5. Le fortune di una leggenda

5.1  Da Atlantide ad Antilia

La narrazione platonica suscita subito vasta eco, come dimostrano anche le prime voci scettiche: lo stesso Aristotele (384-322 a.C.), il più geniale dei discepoli di Platone, afferma di non credere alla leggenda, pur sostenendo l'esistenza nell'Oceano Atlantico di un'isola detta Antilia, nota ai naviganti Cartaginesi. Quest'immaginaria isola risulta ancora presente nelle carte nautiche tardomedioevali, tanto che il geografo Paolo del Pozzo Toscanelli sembra aver scritto a Colombo, prima dell'epica impresa di attraversamento dell'Oceano, consigliandogli di fare scalo ad Antilia mentre si recava alle Indie. I navigatori portoghesi del tempo, in particolare, interpretavano il nome di questa terra come "Ante Ilha", cioè "L'isola di fronte", con evidente riferimento alla posizione geografica della mitica terra emersa, situata nelle carte nautiche dell'epoca di fronte alla Penisola Iberica. La si può vedere nella seguente cartina, tratta da una carta di navigazione che forse Colombo portò con sé, durante il suo viaggio verso le Indie.

Antilia

Sezione della carta di navigazione di Grazioso Benincasa (1482): la penisola iberica è stata rappresentata in alto, la nave veleggia verso nord, alla sua destra si vedono le Isole Fortunate di San Brendano e, sotto la chiglia, si vedono due isole chiamate "Isola Selvaggia" ed "Antilia"

Oggi si fa l'ipotesi che il nome fosse presente in tradizioni poetiche perdute (il ciclo epico pre- e post-omerico, per esempio) e qualcuno lo ricollega al nome di Antinea, regina di Atlantide nella tradizione letteraria postplatonica. Dal nome di Antilia derivò quello del famoso arcipelago delle Antille; e ciò, grazie allo scetticismo di Aristotele.

Dopo una voce scettica, é giusto citarne una più possibilista. Crantore, altro seguace di Platone vissuto nel IV sec. a.C., sostiene di essersi lui stesso recato in Egitto e di aver visionato le colonne su cui, secondo la narrazione messa in bocca a Solone, doveva essere incisa la storia di Atlantide, e di avere così "veduto l'evidenza". Più fedeli di così al proprio maestro, non é certo possibile essere! Peccato che di tali colonne non sembra essere rimasta alcuna traccia.

Per restare nell'ambito della scuola platonica, dobbiamo ricordare il neoplatonico Proclo (410-485 d.C.), che nel suo commento al Crizia si sbilancia ad affermare: "...che un'isola di tal foggia e di tal grandezza sia esistita é certo, a quanto ci narrano gli storici dei fatti del Mare Esterno..." Egli stesso riprende la leggenda, già cara ad altri sapienti antichi, delle sette isole nel Mare Occidentale, "sacre allora a Persefone", cui egli aggiunge altre tre isole, di cui dice "una sacra a Plutone, una ad Ammone ed una a Poseidone. Dicevano che gli abitanti dell'isola sacra a Poseidone serbassero il ricordo dei loro antenati, e dell' isola atlantica che lì era esistita, splendida fra tutte, e la più forte tra tutte le isole atlantiche, e consacrata a Poseidone", esattamente come l'Atlantide di Platone. Quanto ad Ammone, nella mitologia egizia corrispondeva al dio supremo, cioè allo Zeus dei greci. Ritorna a galla la convinzione di una notevole vicinanza culturale tra Atlantidi ed Egizi, già espressa dal Solone del "Timeo".

 

5.2  Fantascienza nel mondo antico

Che l'interesse suscitato dalle rivelazioni della scuola platonica sull'isola introvabile sia stato enorme fin da subito ce lo dice il fatto che già Teopompo di Chio (IV sec. a.C.), pressoché contemporaneo di Platone, descrive un colloquio tra re Mida (il re di Frigia divenuto proverbiale per la sua ingordigia) e un satiro ubriaco, il quale gli parla di un grande continente abitato da tribù bellicose, che avevano cercato di assoggettare il mondo civilizzato.

Apollodoro di Atene (II sec. a.C.) nella sua opera "Biblioteca" dice quanto segue:

"Atlante e Pleione, figlia dell'Oceano, avevano sette figlie, chiamate Pleiadi, generate sul monte Cilene in Arcadia, e chiamate Alcione, Celeno, Elettra, Sterope, Taigete, Maia e Merope. (...) Due di loro furono amate da Poseidone: la prima fu Celeno che generò Lico, che Poseidone mandò ad abitare nelle isole di Blest e la seconda fu Alcione..."

Non ditemi che non vi ricorda l'ennesima versione della leggenda di Platone, secondo cui Poseidone manda i suoi figli nel proprio regno in mezzo all'Oceano. Qui si tratta però delle non meglio identificate isole di Blest, e i figli gli sono dati da due delle Pleiadi (chi non ha mai sognato osservando le stelle omonime nella costellazione del Toro?). Come diremo poco più avanti, queste isole sono probabilmente una variante delle "isole Fortunate" o "Campi Elisi" che abbiamo già incontrato nel racconto di Omero nel IV canto dell'Odissea. Qualche conoscenza delle isole Canarie (in seguito magari ai viaggi dei Fenici?) può aver influenzato la leggenda di queste isole Fortunate? Non ci é dato di saperlo.

Un manoscritto anonimo intitolato "Il Mondo", attribuito erroneamente ad Aristotele, rispecchia la convinzione che esistano continenti diversi da quelli noti, esprimendosi in questi termini:

"Probabilmente ci sono anche molti altri continenti, separati dal nostro dal mare che dobbiamo attraversare per raggiungerli, alcuni più vasti, altri meno, ma a noi tutti invisibili, tranne il nostro. Perché così come le nostre isole sono proporzionate al nostro mare, così lo sono i mondi disabitati nei confronti dell'Atlantico..."

Diodoro Siculo (I sec. a.C.) descrisse la guerra tra le Amazzoni e il misterioso popolo degli Atlanti, abitanti l'Isola di Espera (che significa occidente!), collocata nella Palude dei Tritoni, "vicino all'Oceano che circonda la terra" e alla montagna "chiamata Atlante dai Greci". Tale isola sarebbe poi scomparsa durante un terremoto, "quando furono divelte alcune sue parti prospicienti l'Oceano". Di quest'isola paludosa, egli scrive:

"Il reame era diviso tra i figli di Urano, i più famosi dei quali erano Atlante e Crono. Di questi figli, Atlante ricevette la sua parte di mondo nelle regioni delle coste oceaniche, e non solo diede il nome di Atlanti alla sua gente, ma anche il nome di Atlante alla più alta montagna del paese. Egli portò a perfezione la scienza astrologica e fu il primo a rivelare all'uomo la dottrina della sfera celeste; fu per questa ragione che nacque l'idea che l'intero cielo fosse sostenuto dalle spalle di Atlante..."

