Giovane era il mondo, e le montagne verdi, (SDA, libro II, cap. IV) |
Dopo aver discusso dei modelli di universo proposti da Tolkien per il suo Mondo Secondario, e delle rappresentazioni cartografiche del pianeta su cui sono ambientate le sue battaglie, non possiamo certo fare a meno di gettare uno sguardo su quell'affascinante campo di studi che è rappresentato dall'astronomia, cioè dall'osservazione e dallo studio degli astri. Impossibile dire quando i nostri antenati volsero per la prima volta il loro sguardo verso la volta stellata del firmamento: di sicuro, la luce delle stelle ispirò loro i primi miti e i primi culti religiosi, giacché nella disposizione delle stelle era possibile ravvisare immagine di mostri cosmici o di possenti divinità. Una delle costellazioni più antiche, l'Orsa Maggiore, secondo alcuni rappresenta un "fossile culturale" addirittura di origine Neanderthal, quando quei nostri cugini preistorici andavano a caccia di orsi delle caverne (un'attività indubbiamente assai pericolosa) e, prima di gettarsi contro di essi con lance e pugnali in selce, invocavano la grande Orsa che era nei cieli per propiziare loro una caccia fortunata.
L'astronomia riveste un ruolo davvero fondamentale nell'universo di Tolkien, come dimostrano i nomi di molti suoi personaggi. Ad esempio Isildur e suo fratello Anarion prendono il nome rispettivamente dalla Luna (Isil) e dal Sole (Anar). Elrond, uno dei personaggi fondamentali sia de "Lo Hobbit" che del SdA, ha un nome che significa "volta stellata", cioè "firmamento": Elwing, sua madre, nipote di Beren e di Lúthien, lo chiamò così in onore di Menelrond, la cupola di stelle che Melian aveva realizzato con le gemme e l'argento che ornavano la stanza del trono di Re Thingol a Doriath. Arwen, figlia minore di Elrond, veniva chiamata Undómiel, in Quenya "Stella del Vespro", perché era la fanciulla elfica più bella vissuta nella Terza Era. In Sindarin vi sono due radici che significano "stella": "el" e "gil", ed entrambe le ritroviamo nei nomi di molti personaggi tolkieniani. Tra di loro vi sono Gil-galad, "Stella Radiosa", il più grande dei Re dei Noldor della Terra di Mezzo; Gildor, "Nobile Stella", l'elfo della Casa di Finrod che incontrò Frodo durante il suo viaggio nella Contea e lo mise in guardia dai Cavalieri Neri; Gilraen, "Stella Vagabonda", la madre di Aragorn; e Thorongil ("Aquila-Stella"), lo pseudonimo assunto da Aragorn in gioventù, per nascondere la sua vera identità di legittimo re di Gondor ai sovrintendenti di Minas Tirith: a quei tempi infatti il futuro Re portava una stella d'argento sul suo manto.
E non è tutto. La notte prima del Concilio di Elrond, Bilbo dice a Sam: « Buona notte! Credo che farò quattro passi in giardino per guardare le stelle di Elbereth » (SdA, Libro II, Cap. I). Come vedremo tra poco, Elbereth era la Vala che aveva creato le stelle. In precedenza, dopo aver incontrato Gildor Inglorion, Frodo gli aveva rivolto un tradizionale saluto elfico, divenuto celeberrimo tra i fan del Professore: « Elen síla lúmenn' omentielvo » (« Una stella brilla sull'ora del nostro incontro ». SdA, Libro I, Capitolo III) Ed anche Elrond si accomiata dalla Compagnia, in partenza per Monte Fato, con la benedizione « Che le stelle vi illuminino il volto! » (SdA, Libro II, Cap. III), non meno efficace di quella di Frodo, seppure non pronunciata nell'originale elfico. Ma probabilmente il miglior esempio del simbolismo rivestito dalle stelle nel Legendarium tolkieniano lo ritroviamo nella terza parte del libro, mentre Sam e Frodo stanno affrontando il viaggio, arduo e apparentemente senza speranza, attraverso la terra di Mordor diretti verso Monte Fato:
« E lì Sam, sbirciando fra i lembi di nuvole che sovrastavano un'alta vetta, vide una stella bianca scintillare all'improvviso. Lo splendore gli penetrò nell'anima, e la speranza nacque di nuovo in lui. Come un limpido e freddo baleno passò nella sua mente il pensiero che l'Ombra non era in fin dei conti che una piccola cosa passeggera: al di là di essa vi erano eterna luce e splendida
bellezza. »
(SdA, Libro VI, Cap. II)
