenenti ai gruppi coinvolti furono sterminate. Ad esempio, tra i cefalopodi con conchiglia a spirale, su 16 famiglie solo una sopravvisse, ed il 70 % dei vertebrati terrestri sparì completamente dalla faccia del pianeta. Nel febbraio 2014 una precisissima datazione degli strati geologici risalenti a quell'epoca remota, condotta da un team guidato da Seth Burgess del Massachusetts Institute of Technology, ha permesso di stabilire che l'estinzione avvenne tra 251.941.000 e 251.880.000 anni fa (tra le 13.33.17 e le 13.40.25 dell'11 dicembre), quindi in un intervallo di soli 60.000 anni (7 minuti e 9 secondi). L'estinzione è stata preceduta da una drastica riorganizzazione del ciclo del carbonio, con un notevole incremento dei livelli di anidride carbonica nei mari e in atmosfera, indicato da un cambiamento nella composizione isotopica dei depositi di carbonato di calcio. La cronologia ottenuta dallo studio di Burgess e colleghi è coerente con l'ipotesi che si sia verificata una rapida risposta biologica ad un cambiamento delle condizioni ambientali, seguita da una fase di ripresa della vita molto lunga e complessa, durata circa 10 milioni di anni (19 ore e 28 minuti).

Quale il motivo di questa moria, tale da far impallidire al confronto persino l'estinzione dei dinosauri? Nessuno lo sa ma, come nel caso dei rettili giganti, si è pensato alla caduta di un grande asteroide. E, in effetti, nel maggio 2006 Sciencedaily ha annunciato la scoperta di un ciclopico cratere da impatto meteorico, anche se nessuno lo può vedere dal vivo perchè è sepolto sotto quasi 2 Km di ghiaccio antartico, nella cosiddetta Terra di Wilkes, a meridione dell'Australia. L'esistenza del cratere è L'anomalia gravimetrica della Terra di Wilkes evidenziata da un cerchio bianco (dal sito dell'Ohio State Univesity)stata ricavata indirettamente tramite accurate indagini gravimetriche svolte dai satelliti Grace, anche se deve ancora ricevere conferme dirette, come ha dichiarato Ralph von Frese, docente di scienze geologiche dell'Ohio State University. Questo cratere "surgelato" è grande il doppio del cratere di Chicxulub, nello Yucatan messicano, del quale riparleremo a proposito del Cretacico, ed è assai probabile che possa proprio essere quello caduto allo spirare del Permiano, responsabile della moria che rischiò seriamente di spazzare via la vita dalla Terra. Alcuni si spingono addirittura ad affermare che il colossale meteorite avrebbe provocato il distacco dell'Australia dall'Antartide e la nascita del continente meridionale Gondwana, che si divise così dall'unico supercontinente Pangea.

Probabilmente quest'ultima affermazione è esagerata, ma comunque le dimensioni del cratere ricavate dai dati gravimetrici sono a dir poco impressionanti: ha un diametro di 480 km, provocato dall'impatto di un asteroide di quasi 50 km di diametro (l'asteroide di Chicxulub è stimato in 18 km). Ciò che è stato osservato sotto la coltre di ghiaccio dell'Antartide è una « concentrazione di massa » o mascon, ossia una zona con gravità molto più elevata di quelle circostanti. La spiegazione è semplice: l'impatto dell'asteroide ha causato un cratere di tale profondità da aver fatto risalire magma dal mantello terrestre, di densità molto più elevata rispetto alla crosta terrestre circostante, e di qui deriva la gravità maggiore. Sulla Luna sono stati studiati una ventina di crateri con mascon simili a questo.

Non tutti però credono in questa ipotesi: anche se è vero che la caduta di un asteroide di un chilometro di diametro nell'oceano produrrebbe uno tsunami di dimensioni apocalittiche, al cui confronto quello del 26 dicembre 2004 è stato solo un'innocua increspatura delle acque, e scaraventerebbe nell'atmosfera tante polveri da oscurare il sole per decenni e provocare la morte di gran parte della vegetazione, si ritiene che nemmeno un evento del genere sarebbe stato in grado di far estinguere nove viventi su dieci. Secondo alcuni calcoli, occorrerebbero almeno quattro o cinque eventi del genere nel corso di un milione di anni per giustificare una simile moria, e le probabilità che ciò avvenga sono tanto piccole da non poter essere prese seriamente in considerazione, anche se in Australia e in Sudafrica sono stati trovati altri grandi crateri meteorici della stessa età di quello antartico. Ed allora?

