LABORATORIO DI GEOLOGIA: IL PIANETA TERRA  

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Dopo le scienze della Vita, ecco a voi le scienze della Terra. Questa appunto è la Terra vista globalmente dallo spazio in veri colori: in verde le foreste, in giallo i deserti, in marrone le montagne, in bianco i ghiacci polari. Spettacoloso, vero?
Questo magnifico modellino, realizzato dagli studenti del mio Liceo, mostra il mondo così come era immaginato dall'astronomo e matematico Claudio Tolomeo nel II secolo d.C. (a reggerlo in mano è Riccardo Pariani, 5 F a.s. 2009/10). Come si vede il concetto di terra piatta è ormai definitivamente tramontato (nonostante il navigatore Cosma Indicopleuste ancora nel V sec. d.C. parlerà di una terra piatta), dai cui oceani emergerebbero solo tre continenti molto addensati l'uno contro l'altro. Non solo le Americhe, ma anche la Scandinavia è totalmente assente!
La cartina mostra le placche o zolle nelle quali è suddivisa la superficie del nostro pianeta. Esse si muovono in continuazione a causa dei moti convettivi nel magma fluido nel mantello sottostante la crosta; tale moto genera la deriva dei continenti, ma anche i terremoti quando due placche collidono e strisciano violentemente l'una contro l'altra!
Secondo il geologo John Rogers, uno dei primi continenti a sollevarsi dall'oceano che avvolgeva tutta la Terra circa tre miliardi di anni fa fu il continente di Ur, che nulla ha a che vedere con la città sumerica patria di Abramo ("Urkontinent" in tedesco vuol dire "continente primordiale"). Come si vede da questo schizzo, le sue rocce si trovano ancor oggi conservate come reliquie geologiche negli strati dei continenti attuali. Probabilmente esso era l'unico continente allora emerso!
Ed ecco un altro supercontinente, chiamato Rodinia (dal russo "rodit", generare), che si pensa esistito tra 1100 ed 800 milioni di anni fa, quando cominciò a frantumarsi in una decina di frammenti. Al centro vediamo lo scudo canadese; a nord le terre che andranno a formare il Gondwana orientale, a sud quelle che andranno a formare il Gondwana occidentale.
Quando ero in Terza Media (cioè nel lontano 1983) ho disegnato i continenti su carta millimetrata, li ho ritagliati e poi li ho reincollati su carta facendo combaciare i loro bordi; in tal modo ho ricostruito la Pangea, il supercontinente che si formò circa 200 milioni di anni fa in seguito alla collisione di tutte le masse continentali del pianeta. Fu Alfred Wegener (1880-1930) nel 1911 a proporre per primo la teoria della Deriva dei Continenti, che però fu universalmente accettata solo a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso.
Ed ora, una "chicca" assai più recente: un'animazione che mostra la deriva dei continenti negli ultimi 500 anni e nei prossimi 50. Si vedono chiaramente le masse continentali nate dalla disgregazione del supercontinente Pannotia (alla fine dell'era Precambriana) muoversi l'una verso l'altra, dare vita al supercontinente Pangea ed infine raggiungere le posizioni attuali.
Questa foto è stata scattata dal sottoscritto dall'aereo il 13 settembre 1995, e raffigura una splendida isola vulcanica, prodotta dall'eruzione di lava sul fondo del mar Mediterraneo. Si osservi l'ampio cratere (trae il nome da quello di un vaso antico a bocca larga), formato da molti strati sovrapposti di lava e di materiale piroclastico. Questo vulcano è spento da secoli.
Questo è il primo di una serie di bellissimi modellini, con i quali illustrare agli studenti le principali strutture geologiche, e naturalmente rappresenta lo spaccato di un vulcano. Sotto di esso si ha una camera magmatica, alimentata dal magma proveniente dal mantello; quando questa si svuota in seguito ad un'eruzione, il vulcano può afflosciarsi e dar vita a una caldera. Dalla camera magmatica parte un camino, attraverso cui transita il magma nella sua risalita verso la superficie. Vi sono però anche vari camini secondari, i quali possono dare vita a dei coni secondari. Se invece sul fianco del vulcano si aprono delle fratture longitudinali, si parla piuttosto di eruzione fessurale
Ed ecco uno dei vulcani più famosi del mondo: il Monte Fuji (富士山, Fuji-san), che con i suoi  3.776 m è la montagna più alta del Giappone. Qui lo vediamo fotografato nel dicembre 2021 dal nostro amico Romain Albaret, che vive a Tokyo con la famiglia. Dista 100 km dalla capitale nipponica, da cui è visibile quando il cielo è limpido. Secondo la tradizione popolare la montagna si formò in seguito a un terremoto avvenuto nel 286 a.C., ma in realtà esso è molto più antico: si tratta di uno stratovulcano, formatosi come conseguenza della sovrapposizione di vari strati di lava solidificata e ceneri vulcaniche accumulatesi durante quattro distinte fasi nell'attività vulcanica durate centinaia di migliaia di anni. È situato lungo la cosiddetta cintura di fuoco del Pacifico, proprio nel punto in cui la placca delle Filippine si inabissa a grande profondità sotto quella euroasiatica,
Il Mauna Kea, vulcano posto al centro dell'isola maggiore dell'arcipelago delle Hawaii, è la montagna più alta del pianeta Terra; infatti si innalza per 4.215 m sopra il livello del mare e per oltre 5.000 m sotto di esso. È un vulcano "a scudo" e deriva da un pennacchio caldo che si innalza dal mantello terrestre; spostandosi in seguito alla deriva dei continenti, la zolla ha generato tutto un festone di isole, le Hawaii. Questa è una magnifica vista dalla sua cima innevata (da cui il nome, "Montagna bianca").
Il Monte Erebus è il più meridionale tra i vulcani attivi del pianeta, è alto ben 3794 metri e si trova in Antartide, lungo la costa di Shackleton che si affaccia sul mare di Ross. Qui appare ripreso dai ricercatori della base scientifica americana di McMurdo.
Questa spettacolare immagine scattata da Dan Dzurisin mostra il monte St. Helens, un vulcano dello stato di Washington (ovest degli Stati Uniti), che nel 1980 fu teatro di una delle più dirompenti eruzioni vulcaniche degli ultimi decenni. Il vulcano è ancora attivo perchè, dopo una nuova eruzione nel 2004, ha sviluppato un poderoso duomo di roccia alto ormai oltre 100 metri, che sta crescendo verso l'alto di oltre un metro al giorno, spinto dalla pressione del magma sottostante!
La mia amica e collega Anna Elena Galli mi ha fornito queste spettacolose fotografie del Lago de los Clicos, sull'isola di Lanzarote, nelle Canarie: è un esempio di lago che occupa la caldera spenta di un grande vulcano nel Parque Nacional de Timanfaya con le sue montañas del fuego, una cui eruzione nel XVIII secolo ha trasformato completamente il paesaggio, ricoprendolo di distese di lava che arrivano fino al mare. A soli 10 centimetri di profondità, la temperatura è già di 140°, ed infatti Timanfaya è il nome di un diavolo della tradizione locale. Le acque verde smeraldo del lago contrastano con le pareti rosse e marroni, nelle quali sono ben visibili tutte le stratificazioni depositatesi  in centinaia di migliaia di anni. 
Sempre l'amica Anna Elena mi ha fornito questa sua foto dell'interno della caldera del vulcano che, con le sue ripetute eruzioni, formò l'isola di Porto Santo, nell'arcipelago portoghese di Madeira. Tutto questo iniziò con l'attività vulcanica marittima tra il Miocene e il Neozoico, dando origine a rocce basaltiche che formano le cime più elevate, come mostra la foto sottostante. Nella foto si notano dei dicchi, dovuti ad un'intrusione di origine ignea, ad andamento pressoché verticale, in una fessura tra gli strati di rocce sedimentarie. Le rocce ignee così ottenute risultano molto fertili e adatte all'agricoltura.
Ed ecco, sempre sull'isola di Porto Santo, delle maestose formazioni basaltiche chiamate "canne d'organo" per la loro forma, la cui presenza evidenzia nel territorio un'attività eruttiva sottomarina o la presenza di antichi vulcani ormai spenti. Infatti il basalto, a differenza del granito, si origina dalle eruzioni della lava sotto il fondo del mare, e non è certo un caso se l'intera superficie dei fondali oceanici (il 75 % della superficie terrestre) è formata da queste rocce. Sono grandi basalti a canne d'organo quelli che in Irlanda del Nord formarono la cosiddetta Giant's Causeway ("Selciato del gigante"). 
Anna Elena ha fotografato anche la sezione di un basalto a canna d'organo: come si vede, sorprendentemente, esso è fatto ad anelli concentrici come un albero. I basalti colonnari costituiscono il condotto di alimentazione da cui è salito il magma proveniente dal mantello, attraverso la frattura creata nel fondale marino nel corso di un'eruzione sottomarina. La loro tipica fessurazione è dovuta alla contrazione cui la lava è soggetta durante il raffreddamento, ed il loro diametro dipende per lo più dalla velocità di raffreddamento: maggiore velocità implica un diametro minore.
Talvolta, sia il cielo che la terra danno spettacolo! E' il caso di questa straordinaria fotografia ripresa in Islanda da Sigurdur Stefnisson, che ringrazio vivamente. Nel 1991 il vulcano Ekla eruttò violentemente proprio mentre in cielo era visibile una coloratissima aurora boreale. Però quest'ultima ha avuto luogo almeno 100 chilometri sopra il vulcano!!!
Anche questo è un vulcano, ma... un vulcano spaziale! E' il vulcano Tupan (dal nome del dio brasiliano del tuono) su Io, satellite di Giove. Il terreno circostante appare giallo perchè ricoperto dalle esalazioni di zolfo del vulcano, alimentato dal calore prodotto per attrito dalle interazioni gravitazionali tra il pianeta gigante ed il suo martoriato satellite. Per conoscere qualcosa di più di geografia astronomica andate all'Armadio Virtuale corrispondente.
Vale la pena di restare per un attimo nello spazio, per esaminare la geologia di un altro corpo celeste: la Luna. Se davvero essa riproducesse il volto di Caino, dannato per l'eternità dopo l'assassinio del fratello Abele, come narra una leggenda popolare ripresa anche da Dante, probabilmente non apparirebbe così bizzarra e colorata come mostra questa fotografia, ripresa dalla sonda Galileo nel 1992 durante il suo viaggio verso Giove. Essa è il risultato di tre filtri spettrali, le cui immagini sono state ricombinate in una foto ai falsi colori per esplorarne la geologia. Le zone arancioni sono ampie colate di lava, effusa nella notte dei tempi; il Mare della Tranquillità appare nettamente blu, essendo ricco di titanio.
Questa fotografia riprende un modellino di piega anticlinale erosa superiormente, come recita l'etichetta: un modellino risalente ai lontani anni '60, che però illustra molto bene il modo in cui si formano le catene montuose. La compressione degli strati geologici produce una vera e propria "piega" della crosta terrestre che viene progressivamente erosa dagli agenti atmosferici e determina la nascita di una catena montuosa, come illustra chiaramente il "cappuccio" staccabile che simula l'erosione.
Questa fotografia eccezionale mostra una serie di altissimi picchi dell'Himalaya; il più alto a sinistra è Dhaulagiri, la settima cima più alta del pianeta, mentre l'altopiano di fronte alle montagne è il Tibet meridionale. Ma, contrariamente alle apparenze, non è stata ripresa da un aereo di linea, bensì dalla Stazione Spaziale Internazionale (ISS): dallo spazio, quindi. Le vette altissime che vediamo nacquero 60 milioni di anni fa in seguito al cozzare dell'India contro la placca asiatica; lo scontro, che prosegue tuttora, corrugò la crosta terrestre dando vita ad un'orogenesi.
Come apparirebbe il panorama dalla montagna più alta che sorge su uno dei continenti terrestri, l'Everest? Questa immagine ce lo mostra in maniera spettacolare. Si vedono picchi scoscesi, lontani altipiani, burroni dirupati, candidi ghiacciai, e persino la sommità delle nubi. Un vero paesaggio lunare... solo che si trova sul pianeta Terra!
Le montagne possono avere origine anche da vulcani spenti in ere geologiche passate: è il caso del Pico de Areiro, alto 1818 m, sull'isola di Madeira, fotografato dalla mia collega ed amica Anna Elena Galli nell'estate 2008. Presumibilmente la risalita di magma da un punto caldo posto sotto l'oceano Atlantico ha dato origine a questi antichi picchi vulcanici e all'intera isola di Madeira. Destituita di ogni fondamento è l'ipotesi che questa sia una delle antiche montagne dell'Atlantide, rimasta emersa dopo l'inabissamento del continente, perchè sul fondo basaltico dell'Atlantico non c'è traccia di roccia continentale! 
Ecco una foto, ancora dovuta alla gentilissima Anna Elena, della cosiddetta "Montagna con gli occhi" di Fuerteventura. Quest'ultima è la più antica isola delle Canarie, emersa circa 20 milioni di anni fa in seguito all'eruzione vulcanica prodotta come Madeira da un punto caldo, cioè alla risalita di materiale lavico dal mantello terrestre (così è accaduto ad esempio alle Hawaii). L'ultima attività vulcanica su Fuerteventura (isola battuta da forti venti, come indica il nome) risale a non meno di 4000 anni fa.
Questa curiosa fotografia, da me scattata nel Parco Naturale di Portofino il 14/4/2005, mostra il punto di giunzione tra la pietra calcarea, di cui è formata la costa ligure, ed il cosiddetto conglomerato di Portofino, una pietra non lavorabile fatta di sassi inglobati dentro una matrice di sabbia induritasi: tipica struttura geologica che si forma sul fondo del mare. Poi le forze tettoniche dovute al moto della zolla africana verso quella europea (vedi modellino soprastante) hanno piegato e sollevato queste rocce, formano il promontorio di Portofino, che è chiuso dal Golfo del Paradiso ad ovest e dal Golfo del Tigullio ad est; evidentemente tutto il resto attorno fu eroso, ma questo sperone roccioso resistette perché è molto più duro.
Sempre ad Anna Elena devo questa foto del Monte dei Corvi, nel Parco Naturale del Conero, in provincia di Ancona. Le sue rocce registrano con continuità l’evoluzione geologica delle rive del mar Adriatico dal Miocene inferiore (circa 23 milioni di anni fa) al Pliocene inferiore (circa 3,5 milioni di anni fa). Durante l’orogenesi appenninica, il fondo marino con i suoi sedimenti stratificati si piegò, si sollevò ed emerse dal mare formando il Monte Cònero. Per saperne di più, cliccate qui.
Un altro modellino geologico, ed un'altra sciccheria: una "faglia di affondamento" che illustra lo spaccarsi della crosta terrestre in seguito a forze tettoniche, con il sollevamento di una parte e l'affondamento dell'altra. Lo sfregamento fa sì che le rocce si carichino di energia elastica e, alla lunga, finiscano per liberarla tutta d'un colpo, producendo un terremoto. Inoltre una faglia spesso rappresenta l'embrione di un nuovo oceano in formazione.
Stavolta possiamo vedere un modello di strati geologici orizzontali, del tutto privi di direzione e di affondamento. Nello specifico si tratta di una sezione del Gran Canyon del Colorado. Esso si è formato in seguito alla diversa erodibilità dei diversi strati sotto l'azione dilavante dell'acqua del fiume Colorado: in principio il fiume ha inciso rocce molto dure, che ostacolavano l'erosione verticale, favorendo quella orizzontale. Ciò ha dato vita ad una vallata assai larga che poi si restringe bruscamente.
Ed ecco appunto una spettacolare foto del Grand Canyon del Colorado, ripresa nell'estate 2009 da Edoardo Tovaglieri, che ringrazio mille volte per avermi permesso di pubblicarla. In questa zona si trova esposta una delle sequenze di storia geologica più complete dell'intero pianeta, rappresentando un periodo di quasi due miliardi di anni della storia della Terra in questa parte del Nord America. La foto mostra perfettamente i vari strati di roccia depositatisi nel corso dei milioni di anni e scavati poi dall'azione del fiume Colorado.
Quarto modellino, che illustra in modo efficace il formarsi di un ghiacciaio per lo scorrimento verso valle di immense quantità di ghiaccio. i ghiacciai possono essere alpini, formati da un bacino dove si raccolgono le nevi, che si trasformano successivamente in nevato, e da un bacino di ablazione a forma di lingua glaciale che scende lungo una valle; oppure pirenaici, formati soltanto da un bacino collettore; i ghiacciai norvegesi sono formati da un'ampia calotta dalla quale si dipartono più lingue che scorrono lungo le valli; quelli himalaiani invece si originano dalla fusione di più ghiacciai alpini.
Quello che qui vedete, fotografato all'alba del 14 ottobre 2014, è il ghiacciaio di Bossons, sul lato nord (e quindi francese) del massiccio del Monte Bianco. Esso parte praticamente dal versante nord della vetta del Monte Bianco ad un'altezza di circa 4800 m e scende fino alla frazione di Bossons del comune di Chamonix, posta a quota di 1500 m. Nelle sue vicinanze si apre l'ingresso francese del traforo del Monte Bianco; su un suo sperone è costruito il rifugio dei Grands Mulets.
