« Nell'unione delle tratte e nella massima curvatura dei risvolti dovranno essere piantati vari pezzi di miarolo bianco grossi m. 0,20, larghi m. 0,40, alti m. 0,90, i quali per m. 0,30 apparire debbono sopra terra, portano nella faccia verso strada due iniziali ed il rimanente di m. 0,60 saranno sepolti sotto terra, senza muratura, all'oggetto di avviare lo spezzamento; 2 di questi termini saranno posti in principio della strada all'oratorio di S. Sigismondo, e 2 alla metà dell'ultimo tratto.
Tali pezzi d vivo saranno in m. 50, e si lavoreranno a tutta regola d'arte per la posizione superiore al ciglio delta strada.
Finalmente l'esecutore leverà il fango la polve ed ogni qualunque materia della strada, prima di por mano all'espandimento della ghiaia
prescritto.
Lonate Pozzolo, 1831 »
Dall'appalto con l'ingegner Andrea Mariani di Cuggiono per la manutenzione della Via di Gaggio
La via di Gaggio è
una delle più pittoresche strade ciclopedonabili che attraversano il territorio
di Lonate Pozzolo, perchè taglia praticamente in due tutta la brughiera che si
estende tra Lonate, Tornavento e l'aeroporto della Malpensa, congiungendo il mio
comune alla sua frazione. Domenica 24 giugno 2007 ho deciso di attraversarne un
tratto a piedi e di scattare delle foto, per permettere a tutti i visitatori del
mio sito di godere dell'amenità del paesaggio boschivo che si estende a
brevissima distanza da grandi centri come Busto Arsizio e Gallarate, e per
mostrare a tutti i reperti della Seconda Guerra Mondiale che costellano il
camminamento tra i boschi.
Prima però vediamo di inquadrare geograficamente quella che in passato era una
importantissima via di comunicazione tra Lonate e il Ticino, e quindi tra Lonate
e il mondo. Ecco una foto satellitare ripresa da Google
Earth (come altre già presenti in questo sito) a confronto con una
disegnata da me stesso, che ritrae la stessa zona mettendo in evidenza le varie
zone botaniche della brughiera tagliata in due dalla Via di Gaggio, e ripresa
dalle cartine messe a disposizione dal Parco del Ticino all'inizio e alla fine
del percorso. Le mappe, come la legenda, sono cliccabili.
Legenda: 1 - Cucina da campo tedesca (1944); 2 - Indicatore stradale di strada comunale (1830); 3 - Prima pista di raccordo aerei (1944); 4 - Antica strada comunale per Tornavento (inizio del XVIII secolo); 5 - Seconda pista di raccordo aerei (1944); 6 - Paraschegge (1944); 7 - Incrocio con la Strada Nazionale del Porto di Oleggio diretta a Milano (inizio del XVIII secolo); 8 - Ex dogana Austro-Ungarica di Lonate Pozzolo, oggi centro parco; 9 - Ponte in ferro sul canale Villoresi (1882); 10 - Cascina Maggia e Oratorio della Consolata; 11 - Ponte in ferro sul Ticino.
Eccomi dunque all'inizio della via ciclopedonabile, posta a poca distanza da viale Ticino, ma già sufficiente perchè qui il fragore del traffico cittadino non riesca a giungere. L'inizio del sentiero è segnato da un cartello che indica la distanza dalla ex Dogana Austro-Ungarica di Lonate, oggi Centro Parco, della quale abbiamo parlato nella pagina dedicata alla fotopasseggiata da Tornavento al Ticino. Come si vede, è indicata anche la distanza dalla cucina tedesca e dal paraschegge, dei quali parleremo più sotto.
Il nome Gaggio da
dove deriva? Si pensa che si tratti di un toponimo longobardo, disceso da "gehagem",
voce che designava i boschi di proprietà dei cosiddetti "arimanni",
cioè di quelli che nella società romano-barbarica erano gli uomini liberi atti
a portare armi.
Per molto tempo la strada di Gaggio costituì una delle più importanti vie di
comunicazione con la valle del Ticino: infatti collegava Lonate Pozzolo al Porto
sul fiume e al mulino di Gaggio. La via perse tutta la sua importanza nel 1889,
con la costruzione del ponte sul Ticino e l'apertura di una nuova strada
provinciale.
La brughiera lonatese e la via di Gaggio ebbero purtroppo, da allora in poi, un
ruolo importante dal punto di vista militare. Già durante l'occupazione
austriaca della Lombardia erano utilizzate come campo di esercitazioni militari;
nel 1897 vi fu insediato un poligono di tiro per l'artiglieria del Regio
Esercito (cambiano i padroni ma le brutte abitudini restano), e dal 1924 la zona
venne adibita a campo di esercitazione per l'Aeroporto della Promessa. I
tedeschi, come vedremo tra poco, ne approfittarono volentieri, ed ancora nel
dopoguerra fu teatro di esercitazioni militari dell'Esercito Italiano.
Solo nei primi anni novanta del secolo scorso, cessato ogni utilizzo militare,
la strada di Gaggio fu recuperata per uso turistico, quando la sensibilizzazione
verso i problemi dell'ambiente spinse a preservare e a rendere facilmente
visitabile da tutti l'ambiente tipico della brughiera lombarda; ed infatti, nel
corso della mia passeggiata, io ho avuto modo di incontrare molti turisti che, a
piedi o in mountain-bike, percorrevano la strada approfittando della frescura
fornita dagli alberi, in fuga dal grigio tran tran della vita di paese.
Ma cos'è esattamente la brughiera?
La brughiera (dal
latino volgare brucus, "erica") è un ambiente tipico della pianura
lombarda, caratterizzata da terreno argilloso e sabbioso, povero di humus. La brughiera
di Gaggio, come recitano i cartelli indicatori posti dal Parco del Ticino
all'inizio e alla fine del percorso, è uno degli ultimi lembi della già vasta
brughiera gallaratese. La vegetazione tipica è composta dalla ginestra
dei carbonai (Sarothamnus scoparius), dai fiori gialli che spuntano a
fine maggio, e dal brugo (Calluna vulgaris), dai
fiori di colore viola, che appaiono a fine estate. Queste due specie formano dei
vasti arbusteti quasi privi di alberi.