Notiamo che Diodoro rielabora in modo originale il racconto di Platone. Secondo quest'ultimo, la spartizione dell'universo avvenne dopo che Zeus aveva detronizzato suo padre, e fu un affare tra Zeus stesso ed i suoi fratelli Ade e Poseidone; l'Atlantide tocca appunto a Poseidone, che ne fa il suo regno prediletto. Diodoro invece rilegge a modo suo la mitologia, affermando che tale spartizione é avvenuta tra Crono (il Saturno romano) ed Atlante, entrambi (effettivamente) figli di Urano, evidentemente dopo la detronizzazione di quest'ultimo. Gli autori oscillano tra il dar fede a Diodoro (spartizione tra Crono ed Atlante) e il dar fede a Platone (spartizione tra Zeus, Ade e Poseidone); da ciò nascono i due principali nomi con cui l'isola scomparsa é conosciuta, e cioè Atlantide (da Atlante) e Poseidonia (da Poseidone). Interessante é anche l'identificazione dell'eroe eponimo di Atlantide con l'Atlante cui Zeus inflisse la condanna di reggere il cielo sulle spalle, secondo una leggenda "alternativa" trasformato in montagna da Perseo mediante la testa di Medusa. Probabilmente i due miti non avevano inizialmente nulla a che vedere fra di loro, ma la loro identificazione é venuta naturale.

Uno storico egiziano di lingua greca, Timagene (I sec. a.C.), nel suo libro sugli antichi Galli accenna ad una loro leggenda, secondo cui essi sarebbero stati invasi da un popolo proveniente da un' isola sommersa. Risalire alle fonti di questa leggenda é però oggi impossibile.

Plutarco di Cheronea (46-120 d.C.) parla di un continente chiamato Saturnia e di un'isola chiamata Ogigia, posta a cinque giorni di navigazione dalle coste britanniche; Ogigia era, del resto, anche il nome dato da Omero all'isola di Calpso, dove Ulisse restò prigioniero per sette anni. Plutarco parla anche delle già citate isole di Blest, dicendo che la loro popolazione poteva "godere di ogni bene senza pena o fatica." Il loro clima era talmente temperato che "tutti sono persuasi, persino i barbari, che questa sia la dimora dei Beati, e che questi siano i Campi Elisi celebrati da Omero..." Effettivamente, la loro descrizione ricalca bene quella che Proteo ne fa a Menelao nell'"Odissea".

Claudio Eliano (III sec. d.C.) cita en passant il popolo dell'isola scomparsa nella sua "Storia degli Animali":

"Gli arieti del mare svernano nelle vicinanze dello stretto che separa la Corsica dalla Sardegna. (...) L'ariete maschio ha sulla fronte una striscia bianca. (...) Gli abitanti delle coste dicono che in tempi lontani i re dell'Atlantide, discendenti da Poseidone, portavano in capo, come segno di potere, la striscia bianca dell'ariete maschio, e che le regine loro spose portavano, come segno di potere, la striscia dell'ariete femmina."

Probabilmente gli "arieti del mare" sono da identificare con le foche monache. Non c'é motivo per cui Eliano debba aver mentito: egli probabilmente raccolse una leggenda popolare dei Sardi, che si riferiva ad un loro proprio "continente perduto", da loro chiamato Tirrenia. Naturalmente il nostro naturalista, infarcito com'era di cultura greca, ha identificato tale continente con l'Atlantide di Platone. Dunque tale citazione é interessante nella prospettiva delle "altre Atlantidi", delle quali parleremo in seguito.

Ammiano Marcellino (330-395 d.C.), storico della tarda latinità, descrivendo un terremoto dice di sfuggita: "d'improvviso, per un moto violento si spalancarono bocche enormi, che inghiottirono una parte di terra, come nell'Oceano Atlantico, dalla parte delle coste europee, era stata inghiottita un'isola grandissima..." Secondo Marcellino, gli alessandrini consideravano la distruzione dell' Atlantide un fatto storico. Ma é sempre la stessa acqua che si pesta nel mortaio, ed ormai siamo giunti al termine della storia del mondo classico, là quando comincia l'era del cristianesimo.

 

5.3  Atlantide diventa giudeo-cristiana

Non sono solo gli autori greci a parlarci di Atlantide e delle sue varianti dopo Platone. Filone di Alessandria (20 a.C.- 40 d.C.) il grande filosofo ebraico contemporaneo di Gesù che tentò una sintesi tra legge di Mosé e filosofia ellenica, cita Atlantide, riferendosi sempre a Platone, ma parla anche di tre città greche finite in fondo al mare in seguito a cataclismi: i loro nomi sarebbero Egira, Bura ed Elice. Egli afferma profeticamente:

"Consideriamo quante contrade del continente, e non soltanto quelle situate sulle coste, ma anche quelle che erano interamente sulla terraferma, sono state divorate dalle acque; e consideriamo quale grande porzione di terraferma é divenuta mare, ed é oggi solcata da numerose navi. Chi ignora che il più sacro stretto siciliano nei tempi antichi era un ponte di terra tra la Sicilia ed il continente italiano?"

Filone aveva visto giusto: oltre a piattaforme continentali (la terraferma) e fondali oceanici (il mare), i moderni geologi parlano anche di mari epicontinentali, per indicare quelle porzioni di crosta continentale sommerse sotto il mare. Si tratta, in pratica, di mari poco profondi com'é, appunto, lo stretto di Messina, che effettivamente non esisteva nel Pleistocene, quando la Sicilia era saldata alla Calabria. L'ho sempre detto, io: quando un ebreo sentenzia, non lo fa mai a vanvera!

Il grande Tertulliano (160-230 d.C.), nel riferire dei mutamenti della Terra, accenna: "nell'Atlantico, un'isola di misura pari alla Libia ed all'Asia riunite, oggi la cercheremmo invano..." Pure la letteratura cristiana non disdegna dunque l'Atlantide. Un altro scrittore paleocristiano, Arnobio di Sicca (III sec. d.C.), nel rispondere ai pagani che attribuivano ai cristiani tutte le sciagure di quel tempo, recita testualmente:

"Perché non ricordiamo loro, noi cristiani, che circa 10.000 anni fa un enorme numero di uomini uscì con terribile foga da un'isola chiamata Atlantide o Nettunia, a quanto ne dice Platone, e distrusse e annientò infinite tribù?"

Ma c'é qualcuno che va al di là della passiva accettazione del racconto platonico come dato di fatto. Sto parlando del cristiano del VI secolo Cosma Indicopleuste, il quale asserisce che i primi a rendere noti i fatti di Atlantide sono stati proprio i... giudeo-cristiani! So che può parere un'affermazione quanto meno azzardata, ma leggete cosa scrive il nostro autore:

"Platone espresse punti di vista simili ai nostri, con qualche modifica; egli infatti ricorda le dieci generazioni [ quelle di Gen 5 ], così come la terra sommersa [ dal diluvio ]. In sintesi, é evidente che tutto ciò é stato preso a prestito da Mosé, e smerciato come farina del proprio sacco."

Cosma ha anticipato la mania moderna di dire "l'avevamo già detto noi"; notando le somiglianze tra il racconto biblico di Gen 6-9 e quello platonico del "Timeo" e del Crizia, egli ritenne infatti che Platone avesse "copiato" dalla Genesi ebraica la narrazione delle terre sommerse e degli uomini vissuti prima della catastrofe, inventandosi la fola della guerra tra Atlantide ed Atene, per magnificare la sua città anziché l'unico vero Dio. Ora, noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, la cosiddetta Settanta, fu eseguita solo nel III sec. a.C., più di un secolo dopo la morte di Platone, e quindi é praticamente impossibile che il raffinato filosofo ateniese avesse letto il racconto di Noé, tenendo anche conto del grande disprezzo provato dai Greci per i "barbari" orientali, coloro che "parlano male" (emettendo suoni tipo bar-bar da cui la parola greca "barbaros"!). La tradizione del diluvio contenuta nella Genesi non é che un esempio di un numero impressionante di racconti analoghi, presenti presso ogni cultura; una variante, insomma, di una leggenda ancestrale di cui fa parte anche il bel testo di Platone. Al massimo Mosé e Platone sono... cugini tra di loro, avendo attinto alla medesima tradizione orale!