Quella qui visibile è una foto del lago di Lugano, scattata il 21 maggio 2010 dal sottoscritto. Questo lago è detto anche Ceresio (probabilmente dal celtico "ramificato"), è profondo ben 288 metri ed è un tipico lago di origine glaciale, formatosi al termine dell'ultima glaciazione circa diecimila anni fa. A quell'epoca la regione oggi occupata dal lago era ricoperta da uno strato di ghiaccio di spessore superiore al chilometro, che spianò anche la cima di alcune montagne, come si vede sullo sfondo. Melide e Bissone, che si affacciano su sponde opposte del lago, sono collegate da un ponte che poggia le sue fondamenta sulla morena frontale lasciata dal ghiacciaio dopo il suo ritiro!
Nuovo modello che illustra una valle originata dal corso di un fiume (certamente il tipo più comune di valle). All'azione erosiva delle acque, tanto maggiore quanto più forte è la pendenza da superare, si accompagna l'azione di deposito dei detriti trasportati dal fiume. Tale è l'origine per esempio della Pianura Padana. Naturalmente i corsi fluviali possono anche trovare vie diverse e nuovi alvei, e ciò determina anche la complessa storia e la morfologia delle valli di questo tipo.
Ed ecco illustrata la formazione di un canyon, dovuta ad un torrente che incide con forza il proprio letto in rocce coerenti e molto resistenti, e genera una valle molto stretta, profondamente incassata nelle formazioni erose e con pareti molto ripide, se non addirittura a strapiombo. Questa azione erosiva è in genere dovuta a massi e ciottoli che il corso d'acqua trasporta sul fondo per trascinamento, durante le proprie piene. L'effetto di tali eventi erosivi, prolungato nel tempo, può generare forme davvero spettacolari come il celebre Gran Canyon del Colorado, lungo 446 Km e profondo fino a 1.600 metri!
Ed ecco un'altra foto del Gran Canyon National Park, sempre ripresa da Edoardo Tovaglieri, in cui sono ben visibili i principali strati di roccia sedimentaria esposti dall'erosione delle acque. La maggior parte di questi strati di roccia furono depositati in mari caldi e poco profondi, vicino a coste marine da tempo scomparse. Sono presenti però sia sedimenti marini che terrestri, incluse dune sabbiose fossilizzate derivanti da un deserto ormai estinto. Davvero una vista da non perdere!
Non è da meno anche il Bryce Canyon, nello stato dello Utah. In realtà il celebre Bryce Canyon non è propriamente un canyon, ma un enorme anfiteatro originatosi dall'erosione della sezione orientale dell'altopiano Paunsaugunt. Per 200 giorni all'anno la temperatura oscilla intorno a 0 °C; durante il giorno l'acqua si infiltra nelle fratture della roccia, durante la notte si congela espandendosi del 9%. L'acqua ghiacciata esercita così una forte pressione sulla roccia che finisce per frantumarsi; anche le precipitazioni acide disciolgono lentamente il calcare erodendo le cime e portando via i detriti. La foto della spettacolosa fenditura nella roccia è sempre dovuta a Edoardo Tovaglieri.
Grazie alla gentilezza della collega Gloria Nobili posso pubblicare nella galleria queste foto, da lei già pubblicate nel sito www.oscartext.com (come rivela la scritta in sovrimpressione), le quali mostrano finalmente un canyon nostrano, e per la precisione uno dei più lunghi e profondi canyon delle Alpi, il Liechtensteinklamm vicino a Sankt Johann im Pongau, una piccola città nelle Alpi austriache nel cuore del Lander di Salisburgo (sito web www.liechtensteinklamm.at). Si tratta di una spettacolare gola naturale, attraversabile a piedi mediante un percorso di passerelle, ponti e tunnel che consentono di raggiungere una cascata alta 50 metri alla fine della gola.
L'erosione da parte delle acque ghiacciate porta ad altre spettacolari formazioni geologiche, come mostra quest'altra foto ripresa da Edoardo Tovaglieri nel Bryce Canyon National Park, che illustra un incredibile arco di roccia. Gli archi sono buchi naturali che si formano lungo le fratture di muri di roccia sottili. Esiste una differenza tra archi e ponti: i ponti sono scavati da acqua corrente, gli archi invece da qualunque altro elemento naturale. Al Bryce Canyon molti degli archi sono stati scavati da infiltrazioni di ghiaccio. Quello in figura è il più grande del parco, detto « Natural Bridge »!
Ed ecco altri straordinari archi di roccia ripresi dentro l'Arches National Park, nello Utah, sempre pubblicati nel mio sito grazie alla generosità di Edoardo Tovaglieri. Questo parco (il cui nome dice tutto) è situato su un letto salino sotterraneo, depositato più di 300 milioni di anni fa quando un mare sommerse la regione e poi evaporò. Per milioni di anni i residui delle alluvioni, i venti e gli oceani che si formarono e scomparvero ricoprirono questa formazione. Le profonde fratture nella terra resero la superficie ancora più instabile, portando alla formazione di faglie che hanno contribuito allo sviluppo degli archi.
Nel corso del tempo l'acqua filtrò attraverso le crepe superficiali, le giunzioni e le cavità. Il ghiaccio formatosi nelle fenditure, come detto sopra, la fece esplodere in detriti; il vento successivamente li eliminò lasciando delle pinne scoperte, sottili muri isolati di arenaria. Gli agenti atmosferici aggredirono queste pinne, erodendo la roccia. Molte di queste si frantumarono, altre più resistenti sopravvissero nonostante le sezioni mancanti. Queste ultime diventarono archi, come quelli sottilissimi visibili in questa foto di Edoardo Tovaglieri.
Il parco degli Archi non mette in mostra solo archi propriamente detti, ma anche spirali, rocce in equilibrio, pinne di arenaria e monoliti erosi. Questa foto di Edoardo Tovaglieri illustra proprio una delle più spettacolose rocce in equilibrio dell'intero parco  Il sale sotto pressione non è stabile e il letto salino, sottoposto all'enorme pressione dei detriti che lo sovrastavano, si riposizionò, spingendo gli strati di roccia sovrastanti verso l'alto, che diedero vita a cupole, archi e pinnacoli, mentre intere sezioni sprofondarono sotto forma di cavità. I depositi del parco si estendono per un arco temporale che va addirittura dal Carbonifero al Neozoico.
Ed ecco la più straordinaria tra tutte le immagini scattate per il mio sito da Edoardo Tovaglieri, che lui stesso mi ha chiesto di pubblicare. La avete riconosciuta? Certamente la avrete ammirata in mille film Western: si tratta della Monument Valley, al confine tra Utah e Arizona, in una zona abitata dai Navajos. La pianura, di origine fluviale, è cosparsa da grande guglie rocciose dette mesas, edifici naturali dal la forma di torri dal colore rossastro causato dall'ossido di ferro, con la sommità piatta; alla base si accumulano detriti composti da pietrisco e sabbia.
Queste guglie sono tra le più sottili di quelle visibili nel Parco Nazionale della Monument Valley, e con grande sfoggio di fantasia vengono chiamate "The Three Sisters". Le guglie sono prevalentemente costituite da arenaria rossa formatasi nel periodo Giurassico, circa 160 milioni di anni fa. L'Attività vulcanica ha poi contribuito a creare alcune delle formazioni più straordinarie della Monument Valley, la quale, nonostante il suo nome, non è una valle ma una pianura alluvionale. Qui il regista John Ford girò i suoi immortali film western, ma vi furono girate anche scene di "Ritorno al Futuro 3", "Wild Wild West", "Windtalkers" ed altri. Grazie infinite a Edoardo Tovaglieri per la sua generosità nei miei confronti!
Non c'è però bisogno di andare oltreoceano per osservare spettacolari formazioni geologiche. Fra quelle "nostrane" c'è il famoso Buso dei Giganti, sui Colli Euganei, qui ritratto in una foto speditami dall'amico Enrico Pizzo. L'erosione ha modellato un vero e proprio pinnacolo di trachite traforato da parte a parte! La leggenda racconta che qui di notte si radunavano intere bande di briganti, i quali avevano a disposizione una posizione panoramica ottimale per controllare il territorio sottostante. Nella roccia sono stati scolpiti dei gradini che conducono ad una inferriata, la quale chiudeva il "Buso" vero e proprio. Si narra che l'ultimo dei briganti dell'ottocento si pentì e divenne eremita, vivendo sul Buso fino alla propria morte.
La foto, da me stesso scattata nell'agosto 1988, mostra un caratteristico paesaggio delle grotte di Betharram, nei Pirenei francesi; quella qui fotografata è chiamata la "colonna gigante", ed è stata originata dal congiungimento di una stalattite con una stalagmite. Per realizzare un edificio calcareo del genere sono necessarie centinaia di migliaia di anni!
L'azione del mare sulla terraferma può dar vita ad una spiaggia, cioè un tratto di litorale coperto di sabbia, pianeggiante o in lieve pendìo, che digrada verso il mare ed in genere continua sotto il livello dell'acqua con un fondale basso. La formazione di una spiaggia è dovuta a fenomeni erosivi, che formano un tipico sedimento arenaceo, e a correnti marine che regolano l'accumulo di sabbia in punti dove la velocità della corrente scende tanto da non poter più trattenere le particelle solide in sospensione.
Questo è il risultato dell'erosione marina su un promontorio roccioso prospiciente la costa: si forma una scogliera. Quelle raffigurate in questo modellino sono le celeberrime bianche scogliere di Dover. Dirimpetto ad esse se ne trovano analoghe a Cap Gris Nez vicino a Calais, in Francia. Si pensa che un tempo le due scogliere, che devono il loro colore alla loro componente principale, il gesso, fossero unite, ma poi l'erosione marina, i cui segni sono ben visibili sulle bianche scogliere, ha aperto il canale della Manica.
L'ultimo modellino della serie presenta un altro tipo di scogliera, un litorale roccioso più frastagliato e basso del precedente, formato da rocce che non sono soggette all'erosione del mare né degli agenti atmosferici. in riva al mare o ad un fiume. La costituzione delle rocce può essere di origine sedimentaria o vulcanica; nel primo caso si tratta di basalti e graniti, nel caso di sedimenti invece si osservano calcite o dolomia
Quanto mostrato nel modellino precedente è qui visibile in questa fotografia scattata nel luglio 2008 dalla mia collega ed amica Anna Elena Galli, che raffigura la Ponta de Sao Lourenço a Madeira, Portogallo. Essa si trova all'estremità orientale dell'isola, ed è un luogo dove una fantasmagorica combinazione di rocce, scogli e mare crea una delle maggiori meraviglie naturalistiche d'Europa. L'erosione da parte delle onde è in piena attività, e presto anche i faraglioni visibili scompariranno sotto l'oceano.
L'amica Anna Elena mi ha messo a disposizione anche questa magnifica fotografia dello stretto che separa Porto Santo dall'Ilhéu de Baixo, entrambi nell'arcipelago portoghese di Madeira. Data per scontata l'origine vulcanica delle isole, è evidente che, come detto nella didascalia della foto soprastante, questo stretto è dovuto all'erosione continua da parte del mare, che ha finito per separare le due isole: lo stretto è largo non più di 400 metri. Un tempo si credeva che questi stretti fossero presidiati da mostri marini, i quali chiedevano sacrifici umani per lasciar passare le navi: brrr!
Per lo studio dei minerali non occorre una grande attrezzatura. Uno strumento indicato è questa piccozza facilmente trasportabile, con la punta d'acciaio protetta da una guaina di cuoio; è indicata per staccare frammenti di roccia da massi e pareti, per spaccarli e per separare eventuali strati di rocce sedimentarie alla ricerca di fossili. Accanto a questa piccozza vediamo un pezzo di tufo calcareo del bacino della Loira, originato dalla sedimentazione marina in acque tranquille durante il periodo Cretacico, che proprio con la piccozza indicata è stato staccato.
Cominciamo ora una lunga galleria di campioni di rocce di tutti i tipi provenienti da tutto il mondo. Per primi, ecco due frammenti di lava riolitica da me stesso prelevati molti anni fa sul monte Etna. Essendosi solidificata sulla superficie terrestre o a modesta profondità, essa presenta una struttura granulare piuttosto fine. Se invece la solidificazione avviene ad alta profondità si ha una struttura granulare grossolana detta granitica (tipica del granito).
Questi sono appunto due campioni di granito, il miglior esempio di roccia ignea o magmatica, formatasi in seguito alla solidificazione dei magmi contenuti nelle profondità della crosta terrestre. Se la solidificazione avviene in superficie si parla di rocce ignee effusive; siccome i graniti solidificano ad alta profondità si parla di rocce ignee intrusive. A sinistra si vede un campione di granito raccolto presso Montorfano (NO), a destra uno di granito rosa di Baveno (VB).
Le rocce ignee che contengono i materiali che cristallizzano per ultimi sono formate per lo più da feldspati e silice (quarzo), e per questo sono dette felsiche o granitoidi, appunto come il granito. Intermedie fra le felsiche e le mafiche (vedi più sotto) sono le cosiddette rocce andesitiche, ricche di andesina e di orneblenda. Se è ancora presente del quarzo come nei graniti si ha la roccia in figura, chiamata diorite (l'esemplare in figura viene da Valdisotto, in Valtellina) Alcuni minerali colorati (anfiboli, miche, pirosseni) le conferiscono il caratteristico tessuto intermedio tra graniti e basalti.
La presenza di quantità significative di pirosseni, silicati tipici delle rocce magmatiche, segna la transizione dalla diorite al gabbro, una roccia intrusiva più scura della diorite, ricca di plagioclasio basico, sempre caratterizzata da una grana piuttosto grossa. La formazione di tutte queste rocce è spesso uno dei risultati del fenomeno attraverso il quale si formano le catene montuose; spesso affiorano in grandi ammassi che occupavano il nucleo di catene poi erose, e vengono utilizzate per l'edilizia e per lapidi e monumenti, grazie alla loro bellezza, messa in risalto quando la roccia viene levigata e lucidata.
Passiamo ora alle rocce ignee effusive con il porfido quarzifero o liparite, il cui nome deriva dal greco porphyreos, "purpureo". È costituito da fenocristalli di feldspato alcalino (potassico e sodico), immersi in una pasta olocristallina granulare microfelsitica. L'esemplare mostrato viene dai colli Euganei. I porfidi quarziferi sono molto diffusi e, per via dell'alta resistenza alla compressione e all'abrasione, venivano utilizzati un tempo per la pavimentazione stradale, tagliati in forma di cubetti.
Ed ecco una tipica formazione di granòfiro, una roccia metamorfica della famiglia dei porfidi, caratterizzata da una struttura microcristallina, qui fotografata tra i comuni di Brusimpiano e Porto Ceresio, sulla sponda varesina del Lago di Lugano, il 21 maggio 2010. Il granòfiro rappresenta un prodotti di cristallizzazione del magma granitico ed è spesso associato a rocce effusive di composizione chimica simile, per lo più quarzo e feldspato. Nella parte sinistra della foto si può osservare quella che si chiama in gergo l'immersione degli stati di rocce: la pressione della zolla africana contro quella eurasiatica è stata così forte, da rendere gli strati addirittura quasi verticali! La formazione di queste rocce risale al Permiano.
Le rocce ignee che contengono i materiali che cristallizzano per ultimi sono invece povere di silice ma ricche di magnesio e ferro, e per questo sono dette mafiche o basaltiche. Il contenuto di ferro fa sì che siano più scure e più dense delle altre rocce ignee. Tipico esempio ne è proprio il basalto (quello in figura viene da S. Giovanni Ilarione, provincia di Verona), una roccia finemente granulare, il cui colore varia dal nero al verde scuro, composta da pirosseni e plagioclasi ricchi di calcio. Alcune isole vulcaniche come l'Islanda o le Hawaii sono costituite essenzialmente da basalto, così come quasi tutto il fondale degli oceani.
Nel corso delle eruzioni vulcaniche, grossi frammenti di lava liquida vengono espulsi in aria, dove solidificano assai rapidamente, senza avere il tempo di cristallizzare. Il brusco raffreddamento produce così una struttura vetrosa, caratteristica della roccia chiamata appunto "vetro vulcanico" o ossidiana (il blocco in figura viene dall'isola di Lipari). Tipicamente è scura e lucida, assai dura e fragile, e si rompe secondo profili taglienti. Statuette di ossidiana vengono vendute ai turisti come souvenir.
Analoga all'ossidiana come composizione chimica, e cioè costituita da un vetro vulcanico con la stessa composizione della lava acida, è la pietra pomice, che però ha un aspetto completamente diverso: ha infatti un aspetto tipicamente spugnoso, essendo formata da un numero incalcolabile di vescicole, prodotte dai gas mescolati al magma viscoso. Ciò la rende estremamente leggera: in qualche caso può addirittura galleggiare sull'acqua. Industrialmente è usata come abrasivo dei metalli (ma anche, in casa, dei calli della cute) e per realizzare isolanti. Anche questo bel campione proviene da Lipari, nelle isole Eolie.
