La fusione nucleare  

Ricordate il diagramma dell'energia di legame per nucleone? Essa raggiunge il massimo in corrispondenza del ferro, dunque si può ottenere la liberazione di grandi quantità di energia dal nucleo atomico con due tipi di reazioni: o rompendo un nucleo pesante in due nuclei più leggeri; oppure, fondendo due nuclei leggeri in un nucleo più pesante. La prima reazione prende il nome di fissione nucleare, e ne abbiamo già parlato ampiamente. La seconda invece viene chiamata fusione nucleare, e libera energie ancora maggiori di quelle prodotte dalla fusione nucleare, perchè la differenza di energia di legame per nucleone tra il ferro e i nuclidi più leggeri esistenti è assai maggiore di quella tra il ferro e i nuclei più pesanti conosciuti. Inoltre, rompendo nuclidi pesanti si è visto che restano prodotti di fissione terribilmente radioattivi, alcuni con un periodo di dimezzamento di milioni di anni, mentre la fusione nucleare può benissimo dar vita a nuclidi stabili o debolmente radioattivi. Consideriamo ad esempio la seguente reazione:

2H + 2H → 3He + 1H + 4 MeV

In essa, due nuclei di deuterio si fondono per dare vita ad un nucleo di elio-3, un isotopo dell'elio raro ma stabile, e un protone, cioè un nucleo di protio. Questo processo sviluppa un'energia di circa 4 MeV, però coinvolge solo 4 unità di massa; la fissione dell'uranio-235 sviluppa circa 200 MeV, però coinvolge ben 235 unità di massa, per cui l'energia sviluppata da quella reazione di fusione supera del 15 % l'energia sviluppata dalla fissione nucleare. Inoltre, il materiale necessario per la fusione tutto sommato è facilmente reperibile, perchè il deuterio può essere estratto dall'acqua di mare senza bisogno di una tecnologia da fantascienza, e i prodotti della reazione non sono radioattivi.

Oggi medaglia però ha il suo rovescio. Il problema della fusione nucleare consiste nel fatto che, se vogliono fondersi tra loro in uno solo, i due nuclei devono essere portati a una distanza compatibile con il raggio di azione della forza nucleare forte, la forza di attrazione agente tra i nucleoni, così da potersi attirare e legare tra di loro. Entrambi i nuclei però sono caricati positivamente, e ciò genera tra di essi una fortissima repulsione coulombiana, o, come dicono i fisici, una barriera di potenziale tutt'altro che semplice da superare. Per vincere tale repulsione vi è una sola via: comunicare ai nuclei un'elevata agitazione termica, in modo che essa porti i nuclei a sbattere violentemente l'uno contro l'altro, superando la barriera coulombiana. Ciò si può ottenere scaldando il gas di deuterio fino a temperature altissime. Siccome la teoria cinetica dei gas ci insegna che l'energia cinetica media delle particelle è pari a una volta e mezza il prodotto tra la costante di Boltzmann KB e la temperatura assoluta del gas, è possibile ricavare che, per portare i nuclei a superare la barriera di potenziale repulsivo, bisogna riscaldarli fino a 107 – 108 K, una temperatura che può a buon diritto definirsi astronomica, dato che è la temperatura media del nucleo delle stelle!! A questa temperatura l'agitazione termica è così forte che gli elettroni si separano dai loro nuclei, gli atomi di deuterio sono completamente ionizzati, e la materia si trova in un nuovo stato della materia, chiamata plasma (dal greco "plassein", "dare forma qualcosa", la stessa parola da cui deriva l'aggettivo "plastico"). Il plasma è dunque un insieme di elettroni e ioni separati tra di loro ma globalmente neutro. Tale quarto stato della materia fu identificato nel 1879 da Sir William Crookes (1832-1919) nell'ambito delle ricerche che lo portarono alla realizzazione dei cosiddetti tubi di Crookes, gli antenati dei tubi catodici e delle lampade al neon., e venne battezzato "plasma" nel 1928 da Irving Langmuir (1881-1957). Come vedremo nella lezione successiva, la principale difficoltà nella realizzazione della fusione nucleare controllata (uno dei principali obiettivi della Fisica del XXI secolo) consiste proprio nel maneggiare un plasma così caldo, che rischia di distruggere tutto ciò che incontra.