La "cantonata" presa da Cosma ci dimostra come, in assenza di una corretta documentazione, é possibile travisare completamente i fatti, e prendere per buone prove che non hanno nessun valore, o - come in questo caso - accusare di plagio chi non ha nessuna colpa. E vedremo in quali cantonate ben più clamorose sono caduti dei moderni cacciatori di città sommerse!

 

5.4  Le Isole Fortunate

Il Medioevo cristiano dimentica Atlantide e tutta la sua mitologia, visto il progressivo isolamento dell'Oriente e della cultura greca, specie dopo lo Scisma Bizantino del 1054, ed é questa la ragione per cui non ne troviamo traccia né in eruditi come Isidoro da Siviglia, né nei romanzi cortesi, né nella scuola di Chartres, né nella Scolastica, né in Dante. Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453 e la fuga dei cervelli greci in Occidente, però, la riscoperta delle lettere greche da parte degli Umanisti rinascimentali risuscita la leggenda. È così che nella magnifica "Gerusalemme Liberata" di Torquato Tasso (1544-1595), pubblicata nel 1576, riaffiora il mito delle Isole Fortunate di Omero, Plutarco e Proclo. Ecco la descrizione che ce ne dà il sorrentino:

"Ecco altr'isole insieme, altre pendici

scoprian alfin, men erte ed elevate;

ed eran queste l'isole Felici;

così le nominò la prisca etate,

a cui tanto stimava i cieli amici

che credea volontarie e non arate

quivi produr le terre, e 'n più graditi

frutti non culte germinar le viti"

 

(canto XV, vv. 273 - 280)

Anche Ludovico Ariosto (1474-1533) parla nel suo "Orlando Furioso" di isole sperdute in mezzo al mare, abitate da maghi e da streghe, nelle quali gli uomini possono finire trasformati in alberi. Inoltre, non é da escludere nemmeno che William Shakespeare (1564-1616) sia stato influenzato dal revival di Atlantide quando nel 1611 compone "La Tempesta" (si pensi al mito dell'isola incantata, sperduta in mezzo al mare).

E' nello stesso contesto che sir Francis Bacon (1561-1626) ci lascia la sua "Nuova Atlantide" (1624). Il filosofo inglese ritiene che ad ingenerare il mito di Atlantide sono state parziali conoscenze dell'esistenza del continente americano, da poco scoperto da Colombo. Naturalmente l'America non si é mai inabissata, e quindi non si capisce come avrebbero fatto a nascere le mille tradizioni circa l'isola finita in fondo al mare e circa il grande diluvio. Ad ogni modo, in questa sua opera Bacon fa dell'antico e floridissimo impero il modello per la società ideale, vagheggiata dagli Umanisti del tempo, in cui la scienza e la tecnologia sono messe totalmente al servizio dell'umanità. Ritorniamo perciò all'originale funzione che Platone attribuiva alla sua Atlantide, e cioè quella di presentare l'esempio della "società perfetta"!

Fin qui, siamo agli scrittori di fantasia ed agli scettici. Nel 1678 però padre Athanasius Kircher, un gesuita appassionato di archeologia, ripropone la teoria dell'Atlantide anticamente posta al centro dell'oceano omonimo. Ne compila anche una carta geografica, in cui il nord é posto in basso, quasi a simboleggiare che tale ipotesi avrebbe rovesciato tutte le nostre ipotesi sul passato dell'umanità! Non vi mostro ora questa mappa perchè ne riparleremo più diffusamente nel capitolo settimo, a proposito di alcune stravaganti ipotesi novecentesche,

Nel frattempo, dopo la scoperta dell'America i conquistadores hanno portato con sé dal Nuovo Mondo le notizie di credenze che parrebbero avvalorare l'antico racconto platonico. Ad esempio, gli Aztechi chiamavano Aztlan la loro misteriosa terra d'origine, vanamente identificata dagli etnologi con l'Arizona o il Nuovo Messico. Secondo la leggenda, si insediarono proprio nell' attuale Messico perché, giunti sulle sponde del lago Texcoco (là dove oggi sorge Città del Messico), videro un'aquila che divorava un serpente su di un Nopal (fico d'India), apparizione che, secondo un'antichissima profezia, avrebbe indicato la sede del loro futuro impero. Aztlan (vedi figura) era situata in mezzo al mare d'oriente, ed andò distrutta in seguito ad una catastrofe immane. Il dio Quetzalcoatl, che gli Aztechi attendevano, doveva tornare proprio dall'oriente a governare i suoi protetti. Per questo essi accolsero a braccia aperte Hernan Cortes, il che causò la fine della loro magnifica e sanguinaria civiltà.

Aztlan

L'Aztlan, mitologica patria degli Aztechi posta in mezzo al mare, così come la hanno raffigurata in un manoscritto successivo alla conquista spagnola.

Anche i Maya Quiché sostenevano di provenire da un "paese dell' est" in cui "bianchi e neri vivevano assieme in pace", fino a che l'invidioso dio Hurakan (donde il nostro attuale vocabolo "uragano"!) non la sprofondò nel mare. Inoltre i conquistadores del Venezuela raccontano di aver scoperto una tribù di razza bianca, di nome Atlan, la quale sosteneva che i loro antenati fossero gli ultimi superstiti di una terra cancellata dal mare. Per questo i soliti ufologi si dicono certi che costoro fossero davvero alcuni coloni atlantidi scampati alla distruzione totale della propria patria; comunque non ne avremo mai la riprova, perché quelle tribù furono completamente sterminate dai nuovi padroni bianchi. E, naturalmente, potremmo continuare. Ma credo che questi cenni bastino: nel clima dell'Umanesimo e del Neoclassicismo, queste notizie non potevano che rinfocolare l'antico mito, dimostrando che Platone, se non la storicità, gli aveva conferito almeno l'immortalità.

 

5.5  Il mito della superciviltà

Inutile dire che lo scetticismo incredulo del secolo dei lumi rimette tutto in discussione,relegando tanto Atlantide quanto il diluvio universale nella sfera dei "miti religiosi". Con l'età romantica e la passione per l'archeologia che infiammò il XIX secolo, tuttavia, la tradizione dell'Atlantide conosce una fiammata, divenendo materia sia per studi seri (proprio partendo da discusse opere letterarie, Schliemann aveva localizzato Troia) che per ameni romanzi d'avventura. Così, Nel 1870 Jules Verne non manca di annoverare Atlantide tra le scoperte del fantomatico Capitano Nemo in "Ventimila leghe sotto i mari"; ecco come si esprime in proposito il grande romanziere francese:

"Là, sotto i miei occhi, rovinata, distrutta, rasa al suolo, appariva una città con i tetti sfondati, i templi distrutti, gli archi abbattuti, le colonne spezzate a terra, ma in cui si percepivano ancora le solide proporzioni di un'architettura simile a quella toscana. Più lontano, si distinguevano i resti di un gigantesco acquedotto. Qui l'elevazione incrostata di un'acropoli con strutture che riecheggiavano il Partenone; là, le vestigia di un molo ricordavano un antico porto che, un tempo, aveva dato rifugio, sulle rive di un oceano ora scomparso, ai vascelli mercantili e alle triremi da guerra. Ancora più lontano, la lunga linea delle muraglie crollate, le larghe strade deserte: una nuova Pompei sprofondata sotto le acque, che il capitano Nemo risuscitava per la mia meraviglia. Dove mi trovavo? [...] Il capitano Nemo mi si avvicinò e mi fece un cenno. Poi, raccogliendo un pezzo di pietra gessosa, si diresse verso un masso di basalto nero e tracciò una parola: ATLANTIDE.
Quale lampo attraversò la mia mente! [...] Condotto da uno strano destino, ora mi trovavo su una montagna di quel continente. Avevo a portata di mano rovine plurisecolari, appartenenti ai periodi più antichi del nostro pianeta. Camminavo là dove avevano posato i piedi i contemporanei del primo uomo, calpestavo con le mie pesanti calzature scheletri di animali dei tempi leggendari che quegli alberi, ora fossilizzati, avevano ospitato sotto la loro ombra. [...] Mentre stavo così fantasticando e cercavo di fissare nella mia memoria tutti i particolari di quel paesaggio grandioso, il capitano Nemo, appoggiato a una roccia muscosa, restava immobile e sembrava pietrificato in un'estasi muta. Pensava, forse, a quel mondo scomparso, chiedendosi quali fossero i segreti del destino umano? O forse lo strano uomo si rituffava nei ricordi della storia e, proprio lui che rifiutava la vita moderna, si ritemprava in quella antica? Non so che cosa avrei pagato per conoscere i suoi pensieri, per condividerli, per comprenderlo...
Restammo in ammirazione per più di un'ora, contemplando la vasta pianura sotto i lampi della lava che assumeva, qualche volta, una luminosità sorprendente. I ribollimenti interiori facevano scorrere rapidi brividi lungo i fianchi della montagna. Echi profondi, chiaramente trasmessi da quella materia liquida, si ripercotevano con ampiezza maestosa."
("Ventimila leghe sotto i mari", parte seconda, capitolo 7)

Le rovine di Atlantide in un’illustrazione di Alphonse de Neuville e Edouard Riou per "Ventimila leghe sotto i mari" di Jules Verne

Le rovine di Atlantide in una famosa illustrazione di Alphonse de Neuville e Edouard Riou per il libro "Ventimila leghe sotto i mari" di Jules Verne

In Spagna nel frattempo diventa molto popolare in Spagna il poema "La Atlantida" del catalano Jacinto Verdaguer, pubblicato nel 1878. In questo non c'è nulla di male in sé: dopotutto, proprio partendo da discusse opere letterarie, Schliemann ha localizzato Troia! Il problema sta nel fatto che alcuni di questi « romanzieri » si lasciano ipnotizzare dalle loro stesse opere, e finiscono per scambiarle per descrizioni « scientifiche » di fatti storici; ed il capofila di tutti costoro è l'americano Ignatius Donnelly (1831-1901), che nel 1882 pubblica il primo (a suo dire) lavoro scientifico sul tema, intitolato "Atlantis: the prediluvian world". Non pensate che egli sia l'ultimo venuto; al contrario, egli è avvocato, diventa editore di un giornale pubblicato in inglese e tedesco, è nominato tenente-governatore del Minnesota e membro del Congresso degli Stati Uniti. Purtroppo, però, come archeologo è un dilettante, e vanta una cultura che possiede solo a livello libresco. A dispetto di questo, Donnelly raccoglie un'impressionante collezione di dati (ma forse impressionante solo per i suoi contemporanei dell'800) che supportano la teoria dell'esistenza di una mitica civiltà primigenia che aveva il primato nella storia delle civiltà antiche. È lui il primo a lanciare il mito dell'Atlantide come « superciviltà originaria » da cui sarebbero derivate tutte le altre; mito che non si trova né in Platone né in Francis Bacon, ma che è interamente una congettura moderna (si noti che non userò mai il termine "invenzione" per non urtare chi ha fede in questa "archeologia alternativa"). Secondo Donnelly, infatti, la perduta Atlantide, non l'Africa come sostengono i paleontologi moderni, sarebbe stata il luogo dove per prima si sviluppò la civiltà umana; sarebbe divenuta una nazione potente con una popolazione abbastanza numerosa da occupare e colonizzare il Messico, il delta del Mississippi, l'area amazzonica, il Perù, le coste occidentali dell'Europa e dell'Africa, la regione del Mediterraneo, le terre che circondano il Baltico, il Mar Nero e il mar Caspio, creando una vera e propria talassocrazia preistorica, una specie di Creta o di Gran Bretagna ante litteram; l'Egitto sarebbe stata la più 

Ignatius Donnelly (1831-1901)

Ignatius Donnelly

antica delle colonie di Atlantide, e la cultura egizia la più vicina a quella atlantidea; di più, Atlantide sarebbe stata l'originale Eden, ricordato dopo la distruzione come luogo di pace e felicità (si pensi che da Atlantis, versione inglese di Atlantide, Donnelly faceva derivare Aa(t)lantis, Oluntos e da qui il nome spesso di Olimpo!); le divinità maschili e femminili greche, indù, germaniche e scandinave, avrebbero tratto la loro origine da re, regine ed eroi dell'antica Atlantide, le cui gesta storiche divennero le gesta mitiche di questi dèi (è la teoria chiamata evemeristica dal nome del filosofo greco Evemero che ne fu l'autore, e la si ritrova anche nei "Sepolcri" del Foscolo); l'età del Bronzo europea sarebbe derivata da Atlantide, ed il ferro sarebbe stato lavorato per la prima volta proprio nel continente perduto (sebbene, cosa alquanto imbarazzante per Donnelly, l'uso del metallo arrivò molto più tardi nelle Americhe)... e così via. Purtroppo neppure una delle congetture di Donnelly ha retto al progredire delle ricerche ed alle scoperte scientifiche succedutesi con ritmo esponenziale nel corso del ventesimo secolo. Ad esempio all'epoca di Donnelly, quando la linguistica era ancora ai suoi primordi, si poteva forse dar retta all'editore americano quando sosteneva che il quechua, la lingua degli Inca, ha affinità con le lingue indoeuropee; ma, alla luce della glottologia moderna, quest'ipotesi appare destituita di ogni fondamento, come vedremo meglio nel capitolo seguente.

 

5.6  Un'Atlantide "massonica"!

Ma se le teorie di Donnelly vi sembrano inverosimili, soprattutto alla luce della moderna archeologia, c'è chi ha fatto di peggio, perché egli era lodevolmente animato da quelli che si possono pur sempre ritenere intenti scientifici, e come un archeologo, per quanto superficiale e poco sistematico, egli ragionava sempre. Ma stare a sentire quello che è riuscito a fare nel 1864 l'erudito fiammingo Charles-Etienne Brasseur de Bombourg, esperto di lingue centroamericane, basandosi su arbitrari metodi d'interpretazione e su presupposti linguistici e fonetici errati, eppure scambiati per verità scientifica.