Si osservi la figura soprastante. Essa mostra il numero presunto di famiglie di organismi presenti durante tutto l'eone Fanerozoico, dal Proterozoico ad oggi. Come si vede, le estinzioni di massa (le brusche diminuzioni di numero) accadono ad intervalli di tempo più o meno regolari, e pongono fine ad un periodo o addirittura ad un'era della storia della Terra (anche nel "Silmarillion" di Tolkien la guerra dei Valar e la fine di Melkor pongono fine alla Prima Era, mentre la caduta di Numenor pone fine alla Seconda e la sconfitta di Sauron alla Terza!!) Le ipotesi avanzate per spiegare questa apparente regolarità prendono il nome di Ipotesi di Shiva, dal nome della divinità distruttrice della mitologia indù. Vediamo le principali.

Il Sole ha una compagna?

Suggestiva ed affascinante, ma in verità assai fantasiosa, è l'ipotesi avanzata fin dall'ottocento che il Sole abbia una stella compagna, una nana rossa di nome Nemesi nascosta ai nostri occhi da spessi strati di polvere, che ogni 150-200 milioni di anni passerebbe accanto al Sistema Solare, provocando cataclismi inimmaginabili e l'estinzione di massa delle forme di vita sulla Terra a causa della caduta di sciami meteorici sulla sua superficie (qui sotto potete vedere la copertina del romanzo che Isaac Asimov ha dedicato a tale ipotetica stella nel 1989). Ma non preoccupatevi: anche se esiste, è ancora molto lontana da noi, dato che l'ultima estinzione è datata 65 milioni di anni fa. Il mio parere è che la sistematica osservazione del cielo compiuta negli ultimi decenni anche grazie al telescopio spaziale Hubble rende ormai problematico sostenere l'ipotesi della stella portasfortuna, dato che non abbiamo neppure la più piccola prova della sua effettiva esistenza.

Esistono però ipotesi meno stravaganti di quella della stella introvabile. Una di queste prende spunto da una scoperta effettuata nel 2014 da un gruppo di ricerca coordinato dall'astronomo Eric Mamajek dell'Università di Rochester a New York. Esso ha dimostrato che circa 70.000 anni fa (alle 23.51.49 del 31 dicembre) una stella invase ed attraversò il nostro sistema solare, e il suo bagliore nel cielo potrebbe essere stato visto dai nostri antenati. La stella sarebbe passata a circa un anno luce dal Sole, nella Nube di Oort. Nessun altro astro è noto per avere mai avvicinato il nostro sistema in questo modo, cinque volte più vicino di quanto lo sia la stella attualmente più prossima, Proxima Centauri. La Stella di Scholz che ci ha "sfiorato" è in realtà un sistema binario, composto da una nana rossa, con una massa pari circa all'8 % di quella del Sole, e da una "nana bruna", mai nata perché troppo piccola per sostenere le reazioni termonucleari che la farebbero brillare. Il sistema è stato scoperto nelle immagini riprese dalla missione della Nasa Wise (Wide-field Infrared Survey Explorer) e attualmente si trova a 19,6 anni luce dal Sole. Nelle immagini il sistema sembra in fase di allontanamento dal Sole, così Mamajek ha deciso di estrapolare la sua traiettoria indietro nel tempo. I calcoli hanno mostrato che l'incontro sarebbe avvenuto 70.000 anni fa, quando la stella ha attraversato i nostri confini sfrecciando alla velocità di 83 chilometri al secondo, e non ha comportato alcun pericolo per la Terra. La stella di Scholz è un oggetto debole e ha avuto un impatto trascurabile sulla nube di Oort. Anche se avesse spedito comete all'interno del sistema solare, queste non arriveranno se non fra migliaia e migliaia di anni. Tuttavia, stelle più massicce che sono penetrate nella nube di Oort in un lontano passato potrebbero aver innescato importanti bombardamenti di asteroidi e comete verso i pianeti, e portato ad alcuni degli eventi di estinzione di massa sulla Terra.