I lapilli (a sinistra) derivano il loro nome dal latino lapillus, "pietruzza", e rappresentano piccoli frammenti di lava, con diametro compreso tra 5 e 50 mm, proiettati in aria durante un'eruzione vulcanica; i frammenti più piccoli prendono il nome di cenere vulcanica (a destra), quelli più grossi di bombe vulcaniche. Ampi strati di lapilli e di cenere vulcanica ricoprirono Pompei, Ercolano e Stabia durante la catastrofica eruzione del Vesuvio del 24 agosto 79 d.C.
Un'altra breve escursione nello spazio per mostrare altri campioni di rocce vulcaniche (cortesia della NASA), ma stavolta provenienti nientemeno che da... Marte. La straordinaria fotografia è stata scattata dal robottino semovente Spirit, ed illustra alcuni massi di probabile origine vulcanica, di circa mezzo metro di diametro, adagiati sulla rossa sabbia di una collina marziana. La loro probabile origine è attestata dalle superfici estremamente ruvide di queste pietre, probabilmente residui di vescicole provocate dal gas incandescente eruttato assieme alla lava da un vulcano marziano in qualche epoca lontana.
Ed eccoci arrivati nel regno delle rocce sedimentarie, derivate dalla compattazione dei sedimenti trasportati da acqua, vento, ghiacciai, eccetera. Una tipica roccia sedimentaria è il conglomerato, come testimonia il suo nome, i quali rappresentano le sedimentazioni detritiche più grossolane, essendo formate da ciottoli e da grossi frammenti di rocce cementati fra di loro, e per questo impossibili da lavorare perchè si sgretolano. In Italia è famoso il conglomerato di Portofino.
I conglomerati si classificano secondo le proprietà dell'agente che trasporta sassi e ciottoli e secondo le proprietà petrografiche di questi ultimi. Siccome il trasporto dei ciottoli richiede una notevole energia, quelli più grossi restano frequentemente presso il luogo in cui si sono formati per frammentazione delle rocce originarie, e conservano spigoli vivi. I conglomerati di questo tipo vengono chiamati brecce. Un esempio è costituito dalla "breccia di falesia", formata dall'azione delle onde su di una costa alta.
Un bell'esempio di breccia è rappresentato da questa curiosa formazione rocciosa che si trova sulle colline circostanti Rasa di Varese, detta comunemente "il menhir" forse sotto la suggestione dei fumetti di Asterix. Presumibilmente la formazione faceva parte di una colonna di conglomerato grossolano che però, a poco a poco, è stata dilavata dalle precipitazioni e sgretolata dall'azione dell'acqua che penetra nelle sue fessure e ghiaccia in inverno, come dimostra la parte superiore spianata.
I conglomerati formati da ciottoli più o meno arrotondati uniti da abbondante matrice silicea, prendono invece il nome di puddinga (dall'inglese pudding, "budino"). Di solito essa si forma in seguito al trasporto effettuato da correnti fluviali e marine senza eccesso di detriti in sospensione. Spesso questi conglomerati sono stratificati insieme alle arenarie, e testimoniano l'aumento di velocità delle correnti che hanno trasportato il materiale sabbioso. Questo campione viene da Rovato (BS).
I cosiddetti "paraconglomerati" sono costituiti  da processi sedimentari diverso, trattandosi di depositi clastici in cui massi di notevole volume coesistono con materiale sabbioso ed argilloso prevalente. Ad essi si dà anche il nome di arenaria, e deriva di solito dalla cementificazione di una sabbia. In genere la massa detritica fine è depositata da agenti di trasporto incapaci di effettuare una selezione granulare tra componenti maggiori e minori. Le arenarie costituiscono spesso le morene dei ghiacciai. Quest'esemplare viene da Sarnico (BG).
Le argille sono le rocce sedimentarie più comuni, costituendo circa la metà del volume di tutte le rocce sedimentarie antiche. Anche l'argilla è di origine clastica, cioè dovuta allo sgretolamento di grandi volumi di roccia, ma è di aspetto terroso e grasso, e fu lavorata dall'uomo fin dalla preistoria per ottenere suppellettili, vasi e statuine. Una roccia che contiene calcare ed argilla in quantità uguali, come il campione in figura raccolto presso Venasca (PC), viene detto marna; viene usata in agricoltura per correggere l'acidità dei terreni, e in edilizia per produrre cemento.
A Santa Maria del Monte, località sopra Varese sulla quale sorge il famoso Sacro Monte con le sue secolari cappelle, è possibile osservare queste formazioni dette marne del Pizzella, dal nome di una montagna vicina. Presumibilmente questa roccia molto friabile (è stata spianata facilmente per realizzare il parcheggio del Santiario) è stata originata dalla precipitazione sul fondo del mare di particelle organogene, derivate dai microscopici scheletri o gusci calcarei di esseri viventi, nel periodo chiamato Triassico inferiore, circa 220 milioni di anni fa, e poi spinta fino a 880 m di quota. L'alternarsi di diversi colori dimostra la diversa composizione delle marne.
Non tutte le rocce sedimentarie sono di origine clastica; alcune sono di origine chimica. Ad esempio si dicono evaporiti le rocce sedimentarie prodotte dalla precipitazione di sali disciolti nelle acque di bacini lagunari o lacustri, in seguito alla forte evaporazione causata da un clima caldo e arido. Se a precipitare è solfato di calcio (CaSO4) si forma il comune gesso, molto utilizzato in edilizia e per scrivere sulle lavagne. Di solito i gessi si trovano associati in formazioni sedimentarie costituite, dal basso in alto, da sali con solubilità via via crescente, che quindi precipitano in ordine progressivo durante l'evaporazione.
Questa magnifica rosa del deserto proveniente dall'Algeria fa parte della collezione dell'autore di questo sito, e trae il nome dalla caratteristica forma delle concrezioni, che vengono ritrovate per lo più nei deserti. Non si tratta di altro che di gesso, cristallizzatosi in aggregati a rosetta fatte di lamelle intersecantesi, così da simulare effettivamente il fiore della rosa. L'esemplare in questione ha 11 milioni di anni, e quindi risale al Miocene. Se le masse lamellari di gesso sono finemente fibrose, il minerale prende invece il nome di sericolite; se forma masse compatte si ha l'alabastro. La durezza del gesso definisce il secondo gradino della scala di Mohs.
Molto usato in edilizia e per la fabbricazione di statue e suppellettili ornamentali è l'alabastro calcareo, di cui vediamo qui un campione proveniente da Soave (VR). Si tratta di una varietà di calcite (vedi più sotto) traslucida e compatta, di colore vario, che si deposita in strati e presenta lucentezza vitrea o madreperlacea, tipicamente zonata (si parla ad es. di alabastro onice); altre varietà sono l'alabastro arabescato, cipollino, cenerino, opalino. L'alabastro gessoso è invece una varietà di gesso.
Le rocce sedimentarie derivano dalla litificazione dei sedimenti. La maggior parte dei sedimenti calcarei litifica in un tempo molto breve, e addirittura alcune rocce calcaree si presentano già coerenti al momento della sedimentazione. Questo è il caso del travertino, che litifica per soluzione e ricristallizzazione della calcite ad opera delle acque interstiziali. Questa roccia si forma presso sorgenti, cascate e bacini lacustri ed ha una tipica struttura porosa. I Romani lo utilizzarono per edificare i principali monumenti della Città Eterna; "Roma de travertino", la chiama infatti a fine anni trenta il grande poeta Trilussa.
Il calcare è invece una roccia sedimentaria di origine organogena, caratterizzata da una percentuale assai elevata di carbonato di calcio (oltre il 50 %). Il carbonato di calcio in soluzione nelle acque marine viene fissato dagli organismi viventi per formarne lo scheletro o l'esoscheletro; dopo la morte degli organismi, essi precipitano sui fondali dove si compattano e danno vita al calcare, che spesso, come in questo caso, contiene dei fossili (calcare fossilifero). In francese le vaste formazioni geologiche di calcare sono dette "craie", da cui viene il nome di Cretaceo. Anche questo campione viene da Soave (VR).
Quella ritratta in questa fotografia, scattata il 21 maggio 2010 dall'autore di questo sito, è una grande balconata calcarea visibile su una collina presso Rasa di Varese, frazione dell'omonimo capoluogo lombardo. Queste rocce calcaree si formarono come detto sul fondo del mare, ma poi vennero spinte fino a queste altezze dall'incessante pressione della zolla africana contro la zolla eurasiatica, pressione che ridusse il Mediterraneo da una larghezza di 500 Km fino alle attuali modeste dimensioni, e che è tuttora in atto, anche se il sollevamento è ampiamente controbilanciato dall'erosione.
La dolomia (dal nome del geologo francese D. Dolomieu) è una roccia organogena con struttura cristallina, spesso associata al calcare, che nelle Alpi ha dato vita a spettacolari formazioni montuose: le Dolomiti, ricche di guglie, muraglie e torri che conferiscono loro una bellezza invidiata al mondo intero; la dolimite si trova però anche in Sicilia e Sardegna, anche se è più antica. Dalla dolomite si possono estrarre sali di calcio e magnesio, ed è utilizzata nel trattamento delle acque naturali acide.
Esistono anche rocce sedimentarie non detritiche, la cui origine non può essere messa in rapporto con la sedimentazione dei gusci calcarei di organismi preistorici. Si tratta di rocce assai dure, costituite da quarzo amorfo o microcristallino, incluse sotto forma di noduli in rocce di diversa composizione; tale tipo di roccia prende il nome di selce. Secondo alcuni si è formata per sostituzione incompleta di sedimenti organici da parte di silice. Le selci furono scheggiate dai nostri antenati per produrre asce o punte di freccia, dando il via all'era dei manufatti.
Vi sono anche rocce sedimentarie piroclastiche, dovute cioè all'attività esplosiva dei vulcani. Caratteristici sono i tufi vulcanici come quello in figura a sinistra, proveniente da Viterbo. Essi si sono depositati per ricaduta delle ceneri conseguenti ad un'esplosione vulcanica: le rovine di Ercolano a tutt'oggi sono ricoperte da uno spesso strato di tufo. A destra si vede un esempio di tufo detto peperino per la sua tessitura, ricco di cristalli di leucite, ottimo come materiale da costruzione.
Con questa fotografia, da me ripresa durante un'escursione domenicale al Sacro Monte di Varese,  entriamo nel campo delle rocce metamorfiche, le quali, come dice il nome, derivano dalla metamorfosi fisico-chimica di rocce ignee o sedimentarie in seguito ad alte temperature e pressioni, come dimostra la loro inclinazione ben visibile in figura. Le rocce in questione sono dolomie e la loro formazione risale al Triassico superiore, circa 210 milioni di anni fa.
I processi metamorfici in genere avvengono a grandi profondità nella crosta terrestre. Qui vediamo un esempio di gneiss granitico, una roccia metamorfica a grana cristallina piuttosto grossolana, in genere originata dal metamorfismo regionale di rocce sedimentarie; per lo più contiene quarzo e feldspati. Questo campione viene da Beura (NO). II termine gneiss deriva da una espressione mineraria sassone usata fin dal 1557, derivata dal ceco "hniso" (russo "gnisdo"), che significa "nido", perchè lo gneiss era associato a filoni metalliferi, oppure dall'antico tedesco "ganeiste", "scintilla", essendo usato come pietra focaia.
Questo gneiss è chiaramente visibile presso Brusimpiano, comune che si affaccia sulla sponda occidentale del Lago di Lugano (la fotografia è stata scattata dall'autore di questo sito il 21 maggio 2010). Si tratta di una formazione geologica assai antica, perchè risale addirittura al Devoniano, cioè ad oltre 360 milioni di anni fa. La roccia è estremamente dura, e per essere staccata necessita di una piccozza; quando si formò, i dinosauri non erano ancora comparsi sulla Terra!!
La grana cristallina del micascisto visibile in questa figura e proveniente dal lago di Como è meno grossolana di quella dello gneiss, il che fa pensare che si formi a temperature inferiori. Analogo ad esso è il cloritoscisto visibile a destra, costituito principalmente da quarzo, muscovite e clorite, da cui deriva il suo colore verdognolo. Il nome di queste rocce deriva dal greco schistòs ("spaccato"), e deriva dalla loro proprietà di fendersi lungo piani paralleli, detti piani di scistosità.
La fotografia mostra un campione di ardesia della Val Brembana, un ottimo esempio di argilloscisto: come dice il nome, deriva da rocce argillose sottoposte a metamorfismo regionale di lieve entità. La sua composizione mineralogica è analoga a quella dell'argilla da cui deriva, ma la sua tessitura è caratterizzata da piani di scistosità. Per questo l'ardesia si rompe in lastre sottili e piane, utilizzate per ricoprire i tetti delle case di montagna; la si utilizza anche per realizzare lavagne.
La lavagna è una varietà di ardesia molto scura, che si sfalda in lastre perfettamente piane, nere e lucidissime; dal suo impiego nelle aule scolastiche ha preso nome la comune "lavagna" per la scrittura con il gesso. Il suo nome deriva dall'omonima cittadina ligure dove questa pietra si trova in abbondanza; secondo alcuni deriva invece da lava, per la somiglianza del colore, oppure da una parola celtica (leac, "pietra"); in tal caso sarebbe la cittadina ligure ad aver preso nome dalla pietra, e non viceversa!
Il metamorfismo regionale dei calcari dà invece origine al marmo, di cui qui vediamo un bellissimo campione bianco da Carrara (MS). Esso è costituito da un mosaico di calcite o dolomite cristallina, eventualmente accompagnata da altri minerali che conferiscono al marmo particolari colorazioni, assai ricercate da scultori ed architetti. L'Italia è ricchissima di marmo, specialmente sulle Alpi Apuane: una leggenda racconta che il Creatore aveva usato con parsimonia il marmo per edificare le montagne, e così, avendolo avanzato quasi tutto, lo utilizzò in blocco per edificare quelle splendide montagne. Poetico, no?
La mineralogia è quel ramo della geologia che studia la composizione chimica e le proprietà fisiche dei minerali costituenti le rocce; essa fu iniziata da Giorgio Agricola (vero nome Georg Bauer, 1494-1555), autore del "Tractatus de Lapidibus". I minerali si distinguono a seconda delle loro proprietà chimiche: solfuri, fluoruri, ossidi, carbonati, nitrati, solfati, silicati, ecc. Vi sono però anche degli elementi nativi, com'è il caso di questo blocco di grafite proveniente dalla Val Chisone (TO), che altro non è se non carbonio puro, organizzato in un reticolo cristallino esagonale. La si usa tradizionalmente nelle mine di matite.
Anche questo è un elemento nativo: si tratta dello zolfo, classico non metallo che fa parte del 3° periodo e del 6° gruppo della tavola periodica. Trovandosi in natura allo stato nativo, è uno dei pochi elementi conosciuti dall'uomo fin dalla più remota antichità (è menzionato anche nella Bibbia); solo nel 1777 tuttavia fu riconosciuto come un elemento e non come un composto. Lo si trova in miniere dette solfare, giacimenti di solito associati ad attività vulcanica; in Italia se ne trovano soprattutto in Sicilia. Sotto i 95° lo zolfo cristallizza in cristalli rombici, al di sopra in cristalli monoclini. Ha larghissimi usi industriali.
Passiamo ad un metallo nativo: non può che trattarsi del rame, abbastanza diffuso in cristalli cubici o ottaedrici, anche se difficilmente in grandi quantità. Il maggior giacimento di rame nativo è quello di Keweenaw sul lago Superiore, dove i filoni attraversano rocce basaltiche; questo esemplare proviene invece dall'Arizona. In Italia è stato trovato rame nativo nei giacimenti cupriferi dell'Impruneta, presso Firenze. Esso venne rivenuto dai nostri progenitori e se ne iniziò la lavorazione nell'attuale valle del Danubio intorno al 5000 a.C.; ciò diede vita all'età dei metalli e, precisamente, all'età del rame (vedi).
Tra i minerali, la classe dei solfuri è una delle più ricche; in essi lo zolfo è quasi sempre associato a selenio, tellurio, antimonio, bismuto ed altri elementi in tracce. Uno dei più importanti minerali di questa classe è la galena o solfuro di piombo (PbS), che rappresenta il principale minerale da cui si estrae industrialmente il piombo, perchè ne contiene oltre l'86 %. Dato che contiene anche uno 0,1-0,3 % di argento, è talvolta utilizzato anche per estrarre questo metallo; può avere anche tracce di oro. Le miniere di galena del Laurion, presso Atene, erano sfruttate già in epoca classica; in Italia se ne trova in Sardegna e sulle Alpi Apuane. Ha lucentezza metallica e si sfalda tipicamente lungo le facce di un cubo. Questo campione viene da Stava (TN).