Anche nel film "Il Ritorno del Re" diretto da Peter Jackson si ritrova traccia di questo magnifico brano, allorché Sam dice: « Padron Frodo, guardate! C'è luce e la bellezza lassù che nessuna ombra può offuscare! » Fin qui le citazioni riguardanti gli astri del firmamento. Ma sono mai citati degli astronomi, nel ciclo tolkieniano? La risposta è positiva. Quando Gandalf racconta di come è stato imprigionato sulla cima della torre di Orthanc, durante il Consiglio di Elrond, afferma: « Mi portarono sul pinnacolo di Orthanc; e mi lasciarono lì solo, nel luogo dove Saruman soleva osservare le stelle... » (SdA, Libro II, Cap. II) Inoltre, nei "Racconti Incompiuti" si parla di Tar-Meneldur, l'"Amante dei Cieli", quinto Re di Númenor detto Elentirmo ("Colui che Fissa le Stelle"). Egli regnò dal 740 all'883 della Seconda Era, e di lui di dice che « amava teneramente la Terra di Númenor e quanto era in essa, ma non si curava del mare che la circondava, perché la sua mente andava ben oltre la Terra di Mezzo: era infatti innamorato delle stelle e del cielo [...]. Costruì una torre a Forostar, la regione più settentrionale dell'isola, dove l'atmosfera era più pura e da quella, nottetempo, scrutava i cieli e seguiva i movimenti degli astri. Quando successe a suo padre sul trono di Númenor, lasciò la torre e tornò alla reggia, ma sebbene fosse giudicato un re saggio e buono non cessò mai di rimpiangere quei giorni durante i quali poteva arricchire la sua conoscenza dei cieli. » Si noti che anch'egli, come i moderni astronomi, cercava punti di osservazione lontani dalle luci delle città, per combattere l'inquinamento luminoso, come diremo più sotto. Inoltre, Elentirmo nell'universo di Tolkien è sinonimo stesso di "astronomo"!
Poiché il Legendarium di Tolkien ha l'ambizione di rappresentare una vera e propria mitologia fantasy, cioè (come detto in fondo alla lezione sulla gravitazione) di descrivere un possibile passato di quello che oggi è il nostro mondo, il Nostro Professore non poteva certo evitare di dare grande risalto, nei suoi racconti, agli astri e ai fenomeni celesti; noi vogliamo perciò inoltrarci in una breve sintesi dello studio degli astri in sua compagnia, traendo spunto da un ciclo di conferenze tenute dalla Dottoressa Kristine Larsen, docente di Fisica e Astronomia presso la Central Connecticut State University, che con pazienza ha raccolto i numerosi riferimenti astronomici contenuti nell'opera tolkieniana, confrontando il parto della sua meravigliosa fantasia con l'universo sidereo che noi conosciamo (ecco uno degli articoli da lei scritti in proposito). Partiamo perciò, insieme a lei, dal principio.
Varda Elentári, disegno di Jacek Kopalski (da questo sito)
Come si è visto quando abbiamo parlato di un'Arda piatta, in origine i Valar dimoravano nella Terra di Mezzo, e per rischiararla avevano eretto due gigantesche Lampade poste una all'estremo nord e l'altra all'estremo sud; questo periodo, noto come la Primavera di Arda, venne suddivisa nei cosiddetti "Anni delle Lampade". In seguito i due luminari vennero abbattuti da Melkor, il dio del male, e da allora gran parte di Arda restò immersa nell'oscurità, illuminata soltanto dalla tenue luce delle stelle che erano state create all'inizio dei tempi da Varda Elentári, la sposa di Manwë, il signore dei Valar. Varda è descritta come la dea del cielo, analoga alla dea Nut dell'antico pantheon egizio (il cielo invece nell'antica Grecia era una divinità maschile, nota come Urano), e lo testimoniano i suoi nomi. In lingua Quenya Varda significa "la Sublime" (tipico attributo celeste), ed Elentári significa "Signora delle Stelle"; in lingua Sindarin è conosciuta come Elbereth, che significa sempre la "Signora delle Stelle", come Gilthoniel ("Colei che accese le stelle") perchè fu lei ad accendere gli astri all'inizio dei giorni, e come Fanuilos ("la Sempre Bianca"). Si diceva che fosse troppo bella per essere descritta a parole, dato che il suo viso risplendeva della luce di Ilúvatar. Melkor la odiava più di ogni altro Valar, poiché era la signora della luce, mentre lui era il principe delle tenebre.