Tutto nasce dal suo desiderio di tradurre  il codice Troano, uno dei pochi documenti Maya scampati alla distruzione operata dai Conquistadores del XVI secolo. Diego de Landa, un vescovo messicano del cinquecento, dopo essersi accanito contro la cultura Maya si era « convertito » a più miti consigli ed aveva cercato di salvare il salvabile dalla catastrofe culturale seguita al viaggio in buona fede di Cristoforo Colombo. Per questo aveva chiesto ad un indigeno esperto di scrittura Maya di « trascrivergli l'alfabeto » Maya e di aiutarlo ad imparare la lingua. Nobile intento; ma oggi sappiamo che la scrittura Maya non conosce alcun alfabeto, essendo basata su pittogrammi che significano parole o sillabe. Quando de Landa chiedeva come si scrive A, B, C... probabilmente l'indio gli spiegava come si scrivono le parole foneticamente più simili ai suoni di quelle lettere. Ne derivò un equivoco che suscitò gran confusione e mise per secoli i bastoni nelle ruote a chi cercava di decifrare la scrittura Maya.

L'erroneo alfabeto Maya tramandato da Diego de Landa

L'erroneo alfabeto Maya tramandato da Diego de Landa.

Brasseur de Bombourg viene in possesso a Madrid del cosiddetto « alfabeto » di de Landa e, basandosi su di esso, crede di tradurre come segue un brano del codice Troano:

"Nel sesto anno del Can, nell'undicesimo Muluk del mese di Zac, ebbero luogo terremoti terribili, i quali continuarono fino al tredicesimo Chuen. La terra delle colline argillose di Mu e la terra di Moud ne furono le vittime: due volte furono scosse, e durante la notte all'improvviso scomparvero. La crosta terrestre venne continuamente sollevata ed abbassata in molti punti dalle forze sotterranee, finché non poté resistere a tanto sforzo, e molti paesi furono spaccati in due da profondi crepacci. E, per finire, quelle due provincie non resistettero più a tanta tensione, e sprofondarono insieme nell'Oceano con 64 milioni di abitanti. Ciò accadde 8.060 anni fa."

Stupefacente? Dubbio, più che altro. I geroglifici Maya sono stati tradotti correttamente solo verso il 1990, e la lettura corretta del Codice Troano appare molto diversa. Ma Brasseur, evidentemente, vi legge solo ciò che spera di leggere, un po' come se un indovino pretendesse di riuscire a leggere il nostro oroscopo nell'elenco del telefono. Brasseur però aggiunge qualcosa di nuovo e di fondamentale rispetto alla tradizione platonica: infatti ritiene che il vero nome del continente perduto non fosse Atlantide, che lui riteneva una traduzione greca di un originale egiziano a sua volta tradotto letteralmente dalla lingua di Atlantide, bensì Mu, come leggiamo nel testo sopra riportato; introduce così una buona dose di esotismo al mondo della cosiddetta « atlantologia », che fino ad allora si era basata unicamente sul testo greco del « Timeo » e del « Crizia ». In realtà il nome è del tutto inventato, trattandosi solo di una debole somiglianza tra le immaginarie lettere di de Landa che indicavano la M e la U ed una coppia di segni del codice che, nella mente di Brasseur, diede romanticamente vita a questo termine famosissimo e caro agli atlantologi di ogni lingua e paese. E questo basta per liquidare ogni pretesa di scientificità a questo famosissimo nome.

Eppure, in quel medesimo periodo un altro archeologo, Augustus le Plongeon (in "Queen Moo and the Egyptian Sphinx", del 1896), traduce lo stesso brano in modo diverso seppur simile, prendendo le mosse dagli stessi fallaci presupposti. Forse che quei tuttologi infarciti di cultura classica avevano mistificato volontariamente i documenti? No, ritengo di no. Come ho già detto, essi abbiano letto solo ciò che inconsciamente volevano leggervi, e cioé la dimostrazione delle proprie astruse teorie, fondate su prese di posizione arbitrarie, e non su concrete prove archeologiche od epigrafiche. Sono infatti gli anni in cui, nella pur ortodossa e bacchettona società Vittoriana, vanno diffondendosi tra la ricca borghesia le sette di ispirazione massonica, lo spiritismo, l'evocazione delle anime dei trapassati, e molto altro ciarpame di natura pseudo-religiosa. Così, l'interesse per il mitico continente perduto, che i progressi della scienza archeologica ed i poemi romantici hanno contribuito a rinfocolare, finisce per essere sfruttato da sette esoteriche ed associazioni teosofiche per fini tutt'altro che scientifici o letterari. Atlantide, identificata da le Plongeon con Mu, l'antica terra dell'oro nella mitologia Maya, e con le isole mitiche di altri corpus leggendari, si trasforma nella terra dei maghi e degli stregoni, che avevano carpito agli dei i segreti dell'universo, ed ora possono insegnarli anche ai loro seguaci del XIX secolo. Capita sempre, nei momenti in cui la ragione sembra trionfare sulla terra, che si cerchino nuove valvole di sfogo verso il soprannaturale: lo si é visto anche nel nostro mondo progredito ed "evoluto", dove ben 10 milioni di italiani si rivolgono a maghi, ciarlatani ed imbroglioni stile santoni televisivi; per non parlare del fiorire di sette sataniche e di culti pagani di ispirazione asiatica od africana, in un marasma teosofico-demoniaco tale da convincere tre ragazze di Chiavenna ad uccidere di notte una suora indifesa, la povera suor Luisa Mainetti!

Dato che abbiamo scartato le ipotesi del povero Donnelly, che peraltro esprime le sue idee con un certo rigore e senza alcun astio né polemica verso chi la pensa diversamente da lui, mi sembra giusto spiegare perchè a maggior ragione vanno scartate quelle del polemico e combattivo Le Plongeon. Ad esempio, egli afferma seriamente che diverse linee e tratti a zig-zag su un architrave maya sono rappresentazioni di fili telegrafici, cosa che a suo dire dimostra come i Maya possedessero il noto strumento dei nostri giorni (e ciò fa di lui l'antesignano di coloro che attribuiscono ad Atlantide una civiltà avanzatissima, altro tratto sconosciuto a Platone); asseriva inoltre che i versi « Mene, Tekel, Peres » incisi da una mano misteriosa sulla parete durante il festino di Baldassare in Daniele 5, 1-31 erano tracciati in lingua maya, e che le ultime parole di Gesù non furono « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato » in aramaico, ma in maya, ossia: « Ora, ora, affondando, inchiostro nero sul naso », anche se lui solo capisce cosa diavolo volessero dire.

 

5.7  Una strada sotto il mare?

Nel 1920 l'Atlantide torna a fare notizia, ma non per via di qualche clamoroso ritrovamento stratigrafico; in quell'anno infatti Edgar Cayce, uno pseudo-scienziato visionario, seguace di le Plongeon ed appassionato di occultismo, prevede che entro il 1969 sarebbe riemerso nel mar di Bimini, presso le isole Bahamas, un tempio costruito dalla civiltà atlantide; é tanto convinto che la propria profezia é vera, che crea una fondazione (recante il suo nome) per studiarlo e convincere il mondo dell'esistenza storica di Atlantide. Alcuni membri della sua fondazione credono che la profezia del maestro si sia compiuta quando, nel 1968, viene scoperto proprio nei fondali delle Bahamas un lastricato che gli addetti ai lavori chiamano la « strada di Bimini »: file diritte di mattonelle che sembravano essere costituite da blocchi regolari di calcare, ormai quasi del tutto sepolti dalle sabbie dei fondali, corrono in mare aperto, parallelamente alla costa, per una distanza non superiore a 600 m. In direzione nord-ovest si configura poi un altro tratto formato da massi decisamente più piccoli, che gira tracciando la forma di un manico d'ombrello. Se, da una parte, il primo pezzo costituito da una murata di un solo blocco (a volte sembra trattarsi di pile di blocchi posti uno sopra l'altro) farebbe escludere, per la sua fragilità, l'ipotesi di una muraglia contro l'azione del mare, dall'altra c'è da osservare che il secondo tratto, quello ricurvo, non testimonia certo a favore di una strada. Ma, ormai, la frittata è fatta: la stampa ha già annunciato a chiare lettere che si tratta di una struttura certamente artificiale, e per gli atlantologi la strada di Bimini davvero rappresenta il primo frammento di Atlantide che tornava alla luce. Ancor oggi non si sa chi può aver costruito quel muro, che resta uno dei grandi misteri dell'archeologia.