Il cinabro (in figura un campione proveniente dal Monte Amiata) contiene solfuro di mercurio (HgS) ed è il principale minerale per l'estrazione di questo metallo liquido. Ha un tipico colore rosso vermiglio (si parla infatti di "color cinabro"), ed infatti le donne romane lo usavano per dipingersi le labbra; tipico anche lo splendore adamantino, l'apparenza traslucida con frattura ineguale, e la sua alta densità. Si può presentare raramente sotto forma di cristalli romboedrici o di aghi prismatici. I principali giacimenti si trovano nello Hunan (Cina) e ad Almadén (Spagna); qui gli Arabi estraevano il mercurio fin dal Medioevo.
La calcopirite è un importantissimo minerale di rame (allo stato puro ne contiene quasi il 35 %) del tipo CuFeS2. Si presenta in cristalli di aspetto tetraedrico, dalla lucentezza metallica. In presenza di umidità essa dà vita a malachite. A volte la si confonde con la pirite, con la quale del resto è sempre associata; tuttavia, polverizzando i due minerali, ci si accorge che la pirite dà una polvere nera, la calcopirite una verdastra. Questo esemplare viene da Campiglia, in provincia di Livorno.
La pirite (questo bel campione viene dal Perù) contiene solfuro di ferro (FeS2) ed è il solfuro più abbondante nell'intera crosta terrestre; contiene anche nichel, cobalto, arsenico e rame e oro. La pirite si presenta sotto forma di cristalli cubici riuniti in masse granulari; ha colore giallo chiaro che ricorda quello dell'oro, ed infatti viene chiamata anche "l'oro degli sciocchi". La si trova in Italia nei giacimenti piemontesi di Brosso e Traversella; il principale del mondo è quello di Rio Tinto, nella Spagna meridionale. La pirite è utilizzata per la preparazione dell'anidride solforosa, da cui si ricava poi l'acido solforico.
Un solfuro di antimonio è l'antimonite, che contiene ben il 71 % di antimonio, ed è talora aurifera o argentifera. Si presenta tipicamente in bellissimi cristalli prismatici, con caratteristiche striature longitudinali. I cristalli dell'antimonite proveniente dalla miniera giapponese di Ichinokawa (isola di Shikoku) raggiungono i 50 cm! Importanti giacimenti europei sono quelli francesi, tedeschi ed ungheresi; in Italia se ne trona in Sardegna e sul Monte Amiata (GR), da cui proviene il campione in figura.
Gli alogenuri sono i minerali che contengono un alogeno legato ad un metallo; i più diffusi sono i fluoruri, che contengono fluoro. Quello in figura è un campione di fluorite delle Asturie; si tratta di fluoruro di calcio (CaF2) che cristallizza con forma cubica, più raramente ottaedrica. Può essere incolore oppure rossiccia o azzurro-violacea a seconda delle impurezze che contiene; la rara varietà nera o antozonite è di solito associata a materiali radioattivi. Spesso è fluorescente, proprietà questa che prende proprio il nome dalla fluorite. Si tratta di un minerale molto comune, talora associata a quarzo.
Sempre in tema di alogenuri, a rappresentare i cloruri non può che intervenire questo magnifico cristallo di salgemma (NaCl), proveniente dalla Polonia. I cristalli sono cubici, generalmente bianchi ma anche azzurri o violacei; se includono delle alghe microscopiche possono diventare rosa. In genere si forma in seguito all'evaporazione di antichi laghi salati o bracci di mare; lo spessore dei filoni può andare da pochi centimetri a diversi metri. Importantissimi sono i giacimenti polacchi di Wieliczka, quelli austriaci del Salzkammergut e quelli tedeschi di Stassfurt; in Italia se ne trova a Volterra e ad Agrigento. Le miniere esaurite di salgemma sono talvolta usate per stoccare rifiuti radioattivi, poiché vi è certezza che lì le infiltrazioni d'acqua non giungono.
Ed eccoci ad un bel cristallo di quarzo proveniente dall'Arkansas, con il quale lasciamo i fluoruri e passiamo agli ossidi. Infatti si tratta di ossido di silicio o silice (SiO2), che si trova tipicamente in cristalli trigonali prismatici, incolori oppure di tutti i colori immaginabili, talvolta riuniti in geodi. È uno dei minerali più diffusi della crosta terrestre, e presenta innumerevoli varietà. Il quarzo ialino, come il campione in figura è trasparente e incolore, e se è perfettamente limpido viene detto cristallo di rocca. Si noti che gli antichi credevano si trattasse di ghiaccio indurito, da cui deriva proprio il termine "cristallo"!
Una delle più belle varietà di quarzo è rappresentata dall'ametista, di un colore compreso tra il viola chiaro e il viola cupo. Il suo nome deriva dal greco améthystos, "contro l'ubriachezza", e si deve alle pretese proprietà medicamentose che gli antichi (Giorgio Agricola compreso) gli attribuivano. Rarissima nella regione alpina, l'ametista si trova soprattutto in Brasile (da cui proviene proprio questo frammento) e in Uruguay. Spesso la si trova associata all'agata, oppure all'interno di geodi, cioè cavità tappezzate internamente di grandi cristalli, assai apprezzate a scopo ornamentale.
« Subito fui rapito in estasi. Ed ecco, c'era un trono nel cielo, e sul trono uno stava seduto. Colui che stava seduto era simile nell'aspetto a diaspro e cornalina. » (Apocalisse 4, 3-4) Così San Giovanni descrive la visione di Dio sul trono, paragonandolo ad una pietra ben nota, il diaspro. Si tratta di una varietà di quarzo microcristallino, cioè privo degli spettacolosi cristalli visti sopra; è opaca e multicolore, con zone o macchie di colori differenti, il che poteva ben attagliarsi all'immagine di Dio che sembra contenere in sé tutti i colori dell'universo. È usato in gioielleria; in Italia si trova in Toscana, in Sicilia e in Sardegna.
Un'altra varietà molto compatta di quarzo è il calcedonio, un minerale criptocristallino e fibroso molto utilizzato in gioielleria come pietra dura. Anch'esso è usato nell'Apocalisse come termine di paragone per descrivere la Gerusalemme Celeste: « Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedonio... » (Ap 21, 19). A seconda dei colori si hanno molte varietà di calcedonio; quando si hanno alternanze di vari colori, come nel campione in figura proveniente dal Brasile, è chiamato agata. Bellissima, vero?
Questa foto, scattata in casa dell'autore di questo sito, mostra un bellissimo portacenere in onice, una varietà di agata, utilizzata come si vede per i più svariati scopi ornamentali. Come si è detto, quando è variamente colorata assume diversi nomi: ad esempio corniola se rossa, sardonice se bruna, ecc.; se presenta zonature di colore nettamente contrastante, come in questo caso, è detta appunto onice. Non può mancare la citazione biblica: « ...il fiume Fison scorre intorno a tutto il paese di Avìla, dove c'è l'oro,  e l'oro di quella terra è fine; qui c'è anche la resina odorosa e la pietra d'onice » (Genesi 2, 12-13)
Un'altra celebre pietra dura è il corindone, formata principalmente da ossido di alluminio (Al2O3), che cristallizza in forma romboedrica, generando cristalli di forma prismatica o tubolare. Se colorato, dà vita alle principali gemme preziose: il rubino se rosso (latino ruber, grazie ad impurezze di ossido di cromo), lo zaffiro se azzurro (dall'ebraico sappir, "la più bella"), lo smeraldo se verde, il topazio se giallo, e così via. La sua durezza è seconda solo a quella del diamante.
Passiamo agli ossidi di ferro, e non possiamo non cominciare con la magnetite (Fe2O3). Essa costituisce uno dei più importanti e pregiati minerali di ferro, e in Europa la si trova specialmente in Svezia e Russia. Il suo nome deriva dalla località di Magnesia in Asia Minore, dove Talete da Mileto (VI sec. a.C.) la estrasse e si rese conto che attirava spontaneamente chiodi di ferro (da cui il nome di magnetismo; vedi l'Armadio Virtuale di Elettromagnetismo). In Italia se ne trova specialmente a Traversella, presso Ivrea; questo campione viene da Brosso (TO).
Altro ossido di ferro è l'ematite (Fe2O3), minerale assai diffuso in molte rocce sia sotto forma di sottili lamine rossastre (come nel granito di Baveno), sia sotto forma di masse compatte; il nome deriva dal colore sanguigno (haimatites, "sanguigna"). I giacimenti più importanti dal punto di vista industriale si trovano negli USA, presso il Lago Superiore, in Brasile, negli Urali, in Svezia e in Germania. In Italia si trova sul Monte Etna e sull'isola d'Elba; il campione in figura proviene proprio da Rio Marina sull'isola d'Elba. In genere si forma per azione del vapor d'acqua sui vapori vulcanici di cloruro di ferro.
Ed ecco un campione di bauxite proveniente da Lucoli (AQ). Si tratta di una roccia sedimentaria formata da ossidi e idrossidi microcristallini di alluminio, sovente accompagnati da piccole percentuali di idrossidi di ferro. Ha un colore bruno, e viene estratta in grandi quantità in Australia, Guinea e Giamaica. L'alluminio è il terzo elemento più abbondante sulla superficie terrestre, ma per lo più lo si trova sotto forma di composti complessi, che ne rendono difficile l'estrazione. Invece la bauxite può essere facilmente convertita direttamente in allume o in alluminio metallico; di qui la sua importanza economica.
Passiamo ora ai carbonati che, tra tutti i composti costitutivi della crosta terrestre, occupano un posto di fondamentale importanza mineralogica ed industriale. Questo è un magnifico cristallo di calcite, abbondantissimo in natura, dove costituisce il componente fondamentale di molte rocce sedimentarie e metamorfiche. Si tratta di un cristallo di carbonato di calcio (CaCO3) di tipo romboedrico (se cristallizza in forma rombica dà vita all'aragonite. A seconda delle impurezze può presentarsi in tutti i colori possibili. In Italia se ne trovano bei cristalli sull'Appennino Tosco-Emiliano, in Sardegna e nel Vicentino.
Se è incolore e trasparente, la calcite prende il nome di spato d'Islanda (lo abbiamo già incontrato nell'Armadio Virtuale di Ottica per via della sua proprietà di doppia rifrazione), con lucentezza vitrea o madreperlacea. Proprio gli studi sullo spato d'Islanda permisero a Christiaan Huygens di formulare le prime ipotesi sulla struttura della materia, mentre, ai primi dell'800, l'abate francese R.J. Haüy se ne servì per stabilire una relazione tra la morfologia e la struttura dei cristalli, ponendo le basi della cristallografia moderna. Come dice il nome è abbondante presso Helgustadir, in Islanda.
Il carbonato doppio di calcio e magnesio (CaMg[CO3]2) cristallizzato nel sistema trigonale si chiama dolomite in onore del chimico francese Dolomieu (1750-1801), lo stesso che ha dato nome alle Dolomiti. Il minerale ha un aspetto bellissimo e multicolore a seconda delle impurità che contiene; in masse compatte microcristalline, costituisce il componente fondamentale delle dolomia. Discussa è la sua origine, forse in seguito al contatto tra acque calde ricche di magnesio con rocce carbonate.
Un altro bell'esempio di carbonato è questo campione di malachite del Congo, un carbonato basico di rame dal tipico colore verde malva che gli è valso in nome (in greco maláche significa "malva"). È piuttosto rara in cristalli distinti; la si trova più frequentemente in masse concrezionate. Si origina dall'ossidazione dei solfuri di rame (calcocite, covellite) a contatto con acque meteoriche ricche di anidride carbonica o con rocce carbonate; la zonatura concentrica la rende molto ricercata come pietra decorativa. I maggiori giacimenti si trovano sugli Urali, in Australia, Cile, Zimbabwe e Congo; in Italia la si trova in Sardegna.
A rappresentare i silicati abbiamo questo pirosseno di Campiglia (LI) e quest'olivina di S.Giovanni Ilarione (VR). Il primo è un silicato fibroso che cristallizza di tipo rombico o monoclino, di formula generale X2Si2O6, mentre la seconda (detta anche peridoto) è un silicato di magnesio e ferro bivalente, cristallizzato di tipo rombico, per lo più sotto forma di aggregati granulari di colore verde oliva, donde il nome. L'olivina è il componente essenziale delle rocce ignee dette peridotiti, ma la si trova anche in gabbri e basalti. Belle cristallizzazioni di olivina si trovano nel Mar Rosso e nello stato brasiliano di Minas Geiras.
Tra i silicati, il talco è senz'altro quello di più largo impiego industriale. Si tratta di un silicato di magnesio dalla formula un po' complicata (Mg3[(OH)2Si4O10]), che a volte può contenere alluminio, ferro o manganese. Si presenta sempre in lamine riunite in aggregati a rosetta (se compatti si ha la varietà detta steatite o pietra saponaria). Di solito è incolore, assume colore verdastro o bruno a causa delle impurità ed è presente in ricchi giacimenti in Austria. In Italia si trova in Val Chisone (TO). Rappresenta il primo gradino della scala delle durezze di Mohs, ed è utilizzato nell'industria tessile, della carta e come refrattario.
La tormalina (da Turamali, il nome singalese dell'isola di Ceylon) è un borosilicato fluorifero di alluminio, calcio, ferro, magnesio e sodio, che si trova spesso nelle rocce eruttive. Certe varietà, caratterizzate da un bel colore uniforme, vengono tagliate ed utilizzate come pietre dure. Nei giacimenti dello stato brasiliano di Minas Geiras se ne trova una varietà bellissima, nota come zaffiro del Brasile, per analogia cromatica. Essa presenta il fenomeno della piroelettricità, cioè l'elettrizzazione dovuta a una variazione della temperatura, che si manifesta anche nel topazio e nell'acido tartarico.
L'amianto (o asbesto) è un minerale del gruppo dei silicati, appartenente alle serie mineralogiche del serpentino e degli anfiboli. Molto comune in natura, la sua resistenza al calore e la sua struttura fibrosa lo rendono adatto come materiale per coperture di tetti, vagoni ferroviari, navi e tubazioni, ma anche per indumenti a prova di fuoco. Fino agli anni ottanta è stato utilizzato per produrre la miscela cemento-amianto, nota con il nome commerciale di Eternit, ma ben presto ci si accorse della sua elevata pericolosità: una fibra di amianto è 1300 volte più sottile di un capello umano e, se respirata, provoca orribili tumori polmonari. Oggi il suo uso è vietato in molti paesi, ma qui lo vediamo ancora usato come copertura di moderni capannoni.
Quelli visibili in questa fotografia sono alcuni tipi di carboni fossili, formatisi a partire dal seppellimento di tronchi d'albero in vaste regioni paludose del periodo detto appunto Carbonifero; le acque povere di ossigeno impediscono la putrefazione, ed il seppellimento degli stessi sotto stati di sedimento porta alla formazione di lignite e poi di litantrace, carboni relativamente giovani e teneri. Il processo di metamorfismo porta invece alla formazione di un carbone nero, lucido e duro detto antracite, il miglior combustibile ed il meno inquinante; purtroppo non è molto abbondante e la sua estrazione risulta piuttosto costosa.
Ed ora, alcune raccolte di minerali da laboratorio, che illustrano talune proprietà di questi campioni. Questa cassetta contiene un campione per ogni gradino della cosiddetta scala di Mohs o scala delle durezze, ideata dal mineralogista tedesco Friedrich Mohs (1773-1839), sulla base della proprietà di scalfitura: ogni minerale della serie è in grado di scalfire tutti i precedenti ma non i seguenti, da cui è scalfito. Gli anelli della catena sono talco, gesso, calcite, fluorite, apatite, feldspato, quarzo, topazio, corindone e diamante (un diamantino è fissato su un'asticella di metallo).
Ed ecco invece la scala di Kobell o scala di fusibilità, analoga alla precedente ma basata sulle temperature di fusione delle sostanze; è una scala empirica, come quella di Mohs, e ricerche recenti hanno dimostrato che gli anelli della catena non sono in precisa successione di fusibilità (determinare questa temperatura è talvolta difficoltoso). I termini della scala sono: antimonite, netrolite, granato almandino, actinolite, feldspato, bronzite e quarzo (quest'ultimo non fonde assolutamente al cannello).
Un altro termine di paragone con i quali catalogare i minerali è la loro lucentezza; qui vediamo una raccolta di minerali catalogati proprio sulla base di tale parametro, oltre che della loro trasparenza ed iridescenza. I minerali di questa collezione sono, nell'ordine: pirite (metallica), calcite (madreperlacea), quarzo (vitreo), grafite (grassa), litantrace (lucido), selenite (trasparente), opale (opalescente) e labradorite (labradorescente).
Ed ecco ben quindici minerali, catalogati in base alla loro forma e struttura. Si riconoscono due blocchi di calcare, ematite, antimonite, orneblenda, anfibolo, amianto, gesso, calcare stalattitico, arenaria, talco, alabastro, marmo, porfido e vitrofiro. Si parla di forma pisolitica, colitica, bacillare, fibrosa, filamentosa, cotonosa, ecc. Tutti modi di classificazione che oggi sono stati in buona parte superati dalla mineralogia contemporanea.
