James C. Maxwell era profondamente convinto dell'esistenza dell'etere, come testimonia il fatto che, alla voce « Ether » compilata per la nona edizione dell'Enciclopedia Britannica (vol. 8°, 1878), scrisse:
« Non vi può essere alcun dubbio che gli spazi interplanetari e interstellari non siano vuoti ma occupati da una sostanza o corpo materiale che è certamente il più vasto e probabilmente il più uniforme di cui abbiamo una qualche conoscenza... »
Come abbiamo visto, tuttavia, questa incrollabile fede nell'esistenza dell'etere era destinata ad essere messa in discussione appena otto anni dopo la morte di Maxwell, l'artefice della Teoria Classica dei Campi, a causa dell'esperienza di Michelson-Morley. Ed in effetti lord Kelvin, uno dei padri della Termodinamica, in una conferenza tenuta il 27 Aprile 1900, parlò di tale esperimento, « effettuato con la più attenta cura per garantire un risultato affidabile », come di « una nube » della fisica del XIX secolo sulla teoria della propagazione della luce.
Nel 1904 ancora Kelvin scrisse nella prefazione alle lezioni di Baltimora:
« Michelson e Morley, con il loro grande lavoro sperimentale sul moto dell'etere rispetto alla terra, hanno sollevato l'unica obiezione seria contro le nostre spiegazioni dinamiche della luce... »
Occorre dire, per completezza, che Michelson rimase sempre scettico mi confronti della teoria della relatività ristretta, che purtroppo comportava la scomparsa dell'etere, ed i suoi pregiudizi verso la nuova teoria perdurarono fino alla morte: pregiudizi tipici dei fisici sperimentali di stampo ottocentesco, affetti da un vero e proprio "horror vacui". Ecco cosa sostenne Michelson ancora nel 1927 nel suo libro « Studies in Optiks » in cui presentò il suo punto di vista sulla Relatività Ristretta e le trosformazioni di Lorentz:
« L'esistenza di un etere appare inconsistente con lo teoria della Relatività; ma senza un mezzo come si può spiegare la propagazione delle onde di luce? [...] Come si può spiegare la costanza della propagazione della luce se non c'è nessun mezzo? »
Una possibile spiegazione dell'esito dell'esperimento di Michelson e Morley fu fornito indipendentemente dal fisico irlandese George F. Fitzgerald (1851-1901) nel 1892 e dal già citato olandese Hendrik Lorentz (1853-1928) nel 1895. Essi fecero osservare che i risultati negativi potevano spiegarsi ammettendo che il braccio dell'interferometro in moto attraverso l'etere nel senso del movimento della terra (quello orizzontale) si fosse accorciato. Quest' ipotesi può apparire piuttosto artificiosa, ma Lorentz la spiegava ipotizzando che le forze di coesione della materia fossero essenzialmente di nature elettrica, e quindi il movimento attraverso l'etere poteva modificare le posizioni di equilibrio degli atomi.
In pratica, Lorentz assunse che le equazioni di Maxwell siano valide solo in un sistema di riferimento privilegiato, quello in cui l'etere è fermo. Ma allora come trascrivere le equazioni per un altro sistema in moto rispetto al primo? Lorentz si rese conto ben presto del fatto che ogni modifica nella forma di quelle equazioni avrebbe comportato che negli altri sistemi di riferimento le leggi (di natura sperimentale) dell'elettromagnetismo sarebbero diverse; da ciò sarebbe seguita la possibilità di rivelare lo stato di moto rispetto all'etere. Ma, pensò Lorentz, se tutti gli esperimenti volti a rivelare lo stato di moto della terra rispetto all'etere avevano dato esito negativo, solo un'ipotesi poteva essere sostenuta: quella secondo cui esistono delle trasformazioni, diverse da quelle galileiane, che lasciano inalterate le equazioni di Maxwell.
Nel 1904 Lorentz scrisse in forma definitiva queste trasformazioni che, oltre a coinvolgere le coordinate spaziali, per garantire il risultato corretto prevedono una trasformazione anche per il tempo. Egli tuttavia non attribuì significato fisico a questo "tempo modificato"; lo chiamò « tempo locale » ma, come scrisse egli stesso anni dopo la pubblicazione della teoria della relatività:
« ...Io non pensai mai che questo tempo avesse niente a che fare con il tempo reale. Questo tempo reale per me era ancora rappresentato dalla più antica nozione classica di tempo assoluto, indipendente da ogni sistema di riferimento. Esisteva per me un solo tempo vero: consideravo la ma trasformaznone del tempo solo come un'ipotesi di lavoro euristico, di modo che la teoria della relatività è davvero solo opera di Einstein. »
Le leggi di trasformazione (3.4), che portano il suo nome, furono formulate assai prima delle teorie sulla contrazione dei tempi e la dilatazione delle lunghezze, dalle quali noi le dedurremo nell'unità 3; ed è per questo che ancor oggi si parla oggi di "contrazione di Lorentz" e non di "contrazione di Einstein". Lorentz giustificava tuttavia questa contrazione solo come una conseguenza delle modificazioni che subivano gli strumenti di misura quando cambiava il loro stato di moto rispetto al sistema di riferimento assoluto (cioè quello in cui l'etere è in quiete). Egli anticipò i risultati di Einstein sulla relatività ristretta, eppure non seppe capirne il senso fisico, così come Tycho Brahe capì che il geocentrismo era insostenibile, ma non arrivò a porre il sole al centro del suo sistema.