Edgar Cayce (1877-1945)

Edgar Cayce

A dir la verità quasi subito un geologo lancia un'ipotesi da non trascurare: il misterioso muraglione può benissimo essere di origine naturale, a causa di un fenomeno che nei fondali marini delle isole Bahamas si rintraccia sovente: rocce del Pleistocene, tracce delle quali si trovavano po' ovunque, che si formavano quando la decantazione e l'accumulo di detriti sabbiosi, per lo più costituiti da carbonato di calcio sotto forma di gusci di conchiglie frantumate uniti a granelli di sabbia, dava origine a unico blocco di calcare. Tali formazioni risultano fragili e facilmente aggredibili quando siano esposte all'assalto dei marosi oceanici che le disgregano secondo singolari frantumazioni ad angolo retto, così da farle sembrare un prodotto artificiale dovuto all'intervento dell'uomo. Il tratto ricurvo simile al manico di un ombrello è praticamente allineato alla sagoma dell'attuale costa, corroborando quest'ipotesi. La datazione al radiocarbonio delle conchiglie imprigionate nei blocchi calcarei segnala appena 2200 anni or sono. Questo ovviamente non dimostra al 100 % l'origine non umana del lastricato di Bimini, ma resta il fatto che, tutt'attorno ad esso, non si è trovato neppure un solo reperto archeologico sicuramente attribuibile alla mano dell'uomo, come una punta di freccia o una statuetta votiva, se si fa eccezione per alcuni oggetti che potrebbero anche essere stati scaricati in mare dalle navi di passaggio.

Negli stessi anni delle profezie di Cayce, occorre aggiungere, il noto archeologo dilettante C.W.Ceram (1915-1972), grande divulgatore della scienza archeologica, nel suo best-seller "Civiltà Sepolte" (1949), che racconta come gli archeologi dell' età moderna riscoprirono le grandi civiltà del passato, si dimostra decisamente scettico nei confronti dell'esistenza reale del continente di Platone, scrivendo:

"Ci fu poi chi... volle vedere nei Maya i superstiti della leggendaria Atlantide. Ma, nessuna di queste voci parendo soddisfacente, non mancarono voci per affermare che i Maya appartenevano alla stirpe dei figli d'Israele..." (cap. XXIX)

Lo stesso Ceram, riportando la classificazione delle ventun civiltà fatta da A.J.Toynbee, accenna appena ad Atlantide, definendola "impero tramontato, di cui peraltro non é affatto dimostrata l'esistenza." Non si é mai preoccupato quindi di scrivere un libretto divulgativo intitolato "Il libro delle Isole", secondo la sua consuetudine ("il libro delle Piramidi", "il libro delle Torri", ecc...) Ciò dimostra il completo disinteresse della « scienza ufficiale » nei confronti delle ipotesi degli atlantologi: per gli archeologi accademici, il racconto di Platone è e resta quello di una società ideale stile di Thomas More, e cercarne le tracce archeologiche sarebbe come pretendere di individuare l'« Utopia » sull'Atlante geografico.

 

5.8  Dalla Groenlandia alla Tasmania

Intanto, per fortuna, la fantascienza si sviluppa come genere letterario a sé stante, e prende più volte spunto dalla leggenda della superciviltà antichissima per le sue mirabolanti invenzioni, sottraendola ai fanatici spiritisti della Massoneria. Per esempio, sul numero del Luglio 1940 di "Astounding Science Fiction", Lester del Rey pubblica uno splendido racconto, "Dark Mission" (Missione oscura), in cui agli Atlantidi viene attribuita proprio una civiltà tecnologicamente avanzata:

"...Tanto tempo fa c'era una civiltà sulla terra - magari l'Atlantide - che era andata a colonizzare Marte. Poi l'Atlantide é sprofondata, e quelli su Marte magari sono rimasti lì.... Supponiamo invece che ci fosse stata una guerra tra la Madre Terra e Marte, e che avesse distrutto entrambe le civiltà, invece di esserci lo sprofondamento dell'Atlantide. Non sarebbe più logico?".

Un altro celeberrimo scrittore di Science Fiction, L. Sprague de Camp, pubblica nel 1954 "Lost Continents", in cui non tralascia certamente l'isola degli atlantidi. Questa non manca poi di interessare anche l'antesignano degli scrittori dell'orrore: in "The Temple" (1920), H.P.Lovecraft (1890-1937) descrive un tempio sommerso, scoperto al largo dello Yucatan da un U-29 tedesco, che si identifica automaticamente, nella mente del lettore, con l'oggetto della nostra discussione. Che poi esso diventi lo spunto per agghiaccianti apparizioni ed avventure così tremende da far accapponare la pelle anche ad un istrice, beh... questo é nello stile di Lovecraft, e sarebbe strano constatare il contrario.

Contemporaneamente ha avuto il suo inizio pure il filone fantastico-mitologico, inaugurato da quel J.R.R. Tolkien che é tornato di moda grazie alla trilogia cinematografica del "Signore degli Anelli"; ed é questo genere letterario, più d'ogni altro, a far proprio il mito atlantidico, sia sulle pagine stampate che sulle pellicole di celluloide. Lo stesso "Signore degli Anelli", nella scomparsa delle terre occidentali di Númenor, abitate dagli uomini nella Seconda Era del mondo, paga il suo tributo ad Atlantide. Altri scrittori, più o meno in gamba, fanno riferimenti più espliciti all'isola delle leggende. Tra questi non si può non citare Marion Zimmer Bradley, che ne "Le nebbie di Avalon" (1982) e ne "Le luci di Atlantide" (1991) attribuisce tanto ad Atlantide quanto ai Celti da essa discesi delle convinzioni magico-religiose basate sulla prostituzione sacra e sulla metempsicosi, proprie invece delle religioni orientali, come si trova traccia anche nella Bibbia. E riecco così l'Atlantide ritrasformata nella prima "società misteriosofica" della storia, come voleva Brasseur de Bombourg!

Parecchio più convincente é lo splendido romanzo "Il principe Taliesin" (1990) di Stephen Lawhead, parte del famoso "ciclo di Pendragon", che dimostra maggiore conoscenza del mondo celtico, dei suoi costumi e della sua religione, ed anche la descrizione dell'isola di Atlantide risulta veramente appassionante e realistica. La novità assoluta di questo romanzo é poi il fatto di far coincidere l'Epoca Tenebrosa di cui parlano le saghe celtiche con lo stesso quarto secolo dopo Cristo, per modo che la distruzione d'Atlantide avviene non già 100 secoli fa, ma in epoca storica!