Ma per lo più la strada di Gaggio corre tra due ali di alberi d'alto fusto,
come mostra la fotografia soprastante, che ricorda da vicino i versi di
Baudelaire: "La Nature est un temple où de vivants
piliers / laissent parfois sortir de confuses paroles; / l'homme y passe à
travers des forêts de symboles / qui l'observent avec des regards familiers..."
Oltre alla brughiera vera e propria,
infatti, si può osservare la brughiera boscata. Le
sue piante più caratteristiche sono la betulla
(Betula pendula), dalla tipica corteccia bianca, e il pino silvestre (Pinus
sylvestris), che crescono su un terreno più ricco di humus e meno permeabile.
Formano boschi radi in associazione con il pioppo
(Populus tremula), introdotto dall'uomo, e con la presenza di felci aquiline (Pteridium
aquilinum) e di molinia (Molinia coerulea), una pianta erbacea della famiglia
delle graminacee.
Quello raffigurato qui sopra è invece il cosiddetto bosco
di transizione, formato da piante di origine americana ormai
naturalizzate nei nostri ambienti, come la robinia
(Robinia pseudoacacia), la quercia rossa (Quercus rubra) e il ciliegio tardivo (Prunus
serotina), che nei nostri boschi è diventato una pianta infestante. Sono
presenti inoltre tutti gli arbusti tipici della valle del Ticino: biancospino,
sambuco, fusaggine,
ligustro, eccetera.
Lungo una diramazione della via di Gaggio è possibile osservare anche uno degli
ultimi esemplari della foresta planiziale della pianura padana: il cosiddetto bosco
dei carpini, costituito dalla farnia (Quercus robur) e dal carpino (Carpinus
betulus), che forma un boschetto fitto e ombroso.
Cosi scriveva nel 1879 il dr. Ercole Ferrario a riguardo della brughiera, in un
contributo per l'« Inchiesta agraria » prima della costruzione dell'aeroporto
militare della « Promessa
» e del connesso « Campo del bombardamento »;
«
Le brughiere, un tempo assai più estese, occupano tutt'ora un'assai
ragguardevole parte del territorio del circondario (di Gallarate), la quale si
può computare a circa ettari 5.000.
La più vasta fra esse è quella che si dice la Gradonasca o brughiera di Somma
e Gallarate, la quale è rammentata nelle storie per l'aspra battaglia
di Tornavento ivi data nel 1636 agli spagnoli dai francesi collegati ai
piemontesi, e che acquistò una certa rinomanza dacché dal 1831 in poi i
soldati ogni anno vi si recano per le loro esercitazioni ».
Non fate caso alla fastidiosa prosopopea delle didascalie. Vale davvero la pena di fermarsi ad osservare da vicino questi autentici esempi di attrezzi agricoli, in uso fino a che la meccanizzazione li ha trasformati appunto in pezzi da museo, per lo più sconosciuti ai giovani d'oggi. Si noti soprattutto il vomere in ferro, visibile sulla destra.
Proseguiamo il cammino lungo il percorso e, a 200 metri circa dalla partenza, troviamo un reperto molto recente, nonostante l'aspetto di anticaglia. Si tratta dei resti di una cucina da campo tedesca, realizzata nel 1944, e quindi durante l'infelice parentesi della Repubblica Sociale Italiana. La struttura, con annesso lavatoio (a sinistra), conferma l'uso militare della zona fino a tempi assai recenti. Ancor oggi sono presenti, ormai seminascoste dalla fitta vegetazione che ne ha ripreso possesso, altre infrastrutture militari come trincee, camminamenti, torrette di osservazione, bunker, vasche di deposito dell'acqua e così via.
Ed ecco, subito dopo, un indicatore stradale posto in loco nel 1830 circa; la sigla S.C. indica che si trattava effettivamente di una strada comunale. La foto soprastante mostra anche un cartello, posto accanto all'indicatore in tempi recenti, sul quale è riportato uno stralcio di un documento comunale del 1831, in cui si impone appunto la posa, ogni 50 metri, di cippi come questo al lato della strada. Si può proprio dire che la via di Gaggio rappresenta un itinerario storico nel passato del nostro comune.
Cippo che ricorda ai moderni viaggiatori, che seguono tranquillamente l'itinerario della Via di Gaggio facendo jogging o pedalando in mountain bike, come fino a pochi decenni fa i nostri antenati percorrevano la stessa strada portando enormi gerle zeppe di grano da macinare al mulino di Gaggio.
Anche lungo la via di Gaggio troviamo testimonianze di antichissimi confini di proprietà.
Ed eccoci giunti alla prima
pista di raccordo aerei, anch'essa risalente al 1944. Durante
l'occupazione nazista (1943-1945) vennero costruite piste in ghiaia e cemento,
con una larghezza uniforme di 12 metri e uno spessore di 20 centimetri, lunghe
in tutto 25 Km nel solo territorio di Lonate! Esse collegavano gli aeroporti
militari di Lonate (il famoso Campo
della Promessa) e della Malpensa. C'era anche una pista di lancio che
serviva entrambi gli aeroporti, e che veniva usata in caso di allarme.
Nella zona si possono osservare tuttora anche i resti del paraschegge,
cioè un'area fortificata per il ricovero degli aerei. Nel territorio di Lonate
ne vennero costruiti ben 39, la maggior parte in terra ed alcuni in cemento; il
loro scopo era quello di decentrare e camuffare gli aerei in caso di
bombardamento da parte degli Alleati.
Questo cartello dice già tutto senza bisogno di didascalie. La "Barägia" (termine dialettale di origine incerta) rappresentava l'insieme dei terreni coltivati al di fuori dell'abitato che, come si può ricavare da un testo del 1830, giungevano fino a qui. Da qui in poi, solo brughiere.