Così come la fissione nucleare ha un padre, e cioè Enrico Fermi, così ne ha uno anche la fusione nucleare. Stiamo parlando del fisico tedesco Hans Bethe, nato a Strasburgo il 2 luglio 1906 e morto a Ithaca (nello stato di New York), il 6 marzo 2005, alla bella età di 98 anni (egli era un teorico, e non maneggiò mai personalmente sostanze radioattive). Studiò fisica alla Johann Wolfgang Goethe-Universität di Francoforte sul Meno e ottenne il dottorato alla Technische Universität di Monaco di Baviera, dopo il quale proseguì la sua formazione a Cambridge e trascorse un certo tempo presso il laboratorio di Enrico Fermi a Roma. Essendo sua madre di religione ebraica, nel 1933, anno in cui i Nazisti presero il potere, pensò bene di lasciare la Germania e di trasferirsi prima in Inghilterra e nel 1935 negli Stati Uniti d'America, dove gli fu assegnata una cattedra alla Cornell University che mantenne per tutta la vita. Qui, assieme ai fisici Robert Bacher (1905-2004) e Milton Stanley Livingston (1905-1986), suoi coetanei, pubblicò tre celeberrimi articoli che riassumevano ciò che era allora conosciuto riguardo alla fisica nucleare e che rimasero universalmente conosciuti come "la Bibbia di Bethe".

Hans Bethe (Strasburgo, 2 luglio 1906 – Ithaca, 6 marzo 2005)

Hans Bethe (Strasburgo, 2 luglio 1906 – Ithaca, 6 marzo 2005)

Secondo la leggenda nel 1938 Hans Bethe stava passeggiando in un giardino pubblico con la sua fidanzata Rose Ewald, quando cominciò a discutere con lei dei processi fisici che fanno brillare le stelle. Fino a pochi decenni prima gli astronomi erano convinti che le stelle brillassero per effetto di reazioni chimiche, le uniche conosciute all'epoca in grado di sprigionare grandi quantità di energia. Tuttavia, a parte il fatto che le reazioni di combustione non possono aver luogo nel vuoto dello spazio cosmico, ma solo in presenza di ossigeno, gli scienziati si erano già accorti da tempo che tale teoria non era ulteriormente sostenibile. Infatti. ammettendo che il Sole sia una sfera di carbone che brucia lentamente, non poteva comunque essere più grande dell'orbita della Terra, che altrimenti sarebbe stata anch'essa inesorabilmente bruciata. Ora, conoscendo la quantità di luce e calore che emette il Sole nell'unità di tempo, esso avrebbe avuto il diametro dell'orbita terrestre appena 80.000 anni fa. Invece già dall'Ottocento i geologi avevano accertato che la storia geologica della Terra e della sua biosfera dura da centinaia di milioni di anni, e le tecniche novecentesche di radiodatazione portarono l'età del nostro pianeta a quattro miliardi e mezzo di anni. Conclusione: scartata ogni reazione chimica, quale processo può mantenere in vita una stella così a lungo, nonostante essa ci invii in un solo giorno tutta l'energia che si potrebbe ottenere bruciando tutte le riserve di legname, carbone, petrolio e gas naturale dell'intero Pianeta Terra?

Discutendone al parco con la futura moglie, Bethe ebbe l'idea che si trattasse di reazioni non chimiche ma nucleari, e cominciò a fare dei calcoli sul polsino della camicia. Fu così che egli individuò un ciclo di reazioni termonucleari alla base dell'energia prodotta dal sole e dalla maggior parte delle stelle, detto ciclo protone-protone o catena dell'idrogeno, così riassumibile:

1H + 1H → 2H + e+ + ν

1H + 2H → 3He + γ

3He + 3He → 4He + 1H + 1H + γ

In altre parole, due protoni danno vita ad un deutone (nucleo di deuterio) più un positrone e un neutrino; il positrone si annichila con un elettrone dando vita a due fotoni di complessivi 1,022 MeV di energia; un protone e un neutrone danno vita ad un nucleo di elio-3 più un fotone gamma da 5,49 MeV; due nuclei di elio-3 danno vita ad un nucleo di elio-4 più due protoni più un fotone gamma da 12,96 MeV. In tutto si libera un'energia di 26,73 MeV; la "pressione di radiazione" generata da tali fotoni tiene in equilibrio il Sole ed impedisce che esso collassi sotto l'azione del peso degli strati più esterni. La temperatura minima alla quale la reazione può avvenire è di 107 K. Si ritiene che tale reazione tenga acceso il Sole da almeno 5 miliardi di anni a questa parte, e che potrebbe far sì che esso brilli più o meno come oggi per altrettanto tempo. Se si riuscisse a realizzare un processo di questo tipo anche sulla Terra, disporremmo di una quantità pressoché illimitata di energia; di questo argomento riparleremo nella prossima lezione.

Le reazioni nucleari che tengono acceso il Sole avvengono nel suo nucleo, una palla di plasma con un volume pari a circa un ventesimo di quello dell'intera stella, sei volte più densa dell'oro (circa 150 kg/dm³), alla temperatura di 16 milioni di gradi e sottoposta all'immane pressione di 500 miliardi di atmosfere. Ogni secondo nel nucleo 700 milioni di tonnellate di protoni si fondono, dando vita a nuclei di elio e liberando l'energia di 10 miliardi di bombe all'idrogeno. Il nucleo solare pulsa delicatamente, espandendosi all'aumentare del ritmo della fusione e contraendosi quando essa diminuisce. A questo battito lento e profondo si sovrappongono molti altri ritmi, come il ciclo delle macchie solari, che raggiunge il suo massimo ogni 11 anni. A trasportare verso l'esterno l'energia prodotta dalla fusione del nucleo sono fotoni ad alta energia, che si fanno strada rimbalzando in un intrico di ioni ed elettroni. In questo volume, detto zona radiativa, la materia è talmente densa che i fotoni impiegano più di 100.000 anni per percorrere il 70 % della strada che li separa dalla superficie solare e raggiungere la successiva zona convettiva! Da qui in poi basta un mese o poco più per arrivare alla fotosfera, la parte del Sole che noi vediamo, e dopo altri otto minuti i fotoni raggiungono la Terra, sotto forma di luce solare.

Aggiungiamo però che in seguito Hans Bethe individuò un secondo ciclo di fusioni nucleari, chiamato in suo onore Ciclo di Bethe o Ciclo CNO (carbonio-azoto-ossigeno), descritto indipendentemente anche da Carl Friedrich von Weizsäcker (1912-2007), che avviene solo nelle stelle decisamente più massicce del nostro Sole. Questa scoperta fece vincere a Bethe nel 1967 il meritato Premio Nobel per la fisica. Il risultato netto del ciclo, partendo da quattro protoni, è la produzione di un nucleo di elio più due positroni e due neutrini, con rilascio di energia sotto forma di raggi gamma. I nuclei di carbonio, azoto e ossigeno, dai quali il ciclo trae il nome, svolgono il ruolo di catalizzatori nella combustione nucleare dell'idrogeno. Le reazioni del ciclo carbonio-azoto sono le seguenti:

12C + 1H → 13N + γ + 1,95 MeV

13N → 13C + e+ + ν + 1,37 MeV

13C + 1H → 14N + γ + 7,54 MeV

14N + 1H → 15O + γ + 7,35 MeV

15O → 15N + e+ + ν + 1,86 MeV

15N + 1H → 12C + 4He + 4,96 MeV

Secondo l'attuale modello dell'evoluzione stellare, le stelle capaci di raggiungere le temperature necessarie all'attivazione del Ciclo di Bethe hanno masse superiori alle 1,2 masse solari, ma quasi tutte le stelle lo attivano quando sono già molto anziane, e l'idrogeno si esaurisce. In tal caso infatti il ciclo protone-protone si indebolisce, non riesce più a contrastare il peso degli strati superiori della stella ed essa collassa; diminuendo il volume, aumenta la temperatura abbastanza fa far scattare il ciclo del carbonio-azoto.