Un'altra ipotesi chiama in causa invece il nostro moto all'interno della Via Lattea. Come si sa, il Sistema Solare fa parte della galassia nota come Via Lattea, e precisamente appartiene al cosiddetto Braccio di Orione, a circa 25.000 anni luce dal centro galattico. Siccome la Via Lattea ruota su se stessa in circa 225 milioni di anni ("anno galattico"), appare evidente che anche il Sole con il suo codazzo di pianeti si sta spostando rispetto al nucleo galattico ad una velocità pari a circa 220 Km/s (impiega cioè 1500 anni per percorrere un anno luce), muovendosi verso quello che si chiama "apice solare", un punto del cielo posto nella costellazione di Ercole. A causa di questo moto incessante, ed a causa della relativamente alta densità di polvere interstellare distribuita sul piano galattico, il Sistema Solare si troverebbe ad attraversare zone più o meno dense di materia. Tale materia, interferendo con la vita sulla Terra, provocherebbe le cicliche estinzioni di massa. Per spiegare la periodicità con cui esse si verificano, l'astronomo Michael Rampino della New York University, grande sostenitore di questa ipotesi, propone che l'orbita Isaac Asimov, "Nemesis", 1989 solare attorno al nucleo galattico non sia circolare uniforme, come ipotizzabile in prima battuta, ma sia più o meno decisamente perturbata dai bracci di spirale della Via Lattea, la cui distribuzione di massa non è omogenea. In particolare, nel suo moto il Sole "oscillerebbe" su e giù rispetto al piano galattico all'incirca 2,7 volte per orbita, muovendosi cioè come un cammello che attraversa un deserto scavalcando periodicamente delle dune tutte uguali tra loro. Ogni volta che la nostra stella interseca il piano galattico, che come si è detto è densamente occupato da polveri di roccia e ghiaccio, tale materiale investirebbe i pianeti, e quindi anche la Terra, aumentando il rischio di impatti con corpi celesti estranei. 2,7 volte in 225 milioni di anni significa una volta ogni 85 milioni di anni, per cui i calcoli tornerebbero. Alcuni detrattori sostengono che non vi siano prove che il disco galattico sia talmente denso di materia da giustificare un bombardamento a tappeto del nostro pianeta, ma Rampino ha ribattuto che la materia ivi presente potrebbe essere sufficiente per perturbare le comete della nube di Oort, un'ipotetica nube formata da diversi miliardi di comete, compresa tra 20.000 e 100.000 unità astronomiche dal Sole, residuo della nebulosa da cui si formarono il Sole e i pianeti, provocando in tal modo un pesante bombardamento cometario su tutti i pianeti interni.

Invece Lisa Randall e Matthew Reece della Harvard University hanno tirato in ballo addirittura la sfuggente materia oscura che si nasconde all'interno della Via Lattea, per spiegare le periodiche collisioni con la Terra da parte di asteroidi e comete che avrebbero prodotto le estinzioni cicliche di massa. La nostra galassia, come molte altre, ospiterebbe infatti una notevole quantità di materia oscura che, pur non essendo visibile per alcuno strumento, deve esistere per spiegare la dinamica rotazionale delle galassie. C'è chi pensa sia formata dalle cosiddette WIMP (Weakly Interacting Massive Particles), particelle sconosciute che interagirebbero gravitazionalmente con la materia ordinaria. La materia oscura, con la sua interazione gravitazionale, attrarrebbe oggetti dalla Nube di Oort, spingendoli verso la Terra. Come detto sopra, il sistema solare attraversa ciclicamente il piano galattico, e la materia oscura concentrata in esso disturberebbe il moto delle comete nella Nube di Oort.