Un altro cippo indica la strada percorsa sino a qui e quella mancante per giungere al Ticino. Come si legge, all'epoca della posa di questa pietra, da questo punto le prime case di Lonate distavano un miglio e mezzo in direzione est, e il porto di Oleggio (cioè sul Ticino) due miglia e mezzo in direzione ovest.
Ad un certo punto si incontra, sulla sinistra venendo da Lonate, un macabro "museo delle bombe", cioè dei residuati del vicino Campo della Promessa. In realtà non ci sono solo bombe: qui a sinistra si vede la colonnina "in stile littorio" (come recita la didascalia) che ornava l'area di svago dell'aeroporto, mentre a destra si vedono frammenti delle bombe alleate scagliate sul vicino Ponte di Oleggio. Due ricordi molto brutti per entrambi gli schieramenti in campo.
Il suddetto museo all'aperto comprende anche questo assortimento di laterizi, manufatti e suppellettili provenienti dall'ormai sparito Campo della Promessa. Alla fine della guerra esso fu saccheggiato dai soliti sciacalli, e ne rimase ben poco.
Ed ecco due foto che illustrano il suddetto "museo delle bombe": una triste sfilata di ordigni preparati da uomini per dare la morte ad altri uomini. Si noti che sono presenti anche frammenti di pilastri e di vetri originali del suddetto aeroporto. Vengono in mente le parole del duca di Wellington, il vincitore di Napoleone: "L'unica cosa peggiore di una guerra persa, è una guerra vinta!"
Come recita chiaramente la scritta (AGIP), questo è il sigillo di una cisterna di carburante del nostro aeroporto, risalente al 1930 e quindi molto più vecchio dei suddetti residuati bellici.
Iniziamo ora una galleria di fotografie degli oggetti rinvenuti in Via di Gaggio dall'amico Giovanni Crespi, e qui pubblicate dietro suo permesso. Si comincia con la foto a sinistra di un caricatore completo di Mouser e di uno di Carcano (quello con sei colpi). I bossoli di Carcano sono datati 1940-41, mentre il caricatore porta la data 1931. Per i bossoli Mouser c'à la remota possibilità che siano posteriori all'ultima guerra; l'amico Giovanni ha trovato due esemplari di questi bossoli anche nella zona dell'aeroporto della Promessa, inaccessibile ai civili fino al 1991. La foto ritrae due bossoli appartenuti a velivoli, del tipo utilizzati dai Messerschmitt Bf 109 e anche dai nostri aerei che venivano nascosti nei paraschegge della Via di Gaggio.
Ecco altre foto di proiettili rinvenuti nei dintorni di Lonate da Giovanni Crespi. Il primo con la punta piegata è stato rinvenuto con il metal detector sulla spiaggia sul Ticino dopo il ponte di Oleggio, mentre il secondo da destra sembrerebbe un grosso proiettile italiano. Il terzo e il quinto sono di ottima fattura costruttiva, in assenza di riscontri balistici o militari la sola cosa certa è che sono esplosivi. Il quarto appartiene ad una Breda. Degli altri tre sottostanti, il primo e più tozzo, un po' deformato dall'impatto con qualche oggetto, è di un revolver di tipo Bodeo, una vecchia pistola che è stata in dotazione al Regio Esercito italiano dal 1895 fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La particolarità di questa pistola sta nel fatto che era di calibro 11: ecco perché il proiettile è così grosso. Il secondo invece è un proiettile calibro 6.5, un calibro utilizzato dalla Beretta 1935 (a differenza delle Beretta 1934 che era di calibro 9). La Beretta 1935 calibro 6.5 era in dotazione alla Regia Marina ed alla Regia Aeronautica, che come sappiamo aveva base nell'aeroporto della Promessa: forse all'epoca qualcuno con queste due pistole sparò agli aerei nemici durante qualche attacco. Il proiettile maggiore è invece di un Mannlicher, fucile di origine austriaca utilizzato nella Prima Guerra Mondiale dai nostri nemici e requisiti dagli stati vincitori. Questi fucili furono utilizzati sia dagli italiani sia dai tedeschi durante tutto il Secondo Conflitto Mondiale. Quanto ai proiettili sferici, secondo l'amico Sandro Degiani dal diametro potrebbero essere proiettili da ramparo, ossia da muro o da assedio, datandoli così a circa metà '800.
Non può mancare la maglia di un caricatore disintegrabile ritrovato (nella brughiera alla sinistra in fondo alla prima pista di raccordo aerei. Giovanni ha trovato sedici maglie, alcune delle quali non integre, che potrebbero essere servite per munizioni calibro 12, anche se in via Gaggio questo calibro non lo ha mai ritrovato. Secondo lui, nel punto dove le ha rinvenute all'epoca c'era una mitragliatrice antiaerea, visto che le ha rinvenute tutte in un raggio di circa 5-6 metri.
Questa che vedete sotto invece è una foto delle quattro bombe a mano rinvenute da Giovanni Crespi in via Gaggio. Portarle alla luce e'stato molto pericoloso data anche la posizione in cui si trovavano, come si vede nei dettagli a sinistra; la bomba che qui vedete parzialmente interrata è la prima in alto a sinistra nella foto d'insieme. Dopo accurate ricerche questa bomba è risultata tedesca, gli italiani utilizzavano le SRCM modello 35 che sono assai differenti da questa e anche meno efficaci. La bomba è esplosa, perchè manca tutta la parte del l'innesco. La zona del rinvenimento è quella tra i due paraschegge. In prossimità sorge una pista che sembrerebbe essere stata distrutta da esplosioni. Lì Giovanni ha rinvenuto tantissimi altri frammenti di bombe a mano identiche a quella rinvenuta intera, e si è fatto due ipotesi. Da alcune ricerche da lui effettuate, pare che i tedeschi quando minavano ponti e strade erano soliti unire al normale esplosivo anche bombe a mano per aumentare la carica distruttiva; per cui, visto che il rinvenimento è avvenuto in prossimità di una pista distrutta e avendo trovati miriadi di altri frammenti di bombe a mano, Giovanni crede che abbiano minato la pista con esplosivo e bombe a mano, e quella rinvenuta può essere esplosa male. La seconda ipotesi porta a pensare che si tratti dei resti della bonifica avvenuta dopo la guerra, però non avrebbe avuto senso lasciarle lì anche se inerti, per cui noi propendiamo per la prima ipotesi.