L'Atlantide é spunto anche per il semiologo Umberto Eco (nato nel 1932) per lasciar correre a briglia sciolta la sua logorroica erudizione filologica. "Il Pendolo di Foucault" (1988) si apre proprio con un allucinante flusso di coscienza, che porta il protagonista e voce narrante dell'interminabile romanzo a paragonare il moto del Pendolo di Foucault nel Conservatoire National des Arts et Metiers"di Parigi con le immense migrazioni che i cultori di occultismo e di religioni misteriosofiche sostengono avvenute in età remote. Ecco il testo originale:

"...una vicenda, registrata sulla distesa di un deserto, di tracce lasciate da infinite erratiche carovane. Una storia di lente e millenarie migrazioni, forse così si erano mossi gli Atlantidi del continente di Mu, in ostinato e possessivo vagabondaggio, dalla Tasmania alla Groenlandia, dal Capricorno al Cancro, dall'Isola del Principe Edoardo alle Svalbard... un unico piano univa Avalon, l'iperborea, al deserto australe che ospita l'enigma di Ayers Rock."

Anche in questo caso Atlantide è presentata come punto di riferimento per quella cultura ultralaicista la quale si riconosce in quel colossale imbroglio storico che è il « Codice Da Vinci », e che legge la storia sotto forma di un grande "piano" volto a scoprire come sfruttare le energie nascoste dell'universo. Si tratta, come si vede, di una visione prettamente politeistica, o al massimo panteistica, in cui tutte le cose hanno in sé un "principio vitale" da portare alla luce. In una visione monoteistica come la mia, invece, queste energie vitali non hanno alcuno spazio, facendo riferimento ogni cosa alla volontà dell'unico Dio. In questo contesto, l'unico modo per indagare la realtà é un procedimento di tipo scientifico, il contrario dell'approccio magico e spiritualistico dei pagani: ed é questo l'approccio che stiamo utilizzando noi. (Nel Medioevo, quando non si utilizzava ancora il metodo scientifico, i poteri vitali erano attribuiti ad angeli: lo fa anche Dante nella sua "Divina Commedia". Ma fortunatamente quest'approccio é oggi totalmente superato)

 

5.9  "Ercole alla conquista di Atlantide"

Anche il cinema si interessa in quegli anni del fenomeno. Il celebre lungometraggio "Viaggio al centro della Terra" (1959) con James Mason aggiunge all'omonimo romanzo di Verne da cui é tratto una puntata proprio tra le rovine di Atlantide, mentre il teleromanzo "Il segreto del Sahara" (1987) avanza la suggestiva ipotesi (che noi discuteremo più avanti) che l'Atlantide sia da situarsi nel deserto del Sahara. E' però ovvio che l'isola perduta la faceva da padrone soprattutto nel filone mitologico-avventuroso, noto in Italia come genere peplum, che in quegli anni partorì autentici capolavori (si pensi a "Scontro di Titani"), ma anche tutta una serie di film prodotti e girati per scopi puramente commerciali, film che non esitavano a stravolgere la stessa mitologia pur di far cassetta.

Il migliore tra tutti i film del genere peplum che tentano di portare sul grande schermo la vicenda narrata dal "Timeo" di Platone è senz'altro "Ercole alla conquista di Atlantide" del 1961, per la regia di Vittorio Cottafavi, con Reg Park, Laura Efrikian e alcuni cameo di lusso interpretati da attori del calibro di Enrico Maria Salerno ed Ivo Garrani. Vale la pena di raccontarne la trama in succinto, come esempio moderno di "divagazione sul tema" del leggendario continente perduto. L' eroe Ercole, insieme al figlio di lui Illo, all'amico nano Timoteo ed al re di Tebe Androclo (nome sconosciuto ai mitografi classici), mentre stanno tornando alla loro città natale, hanno una spettacolare e terrificante visione, nella quale la terra e il cielo sembrano tingersi di sangue. L'indovino cieco Tiresia la interpreta sentenziando che un grave pericolo dall'occidente sconosciuto minaccia l'intera Grecia. Androclo tenta però inutilmente di coalizzare tra di loro i re Greci, troppo impegnati a rivaleggiare l'un l'altro per credere alle sue parole. Così, deve partire da solo verso ovest, e dura fatica a convincere anche Ercole a seguirlo. Illo e Timoteo si imbarcano clandestinamente.

Giunti nell'Atlantico, una tempesta distrugge la nave ed Androclo é trascinato in mare. Ercole si salva su di un relitto, e vede in visione Androclo rinchiuso che invoca il suo aiuto. Sbarca sull' isola del dio marino Proteo, che gli si scaglia contro sotto forma di drago, ma l'eroe di Tebe lo uccide, e libera una fanciulla che gli era stata offerta in sacrificio. Questa é Ismene, la figlia di Antinea, regina dell'Atlantide, che gli indica la via per giungere nella sua patria.

Ercole viene accolto benevolmente da Antinea, anche se questa non si dimostra entusiasta di riavere la figlia. Si succedono dei fatti strani: Ercole vede dei bambini di Atlantide trascinati in una grotta nonostante il pianto delle madri, e gli sembra di intravedere Androclo nella reggia di Atlantide, mentre la regina rivela a sua figlia una profezia secondo cui, se una figlia femmina le sopravvivrà, il regno dei suoi avi sarà distrutto. Così Ismene é nuovamente condotta al mare per essere precipitata dalla scogliera. Sulla costa la vede però Illo, che con Timoteo si é salvato da una tempesta, e la libera.

La notte, un soldato mascherato aggredisce Ercole nel suo letto, ma l'eroe si salva e scopre che ad attaccarlo é stato proprio Androclo, che sembra impazzito, e gli grida in faccia che Atlantide dominerà il mondo, e Urano, suo dio protettore, spodesterà suo padre Giove. Ercole lo stordisce, ma interviene Antinea, che fa rinchiudere Ercole e dichiara spacciato Androclo: questi era destinato a regnare insieme a lei, ma la regina preferisce l'eroe tutto muscoli. Ercole evade, e segue i militi che portano via l'esanime Androclo; vede così che egli viene gettato in una valle piena di uomini mutilati e coperti da ustioni. A lui si uniscono Illo, Timoteo ed Ismene; insieme sconfiggono i soldati e liberano tutti quegli uomini. Uno di loro guida Ercole in una grotta, dove essi sono stati esposti alle radiazioni di un minerale luminoso. Un sacerdote, comparso all'improvviso nella grotta, gli rivela che quel minerale é in realtà una goccia pietrificata del sangue di Urano, caduta lì quando egli fu mutilato dai figli e scacciato dal cielo. Ercole risale da lì nel palazzo di Antinea, dove deve affrontare schiere di soldati tutti identici tra di loro e forti quanto lui. Ormai gli é tutto chiaro: la perfida regina vuole costruire una razza di superuomini, esponendo i bimbi di Atlantide all'influsso della pietra magica; solo alcuni, però, si trasformano in perfette macchine da guerra. Gli altri finiscono menomati: sono quelli che Ercole ha liberato dalla valle.