Questa cassetta contiene invece una serie di minerali diamagnetici, cioè tali da espellere le linee di forza del campo magnetico che le attraversa (e da essere privi di momento magnetico proprio), Del magnetismo si è parlato assai diffusamente nell'apposito Armadio Virtuale.
Infine, la scatola che vediamo nella fotografia contiene un assortimento di 50 minerali per eseguire saggi alla fiamma. Di questo esperimento abbiamo già parlato nell'Armadio Virtuale di Chimica, ed in mineralogia è fondamentale, osservando il colore dei campioni esposti alla fiamma di un becco Bunsen mediante un'ansa di platino, aiuta a determinare l'esatta composizione, e quindi la natura mineralogica, del componente in esame (vedi): un'esperienza facile e molto divertente.
Non ci crederete, ma il microscopio può essere utile, oltre che nello studio degli esseri viventi (vedi l'Armadio Virtuale di Botanica), anche per studiare le strutture microcristalline di alcuni preparati di rocce. Ecco per l'appunto alcuni vetrini su cui sono state disposte delle fettine sottilissime di minerali, ottenuti con un dispositivo particolare, tali da poter essere attraversate dalla luce, e quindi tali da permetterci di osservare con precisione le tessiture ed i microcristalli di questi minerali.
Anna Elena ha fotografato le Salinas de Janubio sull'isola spagnola di Lanzarote. Le saline sono grandi impianti per la produzione di sale partendo non da miniere di salgemma, ma dall'acqua di mare, tenendo conto del fatto che n metro cubo di acqua marina contiene circa 30 kg di cloruro di sodio. Una salina è costituita da una serie di vasche dette evaporanti, in cui l'acqua evapora per l'irraggiamento solare, ed una vasca finale detta salante, dove avviene la precipitazione del sale.
La foto in questione illustra una cava di sabbia posta nel territorio del mio comune, Lonate Pozzolo, e precisamente al confine tra le province di Varese e Milano, sul bordo della valle del Ticino. La strumentazione fotografata serve per scavare la sabbia dal suolo e poi per portarla, tramite tapis-roulant, alla sezione di stoccaggio e di immagazzinamento, onde essere indirizzata a scopi di edilizia. Un esempio di come le risorse del sottosuolo possono essere molto utili per il genere umano.
Nella foto accanto, inviatami dall'amico Giuseppe Biundo, ecco invece una imponente miniera di sali potassici dismessa nei lontani anni '70: l'Italkali, proprietaria delle miniere, consentiva all'Italia di esserne il terzo produttore mondiale, ma sappiamo come vanno queste cose in Italia. Come si vede, l'area in cui abita l'amico Biundo presenta in successione gli strati che compongono la serie chiamata Gessoso-Solfifera: nel territorio del suo comune si trova parte della miniera di salgemma di Raffo, in grado di fornire minerale di salgemma puro al 99,6%: unica in Europa per purezza!
Parlando di miniere dismesse adiacenti l'area madonita, ecco alcuni scatti di miniere di zolfo, tipiche della Sicilia: non tutti lo sanno, ma quello siciliano è l'unico zolfo al mondo ad avere origine animale, ad opera di batteri solforiduttori. Nel collage si vedono alcuni sistemi per l'estrazione dello zolfo, in particolare quello rudimentale delle calcarelle e poi quello più moderno dei forni Gill. Le calcarelle sono rudimentali forni di fusione del minerale di zolfo: si tratta di un accumulo di minerale di circa 40 quintali, il minerale viene incendiato e lo zolfo giunge rapidamente alla fusione separandosi dalle impurità. Purtroppo tale tecnologia arcaica ha due svantaggi: un basso rendimento (30 %) e l'emissione di forti quantità di anidride solforosa e altri composti fortemente inquinanti. Per questo tale metodo venne abbandonato intorno alla metà dell'Ottocento.
Non vi state sbagliando: quello che vedete in figura è proprio un muro. Questo manufatto verticale è infatti formato da blocchi di granito (quelli delle nostre case da mattoni pieni o forati), sovrapposti e tenuti insieme da calcina. Il muro qui riprodotto è chiaramente di origine medievale e rappresenta bene l'uso più semplice che gli uomini possono fare delle rocce da essi raccolte: metterle insieme ordinatamente per realizzare delle opere in muratura.
L'effetto dell'azione degli agenti atmosferici sui minerali è chiaramente visibile in queste rocce ignee levigate lungamente dalle onde del mare, fino a far assumere loro una forma liscia ed arrotondata, ben differente dagli spigoli vivi dei campioni rocciosi che abbiamo visto in precedenza, estratti da miniere sotterranee o a cielo aperto. Questo è uno degli aspetti del nostro pianeta che mi ha colpito di più: se poniamo una chiave inglese sulla Luna, tra un miliardo di anni essa sarà ancora là nella stessa posizione, mentre sulla Terra l'ossigeno la sbriciolerà in brevissimo tempo. Gutta cavat lapidem...
Al contrario, l'acqua può anche contribuire a costruire delle rocce molto particolari. Quello in figura è un frammento di stalattite proveniente da Gavardo (BS); si dà questo nome alle concrezioni minerali di natura calcarea che pendono dal soffitto delle grotte. Si formano in seguito al deposito calcareo delle gocce d'acqua che piovono per secoli e millenni dalla volta delle spelonche; il deposito sul pavimento si accresce a sua volta perso l'alto e dà vita ad una stalagmite. Si tratta di un aspetto caratteristico del panorama delle grotte carsiche.
Ed eccovi una foto della Grotta di Monte Capriolo, detta anche Grotta del Sogno, nel territorio di Roverè Veronese (VR), scattata dall'amico Enrico Pizzo. La prima esplorazione risale al 1957 e nel 1972, grazie alla sua facile percorribilità interna e alla ricchezza di concrezioni stupende, dopo alcuni lavori di sistemazione, è stata aperta al pubblico. Essa è percorribile grazie ad un lungo percorso di passerelle, facilmente accessibile e ben illuminato. Percorrendole, si sbuca in un ambiente lungo oltre 30 metri e largo 15, la sala principale della grotta, che è tappezzata da una grande varietà di stalattiti e stalagmiti in grado di creare un effetto scenografico davvero spettacolare!
Questa, scattata nell'estate 2022, è una foto della cosiddetta grotta del Sieson, sull'Altopiano dei Sette Comuni, detto anche Altopiano di Asiago, in provincia di Vicenza, speditami sempre dall'amico Enrico Pizzo. Le pareti sono incrostate di ghiaccio, e sul tetto della grotta si apre un amino che fora la volta e permette un vortice d'aria particolarissimo. La bocca di questa grotta è larga almeno una quarantina di metri. Un pulpito proteso nel vuoto, protetto con parapetti, permette di affacciarsi sulla voragine del pozzo, una specie di imbuto rovesciato, con il gradone del fondo una cinquantina di metri più in basso, ma alcune balze sprofondano fino alla profondità di quasi cento di metri, dove si trova un laghetto ghiacciato.
Parlando di minerali si finisce inevitabilmente per arrivare ai fossili. Questa parola deriva dal latino fodere, "scavare", ed indica tutte le testimonianze giunte fino a noi di esseri vissuti nel lontano passato geologico della Terra. Nell'antichità venivano spiegati nei modi più strampalati (qualcuno parlava di "fulmini di Zeus pietrificati", altri di animali morti nel diluvio universale); vennero riconosciuti per quello che sono per la prima volta da Georges Cuvier (1769-1832). Per lo più il materiale organico si è completamente mineralizzato ed i fossili rappresentano minerali a tutti gli effetti, come quest'ammonite del Giurassico, (il secondo periodo dell'era Mesozoica o Secondaria), un mollusco cefalopode diffusissimo in quell'epoca.
Quello che vedete qui a fianco è il fossile che non ti aspetti, di proprietà della mia amica Antonella Demarchi: si tratta di un frammento di pavimentazione, residuo della ristrutturazione di un appartamento, che a sorpresa contiene al suo interno, ben visibile, un'ammonite. Le ammoniti sono un gruppo di molluschi cefalopodi comparsi circa 400 milioni di anni fa ed estintisi 65 milioni di anni fa in concomitanza con i dinosauri; il loro nome viene da quello del dio egizio Amon, raffigurato come un uomo con corna di montone, arrotolate appunto come le loro conchiglie. Esse sono ottimi fossili guida per tutto il Mesozoico.
Ed ecco un fossile ancora più antico, un esemplare di ortoceratide (Orthoceras, in greco "corno dritto"), cioè un mollusco cefalopode caratterizzato da una conchiglia dritta e sottile, donde il nome, suddivisa in camere, il cui numero aumentava con l'età dell’animale. Alcune arrivavano a due metri di lunghezza e ad un diametro di 10 cm. Gli ortoceratidi prosperarono nell' Ordoviciano, il secondo periodo dell'era Paleozoica o Primaria. A quest'epoca risalgono grandi depositi di calcare chiamati proprio “calcari a Orthoceras”; quest'esemplare proviene dal Marocco.
Un altro bellissimo fossile è rappresentato da questa roccia sedimentaria che conserva al suo interno le impronte di alcuni pesci estinti, vissuti nell'era Cenozoica o Terziaria. Le parti molli non ci sono pervenute, ma in alcuni casi eccezionali esse sono giunte fino a noi, com'è il caso dei patagi alari dei rettili volanti o della pelle di mammut rimasti congelati nel permafrost siberiano. Talvolta si sono pietrificate anche delle uova di dinosauro o le loro impronte impresse nel fango. Il fossile in questione viene tenuto in mano dall'allieva Chiara Toniolo (III B cl. a.s. 2005/06).
Questo frammento di roccia sedimentaria, raccolto dal sottoscritto e parte della mia collezione, illustra in modo semplice come si fossilizzano gli esseri viventi. Certamente tutti avete visto delle foglie morte depositarsi in autunno nelle pozzanghere dopo una pioggia abbondante; ebbene, se le foglie vengono subito ricoperte da sedimenti, l'assenza di ossigeno impedisce la loro putrefazione, ed esse restano intrappolate nella roccia sedimentaria, lasciandovi la loro impronta. Il reperto è stato raccolto in Val Vigezzo (VB) e contiene delle foglie che risalgono all'era Neozoica o Quaternaria.
Un altro modo in cui può avere origine la fossilizzazione è rappresentato da quest'altro reperto, da me stesso raccolto in Sicilia presso il monte Etna: un'ostrica (Ostrea edulis) è rimasta intrappolata dentro la lava e conservata sino ai nostri giorni. Da notare che, come è accaduto dopo la catastrofica eruzione del Vesuvio su Pompei, in genere la lava trattiene le impronte vuote degli organismi rimasti intrappolati sotto di essa. Oggi, versando gesso dentro quelle cavità, è possibile ricostruire un'immagine precisa degli sfortunati che vennero sepolti da quella catastrofica eruzione.
Questa suggestiva foto inviatami dall'amico Pierluigi mostra alcuni straordinari microfossili, osservati al microscopio. Per avere un'idea delle loro dimensioni, ogni quadratino misura un millimetro quadrato! Lo studio dei microfossili è affidato alla micropaleontologia e alla palinologia, disciplina quest'ultima che si cccupa dei palinomorfi, microfossili di organismi, o parti di essi, con pareti esterne organiche, prive di minerali durante la loro vita.
Questo strano fossile venne rinvenuto nel 1726 in una miniera di Öhningen (Germania) dal naturalista svizzero Johann Jakob Scheuchzer  (1672-1733). Il bello è che egli lo descrisse come se si trattasse dello scheletro di uomo perito nel diluvio universale; le sue dimensioni (circa 3 metri) lo facevano infatti passare per uno dei "famosi giganti dei tempi antichi" di cui parla il libro della Genesi. Per questo lo battezzò "Homo diluvii testis". Oggi sappiamo che si tratta in realtà di una salamandra gigantesca, simile alla Sieboldia maxima del Giappone, vissuta nel Miocene: quello che era stato creduto il bacino, era in realtà il cranio. L'equivoco è rispecchiato ancor oggi dal suo nome scientifico di Andrias  Scheuchzeri, perché Andrias letteralmente significa "simile all'uomo".
Cosa è successo dall'inizio dell'universo? La spirale del tempo che vedete qui a fianco, opera di Pablo Carlos Budassi, presenta i principali eventi a partire dal Big Bang, quando il tempo come noi lo conosciamo iniziò circa 13,8 miliardi di anni fa. Nel giro di pochi miliardi di anni si sono formati gli atomi, poi le stelle, le galassie, il nostro Sole e quindi la nostra Terra, circa 4,6 miliardi di anni fa. La vita sulla Terra inizia circa 3,8 miliardi di anni fa, e nel giro di un miliardo di anni nasce la fotosintesi. Circa 1,7 miliardi di anni fa inizia a prosperare la vita pluricellulare; i pesci hanno iniziato a nuotare circa 500 milioni di anni fa e i mammiferi hanno iniziato a camminare sulla terraferma circa 200 milioni di anni fa. Gli antenati più prossimi degli esseri umani sono comparsi per la prima volta solo circa 6 milioni di anni fa, e hanno costruito le prime città solo 10.000 anni fa. La spirale del tempo qui illustrata si ferma qui, ma si potrebbero aggiungere l'era atomica, iniziata poco più di 75 anni fa, i voli spaziali e l'intelligenza artificiale, che ha iniziato a prendere piede solo negli ultimi anni!
Con questa immagine comincia una galleria di disegni realizzati dal sottoscritto e dai suoi amici per illustrare la storia della Terra attraverso le ere geologiche. Qui potete vedere un meraviglioso acquerello realizzato dal mio eclettico amico Sandro Degiani, il quale raffigura un pauroso paesaggio dell'era Archeozoica, detta anche Precambriana (durò circa da 4,5 miliardi a 530 milioni di anni fa). L'oceano è ancora in formazione, l'atmosfera è ancora irrespirabile ma i fulmini producono la sintesi delle prime molecole organiche, i futuri mattoni della vita). Cliccate qui per leggere la successione completa delle ere geologiche.
Nella formazione rocciosa di Fig Tree, nello Swaziland, fu ritrovato il più antico microrganismo fossile conosciuto, risalente a circa 3,2 miliardi di anni fa. Lo vedete illustrato in questa eccezionale microfoto: era un procariota, cioè un monocellulare nel quale il materiale DNAtico non è contenuto in un nucleo ben definito, ma sparpagliato all'interno del citoplasma della cellula.
Dell'Archeano, lunghissimo periodo dell'era Precambriana, ci sono giunte le Stromatoliti, alcune delle quali risalgono anche a 3 miliardi e 500 milioni fa: si tratta di veri e propri cuscini rocciosi formati da alghe fossili fortemente legate le une alle altre nei bassi fondali marini, dove la luce solare consentiva loro la fotosintesi: ce ne restano ampie testimonianze in Australia, presso la Shark Bay. L'esemplare qui ritratto è stato da me fotografato presso il Civico Museo di Storia Naturale di Milano.
L'era Paleozoica venne chiamata anche Primaria perchè si pensava che la vita fosse comparsa all'inizio di essa; poi, anche in strati geologici più antichi vennero scoperte tracce di vita. Fu così introdotta l'era Archeozoica o Precambriana, che durò dalla nascita della Terra 4,5 miliardi di anni fa fino a 530 milioni di anni fa. Qui si vede una ricostruzione della fauna di Ediacara, cosiddetta dall'omonimo sito australiano dove fu rinvenuta, che risale a qualcosa come 700 milioni di anni fa. I bizzarri esseri viventi in figura sono tutti animali e non hanno nessun legame di parentela con quelli esistenti ai nostri giorni.
Nel periodo Cambriano (da 530 a 495 milioni di anni fa), il primo dell'era Paleozoica o Primaria, a dominare i mari erano i trilobiti, strani crostacei (ma lo erano poi davvero?) con il corpo diviso in tre lobi, da cui deriva il loro nome. Potete vederne uno rappresentato in questo mio disegno, che mostra anche altri rappresentanti della caratteristica fauna di quell'evo lontanissimo, allorché la vita ancora non era uscita dai mari e l'ossigeno atmosferico era assai più povero dell'attuale..
Ed ecco un minuscolo fossile di trilobite, che misura solo pochi centimetri e fa parte della nutrita collezione di minerali e fossili del mio liceo. Accanto ad esso se ne può vedere una ricostruzione anatomica (la mia soprastante è solo una ricostruzione artistica), che ben evidenzia le innumerevoli paia di zampette di cui erano provvisti, mentre sotto se ne vede una ricostruzione effettuata in un diorama del Civico Museo di Storia Naturale di Milano. Si noti come nella didascalia sia scritto "Cambrico" e non "Cambriano", perchè alcuni geologi tentarono di uniformare tutti i nomi dei periodi geologici: come Triassico, Giurassico, Cretacico essi tentarono di imporre Cambrico, Ordovicico, ecc... ma il tentativo non ebbe successo.