Il pericolo Supernova

Un'altra delle ipotesi di Shiva propone l'esplosione di una Supernova vicino alla Terra, sostenuta da più di un astronomo. Come si vede nello schema soprastante, già nell'Ordoviciano il nostro pianeta aveva visto improvvisamente sparire più del 70 per cento delle specie animali che all'epoca lo popolavano, in prevalenza invertebrati marini: si tratta della prima grande estinzione di massa di cui si ha testimonianza. Per la prima volta insomma il numero delle specie viventi non balzava in avanti, come all'inizio del Cambriano, ma tornava indietro. Ora, una simulazione computerizzata realizzata dagli astrofisici Brian Thomas e Adrian Melott della Washburn University in Kansas, e pubblicata sull'International Journal of Astrobiology, dimostrerebbe che la scomparsa di così tante specie in una volta sola è stata provocata dall'irradiazione nell'atmosfera di raggi gamma, i quali a loro volta hanno ridotto gli strati di ozono dell'atmosfera terrestre permettendo ai raggi ultravioletti solari di raggiungere la superficie. A lungo termine, le reazioni chimiche derivate da queste condizioni produssero gas che andarono a schermare le radiazioni solari, impedendo il passaggio della luce e causando un raffreddamento globale. Il fatto che questi fenomeni stellari avvengano abbastanza periodicamente nell'universo spiegherebbe la ricorrenza di queste catastrofi ad intervalli pressoché regolari.

Secondo gli studi di Thomas e Melott, per attraversare lo strato di ozono e causare dei danni al nostro ecosistema un'esplosione del genere deve avvenire nel raggio di almeno 6.500 anni luce, ma per nostra fortuna una circostanza come questa si verifica in media una volta ogni miliardo di anni. Attualmente la stella che rappresenta la nostra peggiore minaccia in questo senso si trova nella costellazione del Sagittario, a 8.000 anni luce di distanza. « Non è un pensiero che mi tiene sveglio di notte », ha commentato l'astrofisico della Nasa David Thompson: « un'esplosione abbastanza vicina a noi potrebbe avere luogo, ma è così improbabile che non vale la pena allarmarsi. Ho la stessa probabilità di trovare un orso polare nel mio armadio ». Comunque alla maggior parte di voi non sfuggirà il fatto che, se la rarità di certi fuochi d'artificio siderali ci pone al sicuro da scherzi cosmici, d'altro canto non sembra in accordo con il periodo di ricorrenza delle estinzioni di massa di cui stiamo parlando. Dunque le esplosioni di Supernovae possono spiegare alcuni di quei periodici spopolamenti del pianeta, ma non tutti.

L'era dei vulcani

Un'ulteriore possibilità, che attira l'interesse anche dell'autore di questo sito, è quella della dinamica geologica: già da una decina di milioni di anni erano in corso grandi eruzioni vulcaniche, dovute al distacco delle masse continentali, che modificarono profondamente l'ambiente del Permiano ed ostacolarono la sopravvivenza degli esseri viventi. In altre parole l'asteroide "surgelato" altro non sarebbe stato che il colpo di grazia, improvviso e definitivo, destinato a porre fine a un'era il cui destino era già segnato. Ma ne riparleremo al termine dell'Era Mesozoica, quando si verificò una nuova, gigantesca estinzione collettiva, più facilmente studiabile perchè più recente. Una delle simulazioni più convincenti è quella presentata da alcuni ricercatori dell'Università di Leeds, secondo i quali l'estinzione di massa globale di fine Permiano sarebbe stata innescata proprio da un'eruzione vulcanica gigante avvenuta nell'attuale provincia di Emeishan, nel sudovest della Cina, che liberò circa mezzo milione di chilometri cubi di lava; essi si riversarono nell'ampia regione circostante, apparendo oggi come un ben distinto strato di roccia ignea tra due strati di roccia sedimentaria contenente fossili marini databili in modo agevole. Lo strato di roccia fossilizzata appena dopo l'epoca dell'eruzione mostra la presenza di forme di vita completamente differenti dalle precedenti, suggerendo il verificarsi di un'eruzione seguita da una catastrofe ambientale di ampie proporzioni. Secondo altri invece i supervulcani all'origine della catastrofe sarebbero quelli della formazione nota come Siberian Traps, un'area che ha il suo centro nella città siberiana di Tura e si estende fino a Yakutsk, Noril'sk e Irkutsk per circa due milioni di chilometri quadrati complessivi, più o meno quanto la superficie dell'Europa.