Antinea offre ad Ercole di diventare suo sposo e re di un mondo dominato dalla sua tirannide, ma il forzuto rifiuta. é così gettato in una cella insieme ad Illo. Infatti gli uomini che Ercole ha liberato hanno cercato di attaccare in armi i loro padroni di Atlantide, ma sono stati sopraffatti dai superuomini di Antinea. Illo, Ismene ed Androclo sono stati catturati. Nella cella entra un gas, ed Ercole capisce che é in questo modo che Androclo é stato "ipnotizzato". Con la sua forza (che, per l'appunto, é erculea) sfonda la cella ed invia Illo verso il mare; egli ritorna nella grotta magica, dove convince il sacerdote di Urano a rivelargli come spezzare quell'incubo. Dopo aver affrontato un'ordalia, l'eroe viene a sapere che, se il sole illuminerà la pietra di sangue, sarà la fine di Atlantide. Ercole sfonda il soffitto della grotta, ma la luce del sole non colpisce direttamente la roccia sacra: spostandosi nel cielo, l'astro la illuminerà di lì a pochi minuti. Egli può così fuggire e mettersi in salvo.

Intanto, Illo si é travestito da soldato atlantide ed é salito sulla barca su cui sono prigionieri Ismene, Androclo e Timoteo, che doveva essere data alle fiamme e abbandonata in mare. Egli dimostra di essere davvero il figlio di Ercole, sopraffacendo le guardie ed impadronendosi della nave. Anche Ercole arriva a nuoto. In quel momento il raggio di sole raggiunge la pietra, ed Atlantide salta per aria come un petardo, trascinando in mare Antinea e la sua stirpe di supermen. Il lieto fine é d'obbligo: Androclo ha salvato la Grecia, anche se non si ricorda nulla di nulla, ed Illo e Ismene si sono innamorati. Il film termina con le parole: "Erigerò sul grande stretto due colonne di pietra. Serviranno da mònito agli uomini a non avventurarsi nell'ignoto, e a non sfidare gli dèi..." Nascono così le Colonne d'Ercole ed il mito dell'inviolabilità dell'Oceano Atlantico.

Spero di non avervi annoiato con questa storia, che rielabora in modo originale il mito della guerra tra Atlantide e la Grecia (anche se qui la lotta é condotta da Tebe, patria di Ercole, o meglio dal solo tebano Ercole), trasportata ai tempi dell'eroe Ercole, e la leggenda della sommersione dell'isola, che avviene per opera del figlio di Alcmena, il vendicatore per conto degli dei. Lo sceneggiatore introduce addirittura nella vicenda mitologica dei concetti cari alla moderna fantascienza, come la pietra radioattiva o il tentativo di creare una razza eletta di stampo hitleriano. Molto spettacolari risultano le riprese di eruzioni vulcaniche che "simulano" la fine dell'isola: tenete presente che tra i consulenti del film c'era anche il famosissimo vulcanologo Haroun Tazieff. Così hanno scritto in proposito i critici Bruno Lattanzi e Fabio De Angelis sul sito Fantafilm:

« Chi ha amato il peplum ricorderà con simpatia l'avventura di questo insolito Ercole, eroe imperturbabile e pigro che passa all'azione soltanto quando gli eventi ve lo costringono (esemplare, in questo senso, la scena iniziale della rissa nella taverna). Ma anche chi non condivide interesse per questo genere cinematografico dovrà riconoscere l'originalità del tentativo di Cottafavi di innescare nel fantasy mitologico tipi e situazioni del western, dell'horror e della fantapolitica. In effetti, il film è ricco di fantasia e di risvolti ironici e talora satirici e si serve del consueto repertorio di mostri di cartapesta e cataclismi ottici per leggere nel mito di Atlantide un Terzo Reich ante litteram. Notevole il cast, in cui grandi attori di teatro come Garrani, Volontè e Salerno (gli indecisi sovrani del concilio greco) si divertono a parodiare una delle innumerevoli inconcludenti sedute del Parlamento nostrano. »

Come si sa, al cinema le possibili versioni di una vicenda sono praticamente infinite. Voglio citarvene ancora due. La serie di telefilm "L'uomo d'Atlantide" tra il 1975 ed il 1980 prende spunto dall'idea che gli Atlantidi dovessero essere dei "diversi", una sorta di uomini-pesce, per presentare le disavventure di un uomo dalle mani e dai piedi palmati, interpretato dall'attore Patrick Duffy, in grado di respirare sott'acqua e di resistere a fortissime pressioni. Quest'essere poteva sopravvivere cinque giorni respirando aria, ma era capace di imprese ciclopiche una volta immerso nel suo ambiente naturale. Del 2001 è invece "Atlantis - L'impero perduto", considerato il 41º classico Disney e largamente ispirato ai Viaggi Straordinari di Jules Verne.

Degna di nota è la citazione del film indipendente "I Guardiani di Atlantide", girato nel 2013 dal regista Luca Occhi sullo sfondo dei monumenti più celebri di Vicenza. In tale lungometraggio, girato con un budget ridotto, Atlantide non compare mai, ma il vilain della storia avanza l'originale ipotesi che essa non fosse un'isola o un continente, bensì una popolazione nomade, spostatasi nei secoli in luoghi della Terra anche molto lontani tra di loro, lasciando ovunque tracce di sé. E ciò spiegherebbe perchè nessuno è mai riuscito ad individuarla in una singola ubicazione!

E non é finita. I cartoon giapponesi, tra avventure mirabolanti e giganteschi robot sanguinari, non mancano di attingere a piene mani dalle storie di Atlantide, che per lo più diventa una colonia di misteriosi nemici spaziali, in grado di superare le distanze stellari quando gli uomini vivevano ancora nella Preistoria. Anche in essi talvolta al popolo di Mu si attribuisce una civiltà nucleare, nonché un grande arsenale di armi terrificanti (è il caso di Gaiking e di Capitan Harlock).

Del problema si interessano anche i fumetti: nel 1954 il grande Carl Barks (1901-2000) realizza la storia "The Secret of Atlantis" (in italiano "Zio Paperone pesca lo skirillione", comparsa per la prima volta sul n° 91 di "Topolino" del 25 maggio 1954), in cui il papero più ricco del mondo si tuffa a 700 metri di profondità nell'Oceano Atlantico per recuperarvi delle monete preziose che egli stesso vi aveva inabissato, e scopre una città sommersa abitata da uomini-rana. Il loro re gli rivela che si trova ad Atlantide, che in epoche molto antiche ha iniziato lentamente a sprofondare in mare (e non in una sola notte come dice Platone), e così la popolazione è stata costretta a riparare sulle montagne; quando l'ultima cima dell'isola fu sommersa, gli atlantidei scoprirono di poter vivere sott'acqua, in quanto in millenni di lotta contro di essa avevano sviluppato le branchie. Alla fine, con uno stratagemma, i paperi riescono a tornare in superficie. E non è tutto: sul n° 1638 di "Topolino" del 19 aprile 1987 appare la storia "Topolino e l'Atlantide continente perduto" (sceneggiatura di Giorgio Pezzin, disegni di Massimo De Vita) in cui si ipotizza che Atlantide fosse nientemeno che l'Antartide, a quei tempi (diecimila anni fa!) dal clima mite ed abitata dall'uomo; la distruzione di Atlantide-Antartide ad opera di un meteorite avrebbe provocato una rotazione dell'asse terrestre, con conseguente congelamento del continente: un argomento di cui discuteremo nell'ultimo capitolo. E poi dicono che i fumetti sono una forma di narrativa minore!

La città sommersa di Atlantide come viene immaginata dal grande fumettista statunitense Carl Barks nell'avventura "Zio Paperone pesca lo skirillione" (1954)

La città sommersa di Atlantide come viene immaginata dal grande fumettista statunitense Carl Barks nell'avventura "Zio Paperone pesca lo skirillione" (1954)