Questa invece è l'unica immagine della galleria che non è stata realizzata dal sottoscritto; si tratta di un nautiloide, grosso mollusco caratterizzato dalla lunga conchiglia conica, che nuota in mezzo ad alghe e ad altri animali marini tipici del periodo Ordoviciano, il secondo dell'era Paleozoica, durato da 495 a 418 milioni di anni fa. L'autrice è l'affezionata studentessa Francesca Piotti (IV C ginnasio a.s. 2004/05), cui avevo chiesto se non avesse per caso un... trilobite femmina, da far accoppiare al mio trilobite dell'immagine precedente. Lei mi ha risposto: "No, però avrei questo nautiloide..." Brava!
Ecco un tipico abitante dei fondali marini del periodo Ordoviciano, stavolta opera del sottoscritto: si tratta di un gigantesco scorpione marino della famiglia degli euripteridi. Normalmente erano lunghi un metro, ma lo Jaekelopterus rhenaniae superava i due metri e mezzo! Erano queste creature a farla da padrone in quell'evo lontano.
Siamo nel Siluriano (da 418 a 395 milioni di anni fa), ed i mari sono popolati da primitivi pesci corazzati. In alto a sinistra: Pteraspis, privo di mascelle e di scheletro interno. In alto a destra: un Ostracodermo pesantemente corazzato. In basso:  un Acantoide, il più antico tra i pesci con endoscheletro osseo, abitante delle acque dolci.
Ed ecco l'Eustenottero (Eusthenopteron foordi), un pesce dalle grandi pinne carnose vissuto nel Devoniano, oggi considerato l'antenato comune di tutti gli anfibi e di tutti i tetrapodi. Infatti le sue pinne erano dotate di una fila di elementi ossei centrali, disposte come le ossa degli arti dei vertebrati terrestri. Forse l'Eustenottero poteva usarle per strisciare nei fondali fangosi.
Nel secolo XX furono pescati al largo del Madagascar degli esemplari di Latimeria (Latimeria chalumnae), un pesce noto anche come Celacanto (in greco "spine vuote") che si credeva estinto da 120 milioni di anni. Le sue pinne hanno un vero e proprio "corpo basale", che in pratica le trasforma in zampe, grazie alle quali "cammina" sul fondo marino. Il suo nome rappresenta un tributo a Marjorie Courtenay-Latimer (1907-2004), che riconobbe in esso un fossile vivente. Questo esemplare di Celacanto è stato da me fotografato presso il Civico Museo di Storia Naturale di Milano.
Un altro pesce molto strano è il Lepidosiren paradoxa africano, che riesce ancor oggi ad interrarsi sul fondo degli acquitrini prosciugati e a respirare aria con un primitivo polmone. La Latimeria e il Lepidosiren possiedono, separatamente, due caratteristiche dei vertebrati terrestri: una zampa mobile ed un polmone. E se essi si fossero trovati nello stesso animale? Ciò accadde nel Devoniano, circa 360 milioni di anni fa, allorché comparve l'Ittiostega, il primo anfibio qui disegnato, che poteva permanere per lunghi periodi sulla terraferma. Fu il primo pioniere dei continenti emersi e, naturalmente, il primo antenato terrestre dell'uomo.
Recenti esplorazioni hanno però riportato alla luce alcuni vertebrati tetrapodi (cioè dotati di quattro zampe) più antichi dell'Ittiostega. Uno dei meglio conosciuti è l'Acantostega, dotato contemporaneamente di branchie e di polmoni. Le sue costole erano troppo brevi per evitare il collasso della cavità polmonare una volta fuori dall'acqua, e così si pensa che si limitasse a sollevare il capo fuori dall'acqua per respirare direttamente aria.
Il diplovertebronte, lungo circa 60 cm, era uno degli anfibi che spadroneggiavano sulla Terra nel corso del Carbonifero, durato da 360 a 290 milioni di anni fa. Aveva arti ben sviluppati e forniti di cinque dita, ma si trattava essenzialmente di un animale acquatico. A quei tempi il clima terrestre era caldo e umido e in questo ambiente gli anfibi dominavano il mondo.
Gli anfibi, i dominatori del Carbonifero, erano forse enormi e differenziati, ma pur sempre legati all'acqua per la loro vita e la loro riproduzione. Ma nel Carbonifero Superiore, circa 315 milioni di anni fa, visse l'Hylonomus lyelli, forse il primo vero rettile della storia della Terra. Questi nuovi animali avevano la pelle impermeabile, e soprattutto le loro uova avevano un guscio duro, in grado di resistere al prosciugamento da parte del sole. L'ideale per rendersi indipendenti dall'acqua!
Il Permiano (290-245 milioni di anni fa) fu un periodo di generale regressione dei mari e di desertificazione delle terre emerse, cosicché i nuovi venuti, i rettili, si diffusero fino a rimpiazzare gli Anfibi in quasi tutte le nicchie ecologiche; iniziò così un dominio incontrastato che sarebbe durato duecento milioni di anni. Ecco il loro possibile capostipite, la Seymouria (Seymouria baylorensis), che trae il suo nome dalla contea di Seymour, nel Texas, dove venne ritrovato per la prima volta.
Nel Permiano, circa 250 milioni di anni fa, si evolsero  i Pelicosauri, considerati lontani progenitori dei mammiferi: essi avevano zampe più verticali dei rettili precedenti, mascelle capaci di esercitare una maggior pressione sia nella masticazione che nella cattura delle prede, e presentavano una migliore specializzazione dei denti. Uno dei più famosi e giganteschi esemplari era il dimetrodonte (Dimetrodon milleri, = denti di due misure diverse) qui illustrato, dotato di una cresta dorsale irrorata di capillari sanguigni, presumibilmente utilizzata per riscaldare più velocemente il sangue alla luce del sole.
Il Sauroctono (Sauroctonus progressus) qui raffigurato è un rappresentante dei cosiddetti « rettili mammiferi » più avanzati; come si vede era certamente carnivoro, essendo dotato di una potentissima dentatura (da cui il suo nome, "distruttore di rettili"). La forma del suo corpo ricordava quella del dimetrodonte (vedi figura precedente), ma senza cresta.
Il Diadecte (Diadectes absitus) era un rettile erbivoro lungo circa un metro e ottanta, vagamente simile alle nostre iguane, sviluppatosi come i precedenti dagli antenati seymouriani. Secondo alcuni è il primo capostipite della lunga linea evolutiva che, attraverso diversi gruppi di rettili, finì per condurre agli uccelli (la cui genesi però è oggetto tuttora di aspre controversie).
La Proganochelide (Proganochelys quenstedti) era un curioso rettile dotato di una testa quadrata e di un corpo relativamente esile, racchiuso in un guscio assai simile a quello delle tartarughe. Fu ritrovato in Germania negli strati del Triassico, il primo periodo dell'era Mesozoica o Secondaria (da 245 a 65 milioni di anni fa), durato da 245 a 204 milioni di anni fa, ed iniziato con una delle più catastrofiche estinzioni di massa della storia della Terra, che spazzò via il 90 % delle specie esistenti!!.
Il disegno a fianco raffigura un Morganucodonte (Morganucodon watsoni), considerato oggi il primo vero mammifero. Vissuto nel Triassico, quindi contemporaneo dei primi dinosauri, non era più grande di un topo e doveva somigliare molto ad essi; probabilmente aveva abitudini notturne, e forse deponeva le uova come l'ornitorinco attuale. I suoi resti sono stati trovati nel Galles; ed infatti il suo nome deriva dal gallese Morgannwg, nome originario della contea di Glamorgan in cui fu scoperto.
Nell'America Settentrionale ed in Europa, a cavallo tra Giurassico e Triassico, poteva capitare di imbattersi in un animale come questo, il Protosuco (Protosuchus richardsoni, letteralmente "il primo coccodrillo"), considerato l'antenato dei coccodrilli attuali: lungo un metro e venti, era ricoperto di placche ossee e probabilmente era veloce sia nella corsa che nel nuoto. Brrr!
L'era Mesozoica conobbe uno sviluppo esponenziale dei rettili, che toccò il culmine nel periodo Giurassico (204-130 milioni di anni fa). In cielo, come in terra e nelle acque dei mari, il pianeta venne infatti dominato dai grandi dinosauri (dal greco "lucertole terribili"): non è certo un caso se il milardario John Hammond, ideato dalla prolifica fantasia dello scrittore Michael Crichton, decise di chiamare "Jurassic Park" il parco di divertimenti da lui creato, abitato da queste terribili creature, delle quali vedete alcuni esemplari in questo mio disegno.
Questa foto è stata scattata dallo studente Luca Chiurazzi al Museo de Ciencias Naturales di Valencia nell'agosto 2017 ed illustra uno scheletro di Allosauro (Allosaurus fragilis), un grande dinosauro carnivoro vissuto tra i 155 e i 145 milioni di anni fa, durante il periodo Giurassico. Allosaurus significa letteralmente "lucertola diversa", i primi resti fossili furono ritrovati nel 1877. Al contrario del più famoso Tirannosauro, l'Allosaro possedeva lunghi arti anteriori eccezionalmente armati di grandi artigli.
Ed ecco uno scheletro di Stegosauro, ricostruito presso il Civico Museo di Storia Naturale di Milano. Poteva raggiungere una lunghezza di 6 metri ed un peso di 3 tonnellate, ed era caratterizzato dalle robustissime creste distribuite lungo la spina dorsale, che ha dato loro il nome ("lucertole coperte"). Questa vera e propria armatura ossea ha rappresentato a lungo un vero rebus per la paleontologia; oggi l'esame istologico ha rivelato che erano coperte di pelle fortemente irrorata di vasi sanguigni, dal che si può dedurre che esse servissero per riscaldare rapidamente il corpo alla luce del sole.
I Ceratopsidi, come questo imponente Triceratope (Triceratops prorsus) ricostruito al Civico Museo di Storia Naturale di Milano, furono i primi dinosauri cornuti ad essere scoperti. Il suo nome deriva dal fatto che era dotato di ben tre corna, due sopra gli occhi ed uno sul muso; era lungo fino a 9 metri, alto 3 metri e pesava fino a 9 tonnellate, ed il suo enorme cranio era lungo fino a due metri e mezzo. Per di più da esso si dipartiva un un collare osseo che arrivava a coprire anche le spalle, dando a questo animale il terribile aspetto di un vero e proprio carro armato vivente. In realtà, nonostante l'aspetto, il Triceratope doveva essere poco più che un mite erbivoro, pronto a difendersi furiosamente solo se molestato.
Ed ecco il nemico numero uno del Triceratope, almeno nell'immaginario collettivo fomentato dal film "Jurassic Park": il Tirannosauro (Tyrannosaurus rex, "T-rex" per amici e nemici), il calco del cui scheletro è esposto al Museo suddetto. "Due fauci irte di denti sopra due zampe che corrono", è stato icasticamente definito. Triceratope e Tirannosauro furono tra gli ultimi dinosauri a comparire sulla faccia della Terra, nell'ultimo scorcio del periodo Cretacico.
Anche questa foto è stata scattata dallo studente Luca Chiurazzi al Museo de Ciencias Naturales di Valencia ed illustra lo scheletro di uni Spinosauro (Spinosaurus aegyptiacus), reso celebre dal film "Jurassic Park 3" in cui ammazza addirittura un Tirannosauro. Era più grosso di quest'ultimo, con una lunghezza compresa tra i 13 e i 18 metri e un peso tra le 7 e le 21 tonnellate. Il suo cranio era lungo e stretto, simile a quello di un moderno coccodrillo. È ormai certo che lo Spinosauro si cibasse prevalentemente di pesci; resta incerta invece la funzione della grande vela che portava sulla schiena.
Quella che qui vedete è la straordinaria riproduzione del Saltriovenator zanellai, un antico teropode vissuto nel Giurassico Inferiore circa 200 milioni di anni fa e ritrovato a Saltrio (presso Varese) il 4 agosto 1996 dal cacciatore di fossili Angelo Zanella, da cui il suo nome. Tale riproduzione si trova all'esterno del Civico Museo di Storia Naturale di Milano, ed è stata fotografata per noi il 3 ottobre 2021 dall'amico Salvatore Patti. In alto a sinistra si vedono le parti dello scheletro giunte sino a noi, e in basso a destra alcune delle ossa ritrovate da Zanella. Si pensa che l'animale in vita fosse lungo sette metri e pesasse una tonnellata e mezza: un predatore davvero temibile!
Al periodo Giurassico risale la comparsa del primo uccello, l'Archaeopteryx, con caratteristiche ancora molto vicine a quelle dei Rettili. Il nome della specie è "Lithographica" perchè venne trovato fossilizzato dentro una cava di calcare litografico (utilizzato cioè per realizzare litografie) a Solenhofen, in Baviera, nel 1861 dal medico Carl Häberlain. Fu una scoperta clamorosa perchè venne solo due anni dopo la pubblicazione de "L'Origine delle Specie" di Charles Darwin, e perché il fossile presentava assieme caratteri da uccello, come le penne ed un becco ben sviluppato, e da rettile, come le dita artigliate e le ossa non pneumatizzate. L'animale non poteva ancora volare, ma presumibilmente si arrampicava sugli alberi e da lì si gettava in volo planato, catturando a mezz'aria le prede costituite da grossi insetti. Come suggerisce Federico di Trocchio nel suo bel libro "Le bugie della scienza" (Mondadori, Milano 1994), secondo alcuni quest'anello mancante della catena evolutiva tra rettili ed uccelli è in realtà un falso, creato ad hoc da archeologi senza scrupoli, ma le prove addotte in questo senso sono state contestate da molti, ed io preferisco credere nell'esistenza effettiva dell'essere mezzo rettile e mezzo piccione.
Negli oceani vivevano rettili marini perfettamente adattati alla vita acquatica dei loro antenati pesci. Erano i Plesiosauri, dall'aspetto di una tartaruga marina dotata di lungo collo. Alcuni di essi, come gli elasmosauri, superavano i quindici metri di lunghezza. Gli appassionati di letteratura ricorderanno senz'altro la descrizione di una furibonda mischia tra due dinosauri marini di questo tipo che Jules Verne ci dà nel suo romanzo "Viaggio al Centro della Terra"!
Il Tilosauro era un rettile marino lungo oltre dieci metri, completamente adattato alla vita acquatica, essendo dotato di forti arti trasformati in pagaie per nuotare; visse nell'oceano Atlantico che si stava formando nel Cretacico o Cretaceo, il terzo periodo dell'era Mesozoica, durato da 130 a 65 milioni di anni fa.
Comparvero anche Rettili provvisti di ali adattate al volo: gli Pterosauri ("lucertole con le ali") Tra questi il ranforinco qui illustrato, con un corpo lungo circa 50 cm e due metri di apertura alare. Più che volare come gli uccelli è probabile che planassero sfruttando le correnti d'aria; il patagio (la membrana alare) era sostenuto dall'ultimo dito della mano, abnormemente allungato, mentre le altre erano libere, a differenza di quanto accade oggi negli uccelli. Alcuni erano coperti di una sottile peluria e probabilmente erano omeotermi, a causa della frenetica attività richiesta dal volo.
Testa di edmontosauro, un dinosauro bipede lungo fino a 15 metri che si nutriva di vegetazione nei bassi acquitrini del Cretacico (da 130 a 65 milioni di anni fa). Animali come questi dovevano costituire il pasto comune dei Tirannosauri; pur avendo pressappoco le stesse dimensioni, di fronte ad un simile nemico erano praticamente indifesi, e la loro unica speranza in caso di attacco doveva consistere in una rapida fuga nell'acqua. Ma forse si difendevano anche con il veleno.
Il periodo Cretacico prende il nome dal francese craie, che indica un deposito calcareo incoerente e biancastro, molto ricco di fossili, formato da un misto di gesso e di argilla, che caratterizza proprio il Creatacico superiore nel Bacino di Parigi. In questa foto vediamo proprio dei ciottoli ricoperti da "craie", fotografati nel laboratorio di scienze del mio Liceo. Si pensa che il "craie" si sia formato in seguito all'accumulo degli scheletri calcarei di microrganismi marini detti Coccoliti.
Questa foto viene nientemeno che dalla Patagonia (Argentina del Sud), e mi è stata inviata dal mio amico Sergio Germàn Stinco, che collabora con il Proyecto Dino, destinato proprio a recuperare i fossili di dinosauri giganteschi, dei quali la Patagonia è ricchissima; qui lo vediamo ripreso accanto al femore di un teropode colossale, vissuto circa 95 milioni di anni fa, in pieno periodo Cretacico, e lungo fino a 14 metri. Il motivo per cui l'Argentina ha ospitato fenomeni di gigantismo così straordinari è ancora in discussione; c'è chi pensa a un processo chiamato "rincorsa evolutiva" tra prede e cacciatori, che continuarono ad aumentare di stazza parallelamente per cercare di spuntarla nella lotta per la sopravvivenza.