Una circostanza cruciale è che l'eruzione avvenne vicino ad acque poco profonde: in tali casi, il contatto tra la lava che fluisce velocemente e l'acqua determina una violenta esplosione che porta enorme quantità di biossido di zolfo nella stratosfera. « Quando la lava poco viscosa incontra l'acqua marina, l'effetto è come quello dell'acqua buttata in una padella di olio bollente: l'esplosione produce un'enorme quantità di vapore », ha commentato Paul Wignall, paleontologo dell'Università di Leeds. L'immissione di biossido di zolfo nell'atmosfera avrebbe poi portato a una massiccia produzione di nuvole, propagatesi poi in tutto il mondo, da cui poi derivarono torrenziali piogge acide. Una possibile prova a favore di questa teoria è stata portata da Steve Grasby dell'Università di Calgary, che ha scoperto nelle rocce dell'attuale regione artica del Canada significativi strati di ceneri di carbone proprio in corrispondenza delle stratificazioni geologiche risalenti a quell'epoca. « Questa potrebbe essere, letteralmente, la "pistola fumante" che spiega l'ultima estinzione del Permiano », si è spinto a dichiarare Grasby.

Alcuni hanno però obiettato che questi Siberian traps dovrebbero avere origine dalla fusione del mantello all'interno di pennacchi termici, cioè grandi aree di risaluta di materiale fuso del mantello attraverso la litosfera; ma in tal caso, per le caratteristiche del materiale fuso, la litosfera avrebbe dovuto subire un forte innalzamento in corrispondenza della "testa" del pennacchio, che di fatto non si è mai osservato; inoltre, i gas rilasciati nell'atmosfera da questo processo non dovrebbero essere stati tali da poter innescare una crisi climatica come quella di fine Permiano. Gli scienziati dell'Helmoltz-Zentrum per le geoscienze a Potsdam, dell'Université Fourier di Grenoble, del Max Planck Institut a Magonza, e dell'Accademia delle Scienze Russa hanno tuttavia approfondito gli studi e suggerito che il pennacchio siberiano contenesse una frazione elevata (circa il 15 %) di materiale di riciclo della crosta oceanica, che per subduzione si era immersa nelle profondità del mantello per poi risalire in superficie attraverso il pennacchio. Questa crosta oceanica riciclata sarebbe presente nel pennacchio come eclogite, una roccia molto densa che avrebbe reso il pennacchio meno dinamico, tanto da rendere trascurabile il sollevamento della litosfera.

Il materiale originariamente appartenente alla crosta oceanica fonde a temperature molto più basse rispetto alla materiale del mantello, la peridotite, ma avrebbe apportato una quantità talmente elevata di magmi da essere in grado di distruggere la spessa litosfera siberiana attraverso una serie di meccanismi termici, chimici e meccanici nell'arco di poche centinaia di migliaia di anni. Durante questo processo, la crosta riciclata, particolarmente ricca di sostanze volatili come CO2 e alogeni, avrebbe subito un intenso processo di degasificazione, liberando i gas che avrebbero quindi innescato l'estinzione di massa.

Vi è però chi non è d'accordo con questa ricostruzione. Un gruppo di ricercatori del Massachusetts Institute of Technology e dell'Accademia Nazionale Cinese delle Scienze ha avanzato un'ulteriore ipotesi di Shiva: sarebbe stata la proliferazione di microrganismi metanogeni negli oceani, e non una serie di grandi eruzioni vulcaniche, la causa della catastrofe di fine Permiano. L'analisi del contenuto di sedimenti provenienti da varie località ha messo in evidenza un livello di carbonio decisamente superiore a quello presumibilmente emesso dai vulcani, che per di più cambia in modo opposto a quello previsto dal modello dell'origine vulcanica, che prevede un picco iniziale seguito da una progressiva riduzione. « Questo suggerisce piuttosto un'espansione microbica », ha dichiarato Gregory P. Fournier, uno dei fautori di quest'ipotesi. « La crescita delle popolazioni microbiche è tra i pochi fenomeni in grado di aumentare la produzione di carbonio in modo esponenziale o ancora più velocemente. » I ricercatori si sono quindi concentrati sui microrganismi che possono avere svolto questo ruolo, in particolare su quelli in grado di produrre metano. Attraverso l'analisi genetica degli archeobatteri Methanosarcina e la ricostruzione della loro storia evolutiva, hanno scoperto che verso la fine del Permiano gli antenati degli attuali rappresentanti di questi microrganismi hanno subito una mutazione genetica nell'efficienza di produzione del metano.