Da sinistra: Stanley Pons e Martin Fleischmann

Da sinistra: Stanley Pons e Martin Fleischmann

Siccome molti hanno sentito parlare di "fusione fredda" e mi hanno chiesto lumi in proposito, è utile spenderci su due parole. Questo tipo di fusione nucleare avverrebbe a pressioni e a temperature molto minori di quelle necessarie per ottenere la fusione nucleare come la abbiamo descritta qui sopra. La fusione fredda suscitò gli entusiasmi di molti, soprattutto tra i non addetti ai lavori, il 10 marzo 1989, quando vennero resi pubblici i presunti risultati di Martin Fleischmann (1927-2012) e Stanley Pons (1943-) dell'Università dell'Utah, i quali affermarono di aver ottenuto la fusione di nuclei di idrogeno in elio a temperatura ambiente con lo sviluppo di una grande quantità di energia, usando il cosiddetto metodo del confinamento chimico. Esso sfrutterebbe in una comune cella elettrolitica la pretesa proprietà del palladio, un metallo raro simile al platino, di far entrare dentro il proprio reticolo cristallino atomi di isotopi dell'idrogeno, e di trattenerli così vicini tra di loro da far sì che si fondano in nuclei di elio. Per ottenere tale risultato però bisognerebbe incastrare nel reticolo cristallino del palladio almeno un atomo di idrogeno per ogni atomo di metallo, condizione assai difficile e lenta da realizzare. Ma soprattutto, diversi laboratori ripeterono gli esperimenti di Pons e Fleischmann, senza mai riuscire a ripetere il fenomeno e soprattutto la sua forte liberazione di energia. Tra i tentativi più recenti, nel maggio 2008 Yoshiaki Arata (1924-), uno dei padri della fusione nucleare nipponica, insieme alla collega Yue-Chang Zhang, ha mostrato pubblicamente ad Osaka un reattore funzionante con pochi grammi di palladio, ma anche in questo caso l'esperimento non è più stato ripetuto e i risultati non sono stati pubblicati in un lavoro scientifico.

Questi esperimenti suscitarono grande interesse perchè era ancora vivo il ricordo del recente incidente nucleare di Černobyl', l'opinione pubblica mondiale giudicava troppo pericolosi i reattori nucleari a fissione per continuare ad utilizzarli, e si era alla ricerca di nuove fonti di energia a basso costo, nella consapevolezza che era impossibile saziare la fame energetica della nostra tecnologia facendo ricorso solo a pannelli solari, turbine eoliche e maree, checché ne dicessero tanti presunti ambientalisti (spesso marxisti orfani dell'URSS e del Muro di Berlino da poco caduto, e in cerca di nuove denominazioni sotto cui riciclarsi, che nulla sapevano di problemi energetici e di ricerca nucleare). I titoli a sensazione sui tabloid popolari che annunciavano troppo frettolosamente la perfetta riuscita degli esperimenti suscitarono vere e proprie ondate di entusiasmo, ma la comunità scientifica si affrettò a gettare acqua sul fuoco: un esperimento scientifico si può dire riuscito solo se più laboratori indipendenti tra di loro riescono a ripeterlo. Sulla possibilità di ottenere la fusione a bassa temperatura sono stati pubblicati anche studi teorici, tra i quali quelli di Giuliano Preparata (1942-2000) dell'Università degli Studi di Milano, ma oggi tra la comunità scientifica prevale lo scetticismo: perchè proprio il palladio, e non altri metalli chimicamente ad esso molto simili, sarebbe in grado di far fondere i nuclei di idrogeno superando l'invalicabile barriera di potenziale della repulsione coulombiana? Fin dall'inizio, l'opinione prevalente nella comunità scientifica è che tutte le evidenze di fusione fredda sopra descritte siano frutto di errori di misurazione o di fenomeni non nucleari. Di certo Pons e Fleischmann non erano dei mistificatori: semplicemente erano dei chimici, poco informati sulla Fisica che sta dietro il complicato fenomeno della fusione nucleare, e nella fretta di rivendicare una scoperta straordinaria, che avrebbe potuto rivoluzionare l'intera civiltà umana fruttando loro fama ed onori, si lasciarono prendere la mano, annunciando prematuramente i risultati di esperimenti che avrebbero dovuto essere replicati molte volte prima di essere pubblicati.