Talvolta i dinosauri non ci hanno lasciato ossa, ma soltanto impronte. È il caso di queste impronte tridattili di un dinosauro teropode lungo circa 35 cm, lasciate nel fango oltre 215 milioni di anni fa; il fango si è poi rappreso in roccia, ed oggi si trova on Valcellina, in provincia di Pordenone. Ringrazio moltissimo l'amico Carlo Pontesilli, che ha scritto un libro su questo argomento, per avermi permesso di pubblicare queste sue fotografie. Scaricate da qui alcune pagine del suo libro.
Quello in fotografia (a sinistra) è un uovo di dinosauro fossile. Molte di queste uova si sono fossilizzate assai bene, ed alcune consentono di ricostruire addirittura i tessuti interni dell'embrione. Si discute se i dinosauri praticassero o no cure parentali; per alcune specie la cosa è certa, visto che si sono ritrovati i loro nidi distanziati di una lunghezza pari alle dimensioni dell'individuo adulto, segno che covavano le uova. Perchè l'uovo è posto vicino a una meteorite (a destra)? Lo capiremo subito...
Ed ecco la foto, inviatami dall'amico Sandro Degiani, di un fossile di Dastilbe elongatus, pesce osseo vissuto circa 115 milioni di anni fa (quindi nel Cretacico) dove oggi c'è il Brasile, e precisamente nello stato di Cearà. Il fossile misura solo 7 cm ma è ottimamente conservato. La famiglia cui appartiene, quella dei Chanidae, è ancora rappresentata da un'unica specie vivente, chiamata pesce latte, diffusa nell'Oceano Pacifico!
Ed ecco una mappa tridimensionale, costruita grazie alle variazioni del campo gravitazionale locale, del cratere di Chicxulub, posto nella penisola dello Yucatan, in Messico. L'impatto avvenne 63 milioni di anni fa e sollevò in aria milioni di tonnellate di polveri che oscurarono la luce del sole e provocarono un vero e proprio inverno nucleare, con un generale abbassamento delle temperature. Secondo molti paleontologi l'estinzione di massa avvenuta alla fine del Cretacico, e che spazzò via tutti i dinosauri, fu causata proprio dalla caduta dell'enorme meteorite che ha lasciato questa cicatrice. Ma è un'ipotesi che non convince tutti. Questa ed altre immagini di impatti meteoritici si trovano a quest'indirizzo.
Questo grafico mostra il numero di famiglie di esseri viventi esistite sulla Terra durante i vari periodi della sua evoluzione, a partire dal Precambriano. Come si vede, ad intervalli più o meno regolari si sono verificate grandi estinzioni di massa, la più catastrofica delle quali ha avuto luogo alla fine del Permiano ed ha posto termine all'era Paleozoica: il 90 % delle specie viventi fu spazzata via. Poiché non si conosce alcun fenomeno periodico in grado di rendere ragione di queste ecatombe planetarie, alcuni hanno avanzato l'ipotesi che la colpa sia di Nemesi, l'invisibile stella compagna del sole, la quale ogni 200 milioni di anni transiterebbe accanto al sistema solare, provocando la caduta sulla Terra di sciami di asteroidi e le conseguenti estinzioni di massa. Io però resto assai scettico nei confronti di questa fantasiosa teoria.
La suevite è un tipo molto particolare di roccia, che si trova in presenza di crateri da impatto; è molto simile alla regolite che ricopre la superficie lunare. Questo campione viene dalla Baviera, nella località di Ries dove, 15 milioni di anni fa, cadde un meteorite che provocò un cratere largo due chilometri e mezzo e profondo 100 m. Si parla tipicamente di "rocce da impatto" perchè questi minerali furono completamente fusi dal terribile calore provocato dall'evento. La cattedrale di Nördingen è stata costruita proprio nel cratere di Ries facendo uso di questo raro minerale, ivi assai abbondante! Questo esemplare è di proprietà del dottor Roberto Crippa, Presidente dell'Osservatorio di Tradate "FOAM13", che ringrazio vivamente.
Anche la moldavite è un minerale da impatto ma, a differenza della suevite, è vetroso come l'ossidiana. Ciò è dovuto al fatto che la roccia di cui è composta fu eiettata allo stato liquido fuori dal cratere, subito dopo la caduta del meteorite, e si raffreddò così rapidamente che non ebbe il tempo di cristallizzare. Questo campione di moldavite viene dalla Repubblica Ceca, ed è da attribuirsi al fenomeno che provocò il cratere di Ries; il fatto che disti da esso 250 Km ce la dice lunga, sulla potenza dell'impatto. Il nome di "moldavite" deriva proprio da quello del fiume Moldau, in Boemia. Anche questo esemplare lo si deve alla disponibilità del dottor Roberto Crippa.
Terzo tipico minerale da impatto è la tectite (dal greco "fusa"), che si trova sotto forma di piccoli ciottoli vetrosi di alcuni centimetri di dimensione. Essi rappresentano alcuni tra i minerali più "secchi" della crosta terrestre, contenendo in media non più dello 0.005% di umidità. Si tratta di un fatto assai inusuale, dal momento che la roccia era sicuramente umida prima dell'impatto con il meteorite. In alcune tectiti sono stati trovati cristalli di zirconio parzialmente fusi; assieme allo scarso contenuto di acqua, ciò suggerisce che le tectiti si siano formate in condizioni estreme di temperatura e di pressioni, di solito non registrabili sulla superficie della Terra. Non si sa però se il materiale di cui sono fatte sia terrestre o extraterrestre.
Ed ecco delle condriti, cioè del vero e proprio minerale proveniente dallo spazio, perchè di esso è fatto il 75 % delle meteoriti che arrivano al suolo. Sono composte da una matrice silicatica in cui sono immerse innumerevoli sferule di un minerale che subì un'antichissima fusione (dette "condrule", da cui il nome di condriti). Le tracce di fusione sulla crosta superficiale di colore scuro che le caratterizza è del resto un chiaro indizio dell'attrito da esse subito con l'atmosfera! Sia la tectite che le condriti appartengono sempre all'amico Roberto Crippa.
In questa rassegna non poteva certo mancare l'ambra, un minerale formatosi a partire dalla resina degli alberi, fossilizzatasi nel corso di tempi molto lunghi. Di ambra sono ricche le coste del mar Baltico, e i Romani affrontavano avventurosi viaggi per andare fin là ad acquistarla. Questi frammenti vengono proprio dal mar Baltico, hanno circa 40 milioni di anni di età e in essi sono intrappolati dei piccoli insetti. La speranza però di poterli clonare, o di poter clonare gli animali del cui sangue essi si sono nutriti (mammiferi preistorici o addirittura dinosauri) è destinata però a rimanere un sogno, per la rapidità con cui il DNA si deteriora. Questa fotografia, come le 4 precedenti, è stata ripresa durante la mia visita alla mostra "L'esplorazione del Sistema Solare" organizzata a Tradate (VA) dal GAT, che ringrazio calorosamente assieme al proprietario dell'ambra, Roberto Crippa.
Questo grande albero genealogico mostra l'evoluzione dei vertebrati terrestri a partire dalla comparsa degli anfibi sulla Terra. Come si vede da essi si staccarono due distinte famiglie di vertebrati non più legati all'acqua per la riproduzione: i Pelicosauri o Rettili Mammiferi e gli antenati dei Rettili. I primi diedero origine alla linea evolutiva un ramo laterale della quale porterà ai mammiferi, e quindi all'uomo; i secondi originarono i dinosauri. Oggi si discute se i dinosauri vadano classificati come rettili o in una classe a parte. Inoltre è quasi assodato che gli uccelli si evolsero da un ramo laterale dei dinosauri, tanto che alcuni oggi li considerano addirittura come i dinosauri che sopravvissero alla grande estinzione di fine Cretaceo (linea rossa)!
Con questo disegno siamo ancora un pieno Mesozoico: questa è la Juramaia sinensis, letteralmente "madre giurassica dalla Cina", il più antico mammifero placentato finora scoperto, che risale a ben 160 milioni di anni fa, nel pieno dell'Impero dei Dinosauri. Pesava solo 15 grammi, possedeva zampe anteriori adatte ad arrampicarsi sugli alberi e si cibava di insetti.
All'inizio del Cenozoico tutti i dinosauri, i grandi dominatori del Mesozoico, si estinsero di colpo. Alla lunga ad approfittarne furono principalmente i mammiferi, che fin dal periodo Triassico erano comparsi con forme primitive di Protomammiferi ovipari come il Thrinaxodon. Nel Paleocene (da 65 a 56 milioni di anni fa) si svilupparono invece i Pantodonti, i primi mammiferi erboveri come il Pantolambda qui illustrato: aveva all'incirca la mole di una pecora e viveva vicino all'acqua.
Agli inizi dell'Era Cenozoica o Terziaria, durata da 65 a 1,8 milioni di anni fa, comparvero famiglie di uccelli moderni che andarono a colmare in molti casi le nicchie ecologiche lasciate libere dai dinosauri, prima dello sviluppo dei mammiferi. Nell'Eocene (da 53 a 34 milioni di anni fa) nelle pianure del Sudamerica era possibile veder correre un mostro come quello rappresentato in questo mio disegno, il Fororaco (Phororachos inflatus): un uccello che aveva perso le ali per diventare un formidabile cacciatore alto due metri e mezzo e tale da superare in peso un cavallo purosangue!
Nell'Oligocene si ebbe l'esplosione dei mammiferi, che soppiantarono i grandi predatori pennuti dei periodi precedenti. Scomparsi i temibili concorrenti sauri, i mammiferi manifestarono i consueti fenomeni di gigantismo, raggiungendo ben presto dimensioni da ciclope. È questo il caso dei Mastodonti ("con i denti a capezzolo"), antenati dell'elefante. Tra questi c'era il Gonfoterio qui disegnato (il suo nome significa "a forma di cuneo"; per capire il perchè, si osservi la foggia delle quattro zanne).
Le praterie dell'Oligocene (da 34 a 23 milioni di anni fa) formicolavano di suini giganteschi, di erbivori grossi il triplo di un elefante africano (vedi l'immagine successiva), di camelidi simili a giraffe (Calicoterii), di cervidi con parecchie corna. Esistevano cavalli con tre dita e delle dimensioni di un gatto (Eoippi) o di un vitello (Mesoippi), e scoiattoli delle dimensioni di un orso (gliptodonti). Alcuni mammiferi, come il Basilosauro lungo 25 metri, qui rappresentato, riscoprirono l'elemento liquido e diedero il via alla famiglia dei Cetacei.
Sempre nell'Oligocene è vissuto il Baluchiterio o "belva del Belucistan" (la regione dell'odierno Pakistan dove sono stati ritrovati i suoi fossili). Con i suoi 8 metri di lunghezza e 5 di altezza è sicuramente il maggior mammifero terrestre di tutti i tempi. Qui lo vediamo confrontato con un Mastodonte suo contemporaneo e con un uomo attuale. Il Baluchiterio è considerato strettamente imparentato con i rinoceronti odierni.
Durante il Miocene (da 23 a 7 milioni di anni fa) i mammiferi si diversificarono in numerosissime specie, dirette antenate di quelle attuali mentre gli uccelli a metà dell'epoca avevano assunto l’aspetto attuale. Ebbero grande sviluppo le savane, mentre le foreste si ridussero sensibilmente; di conseguenza ebbero ampia diffusione gli Equidi, i Mastodonti e gli antenati del rinoceronte; tra questi, l'Indricoterio qui disegnato fu uno degli ultimi mammiferi di grossissima taglia: era alto come una giraffa adulta e lungo fino ad otto metri! 
Ed ecco uno scheletro di Gliptodonte da me fotografato al Civico Museo di Storia Naturale di Milano. Il suo nome significa "Dente inciso", ed era un lontano parente dell'Armadillo, Come questo era dotato di una corazza ossea impenetrabile che andava a ricoprire tutto il corpo lasciando scoperte solo le zampe, ma a differenza degli armadilli era incapace di appallottolarsi, limitandosi a ritirare zampe e testa sotto il carapace, come una tartaruga, e a menare terribili colpi con la coda, robusta come una mazza. Questo carro armato vivente abitava nella pampa argentina, era erbivoro e comparve nel Pliocene (da 7 ad 1,8 milioni di anni fa), sopravvivendo fino a 10.000 anni fa, quando la caccia spietata da parte dei nostri antenati lo condannò.
Il mammut (Elephas primigenius) qui raffigurato era un tipico abitante della tundra del Pleistocene (da 1,8 milioni a 10.000 anni fa). Raggiungeva la statura di quattro metri e mezzo, ed era caratterizzato dalle grandi zanne ricurve, dalla gobba di grasso sulle spalle per poter affrontare l'inverno artico e dalla tipica protuberanza sul cranio. Durante le glaciazioni questo animale perfettamente adattato alla vita sui ghiacci dominava l'Eurasia e il Nordamerica; si estinse con la fine dell'ultima glaciazione, circa 10.000 anni fa, quasi sicuramente a causa della caccia spietata che gli davano gli uomini dell'età della pietra.
Lo smilodonte (Smilodon californicus) o tigre dai denti a sciabola visse durante il Pleistocene nelle due Americhe, e poté colonizzare il sud partendo dal nord dopo l'emersione dell'istmo di Panama. Esso causò la scomparsa di molti grandi erbivori dalle pampas argentine, ma a sua volta dovette estinguersi, oltre che in seguito alla scomparsa dei grandi animali di cui si nutriva, soprattutto a causa della spietata caccia datale dai nostri diretti antenati.
Ed ecco un teschio di smilodonte da me fotografato presso il Civico Museo di Storia Naturale di Milano. Il suo nome significa "Dente a pugnale", e dalla foto è immediato comprendere il perchè. Questo predatore è noto soprattutto per i numerosi scheletri completi ritrovati a Rancho La Brea, in pieno centro di Los Angeles, dove enormi pozze di bitume per migliaia di anni intrappolarono animali di tutti i tipi, restituendo oggi le loro ossa fossili, per la gioia dei paleontologi.
Non poteva mancare in questa rassegna l'orso delle caverne (Ursus spelaeus), una specie di orso vissuta in Eurasia nel Pleistocene, di cui qui vediamo il teschio conservato al Museo suddetto. Era più grande di ogni orso oggi vivente, e sulla schiena possedeva un gobba di grasso, come è stato dedotto dai dipinti parietali che ci hanno lasciato i nostri antenati, per i quali fu un formidabile avversario. Si estinse circa 10.000 anni fa, al termine delle glaciazioni, senza lasciare discendenti.
Questo disegno illustra l'evoluzione dell'uomo a partire dall'Australopithecus afarensis, vissuto nel Pliocene (7-1,8 milioni di anni fa) e ritrovato da Donald Johanson nel 1974. Da esso nel Pleistocene derivano due linee evolutive, quella degli Australopiteci, estintasi senza lasciare discendenti, e quella degli Homo, probabilmente responsabile dell'estinzione dei "cugini". L'Homo habilis apparve 1,8 milioni di anni fa, l'Homo ergaster comparve 1.600.000 anni fa, l'Homo erectus gli subentrò 1.250.000 anni fa, mentre l'Homo sapiens vide la luce 450.000 anni fa.

Ed ecco una grande carrellata di fossili da me disegnati nel lontano 1984, che percorre tutte le ere geologiche: 1) roccia contenente batteri fossili; 2) alghe filamentose vissute un miliardo di anni fa; 3) alghe verdazzurre fossili; 4) piccolo trilobite vecchio di 600 milioni di anni; 5) graptolite fossile; 6) impronte di alghe marine; 7) pesce senza mascelle del genere Placodermis; 8) Nautiloide, cefalopode a conchiglia conica dell'Ordoviciano; 9) Boyofite, le primissime piante vascolari; 10) uno dei primi miriapodi terrestri; 11) Osteolepide, uno dei primi pesci dotati di mascelle; 12) l'Ittiostega, il primo vertebrato terrestre; 13) esemplare di felce; 14) un anfibio più evoluto, il Discosaurisco, vissuto nel Carbonifero; 15) antica libellula la cui impronta fossile è stata conservata in una roccia; 16) Seymouria, il primo rettile; 17) Dimetrodonte; 18) Ammonite, conchiglia larga oltre 60 cm vissuta nel Mesozoico; 19) Tyrannosaurus rex; 20) impronta di piede di Brachiosaurus, che può contenere 60 litri d'acqua; 21) Archelone, testuggine lunga 3 m e pesante 20 quintali; 22) Ranforinco, un rettile alato; 23) Eoippo, cavallo primitivo lungo quanto un gatto; 24) Uintaterio, mammifero dalle sei corna sul muso; 25) piccolo scarabeo conservatosi nell'ambra; 26) Smilodonte o Tigre dai denti a sciabola; 27) testa di Platibelodonte, strano pachiderma con quattro zanne di cui due piatte; 28) testa di Mammut; 29) testa di rinoceronte peloso del Quaternario, vissuto 300.000 anni fa; 30) cranio di Australopiteco; 31) parete dipinta con un Uro o Bos primigenius; 32) punta di selce scheggiata del Paleolitico; 33) le piramidi di Gizah, costruite verso il 2450 a.C.