Ma non basta. Il 26 febbraio 2014, in una fredda giornata sulla neve, l'amico Giovanni ha rinvenuto la grossa scheggia di granata di artiglieria che vedete qui sotto. Lasciamo la parola a lui:
«Sapeste che paura, quando l'ho trovata, perché sembrava intera e pronta a scoppiare! Sono andato con mani di velluto fino a quando l'ho sollevata molto cautamente, ed ho scoperto che era solo mezza bomba! Ho tirato un respiro di sollievo. Non ho mai misurato il mezzo diametro, ma la lunghezza è di circa trenta centimetri. Sicuramente è stata sparata, perché potete notare la cosiddetta corona, che ha delle righe verticali lasciate dalla canna rigata del cannone che imprime la rotazione al proiettile. Insieme a questa scheggia ho rinvenuto la parte in ferro di un grosso cacciavite (il manico di legno è marcito), dei bossoli di Manllicher, qualche scheggia e un grosso bossolo aeronautico, forse di un bf-109. Davvero una bella retata, quel giorno! »
Questo nella foto è un pezzo di bomba in cemento come quelle presenti nel suddetto museo delle bombe, che venivano usate nelle esercitazioni. Giovanni Crespi la ha rinvenuta a vista nel 2012 perché a filo del terreno fuoriusciva l'anello metallico usato per la movimentazione della finta bomba. Sempre Giovanni ci informa che ha fatto moltissima fatica ad estrarla e a trasportarla in bicicletta, perché è pesantissima e abbastanza grossa: la lunghezza della punta della bomba estratta è di circa 40 cm, e nella foto ha volutamente lasciato i suoi piedi per dare l'idea della grandezza del frammento. È stata rinvenuta nella zona di radura che si trova prendendo la prima strada a sinistra prima della prima pista di raccordo aerei, e proseguendo per qualche centinaia di metri. Sempre in quella zona Giovanni Crespi ha rinvenuto anche un'altra bomba da addestramento in ferro quasi integra da 10 pollici, a confronto con la prima nella foto a destra.
Qui sotto a sinistra, un'altra scoperta dell'amico Giovanni Crespi: un catino di metallo molto usato all'epoca per l'igiene personale, ma consegnato agli archivi della storia dopo il boom economico degli anni '50 e '60. Il nostro appassionato di reperti bellici lo ha rinvenuto dietro ai bagni tedeschi in via Gaggio. Nella foto al centro, un oggetto il cui scopo non è facile da arguire: si tratta del manico di un rasoio che era detto antitaglio rispetto a quello tradizionale, con la tipica forma di una lama di coltello. L'oggetto in questione è di bachelite anziché di plastica, e questo lo colloca nel periodo storico del quale stiamo parlando. La prova eseguita da Giovanni è semplice: si scalda un ago su di una fiamma e lo si appoggia sull'oggetto. Se l'ago sprofonda l'oggetto è di plastica, se non sprofonda è di bachelite. L'oggetto è risultato di bachelite, per cui è collocabile tra gli anni trenta-quaranta, ed è risultato simile a quello in un contenitore per farsi la barba abbandonato da un soldato tedesco. L'esercito all'epoca non forniva rasoi, per cui ogni soldato doveva procurarsi il proprio. Infine, a destra ecco una forchetta intera ritrovata nel 2013 su di un paraschegge e un altro pezzo di posata rinvenuta il 28 giugno 2014; come si nota, entrambe sono marchiate EI, segno inequivocabile del fatto che erano in dotazione all'esercito italiano durante la Seconda Guerra Mondiale.
Seguono a ruota questi altri tre reperti. A sinistra si vede un bottone nel quale, grazie al contributo dell'amico Dennis Grossi, abbiamo potuto riconoscere un bottone piemontese risorgimentale di metà ottocento, in uso dal 1833 al 1871. Uguali a prima vista a quelli francesi, questi bottoni appaiono in realtà diversi osservandone attentamente la parte frontale per via dei fleuron (le decorazioni a fiore lungo il bordo): due sono piemontesi, e uno è francese. Anche il colore cambia, ma in quelli da scavo non si può notare. Al centro invece c'è il tappo di una borraccia italiana ritrovata sempre in via Gaggio, e a destra ecco una foto della borraccia italiana per comparare il tappo.
Non potevamo chiudere questa rassegna senza questa foto dell'amico Giovanni, il quale sul sito di un paraschegge ha individuato due manufatti in cemento che servivano per alloggiare la ruota posteriore degli aerei, in modo da bloccarli quando venivano parcheggiati. Si tratta di piccoli rettangoli di cemento, simili a vasche perché riempiti di acqua piovana, la cui base non è piana ma in pendenza, in modo tale che la ruota non potesse uscire. Come si vede, chi per hobby va a caccia di cimeli storici deve avere molta pazienza e la fortuna di trovare il posto giusto in cui cercare!