Dopo la distruzione delle Lampade e l'oscuramento del mondo, i Valar decisero di ritirarsi all'estremo occidente di Arda, fondando Aman, la Terra Immortale, la cui capitale era Valinor. Per illuminarla i Valar fecero spuntare i Due Alberi, generati dal canto di Yavanna, la dea della Natura (paragonabile alla greca Demetra e alla romana Cerere), e innaffiati dalle lacrime di Nienna, la dea della misericordia. Così li descrive il nostro Autore:
«
Così nacquero al mondo i Due Alberi di Valinor. Di tutte le cose fatte da
Yavanna, essi sono le più rinomate, e tutte le narrazioni dei Giorni Antichi
si imperniano sul loro destino. Uno, Telperion, che era maschio, aveva foglie verde scuro
che sulla faccia inferiore erano come argento lucente, e da ciascuno dei suoi innumerevoli fiori sgorgava
di continuo una rugiada di luce argentea, e il suolo sottostante era maculato dall'ombra delle sue foglie
vibranti. L'altro, Laurelin, che era femmina, le aveva di un verde tenero come
quello della betulla gemmata; e i loro bordi erano di oro baluginante. Fiori
ne coprivano i rami in grappoli di fiamma gialla, ciascuno formato a guisa di corno scintillante
che spandeva una pioggia d'oro sul terren; e dai boccioli di quell'albero
promanavano calore e una gran
luce. »
(QS, cap. I)
Nel frattempo si avvicinava il momento in cui si sarebbero destati i figli di Ilúvatar, e Varda decise di preparare loro una degna accoglienza: lasciata la beata Valinor, percorse la Terra di Mezzo, ne vide le tenebre rotte solo da moltissime piccole stelle, fioche e lontane, e pensò di realizzare la più grande opera mai compiuta dai Valar da quando erano giunti in Arda:
«
Attinse le argentee rugiade delle tinozze di Telperion, e con esse fabbricò
nuove e più lucenti stelle per la venuta dei Primogeniti; sicché lei, il cui
nome fin dalle profondità del tempo e delle doglie di Eä era Tintallë, l'"Accenditrice",
in seguito dagli Elfi fu chiamata Elentári, "Regina delle stelle".
[...]
Si vuole che, mentre Varda terminava le sue fatiche, ed esse furono lunghe, si destarono i Figli della Terra, i Primogeniti
di Ilúvatar. Presso il Lago di Cuiviénen, illuminato appena dalle stelle, il
cui nome significa Acqua del Risveglio, , si riscossero dal sonno di Ilúvatar;
e mentre se ne stavano ancora silenziosi sulla riva, i loro occhi scorsero per
prima cosa le stelle del cielo. Perciò essi hanno sempre amato il lume delle
stelle, adorando Varda Elentári più di tutti i Valar. »
(QS, cap. III)
Questo è quanto racconta il mito tolkieniano. Passiamo ora alle moderne conoscenze circa quelle che Leopardi chiamò le "vaghe stelle dell'orsa". Quando ci si rese conto che gli astri non sono buchi nel firmamento che permettono di vedere la luce del Paradiso dietro di esse, né lanterne accese tra i cieli da una divinità benigna, si comprese che essi sono piuttosto corpi celesti in tutto simili al nostro Sole, e si cominciò a cercare per quale motivo essi splendono. Inizialmente si pensò che la sorgente di quell'energia radiante fossero reazioni chimiche analoghe alla combustione; ben presto però ci si rese conto che tale tipo di reazioni non sono abbastanza energetiche da sostenere lo splendore di una stella per tempi lunghissimi. Ad esempio, se il nostro Sole fosse una sfera di carbone che brucia lentamente, esso avrebbe avuto le dimensioni dell'orbita terrestre non più di 50.000 anni fa. Invece già Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788), stimò che la Terra dovesse avere almeno 80 milioni di anni; ottenne questa cifra stimando il tempo necessario a una sfera di acciaio arroventata per raffreddarsi, ed estrapolando poi i risultati alle dimensioni del nostro pianeta. Oggi sappiamo bene che tale cifra è sottostimata, poiché Buffon non teneva conto dell'apporto al calore interno alla Terra da parte dei materiali radioattivi; tuttavia, già in quell'epoca era evidente che la Terra non poteva avere un'età maggiore del suo Sole, e quindi si cominciò a cercare una fonte alternativa di energia che alimentasse le stelle. La risposta corretta fu individuata dal fisico tedesco Hans Bethe (1906-2005), il quale, mentre passeggiava nel 1938 in un parco assieme alla fidanzata, intuì che gli astri risplendono grazie ad una serie di complesse reazioni termonucleari. Si tratta in particolare di reazioni di fusione nucleare: nuclei più leggeri si fondono, dando vita a nuclei più pesanti. Questo processo richiede però altissime temperature, perchè i nuclei sono carichi positivamente, e la fortissima repulsione coulombiana (cariche di ugual segno si respingono, tanto più quanto più sono vicine) impedisce loro di toccarsi ed unirsi; solo sopra i 10 milioni di Kelvin, l'agitazione termica dei nuclei diventa abbastanza forte da superare la barriera di potenziale elettrostatica. Il processo di fusione nucleare che fa splendere le stelle è chiamato ciclo di Bethe.