La carrellata dei fossili non può concludersi senza un'immagine che testimonia la progressiva evoluzione dello spirito umano, parallelamente alla sua struttura corporea. Qui vediamo la cosiddetta tavoletta di Narmer,  risalente all'incirca al 3000 a.C. Essa mostra il fondatore della prima dinastia egizia, e dunque il primo Faraone della storia, intento a percuotere i suoi nemici. E' anche uno dei primissimi esempi di scrittura: per due volte il nome del Faraone è scritto per ben due volte associando il simbolo di un pesce (in egizio NAR) a quello di uno scalpello (MER), in modo che NAR + MER = NARMER. Geniale, no?
Ed eccoci alla fine dell'Olocene, l'ultimo periodo della storia geologica della Terra; cioè, al presente. Dopo essere passato attraverso le selci scheggiate, gli archi, le armature in metallo e gli archibugi, l'uomo ha dato vita alla civiltà tecnologica ed ha edificato i grattacieli. Ma ecco che il circuito si chiude e, accanto alle meraviglie della mente umana, ritroviamo la Madre Natura con il cielo azzurro dietro questo spettacoloso skyline di New York, con la maestosa torre dell'One World Trade Center là dove sorgevano le Torri Gemelle, distrutte nel 2001. Sotto si può vedere anche lo skyline in notturna; entrambe le foto sono opera di Luca Chiurazzi. Proprio vero: ogni parto dell'umana fatica è nulla, rispetto agli imponenti panorami dell'universo in cui viviamo!
Quello che vedete a fianco è un mosaico di alcune fotografie riprese nel Liceo in cui insegna l'autore di questo sito in occasione della mostra allestita per il Bicentenario della Nascita di Charles Darwin, durante la Settimana della Scienza dal 14 al 27 marzo 2010. Come si vede, i volenterosi studenti hanno trasformato una colonna della scuola in una incredibile ed efficacissima rappresentazione della Scala del Tempo che, partendo dall'alto, in pieno Adeano, scende giù giù attraverso tutti i gradini dell'evoluzione sino all'Uomo. I modelli sono stati realizzati tutti in cartapesta dagli stessi studenti, cui va il nostro grazie più sentito e sincero!
In una galleria dedicata alle Scienze della Terra non si può fare a meno di parlare di meteorologia. Ed ecco la centralina meteo installata nel mio Liceo e collegata direttamente al satellite, il cui video che mostra il tempo sopra l'Europa il 9/1/2006. La cosa veramente notevole è il fatto che sono gli stessi studenti a compilare le previsioni del tempo, sotto la guida degli insegnanti di scienze! Ecco un filmato digitale che illustra il movimento dei corpi nuvolosi sopra l'Europa.
Questo è un esempio di centralina meteo installata invece a Lonate Pozzolo, il mio comune natale. Come si vede, essa comprende un anemometro per la misura della velocità del vento (a sinistra), un igrometro per la misura dell'umidità atmosferica, un termometro per la misura della temperatura, e così via. I dati raccolti vengono immediatamente inviati va radio ad un computer che provvede ad elaborare lo stato dell'atmosfera e, di conseguenza, le previsioni meteorologiche.
Ed ecco i risultati delle previsioni del tempo sull'Europa stilati dagli studenti del mio Liceo usando la centralina suddetta. Si vedono bene le isobare (cioè le curve che congiungono i punti con la stessa pressione atmosferica), i centri di alta e di bassa pressione, le perturnazioni e, nelle cartine sottostanti, le zone colorate che rappresentano le aree dove la temperatura è compresa in un certo range di variazione (l'azzurro indica le zone più fredde, il rosso quelle più calde). Volenterosi i nostri studenti, eh?
Cominciamo ora a vedere la classificazione delle nuvole. Le prime che incontriamo sono i cirri (dal latino cirrus, ricciolo), nubi di altissima quota, lunghe e sottili, la cui forma è quella di filamenti terminanti ad uncino. Si trovano tra i 6000 e i 13.000 metri, e sono per lo più composte da cristalli di ghiaccio.
Come indica il loro nome, gli strati sono nuvole che si estendono uniformi a ricoprire la maggior parte del cielo visibile. Non si distinguono le singole nubi, anche se possono esservi discontinuità che interrompono la continuità della copertura. Esse si trovano ad altezze intermedie fra quelle dei cirri e quelle dei cumuli, e cioè tra i 2000 e i 6000 metri di quota.
La fotografia illustra invece una serie di altocumuli, nubi bianche o grigie formate da minuscole goccioline d'acqua, per lo più di forma tondeggiante e separate tra loro, che tendono a disporsi l'una in fila all'altra; esse danno vita al famoso "cielo a pecorelle" e, come dice il ben noto proverbio, possono annunciare "acqua a catinelle", perchè una massa d'aria calda ascendente scorre su di una fredda che si incunea sotto di essa, portando prima gli strati, poi gli altocumuli ed infine le nubi temporalesche.
Ed ecco un cumulo, cosiddetto perchè assomiglia effettivamente ad un covone: è una grande nube bianca dai contorni assai netti, con la base piatta e la cima a forma di cupola, di montagna (come nel caso della fotografia) o di torre. A volte la loro struttura è definita "a cavolfiore". In genere i cumuli compaiono isolati nelle giornate soleggiate ("cumuli di bel tempo"). A volte possono crescere in direzione verticale in misura impressionante, dando vita ad un cumulonembo foriero di acquazzoni.
Durante un forte temporale compare il quarto tipo di nubi, i nembi, rappresentati da masse informi di colore grigio molto scuro (a causa del loro forte spessore). Essi sono sempre associati a forti precipitazioni, sia piovose che nevose (in quest'ultimo caso appaiono biancheggianti), e possono dar vita anche a pericolose grandinate. Cliccando qui potrete scaricare una bellissima presentazione in Power Point dell'amico Salvatore Argenziano, che mostra il movimento delle nuvole sopra il Monte Faito!
Nelle nubi più imponenti, i cumulonembi, può aver origine il tipo di precipitazione atmosferica più dannoso in assoluto: la grandine. Essa è costituita da pezzi di ghiaccio (detti chicchi), delle forme più varie, che si formano nelle nubi se le correnti ascensionali isono abbastanza forti: un pezzo di ghiaccio viene allora trasportato su e giù varie volte, dove si fonde con altri pezzi di ghiaccio, diventando sempre più pesante. Quando le correnti non riescono più a trattenerli, questi cadono a terra ad elevata velocità, causando i danni a colture e cose che si possono ben vedere in questa fotografia composita.
Si chiama vento lo spostamento di grandi masse atmosferiche dovute a differenze di pressione, ingenerate a loro volta dal diverso riscaldamento dell'atmosfera terrestre. La velocità del vento è tanto più elevata quanto è maggiore la differenza di pressione; la "forza", cioè la velocità del vento, è classificata nella cosiddetta "scala Beaufort". Se il vento è molto intenso, si parla di bufera o addirittura di uragano (da Urakan, il nome del dio Maya delle tempeste). L'intensità dei venti è tuttora misurata mediante la scala Beaufort, dal nome dell'ammiraglio inglese F. Beaufort (1774-1857).
Per verificare da che direzione spiravano i venti si usava un tempo una banderuola girevole posta sui tetti, come quella qui a fianco; si chiama "vento settentrionale" un vento che viene da nord e spira verso sud. Da notare che gli attuali nomi dei venti derivano dalla direzione da cui li si vede provenire dall'isola di Malta: il Libeccio dalla Libia, il Grecale dalla Grecia, e così via. 
La spettacolare foto (cortesia della NASA) illustra nel migliore dei modi il fenomeno atmosferico noto come ciclone; si tratta di quello, devastante, che ha imperversato sul Queensland australiano nel marzo 2006. Il suo nome deriva dal greco kyklos (cerchio), poiché si tratta di una massa d'aria animata da un vorticoso movimento rotatorio, antiorario nell'emisfero boreale, orario in quello australe. Essa è accompagnata da fortissimi venti, da un brusco abbassamento della pressione barometrica e da precipitazioni di forte intensità. I cicloni tropicali come quello nella fotografia sono vortici di diametro molto piccolo, talora di un centinaio di chilometri soltanto animati da una fortissima velocità di rotazione e da grande velocità di traslazione. Il vento può superare anche i 200 km/h, e non c'è opera dell'uomo che possa resistere alla sua furia!
La fotografia in questione è stata scattata dall'amico Sandro Degiani (che ringrazio particolarmente) nelle isole di Capo Verde (oceano Atlantico), e mostra una spettacolare onda che si frange sulla battigia. Il moto ondoso è dovuto all'azione dei venti sulla superficie del mare, e non viene avvertito a una profondità superiore ai 200 m. Non produce spostamenti orizzontali dell'acqua, ma solo un'oscillazione lungo un'orbita circolare o ellittica delle molecole. La loro altezza in mare aperto varia da 1 a 15 metri, la loro lunghezza da 35 a 150 m, la velocità è di 7-15 m/s, la durata da 5 a 10 secondi (vedi anche l'Armadio Virtuale delle Onde)
Niente di meglio, per illustrare il fenomeno delle maree, di questa spettacolosa foto dell'abbazia di Mont Saint-Michel, in Normandia, che sorge su di uno spuntone di granito alto 92 metri. La marea raggiunge qui i 14 metri di dislivello e monta con grande rapidità (si dice con la velocità di un cavallo al galoppo): questo fa sì che l'isolotto, unito alla costa da grandi banchi di sabbia, resti completamente circondato dal mare, anche se dal 1880 una diga congiunge stabilmente con la terraferma l'abbazia dedicata all'arcangelo Michele. Questa foto è stata scattata nell'estate 2009 dalla mia amica Anna Elena Galli.
Questo spettacoloso montaggio, che mi ha richiesto più di un anno di lavoro, illustra perfettamente il ciclo stagionale attraverso quattro fotografie dello stesso soggetto (la collina di Crenna presso Gallarate) riprese rispettivamente in primavera, estate, autunno e inverno (da sinistra a destra e dall'alto in basso). Questo ciclo dipende dal fatto che l'inclinazione dell'asse terrestre è fissa e quest'ultimo non cambia mai direzione, cosicché in inverno i raggi solari arrivano assai più inclinati che in estate, e ciò riscalda diversamente il pianeta; la distanza della Terra dal Sole dunque non c'entra nulla!
Il ciclo stagionale è ben visibile anche nel confronto tra queste due fotografie del Monte Rosa (al confine tra Piemonte e Svizzera), scattate dal mio paese a quattro mesi di distanza. La foto soprastante risale alla fine di agosto 2007, quella sottostante al 21 dicembre 2007. Si può notare la maggior estensione invernale delle nevi lungo tutti i fianchi della montagna. Per vedere una foto più dettagliata di questa famosissima montagna, cliccate qui.
Vediamo ora alcune fotografie di tipici ambienti terrestri. Mi sembra logico cominciare da "casa mia": il Parco Naturale del Ticino è caratterizzato dal fenomeno della brughiera, qui fotografata dal sottoscritto. Il suolo della brughiera è costituito da uno strato alluvionale di ghiaia e sabbia, intervallato talora da lingue di ferretto o argilla, molto permeabile e ricoperto da un sottile manto di terriccio con elevato grado di acidità. Su di esso cresce una stentata vegetazione, costituita dal brugo (« brügh », donde « brüghera »), cioè la « Calluna vulgaris », dalla ginestra e dal « paiom », ovvero la Molinia coerulea. Come si vede in fotografia, spesso quest'ambiente è associato a vasti boschi di robinie o di querce (vedi anche questa pagina).
La figura mostra il tipico paesaggio collinare delle regioni temperate subalpine: modesti rilievi caratterizzati da una sommità di forma tondeggiante (si parla anche di "mezza montagna"), ricoperti da una tipica vegetazione a foresta decidua (faggi, querce, betulle, abeti, pini). In questo caso si tratta delle colline che circondano la città di Varese; sullo sfondo le Alpi svizzere.
Ed ecco invece un tipico paesaggio di alta montagna, in due foto scattate dall'autore di questo sito il 13 luglio 1995 alle cascate del Toce (visibili sulla destra, parzialmente chiuse), a 1697 m di quota in val Formazza, provincia di Verbania. Dette anche La Frua (Frütt Fall in dialetto Walser); con esse il fiume Toce supera un salto di 143 metri, con un fiocco d’acqua alla base di 60 m: di certo si tratta di una delle cascate più spettacolari delle Alpi, anche se a monte di esse il Toce forma il lago artificiale di Morasco, che alimenta tre centrali idroelettriche, e ne ha ridotto notevolmente la portata. Si notino i profili aguzzi delle rocce e le conifere che proliferano anche a queste alte quote.
Passiamo ora alla foresta pluviale: è un tratto di essa che sopravvive nel cuore dell'isola portoghese di Madeira, fotografata dall'amica Anna Elena Galli durante un'escursione. Questa foresta è caratterizzata da elevata piovosità, compresa tra i 1750 e i 2000 millimetri annui di pioggia; nelle foreste pluviali si trovano i due terzi di tutte le specie viventi animali e vegetali della Terra, e molti milioni di specie di piante, insetti e microrganismi sono tuttora sconosciute. Osservando questa foto si capisce perchè i portoghesi diedero questo nome all'isola di Madeira, che nella loro lingua significa "legno"!
Non poteva certo mancare il meraviglioso paesaggio di una spiaggia tropicale, questa volta fotografata dall'amico Sandro Degiani durante l'estate 2009 alle isole Seychelles, nell'Oceano Indiano. Esse sono le uniche isole granitiche oceaniche del mondo e su di esse vivono settantacinque specie di piante uniche al mondo. Purtroppo paradisi come questi sono sempre più minacciati dal turismo, che spesso costituisce l'unica risorsa per la loro popolazione.
Un'altra stupenda foto di Sandro Degiani, scattata durante una sua vacanza alle isole Maldive nel febbraio 2010. In essa è possibile vedere un atollo: si tratta di un'isola vulcanica esplosa tanto violentemente che il cono è stato distrutto. Lo spazio interno viene invaso dall'acqua, formando una laguna; intorno all'isola si forma nel corso dei millenni una barriera corallina che affiora dalla superficie marina, permettendo lo sviluppo di bassi fondali con sedimenti detritici derivati dall'erosione cdella formazione corallina più superficiale. Da qui la particolare colorazione rosata della sabbia. In pratica l'atollo è una formazione geologica prodotta dalla vita! In particolare gli atolli delle Maldive non sono più alti di 15-20 metri sul livello del mare.
Questa foto, scattata dal sottoscritto tra Gerusalemme e Gerico, mostra un tipico paesaggio desertico. I deserti sono di tre tipi: sabbioso come il Sahara, roccioso come i Gobi e pietroso come, per l'appunto, il deserto di Giudea qui ritratto, teatro di tanti episodi biblici. A determinare la formazione di un deserto è generalmente l'aridità del clima; la desertificazione di ampie zone del pianeta è uno dei più gravi problemi del nostro secolo.
La foto da satellite (cortesia della NASA) rappresenta uno dei punti più conosciuti ed insieme più terribili del pianeta: il capo Horn, la punta più meridionale della Terra del Fuoco e dell'intero Sudamerica. La zona, dove Jules Verne ambientò il suo romanzo "Il faro in capo al mondo", è nota per le fortissime correnti dei due oceani che si scontrano, per i venti, per le altissime onde e per gli iceberg provenienti dall'Antartide. Eppure questo era il passaggio obbligato tra Atlantico e Pacifico prima del taglio dell'istmo di Panama!
Un iceberg dell'Antartide, il più remoto ed inesplorato dei continenti terrestri. Gli iceberg nascono in seguito al distacco di masse di ghiaccio dalle barriere polari o dai ghiacciai, per effetto del moto ondoso o delle maree. Recentemente la missione GRACE (Gravity Recover and Climate Experiment) della NASA ha messo in evidenza come l'Antartide stia perdendo buona parte della sua calotta di ghiaccio sotto forma di iceberg alla deriva. Indovinate di chi è la colpa...
Infine, anche gli studi sull'inquinamento fanno parte delle scienze della Terra. In questa foto vediamo lo schermo del computer collegato alla centralina per la misurazione delle polveri sottili nell'atmosfera di Gallarate (VA). Le polveri sottili rappresentano un pericolo gravissimo perchè, infiltrandosi nei polmoni, possono causare tumori e patologie respiratorie. Monitorarli è essenziale, ma purtroppo spesso le misure anti-inquinamento (targhe alterne, blocchi della circolazione, ecc.) si mostrano inefficaci poiché la maggior parte del particolato è emesso da riscaldamenti domestici ed industrie.
Scarica una sintesi della classificazione delle principali rocce e minerali
Visita, se vuoi, il grande ipertesto didattico intitolato « L'ANNO DELLA TERRA »
Le foto di laboratorio (modellini e minerali) si devono alla cortesia del prof. Carlo Puglisi
Queste immagini possono essere liberamente utilizzate da chiunque, purché se ne citi la fonte

 

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