È il momento di finirla con ricordi del nostro triste e luttuoso passato, e di ritornare a reperti che ricordano il lavoro delle generazioni andate, e con gli astuti artifici da esse usate per accopparsi a vicenda. Ho pensato perciò di fotografare anche queste antiche seghe, evidentemente utilizzate per fare legna nella brughiera. Qualcuno si è divertito anche a fare il poeta: "La legna ardere e bruciar potea, / pel gran sudore ch'ei versato avea":
A partire dal 2010, in Via di Gaggio sono stati messi in mostra molti altri ricordi di un passato incredibilmente recente e fatto di lavori agricoli e di allevamento del bestiame, in un'era in cui certo la Lombardia nordoccidentale non era ancora industrializzata come lo è oggi; ho deciso perciò di inserire in questa pagina anche vari ricordi questo passato non troppo lontano, e separato da noi al massimo due o tre generazioni. Cominciamo con la prima installazione che si scorge sulla sinistra, provenendo da Lonate Pozzolo:
Prima dell'avvento delle lavatrici elettriche, il bucato si faceva a mano con l'aiuto di un mastello chiamato "brenta", sovrapponendo un asse per sfregare i panni con sapone e spazzola di trebbia, ma fino alla fine dell'ottocento si utilizzava la cenere. L'acqua veniva attinta dalle cisterne o dai pozzi: era un'operazione molto faticosa, che fino all'avvento dell'acquedotto municipale, nel 1914, era svolto esclusivamente dalle donne. L'acqua freddissima dell'inverno produceva loro terribili geloni sulle mani. La risciacquatura dei panni grossi si faceva sulle rive del Ticino con l'ausilio di un piano inclinato chiamato "schagn", parola di origine longobarda. I panni venivano lavanti, strizzati e stesi sul prato ad asciugare con un bacile di rame leggero.
Siamo già passati agli strumenti agricoli. Qui vediamo una tresca, costituita da due bastoni uniti da uno snodo di cuoio, di origine probabilmente longobarda, che consentiva di separare il chicco dalla spiga. Vediamo poi un vaglio di vimini intrecciati, usato per separare il frumento dalle impurità. Doveva essere maneggiato con maestria, per sfruttare la direzione del vento. Questi strumenti vennero soppiantati dall'invenzione della mietitrebbiatrice elettrica, inventata negli USA ai primi del '900 ed arrivata in Europa a partire dal 1952. In basso invece si vede una staia, misura di capacità equivalente a circa 18,27 litri, in uso nel Ducato di Milano: lo stesso nome passò al contenitore di forma cilindrica con il quale veniva effettuata la misurazione, e che vediamo qui esposto. Esso ovviamente era apprezzato quando serviva per la vendita in proprio del frumento, ma odiato quando dai magri raccolti, a volte decimati dalla tempesta, bisognava consegnare due staia a pertica ai padroni come affitto /1 pertica = 654,52 metri quadrati). Sulla destra, infine, ecco il "palot", usato per insaccare i cereali e per la prima pulitura del frumento dopo la battitura, lanciando per aria il grano controvento.
Ed ecco un magnifico esemplare di carriola ("carèta" in dialetto). Il suo utilizzo è estraneo al mondo latino, che usava piuttosto un piano dotato di stanghe e portato a spalla da due uomini, metodo che in edilizia si sfruttò fino ai primi decenni del secolo scorso. Nel Basso Medioevo al piano di legno fu inserita una ruota al centro delle stanghe, e nacque cos' la carriola. Nei secoli scorsi gli animali agricoli da trasporto non erano appannaggio di tutti, e la carriola sopperiva al trasporto dei prodotti agricoli dai campi alla casa. Ogni famiglia ne possedeva una per svariati servizi, e la si utilizzò fino agli anni quaranta del XX secolo. La si adoperava per il trasporto giornaliero del foraggio verde; generalmente erano le donne che raggiungevano i campi, distanti anche due chilometri. Il ritorno verso sera era faticoso quando dovevano attraversare la via di Gaggio, Bisognava ricorrere all'aiuto dei braccianti che si trovavano numerosi dei campi, oppure dai ragazzi in cerca di nidi, che con una corda le trascinavano su dai pendii. Al ritorno, già stanche, si dedicavano alle fatiche domestiche. Se oggi la nostra vita è agiata, lo dobbiamo anche alle loro fatiche: ricordiamoci di loro, osservando le stanghe di questa carriola, consunte dalle loro mani callose!
Passiamo a queste falci
polifunzionali, utilizzate dagli stradaioli per tagliare i rami e i rovi
lungo le strade. I primi contadini bergamaschi giunti a Lonate. poco inclini
all'utilizzo della falce da fieno, ne facevano largo uso per tagliare interi
prati di trifoglio! Essi impiegavano nell'operazione entrambe le braccia: a
sinistra impugnavano un piccolo rastrello che inclinava l'erba per facilitare il
taglio, mentre con la mano destra compivano un gesto simile al roteare della
frusta, tagliando l'erba. Era un lavoro molto faticoso, per cui si convertirono
presto alla falce da fieno. Anche questo strumento veniva reso tagliente tramite
martellatura. Si noti che vi erano due tipi di falci: per i mancini veniva
preparata una falce con la lama montata in senso contrario!
Ad osservare questi "reperti", mi viene in mente una filastrocca
insegnatami da mia nonna quando ero bambino: « La
Mariana la và in campagna / con la sàpa e la cavàgna, / con ul falcét da
drè dal cü, / la Mariana la vègn a cà pü! » (« La Marianna
va in campagna, / con la zappa e con la cesta, / con il falcetto dietro al
sedere, / la Marianna non torna più a casa! »)
A sinistra, ecco un esemplare di aratro americano. L'aratro a trazione animale avanzava lentamente e la terra umida si appiccicava al vomere. Giunti in fondo al campo, l'aratro veniva ripulito con lo strumento chiamato "guviol", che vediamo accanto all'aratro. A destra si vede invece un caldaro del XVIII secolo, appartenuto a una famiglia lonatese. Erano tempi di risparmi e di abili artigiani, che tutto aggiustavano. Perfino i piatti venivano aggiustati, bucandoli e cucendoli con filo di ferro. Si noti la chiodatura del rifacimento del fondo, eseguita da un abile mastro calderaro!