Ma da dove hanno origine le meravigliose stelle che stimolarono la fantasia non solo degli Elfi, ma anche dei nostri antenati umani? Purtroppo non dall'opera creatrice di Varda, la più bella tra le signore dei Valar. Le moderne teorie cosmologiche ci dicono che esse nascono dalla materia diffusa nello spazio sotto forma di nubi di idrogeno ed altri gas, e subiscono evoluzioni differenti a seconda della loro massa iniziale. Le stelle con massa all'incirca pari a quella del Sole prendono origine da grumi di materia relativamente fredda, detti globuli di Bok dal nome dell'astronomo olandese naturalizzato statunitense Bart Jan Bok (1906–1983), che li osservò per la prima volta nel 1947. Essi hanno una massa compresa tra 10 e 50 volte quella del Sole, e un diametro di circa un anno luce. Le stelle più massicce del Sole, invece, si formerebbero a partire da un innesco dovuto ad onde d'urto, che creano instabilità gravitazionale nella materia del globulo; tali onde d'urto possono essere dovute all'esplosione di una supernova, esplosione che arricchisce la nube primigenia di nuovi importanti elementi. Questi elementi contribuirebbero a formare i dischi di materia circostanti le protostelle, da cui poi nascono i pianeti.
Le protostelle altro non sono che nubi di gas di forma approssimativamente sferica, nella quale iniziano a farsi sentire con maggiore intensità le interazioni gravitazionali tra le particelle che le costituiscono. Con l'addensarsi della materia, la forza di gravità aumenta e la nube di gas si contrae su se stessa, fino a che la densità e la temperatura non sono sufficienti ad innescare la fusione nucleare; si parla in proposito di collasso gravitazionale. La pressione gravitazionale degli strati più esterni provoca la contrazione della protostella, ma un aumento della densità provoca un conseguente aumento della temperatura, e la protostella comincia a brillare nell'infrarosso. La durata di questa fase dipende dalla massa: il processo è tanto più veloce quanto maggiore è la massa. Le stelle assai più massicce del Sole si formano in un tempo relativamente breve su scala cosmica, valutato in circa 300.000 anni, mentre quelle grandi come il Sole richiedono dai 10 ai 30 milioni di anni. In ogni caso, Varda aveva a disposizione tutto il tempo che voleva per portare le stelle neonate a brillare di luce propria, essendo una Vala immortale!
Quando la temperatura del nucleo protostellare raggiunge i 10 milioni di gradi, si innesca la fusione nucleare dell'idrogeno in elio, attraverso il ciclo di Bethe. L'evoluzione di una stella dipende da due grandezze: la sua temperatura superficiale e la sua magnitudine. Per spiegare così quest'ultima occorre capire che cos'è la grandezza chiamata luminosità assoluta di un astro, indicata con L. Essa è definita come la quantità di energia emessa dalla superficie della stella per unità di tempo, e si misura in Watt (= Joule al secondo). In realtà una sua misurazione diretta è impossibile, giacché le stelle non sono tutte equidistanti da noi. Nell'universo descritto da Tolkien, le stelle si trovano tutte "fissate" (donde il nome di "stelle fisse") su di un firmamento solido, presumibilmente fatto di etere, e dunque sono tutte equidistanti dalla Arda sferica da noi vista nella lezione sui modelli di universo. Così non avviene nel "nostro" universo, nel quale le stelle sono sparse in un vasto spazio tridimensionale, e possono essere più o meno distanti dalla Terra; di conseguenza una stella può essere meno luminosa di un'altra in termini assoluti, ma può sembrare più luminosa di essa perchè molto più vicina a noi. Per questo si parla di luminosità apparente, indicata con l, che rappresenta l'energia per unità di tempo apprezzabile dalla Terra, e dipende sia dalla luminosità assoluta L che dalla distanza d:
Misurata l con un fotometro, conoscendo la distanza d di può risalire alla luminosità assoluta L. Il primo a tentare una classificazione delle stelle in base alla loro luminosità assoluta fu una nostra vecchia conoscenza, Ipparco di Nicea, il quale - come gli abitanti di Arda nella Terza Era - riteneva tutte le stelle equidistanti fra di loro, e dunque credeva che le stelle più luminose dovessero essere necessariamente le più grandi. Ipparco divise le stelle in sei classi di luminosità dette magnitudini (dal latino magnitudo, "grandezza"); le più luminose erano di prima magnitudine, e mano a mano che la magnitudine cresceva, la luminosità diminuiva. Ipparco e gli altri astronomi greci pensavano che le magnitudini stellari fossero in progressione aritmetica; in altri termini, la differenza di luminosità tra due stelle di prima e di seconda magnitudine sarebbe stata la stessa di quella tra due stelle di seconda e di terza magnitudine. Nell'ottocento, però, ci si rese conto che le magnitudini stellari rappresentano una progressione geometrica, e quindi il rapporto tra le luminosità di una stella di prima e una di seconda magnitudine è lo stesso tra quelle di una stella di seconda e una di terza magnitudine. La luminosità assoluta è quindi legata al logaritmo della magnitudine: se l'occhio umano percepisce che una data stella ha luminosità doppia di un'altra, il rapporto tra le due luminosità assolute è di 102 = 100, perchè log10100 = 2.