Nonostante ancor oggi l'esistenza stessa del fenomeno della fusione fredda non sia stata dimostrata in modo definitivo, vi è tra il grande pubblico chi continua a credervi ciecamente, accusando gli scienziati di tenere nascosti volutamente i risultati favorevoli degli esperimenti di confinamento chimico, per non distrarre fondi dalla costruzione di grandi progetti come l'ITER (vedi lezione successiva), fondi che poi intascherebbero gli stessi uomini di scienza. Tutte le "teorie del complotto" hanno il realtà lo stesso valore, e cioè ZERO. Che interesse avrebbe la comunità scientifica a tenere nascoste le visite notturne da parte di UFO, o la pericolosità delle scie chimiche, o l'effettivo funzionamento della fusione fredda? Compito degli uomini di scienza è mettere le loro scoperte al servizio dell'umanità, non certo celarle a vantaggio di qualche lobby. Ma, così come un sacco di gente continua a curarsi ogni giorno con medicinali omeopatici, nonostante si tratti solo di acqua purissima priva di qualsiasi principio attivo, e così come tanti genitori sconsiderati continuano a rifiutarsi di far vaccinare i propri figli per non farli diventare autistici, nonostante la connessione tra vaccini ed autismo sia frutto solo di una voluta mistificazione basata su dati inventati di sana pianta, allo stesso modo c'è ancora in giro molta gente certa che un giorno sorgerà un novello Niccolò Copernico capace di smascherare i cattivi scienziati che tengono nascosti i magici reattori a fusione fredda. Basti pensare al successo di film come "Reazione a catena" (1996) di Andrew Davis con Keanu Reeves, Morgan Freeman e Rachel Weisz, oppure "Il Santo" (1997) di Phillip Noyce con Elisabeth Shue e Val Kilmer, che girano attorno alla realizzazione della fusione nucleare a temperatura ambiente. Ed anche in "Iron Man" (2008) di Jon Favreau, con Robert Downey e Gwyneth Paltrow, dedicato all'omonimo supereroe Marvel dotato di un esoscheletro indistruttibile, si mostra come tale esoscheletro sia alimentato da un minuscolo reattore a base di palladio, e quindi a fusione fredda, che solo il genio del protagonista Tony Stark è in grado di mettere a punto e di far funzionare.

Iron Man con il suo reattore a fusione fredda sul petto

Iron Man con il suo reattore a fusione fredda sul petto

Bisogna aggiungere che in passato il termine di "fusione fredda" è stato utilizzato anche per indicare la cosiddetta fusione catalizzata da muoni, un altro processo che teoricamente potrebbe permettere di realizzare delle reazioni di fusione nucleare senza alcuna tecnica di confinamento del plasma. Tale processo sfrutta lo spontaneo avvicinarsi dei nuclei atomici che si verifica in seguito alla sostituzione degli elettroni di legame con dei muoni, particelle di cui riparleremo a suo tempo. Questo fenomeno in teoria potrebbe dare origine a reazioni di fusione a temperature significativamente più basse che quelle richieste per il funzionamento del Tokamak, e a differenza della catalisi con il palladio adoperata da Pons e Fleischmann è stata realmente realizzata e riprodotta in laboratorio. Si ritiene tuttavia che questo fenomeno non avrà mai nessuna ricaduta pratica a causa del bassissimo rendimento energetico dell'intero processo: i muoni hanno un'emivita di soli 2,2 microsecondi e vanno sostituiti in continuazione con procedimenti non certo a basso costo, per cui l'energia così prodotta costerebbe troppo e il gioco non varrebbe la candela.