Non poteva certo mancare, in questa rassegna, una falce da fieno. Nei primi decenni del '900 si cominciò ad utilizzare la falce con applicato un archetto, che faceva cadere il frumento allineato, pronto per farne covoni! Il modello di falce che qui vediamo esposto fu portato a Lonate da contadini bergamaschi nel lontano 1905. Spesse volte la lama tagliente feriva anche le dita dei mietitori e, siccome il 118 non esisteva ancora, il rimedio per fermare l'emorragia era la corteccia dei rami di gelso, avvolta intorno alle ferite. Nelle mattinate del periodo della fienagione, per i campi si udiva una musica ritmata che faceva un contrappunto con il canto dei grilli, delle cicale e degli uccelli: era il martello che, nelle mani del contadino, batteva sulla falce per renderla tagliente. Sono suoni che nessuno ha mai registrato, ed appartengono ad un passato cui pose fine la rivoluzione tecnologica. Albino Luciani, futuro Papa Giovanni Paolo I, raccontò che, quando tornava a casa dal Seminario di Feltre in cui studiava, lavorava nei campi ed era diventato un bravissimo falciatore!
Ed ecco il "rastilom" tirarighe, altro strumento introdotto dai contadini bergamaschi nei primi anni del '900, che sostituì la semina a spaglio cara ai Lonatesi. Nelle righe lasciate sul terreno si inserivano i chicchi con l'ausilio di un puntale di legno, detto "ul cavìc", del quale vediamo un esemplare sulla destra. Con la comparsa della seminatrice automatica, anche questo metodo venne abbandonato.
Questi sono strumenti di origine veramente antica.
A sinistra si vede un esemplare di piria, che
risale al Basso Medioevo. Si tratta di una sezione di pista dei mulini, azionati
ad acqua, i quali avevano un basamento di pietra con pestelli di legno ad otto
sezioni, scavati nella pietra. Essi erano azionati da un ingranaggio collegato
alla ruota idraulica, e si muovevano a collo d'oca come un odierno motore a
scoppio. Nel quattrocento al mulino di Ferno esisteva una pista da miglio. Non
si hanno notizie di strumenti simili presso i Romani; probabilmente il miglio
veniva macinato intero e poi vagliato. Le legioni romane infatti marciavano con
il pan di miglio nel suo tascapane. Ogni famiglia possedeva la piria e la usava
per pulire il miglio, fino al suo abbandono. In seguito fu utilizzata per
sbiancare piccole quantità di risone e per sgranare pannocchie di granoturco e
fagioli secchi.
A destra in alto si vede un'altra staia. A destra
in basso invece c'è un frammento di macina a pestello per
granaglie. Non utilizzata nel mondo romano classico, è probabilmente di
origine altomedioevale. Era poco utilizzata nel nostro territorio per piccole
quantità domestiche. Con il boom economico del secondo Dopoguerra, questi e
altri manufatti vennero considerati inutili, e abbandonati come rifiuti nei
boschi circostanti la via di Gaggio, fino a che gli appassionati delle antiche
tradizioni patrie non li hanno valorizzati come li vedete in queste foto.
Il granoturco
rappresentava il principale prodotto alimentare dopo il frumento. Nella nostra
zona si diffuse a metà del settecento, e la sua alta resa contribuì molto alla
carenza di grano, ma portò con sé una malattia chiamata pellagra,
causata dalla carenza di vitamine del gruppo B, che sono presenti in genere nei prodotti
freschi come latte, verdure e cereali. È una patologia frequente tra le popolazioni che
fanno largo uso della polenta di mais come alimento base: anche il granturco
contiene vitamine del gruppo B, ma in una forma che non può essere assorbita dall'intestino
dei mammiferi non ruminanti. Tale malattia fu sconfitta solo nella prima metà
del ventesimo secolo ad opera del biochimico statunitense Conrad Arnold Elvehjem
(1901-1962). A Legnano esisteva un ospedale chiamato "pellagrosario"!
La sgranatura del mais era un'operazione molto
difficoltosa: in genere si utilizzava la staia: la
pannocchia veniva roteata sul traverso di ferro. Si effettuava di solito nei
mesi invernali, davanti al camino, finché si spegneva l'ultimo tizzone di
legna, mentre la neve ricopriva la campagna. Agli inizi del novecento comparve
la sgranatrice, che alleviò di parecchio la
fatica: qui sopra ne vediamo due esemplari d'epoca, tuttora funzionanti.
Nel tardo autunno terminavano i lavori nei campi, in cascina ci era la scorta invernale di foraggio e, se l'annata era stata propizia, il granaio era colmo di grano. A dicembre si svolgeva il rito della macellazione del maiale: esperti macellai si recavano nei cortili portando l'attrezzatura sulla carriola, per tutto il giorno la famiglia partecipava al "rito" e, come gesto di solidarietà, veniva offerto alle massaie del cortile il salamino e il marzapane. La faticosa giornata suggellava la fine del duro lavoro dell'anno trascorso. Qui sopra vediamo un'insaccatrice di salumi risalente ai primi decenni del XX secolo.
Gli strumenti della coltura del granoturco e
dell'insaccatura dei salami che abbiamo visto sopra rimandano all'autunno
inoltrato, quando i primi freddi cominciavano a farsi sentire. Inutile dire che
nelle case all'epoca non vi era alcun tipo di riscaldamento centrale, e se la
cucina era resa abitabile dal camino, le camere da letto erano decisamente
gelide, come ricorda benissimo mia mamma che, quando era giovane, dormiva in una
camera da letto affatto priva di termosifoni. Per ovviare ai letti ghiacciati
veniva infilato tra le lenzuola uno strumento chiamato popolarmente "ul
préd" ("il prete"), fatto di
aste di legno arcuate al centro del quale era posto uno scaldino metallico, che
in questo modo non veniva mai a contatto diretto con le lenzuola. Nello scaldino
veniva infilata l'ultima brace del camino, che garantiva così un gradevole
riposo notturno. Qui sopra in alto ne vediamo un esemplare. Ogni famiglia ne
possedeva uno (ne aveva uno anche la mia), che veniva usato preferibilmente per
i malati e gli anziani; i giovani dovevano invece abituarsi alla vita dura.