La sonda statunitense Pioneer 10, lanciata il 3 marzo 1972, porta con sé una placca di alluminio dorato ideata dal famoso scienziato Carl Sagan e destinata ad eventuali intelligenze extraterrestri che in un lontano futuro potrebbero intercettarla. La placca originale può essere osservata in questo sito; quella che qui vedete raffigurata è un'immagine dell'ipotetica placca del Pioneer disegnata da un Carl Sagan "alternativo" (di natura elfica, forse?) vissuto nell'universo parallelo di Tolkien! |
La scala di Ipparco è però utilizzata ancor oggi, vista la sua comodità; solo, essa fu estrapolata a magnitudini maggiori di 6, tipiche delle stelle non visibili ad occhio nudo ma solo al telescopio, e minori di 1, incluse quelle negative, caratterizzanti oggetti particolarmente luminosi. Ad esempio, il Sole a mezzogiorno ha una magnitudine di – 26,74; la luna piena ne ha una di – 12,75; la Supernova del Granchio osservata nell'anno 1054 e distante 6500 anni luce dovette arrivare almeno a – 6,00; la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) può arrivare a – 5,2; Venere al suo massimo splendore giunge a – 4,89; Giove a – 2,94; Marte a – 2,91; Sirio (α del Cane Maggiore), la stella più luminosa dei nostri cieli, a 8,6 anni luce da noi, ha una magnitudine di – 1,47; Canopo (α Carinae), a 310 anni luce, di – 0,72; Saturno di – 0,49; α Centauri, la stella più vicina a noi dopo il Sole, a 4,3 anni luce, di − 0,01; Vega (α Lirae), a 25,3 anni luce, di + 0,03; Rigel (β Orionis), a 770 anni luce, di + 0,12; Altair (α Aquilae), a 16,7 anni luce, di + 0,77; Antares (α Scorpii), a 600 anni luce, di + 1,09; la Stella Polare (α Ursae Minoris), a 325 anni luce, di + 2,01; la galassia M31 di Andromeda, distante 2.300.000 anni lice, di + 3,44; Urano, ai limiti della visibilità ad occhio nudo, di + 5,32; Nettuno di + 7,78; 3C 273, il quasar più luminoso del cielo, a 2,4 miliardi di anni luce da noi, di + 12,91; Plutone di + 13,5; il pianeta nano Eris di + 18,73; i più deboli oggetti osservabili nello spettro visibile tramite i telescopi terrestri di 8 metri di diametro, di + 27,00; i più deboli oggetti osservabili nello spettro visibile mediante il telescopio spaziale Hubble, di + 31,5.
Si noti, tanto per fare un esempio, che le stelle Alphecca (α Coronae Borealis) e Sador (γ Cygni) hanno la stessa magnitudine apparente, cioè + 2,23, ma la prima dista da noi 75 anni luce, e la seconda ben 1780. Ciò significa che Sador è molto più luminosa di Alphecca in termini assoluti. Quella che noi stimiamo dalla Terra è dunque una magnitudine apparente. Per poter misurare la luminosità effettiva di un astro, indipendentemente dalla sua distanza dalla Terra, è stata allora introdotta la magnitudine assoluta, definita come la magnitudine che le stelle avrebbero se fossero poste tutte a 10 parsec, cioè a 32,6 anni luce dalla Terra. In pratica, sarebbe come se la "sfera delle stelle fisse" immaginata da Tolomeo, da Dante e da Tolkien esistesse davvero, e questa distasse da Arda 32,6 anni luce, cioè 3,1 x 1014 chilometri! Naturalmente le stelle che distano da noi meno di 10 parsec avranno una magnitudine assoluta minore della magnitudine apparente, mentre per quelle che distano più di 10 parsec varrà la disuguaglianza contraria. Fu l'astronomo inglese Norman Robert Pogson (1829-1991) a determinare la relazione che lega le magnitudini apparenti di due stelle, m1 e m2, con le loro luminosità apparenti l1 e l2, espressa dalla formula:
dove Log è il logaritmo decimale. Infatti, si è stabilito per convenzione che una stella di prima magnitudine sia 100 volte più luminosa di una di sesta magnitudine (le famose sei classi introdotte da Ipparco). Siccome il rapporto fra la luminosità di una classe e quella della seguente è costante, se ne deduce che tale rapporto costante è pari a:
Dunque una stella di prima magnitudine è all'incirca due volte e mezzo più luminosa di una di seconda magnitudine. Siano invece una stella di prima e una di quinta magnitudine; la differenza tra le due magnitudini è pari a 4, e quindi il rapporto tra le loro luminosità è dato da (2,512)4, cioè a circa 39,811. Il legame fra la magnitudine apparente m e quella assoluta M è invece data dalla formula:
dove d è la distanza dalla Terra misurata in parsec. Applichiamo tale formula ad Alphecca e a Sador. Per quest'ultima, m = + 2,23 e d = 1780 / 3,26 = 546 parsec, per cui M = + 2,23 + 5 - 5 Log 546 = – 6,46. Analogo calcolo può essere ripetuto per Alphecca, che però è in realtà una stella binaria i cui due componenti hanno magnitudine assoluta di + 0,16 e + 5,05. Resta confermato che Sador è effettivamente assai più luminosa di Alphecca, come avevamo dedotto in modo qualitativo. Ricaviamo ora il rapporto tra le luminosità apparenti l1 ed l2 delle due stelle. Dalla (1) si ricava:
da cui, per definizione di logaritmo, si ricava l2 = l1 x 102,63 = 426,6 l1. Dunque Sador è più di 400 volte più luminosa della componente più brillante di Alphecca. Il nostro Sole, che al massimo del suo fulgore ha una magnitudine apparente di – 26,74, ha invece una magnitudine assoluta di soli + 4,83; è dunque una stella assai poco brillante, in confronto a molti altri fulgidi splendori del cielo: è 72 volte meno brillante di Alphecca, e 65.000 volte meno luminoso di Sador. Il record spetterebbe ad Eta Carinae, probabilmente una stella sul punto di esplodere in supernova, anche se nessuno sa prevedere quando ciò accadrà. Nel 1843 essa raggiunse una magnitudine assoluta di – 20,26, il che equivale a 50 milioni di volte la luminosità solare!!