Einstein lavorò in modo diverso. Per nulla preoccupato di sfatare tabù che resistevano fin dai tempi del grande Newton, egli comprese che, quando ci si muove a velocità prossime a quella della luce, spazio e tempo subiscono delle effettive trasformazioni che non li rendono più entità assolute, o addirittura metafisiche. Se si dava credito all'esperienza di Michelson e Morley, una cosa sola appariva costante nel passare da un sistema di riferimento ad un altro: la velocità della luce, uguale sia nella direzione del moto della Terra che in direzione opposta. Ed egli partì proprio da qui, assumendo come postulato che non lo spazio né il tempo, ma c sia invariante per tutti gli osservatori. Vedremo che questa semplice ipotesi avrà conseguenze a dir poco esplosive.
La teoria della Relatività Ristretta (o Relatività Speciale) fu inaugurata da Einstein il 30 giugno 1905 sugli « Annalen der Physik » in una fondamentale memoria intitolata « Zur Elektrodynamik bewegter Körper » (Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento, [ 13 ]), per cui rimando alla Lettura 1. In quell'articolo egli scrisse:
« ...Nessuna caratteristica dei fatti osservati corrisponde al concetto di un etere assoluto; [...] per tutti i sistemi di coordinate per i quali valgono le equazioni della meccanica, valgono anche le equivalenti equazioni dell'elettrodinamica e dell'ottica [...]. In quanto segue facciamo questa ipotesi e introduciamo l'ulteriore postulato, un postulato a prima vista inconciliabile colle ipotesi precedenti, che la luce si propaga nello spazio vuoto con una velocità c che è indipendente dalla natura del moto del corpo che la emette. Queste due ipotesi sono del tutto sufficienti a darci una semplice e consistente teoria dell'elettrodinamica dei corpi in movimento basata sulla teoria di Maxwell per i corpi in riposo »
Tutta la teoria di Einstein è basata dunque su due postulati fondamentali:
Ø Le leggi della fisica sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziali. Non esiste un sistema inerziale privilegiato (Principio di relatività).
Ø La velocità della luce nel vuoto ha lo stesso valore c in tutti i sistemi inerziali (Principio della costanza della velocità della luce).
Il primo di essi rappresenta un'estensione, a tutti gli eventi, del principio di relatività galileiana, che non risulta così annullato, bensì superato attraverso il secondo postulato, dal quale, a partire dal paragrafo seguente, cominceremo a ricavare i fondamenti della Cinematica relativistica.
Con questi due soli postulati Einstein rivoluzionò l'intero mondo della Fisica; ma lo sapete qual è l'aspetto tragico o, perlomeno, tragicomico di questa vicenda? Il premio Nobel non fu assegnato ad Einstein per la fondazione della Relatività, bensì per un suo articolo datato 18 marzo 1905, sempre pubblicato sugli « Annalen der Physik », dal titolo « Über einen die Erzeugung und Wervandlung des Litches betreffenden heuristischen Gesichtspunkt » (Su un punto di vista euristico circa la creazione e la conversione della luce), nel quale egli interpretava l'effetto fotoelettrico sulla base dell'ipotesi quantistica formulata cinque anni prima da Max Planck. Un lavoro certamente importantissimo, che spianò la strada alla nascente Meccanica Quantistica; ma da quest'ultima Einstein si tenne sempre ai margini, mentre della Relatività egli era stato l'ideatore assoluto, tanto che essa è forse l'ultimo esempio, nella storia della scienza, di una intera teoria creata da un uomo solo. Il fatto è che la teoria della Relatività fu a lungo misconosciuta, in patria e fuori, e addirittura bollata come « fisica ebrea ». Il suo autore però non se ne diede per inteso se è vero che, quando gli fu riferito che era stato pubblicato un libro intitolato « Cento fisici contro Einstein », in cui si proponeva una teoria alternativa alla Relatività, egli rispose con arguzia: « Cento? Se fossi in errore, di fisico ne basterebbe uno solo »!
Albert Einstein in compagnia della prima moglie Mileva Marić (Titel, 19 dicembre 1875 – Zurigo, 4 agosto 1948), sua compagna di studi di origini serbe. Alcuni ritengono che, senza il suo fondamentale contributo di matematica, Einstein non sarebbe mai giunto alla formulazione della Relatività Ristretta. Infatti Einstein versò interamente a lei l'ammontare del Premio Nobel vinto nel 1921. Anche la Relatività, dunque, è donna!