L'improvvisa e rapidissima proliferazione dei Methanosarcina sarebbe peraltro stata una conseguenza dell'aumento del vulcanismo in quel periodo: le grandi eruzioni avvenute in Siberia avrebbero fornito abbondanti quantità di un elemento, il nichel, di cui l'archeobatterio ha bisogno per catalizzare la produzione di metano. In effetti, l'analisi dei sedimenti dell'epoca testimonia un improvviso e drastico aumento dei livelli di nichel proprio negli strati coevi alle grandi eruzioni siberiane, alle quali era già attribuita la formazione dei più grandi giacimenti al mondo di questo minerale. L'imponente vulcanismo a cui finora era attribuito il catastrofico evento si sarebbe insomma limitato a fornire ai microrganismi un elemento essenziale per la loro fioritura.

Il mistero dell'ossigeno

A complicare il puzzle della megaestinzione di fine Paleozoico, è venuto uno studio del paleontologo Robert Gastaldo del Colby College di Waterville, nel Maine, che ha studiato un'antica roccia sedimentaria raccolta nel bacino del Karoo, in Sudafrica, dove è stato identificato un confine molto netto tra Permiano e Triassico. L'epoca geologica a questa roccia risale è stata soprannominata « zona senza vita » (lifeless zone): infatti giace sopra i resti di rettili estinti, ed è la principale prova dei rapidi effetti causati sul terreno dall'estinzione di cui ci stiamo occupando. Gastaldo ha però scoperto che alcuni di questi sedimenti si trovano circa 8 metri sotto l'effettivo confine geologico tra il Permiano e il Mesozoico, e che in alcune zone si trovano sotto i fossili dei rettili, non sopra, indicando che si sono depositati ben prima di quando, secondo le ipotesi, si sarebbe verificata la grande estinzione dei vertebrati terrestri. Gastaldo ne ha così dedotto che l'estinzione del 90 % delle specie oceaniche e del 70 % di quelle terrestri si sarebbero verificate in tempi diversi, e quindi avrebbero cause diverse, secondo lui legate ad alterazioni letali del clima. Ma quali sarebbero state le cause di queste alterazioni resta uno dei grandi misteri della paleontologia.

Prima di cambiare era geologica vi segnalo l'ipotesi avanzata di recente dal fisiologo evolutivo Raymond Huey e dal paleontologo Peter Ward dell'Università di Seattle, secondo la quale fu l'aria rarefatta a costringere gli animali a scendere dalle altitudini più elevate e a concentrarsi nelle pianure, provocando a causa del « sovraffollamento » la maggior estinzione di massa della storia del nostro pianeta, come riferisce uno studio pubblicato sulla rivista "Science". Nel 2002 il geochimico Robert Berner dell'Università di Yale ha infatti calcolato le concentrazioni atmosferiche di ossigeno durante gli ultimi 600 milioni di anni, scoprendo che fino a circa 400 milioni di anni fa esse erano rimaste stabili e vicine ai livelli odierni del 20 %, per poi salire fino a raggiungere 300 milioni di anni fa un picco di circa il 30 %, ed infine scendere al 12 % circa 240 milioni di anni fa.

Per gli animali meno preparati, la perdita di oltre la metà della loro normale riserva di ossigeno potrebbe aver avuto effetti di vasta portata. « Per esempio », ha dichiarato Huey, « gli esseri umani nelle Ande Peruviane non vivono e non si riproducono al di sopra dei 5100 metri. Se l'ossigeno nell'atmosfera scendesse al 12 %, abitare al livello del mare sarebbe come trovarsi a 5300 metri, e addio razza umana ». Di conseguenza, addirittura la metà delle aree prima abitabili non sarebbero state più disponibili per la vita animale: le specie che vivevano negli habitat a più alta quota sarebbero scomparse, e i sopravvissuti si sarebbero dovuti adattare ad aree più piccole, isolate e frammentate. È un'ipotesi seducente quanto apocalittica, ma che forse da sola non basta a rendere ragione dell'ecatombe di fine Permiano, in quanto non fa altro che spostare il problema su un'altra domanda: cosa ha provocato lo sbalzo nella concentrazione atmosferica dell'ossigeno? Insomma, più che una causa, l'ipotesi addotta da Huey e Ward appare piuttosto come una conseguenza. Il mistero permane.