Ricordo che mio nonno aveva aggiunto allo scaldino una resistenza elettrica,
ottenendo così un insolito modello di "prete elettrico"!
Più sotto si vedono invece diversi tipi di pentole d'epoca.
Parlando di pentole, ecco altri strumenti
da cucina, che ci riportano ad un'epoca caratterizzata da alimentazione
semplice e frugale, ben lungi dai cibi raffinati e surgelati che oggi noi
compriamo al supermercato. A sinistra si vede una zangola
(in dialetto "pinugin"), per produrre il
burro, alimento molto utilizzato nei climi piuttosto freddi, e importato nel
Nord Italia dai Longobardi; i Romani non ne facevano uso, basando la loro cucina
sull'olio d'oliva, alimento ben più mediterraneo.
La spadellatura della minestra di riso, cotta sul fuoco del camino in una
padella di rame avveniva appoggiando quest'ultima su un treppiedi di legno posto
a fianco del tavolo, e visibile qui sopra al centro. La scodellatura
era eseguita con un mestolo di rame, anch'esso visibile nella padella. Era un
momento di quasi religioso silenzio. Come il mais, il riso
era un alimento indispensabile per le generazioni passate; "riso
amaro", come recita il titolo di un famoso film del 1949, perchè
guadagnato con il duro lavoro nella migrazione stagionale verso le risaie del
novarese. Guardando questa padella di fine ottocento, il pensiero va alla dura
vita di quei nostri avi, trascorsa sognando un domani migliore. Varcando stanchi
l'uscio di casa all'ora del desinare e della cera, la fatica si addolciva
all'odore del fuoco e della minestra; alcuni recitavano una prece, poi il
silenzio accompagnava la consumazione della cena.
Nella foto si vedono anche una bolla per l'acqua calda
usata come scaldaletto in alternativa al "prete", al centro in alto;
un attrezzo per la stagnatura delle padelle, in
alto a sinistra; un attrezzo per la lana, in basso
a destra; e persino una delle prime lampade domestiche dotate di lampadina
ad incandescenza, arrivate a Lonate negli anni dieci del secolo XX.
Nel passato il fieno
non veniva imballato, ma deposto in cascina formando un cubo
di altezza variabile, con lo spigolo di circa cinque metri, e veniva pressato
per farlo fermentare. Esso era realizzato con i quattro tagli annuali, detti
rispettivamente maggenico, agostano,
terzarolo e quartirolo;
ognuno con erbe e sapori diversi. Veniva tagliato a segmenti di circa 60
centimetri, dall'alto in basso. Quest'operazione permetteva alla bestie di
gustare sapori diversi, in attesa della primavera che portava i foraggi freschi.
Quello che vediamo esposto in questa foto è un argano per
il fieno. Prima che comparisse l'imballatrice, i prodotti come fieno,
covoni di grano e fascine di legna venivano caricati sui carri con una curiosa
tecnica chiamata "a folda" o "a
faldoni". Essa richiedeva molta abilità: dopo la sistemazione sul
carro, il tutto veniva legato con corde e tirato con l'argano ("tur
e cavìc"). Alla fine il contadino scendeva e, osservando il carico,
lo bilanciava meglio e lo squadrava. In ritorno in paese rappresentava l'esame
finale: tutti scrutavano il carico pronunciando chi critiche, chi elogi. I carri
di fieno impressionarono i pittori macchiaioli, che li ritrassero nei loro
quadri: basti ricordare i "Buoi al carro" del 1870 di Giovanni Fattori
(1825-1908) e quelli del 1885 di Giovanni Boldini (1842-1931).
A destra si vede anche un esemplare di tagliafieno
("ranzot").
La trebbiatura del frumento separava i chicchi dalla pula, che veniva caricata su un carro munito di gabbia, per mezzo del forcone di legno che vediamo qui sopra a destra; nel novecento esso era già molto raro, perchè sostituito da uno in ferro. La diffusione della forca in legno non va ricercata nel mondo latino, che utilizzava il tridente in ferro per scopi bellici. Non abbiamo neppure illustrazioni nella pittura tardoromana e bizantina di una forca in legno, così come questo attrezzo non appare nelle corti longobarde e carolingie, Le prima rappresentazioni specifiche della forca le ritroviamo nella pittura del tardo Medioevo, e soprattutto con la stagione degli artisti fiamminghi a partire dal 1400.
In italiano si chiama crivello, in dialetto lonatese "cribiom", e lo si trova già citato in una pergamena del XV secolo conservata a Pavia ("i cribiador de biave"). Fino all'avvento della trebbiatrice meccanica, questo strumento era indispensabile per l'ultima pulitura del grano, dopo la vagliatura controvento. Esse crivellatore era una vera e propria professione: molte squadre di crivellatori superavano il Po per recarsi al lavoro nelle risaie del nord.
Da sempre la strada di Gaggio ha visto il passaggio dei carri trainati dalle pazienti vacche, unica fonte di lavoro e di produzione per la sopravvivenza della famiglia. Chi li ricorda sa che il giogo posto sul collo permetteva alle vacche di trainare il carro, fino all'invenzione del collare per il cavallo, animale più veloce, più robusto e meglio governabile. Mentre la vacca la si governava di fianco e a piedi, il cavallo si guidava con le redini, stando seduti sul carro. Rumori diversi: la vacca leggera e silenziosa, il cavallo con lo scalpitare degli zoccoli ferrati. Il giogo, che vediamo rappresentato qui sopra, era chiamato "giuèt", i bastoni erano i "bacch". Sono visibili anche una museruola per vacca, più grande al centro, una museruola per vitello, più piccola in alto a destra, e un morso per cavalli, in alto a sinistra.