Eppure, tanta luminosità non poteva rivaleggiare, nell'ultimo capitolo de "Le Due Torri", con quella della fiala donata da Galadriel a Frodo al momento della sua partenza da Lórien; essa conteneva acqua della fontana di Galadriel, a sua volta impregnata della luce della stella Eärendil, che poi coincideva con uno dei Silmaril, e quindi in definitiva con la luce dei Due Alberi. La vediamo in azione in particolare a Cirith Ungol, quando Sam la usa contro Shelob per metterla in fuga dopo che questa ha messo Frodo K.O.:
«
A Elbereth Gilthoniel,
o menel palan-diriel,
le nallon sí di'nguruthos!
A tiro nin, Fanuilos!
[...] Come se lo spirito indomato ne avesse rinforzato la potenza, la Fiala di
Galadriel avvampò improvvisamente come una fiamma bianca nella sua mano.
Irradiava il bagliore di una stella fuggita dal firmamento che fende
l'oscurità con indomabile fulgore. »
(SdA, libro
IV, cap. X)
Il celeberrimo inno elfico che Mastro Samvise si sente sgorgare dal petto quando estrae la fiala da sotto il mantello (è stato persino messo in musica da Donald Swann nel 1967!) è una preghiera in lingua Sindarin elevata proprio a Varda, la dea della luce. La sua traduzione è: « O Elbereth che accendesti le stelle, / dal firmamento quaggiù contemplando, / a Te grido, preda dell'ombra della morte! / Volgi a me il tuo sguardo, o Sempre Bianca! » Decisamente la preghiera più adatta da rivolgere alla Signora delle Stelle.
La temperatura superficiale di una stella e la sua magnitudine assoluta possono essere poste in relazione tra di loro nel cosiddetto diagramma di Hertzsprung-Russell, o diagramma H-R, dal nome dei due astronomi che lo proposero nel 1913, il danese Ejnar Hertzsprung (1873-1967) e lo statunitense Henry Norris Russell (1877-1957). In esso la temperatura superficiale è riportata in ascisse su di una scala logaritmica, e la magnitudine assoluta in ordinate. Ciò che salta all'occhio è il fatto che le stelle non sono distribuite a casaccio nel diagramma, ma raggruppate in un modo ben preciso. La maggior parte delle stelle dell'universo si concentra su di una striscia che attraversa il diagramma dall'alto a sinistra fino in basso a destra, detta sequenza principale. Si tratta di stelle molto stabili, che basano il loro splendore sulla fusione dell'idrogeno in elio. Anche il nostro Sole appartiene alla sequenza, all'incirca al centro di essa. In alto a destra si trova invece un gruppo di stelle giganti, con 3000-5000 K di temperatura superficiale e con magnitudine assoluta compresa tra – 2 e + 2. Più in alto ancora troviamo un gruppo di stelle dette supergiganti, con magnitudine superiore a – 4. Si considerino due stelle con la stessa temperatura superficiale (e quindi allineate lungo un asse verticale del diagramma H-R); se una di esse è molto più luminosa, significa che ha una superficie emittente maggiore, e quindi è molto più grande. Per questo, salendo nel diagramma lungo l'asse verticale si va verso stelle sempre più grandi, e quindi a buon diritto definite giganti. In basso a sinistra invece si trova la regione delle cosiddette nane bianche, con temperatura superiore ai 7000 K e magnitudine assoluta intorno a + 8; sono stelle estremamente calde ma molto poco luminose, ed hanno più o meno le dimensioni della Terra. Un tipico esempio di gigante rossa è rappresentato da Aldebaran (α Tauri), la quattordicesima stella più luminosa del cielo, a 66,5 anni luce dalla Terra, il cui nome in arabo significa "l'inseguitore" perchè sembra tallonare l'ammasso delle Pleiadi. Si tratta di una stella binaria, e dei due astri il maggiore ha un diametro pari a 44 diametri solari; se posto nel Sistema Solare al posto del Sole, occuperebbe metà dell'orbita di Mercurio e apparirebbe dalla Terra come un disco di 20° di diametro. Invece un esempio di supergigante è VV Cephei, a 3000 anni luce della Terra nella costellazione di Cefeo; anch'essa è una stella binaria, e VV Cephei A è considerato la quarta maggiore stella conosciuta, con un raggio pari a circa 1750 volte quello del Sole: se si trovasse al suo posto, arriverebbe fino all'orbita di Saturno! Si pensa che abbia una luminosità compresa fra 100.000 e 500.000 volte quella solare, e una massa superiore a 50 volte quella del Sole. Sembra davvero che solo una dea come la tolkieniana Varda possa aver creato un astro così imponente!