Un'esplosione di vita che non ti aspetti

Fino a tempi recenti si riteneva che ci fossero volute decine di milioni di anni affinché vegetali e animali tornassero a popolare il mondo dopo la più grande estinzione di massa della Terra. Ma nel 2017 questo quadro così fosco è cambiato. Un deposito di fossili, scoperto per caso negli Stati Uniti, si è rivelato un tesoro di specie marine. Spugne, pesci, alghe, crostacei, rettili, molluschi e perfino squali avevano ripopolato quelle acque considerate inadatte alla vita già 1,3 milioni di anni dopo la grande estinzione: un batter di ciglia, nella scala dei tempi geologici. Con quello restituito dai fossili ritrovati ai piedi di una collina di Paris, nell’Idaho orientale, che è subito diventato un inno alla vita. Lo scopritore dei fossili, L.J. Krumenacker, dottorando in geologia all’Università del Montana, ha raccontato al New York Times di un giorno in cui, ancora adolescente, aveva organizzato un’escursione a caccia di fossili. Quando spaccò la prima roccia col martello, saltarono fuori otto denti di pescecane fossilizzati. Risalivano, avrebbe scoperto poi, a 250 milioni di anni fa.

Oggi del tesoro di Paris si è scoperto molto. I 750 esemplari completi appartenenti a 30 specie diverse saltati fuori da quelle pietre, più centinaia di frammenti sparsi, sono stati studiati a fondo da Arnaud Brayard, del dipartimento di biogeoscienze dell’Université Bourgogne Frenche-Comté. All’epoca Paris si trovava all’estremità occidentale della Pangea, non lontano dall’equatore. Le forme di vita ritrovate nella cittadina dell’Idaho comprendono specie anteriori all’estinzione e specie che si credevano nate solo centinaia di milioni di anni più tardi. Ci sono prede, predatori e perfino animali spazzini. Uno squalo misura due metri di lunghezza. Una spugna è rispuntata dopo essere stata considerata estinta da 200 milioni di anni. Le conchiglie sono in parte coniche, in parte a spirale. C’è una sorta di stella marina, un calamaro dai tentacoli uncinati e un crostaceo saprofago che si nutriva degli scarti altrui, con grandi occhi e una coppia di chele sorprendentemente sottili. Un rettile marino potrebbe forse essere uno degli antenati di quelli che sarebbero diventati i dominatori del pianeta: i dinosauri. L’estinzione del Permiano-Triassico è stato il momento più critico che abbia attraversato la vita sulla Terra, ma in alcune aree rifugio come forse era quella di Paris, subito dopo l’estinzione si formarono ecosistemi marini complessi, suddivisi in prede e predatori. E pronti a ramificarsi in quell’esplosione di specie che avrebbero presto finito col ripopolare la Terra.

Bisogna aggiungere uno studio condotto da Matteo Montagna, entomologo del Dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali dell'Università degli Studi di Milano, e colleghi, che nel 2019 ha dimostra come la grande estinzione di massa avvenuta alla fine Permiano possa aver avuto un limitato effetto sull’evoluzione degli insetti. In questo studio, i dati genomici di 140 specie di artropodi combinati con le datazioni ottenute da otto fossili di insetti in un eccezionale stato di conservazione provenienti dal sito UNESCO del Monte San Giorgio, nel sud del Canton Ticino, hanno permesso di inferire nuove stime sull’origine dei diversi gruppi di insetti e valutare l’impatto della crisi di massa della fine del Permiano su questi organismi. I risultati ottenuti indicano come molti gruppi, tra cui Lepidotteri, Emitteri, Eterotteri e Ditteri, siano comparsi in tempi molto più antichi di quanto fino ad ora pensato; la datazione della loro origine, risultata antecedente alla crisi di fine Permiano, ha permesso di capire come l’impatto di tale evento, risultato catastrofico per altri organismi, non abbia particolarmente influito sull’evoluzione degli insetti e sulla comparsa delle faune moderne. Anche innovazioni chiave come l’evoluzione delle ali o la metamorfosi completa, ritenute delle innovazioni chiave per l’evoluzione del gruppo, sono risultate essere comparse molto più anticamente di quanto si pensasse. Ciò che è stato osservato con questo studio è di ritenersi di fondamentale importanza poiché fornisce nuove informazioni necessarie per la comprensione dell’evoluzione degli insetti, dominatori degli ecosistemi continentali.

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