Così si esprime ancora il dr. Ercole Ferrario a proposito dell'uso che l'uomo può fare della brughiera:
« Nei tempi antichi la brughiera
copriva il territorio dei pianalti lombardi, per cui le zone ora coltivate non
sono un gratuito dono della natura, ma il risultato di una secolare lotta di
bonifica dell'ambiente. A tale riguardo si suggerisce, quale valido mezzo di
bonifica della brughiera, la sua riduzione per alcuni decenni a bosco di robinia
(pianta originaria del Maryland e della Pennsylvania, venne introdotto in Europa
verso Il 1630 e diffusa in Lombardia agli inizi del 1800). Quest'albero,
piantato con un po' di cura, cresce presto vigoroso, dà numerosi rami e copia
di fascine, e in pochi anni si ingrossa e si eleva sì da somministrare
travicelli e travi, e quindi anche tavole ed assi, di cui si fa di già largo
uso nelle costruzioni degli edifizi, nella fabbrica di carri e di carretti e di
molti arnesi.
Oltre a ciò, essendo una pianta baccellino, sottrae molto all'atmosfera, e le
sue foglie, di cui si orna copiosamente, somministrano un pascolo gradito al
bestiame; onde nelle siccità estive, quando invano si cerca il foraggio verde
ne' campi, lo si trova nei boschi di robinie.
Né va taciuto che i suoi fiori, numerosissimi nel maggio, e non rari nel
settembre, porgono abbondanza di nettare alle api, da cui si ha un candido e
gustoso miele.
È noto poi, che quando il bosco di robinia si tiene ceduo, ossia non si
vogliono aver da esso che fascine e pali, si taglia sopra il colletto ogni due,
tre o quattro anni, mentre, quando se ne vogliono avere alberi, vi si lasciano
crescere i getti più vigorosi e dritti e ogni due o tre anni si levano gli
altri.
Ma non si limitano a ciò i vantaggi del bosco di robinia, ché ce ne procura un
altro molto notevole.
Chi dissoda un bosco di robinia dopo 30 a 40 anni dacché fu impiantato in un
terreno ghiaioso o ciottoloso, rimane sorpreso e meravigliato nel veder quel
terreno quasi privo di ciottoli e ridotto in una terra abbondante di silice, non
povera di orgilla, e ben provvista di terriccio. Cotesta curiosa modificazione
non può essere che l'effetto dell'azione delle radici delle robinie, le quali
per opera dell'acido carbonico, che emettono, ed altrimenti, decomposero man
mano i ciottoli, ne estrassero le sostanze minerali, di cui abbisognano, e
lasciarono nel terreno quelle che non assorbono, fra cui primeggia l'argilla. E
chi pon mente alla ragguardevole quantità di legna asportata o ceneri contenute
nella legna e che non potevansi trarre d'altronde che dai ciottoli, troverà
semplice e naturale la spiegazione del fatto.
Quando perciò si distruggerà il bosco, si avrà una terra che, lavorata e
concimata qual si deve, e ammendata con calce e molta cenere, si presterà a
tutte le ordinarie nostre coltivazioni. »
Purtroppo, tutto ciò che vi ho mostrato in questa pagina potrebbe... sparire prestissimo. E questo perchè la Regione Lombardia ha purtroppo approvato la costruzione della Terza Pista di Malpensa 2000, che causerebbe la distruzione completa dell'antichissima strada, oltre che dell'abitato di Tornavento, alla faccia del Parco del Ticino, nato proprio per impedire l'ulteriore cementificazione della nostra zona. Per la via Gaggio si è mobilitato un gruppo di lonatesi il quale cerca di opporsi all'idea che le ruspe e l'asfalto distruggano questo angolo di pace e di bellezza. Tra gli altri è da segnalare l'impegno dell'amico Roberto Vielmi, il quale ha pubblicato su Youtube dei filmati con cui cerca di combattere l'indifferenza e di mobilitare l'opinione pubblica contro quella che rischia di diventare l'ennesima cattedrale del deserto, nonché l'ennesimo monumento italico allo spreco e all'ecomafia. La difesa di via Gaggio è così diventata una sorta di "ultima trincea" contro l'ultimo e il più devastante degli impatti negativi che il comune di Lonate Pozzolo ha dovuto patire dopo l'apertura di Malpensa 2000. Di certo la battaglia contro i "poteri forti" è perduta in partenza, ed anche questa meravigliosa strada nel verde è destinata a sparire in nome del "progresso" e soprattutto del dio denaro, ma vale la pena, come fa Roberto Vielmi, combattere questa battaglia in nome di tutto ciò che è bello e ci è caro.
Per andare al sito contro la Terza Pista realizzato da Roberto Vielmi, cliccate qui.
Spero che questo mio fotoitinerario vi sia piaciuto; se non abitate troppo lontano da qui, venite a seguirlo anche voi, prima che sparisca del tutto sotto la Terza Pista di Malpensa 2000. Non c'è niente di meglio che ad un tempo rilassarsi, respirare aria buona e compiere un tuffo nel nostro passato antico e recente, prima che il cosiddetto "futuro" abbia il sopravvento su di esso!
Aggiungo che l'amico Marco Giannini di Casorate Sempione mi ha segnalato una sua iniziativa per riscoprire alcuni luoghi particolarmente interessanti dal punto di vista naturalistico o storico e per far scoprire più internauti possibile nuove bellezze del Parco del Ticino o dintorni (sta già lavorando per creare altri lavori sullo stesso filone in zona). Questo è l'URL di un video di youtube, mentre questo è l'URL di una pagina instagram da lui realizzata. Su GoogleMyMaps ha anche realizzato una mappa interattiva con il percorso e le tappe. Tutte le foto sono state scattate da lui e ha aggiunto alcune informazioni su di esse corredate da link. La sua fatica mi è sembrata meritoria e degna di essere condivisa con tutti voi; se volete, passatene parola tra i vostri amici, ne saremo ben lieti.
Già che ci siete, se lo credete, potete dare un'occhiata alla storia recente di Lonate; oppure, seguite il percorso fotografico da Tornavento al Ticino, che idealmente continua questo; altrimenti, cliccate qui e tornate indietro.