Il diagramma di Hertzsprung-Russell
L'importanza del diagramma H-R sta nel fatto che in esso sono sintetizzate tutte le fasi dell'evoluzione stellare, e i singoli gruppi di stelle rappresentano rappresentano i singoli momenti di questo ciclo evolutivo. L'esistenza di ogni astro dipende dall'azione di due forze contrapposte: la gravità dei suoi strati gassosi più esterni, che tende a farlo contrarre, e la pressione di radiazione delle reazioni che avvengono nel nucleo, che tendono a farlo espandere. Finché queste due forze sono in equilibrio tra di loro, la stella rimane lungo la sequenza principale. Una stella di massa relativamente piccola come il Sole può rimanere in tale sequenza fino a 10 miliardi di anni. Invece, quanto maggiore è la massa dell'astro, tanto più rapidamente esso consuma il proprio idrogeno, e vi rimane solo qualche centinaio di milioni di anni; secondo alcuni, una stella ipergigante può vivere anche un solo milione di anni, che a noi uomini potrà parere un tempo lunghissimo, come la vita di un Elfo a confronto con quella di un uomo (anche di un Dúnedain), ma che rispetto alla scala temporale dell'universo è davvero poca cosa. Quando l'idrogeno comincia a scarseggiare, la fusione del nucleo stellare non ha più "benzina", e la pressione di radiazione viene meno, sopraffatta dalla gravità. Per questo la stella si contrae; in tal modo, però, si riscalda (qualunque corpo compresso aumenta la propria temperatura), giungendo fino a 100 milioni di Kelvin, ed allora lo strato più esterno si riscalda, e la stella si "gonfia" fino a diventare una gigante rossa, più grande ma anche più fredda in superficie di una stella di tipo solare, e quindi più rossa. Il tutto produce uno spostamento verso le regioni più alte del diagramma H-R. L'aumentata temperatura permette l'innesco di una nuova reazione di fusione nucleare. Stavolta anche l'elio comincia a fondere; tre nuclei di elio danno vita a un nucleo di carbonio. È così che la stella si assesta su di una nuova fase stabile e scende ancora sulla sequenza principale. Questo equilibrio però è instabile, la stella va soggetta a brusche fluttuazioni di luminosità e si parla di variabile intrinseca.
Le stelle la cui massa non supera il cosiddetto Limite di Chandrasekar, pari ad 1,44 masse del Sole, non sono in grado di andare oltre questo stadio: esaurito l'elio, la pressione di radiazione viene di nuovo meno, prevale la contrazione gravitazionale, e il carbonio si fonde con l'elio superstite per dar vita ad ossigeno. La stella si presenta così come un oggetto molto denso e compatto: ha le dimensioni della Terra, un suo decimetro cubo pesa una tonnellata ed è fatta a strati concentrici, come una cipolla: dall'esterno verso l'interno troviamo idrogeno, elio, carbonio e ossigeno. In tal modo l'astro scende sotto la sequenza principale: è caratterizzato da alta temperatura superficiale (anche 20.000 K), ma bassa luminosità. Essendo piccola la massa iniziale della stella, la nuova contrazione gravitazionale che si è determinata non basta a produrre un aumento di temperatura tale da innescare ulteriori reazioni nucleari, perciò la stella si raffredda e splende sempre di meno, come una candela sempre più fioca. Otteniamo così una nana bianca. Si suppone che questo sarà il destino del nostro Sole: tra 5 miliardi di anni esso si gonfierà in gigante rossa fagocitando i pianeti almeno sino a Marte, quindi si spegnerà lentamente sotto forma di nana bianca. Non così accade alle stelle la cui massa supera il Limite di Chandrasekar: la loro massa è abbastanza grande da innescare reazioni di fusione che portano alla formazione prima di magnesio, poi di silicio, e infine di ferro. Le successive espansioni e contrazioni della stella fanno sì che essa subisca violente fluttuazioni di luminosità, tanto da renderla visibile ad occhio nudo là dove prima non c'era nulla. Per questo gli antichi la chiamarono Nova, anche se in realtà non si trattava di una "nuova" stella appena formatasi, ma di una che stava per morire.
Oltre il ferro, le reazioni di fusione nucleare non possono andare. Perchè? Perchè i protoni e i neutroni sono legati all'interno dei nuclei dalla cosiddetta energia di legame nucleare ΔE, misurata di solito in MegaelettronVolt o MeV (1 MeV = 1,6 x 10–13 J). Se si divide l'energia di legame del nucleo per il numero complessivo A di nucleoni (cioè di protoni e neutroni) che lo costituiscono, si trova la cosiddetta energia di legame per nucleone ΔE/A, che esprime l'energia con cui ogni particella è legata all'interno del nucleo. Orbene, i nuclei stabili sono quelli con elevata energia di legame per nucleone, perchè occorrerebbe fornire loro molta energia per distruggere il nucleo. Ma il nucleo con la più alta energia di legame per nucleone è proprio il ferro con A = 56; per essa, ΔE/A = 8,79 MeV/nuc. Tutti i nuclei più leggeri e più pesanti del ferro-56 sono meno stabili di lui. Ne consegue che i nuclei con A < 56, per diventare più stabili, devono fondersi; quelli con A > 56, per diventare più stabili, devono fissionare, cioè rompersi in altri più piccoli. L'idrogeno, ad esempio, diventa più stabile quando si fonde in elio, e l'elio quando si fonde in carbonio. L'uranio invece diventa più stabile se si spezza in nuclei più piccoli (prodotti di fissione). Per questo la fusione nucleare è impossibile per elementi al di là del ferro. Allorché una stella Nova arriva ad avere un nucleo di ferro, non può più andare oltre con le sue reazioni di fusione, e quindi in essa prevale la contrazione gravitazionale. Quest'ultima è così rapida da far aumentare la temperatura a tal punto, che i suoi strati esterni esplodono letteralmente verso l'esterno. Improvvisamente, e per breve tempo, la stella diventa più luminosa dell'intera galassia che la contiene, e prende il nome di Supernova.
Si pensa che nella Via Lattea si formino 40 Novae all'anno, e che esplodano in media tre Supernovae per secolo. Nonostante ciò, l'ultima Supernova osservata nella nostra galassia risale al 1604 e fu descritta da Kepler; la maggior parte di questi eventi resta nascosto ai nostri occhi, a causa delle nubi di gas interstellare sul piano galattico. Una delle Supernovae più famose è quella esplosa nel 1054 e registrata nei loro annali dagli astronomi cinesi; oggi i resti di quella esplosione, che proiettò nello spazio gli strati più esterni dell'astro a 10.000 km/s, sono visibili sotto forma della cosiddetta Nebulosa del Granchio. L'esplosione disperde nello spazio molti elementi pesanti, che si mescolano alla materia interstellare, pronti per essere "riciclati" in nuove stelle. Si parla in tal caso di stelle di Seconda Generazione, ricche di quegli elementi pesanti che contribuiranno a formare i pianeti. Anche il Sole è quindi una stella di Seconda Generazione. Se la massa iniziale superava le 50 masse solari, dell'astro gigante iniziale non resta che un pallido cadavere, chiamato stella di neutroni. Infatti, in assenza di reazioni di fusione nel nucleo superstite nulla può arrestarne il collasso. Gli elettroni degli atomi sono spinti contro i protoni dei nuclei, e si verifica una reazione detta di neutronizzazione, la quale produce un neutrone n e un antineutrino ν:
Ciò che ne risulta è un astro del diametro di pochi chilometri, con una densità enorme: un cucchiaino di quella materia, chiamata neutronio, peserebbe un miliardo di tonnellate! In pratica si tratta di un nucleo atomico grande come una montagna, fatto interamente di neutroni, che gira molto rapidamente su se stesso, per via della conservazione del momento angolare: la riduzione del raggio provoca un aumento vertiginoso della velocità angolare, come accadeva a Lúthien Tinúviel quando ballando chiudeva le braccia! La giovane astrofisica nordirlandese Jocelyn Bell (1943-) nel 1967 scoprì una radiosorgente che emetteva un segnale radio perfettamente regolare; ella pensò inizialmente di aver captato una trasmissione radio di origine aliena, poi si rese conto che ad emettere quel segnale radio era una stella di neutroni in rapidissima rotazione su se stessa, che emetteva un fascio di onde radio come un radiofaro cosmico (tra l'altro la Bell fu scippata del Premio Nobel, assegnato invece al suo professore Antony Hewish: uno dei peggiori scandali della storia della scienza). Le stelle di neutroni vengono oggi chiamate anche Pulsar, per via del segnale radio intermittente da esse prodotto. Perchè una Pulsar non può collassare oltre? Perchè i neutroni seguono la cosiddetta Statistica di Fermi-Dirac, e per le particelle che seguono tale statistica vale il cosiddetto Principio di Esclusione di Pauli: due particelle con tutti i numeri quantici uguali non possono occupare lo stesso stato. Il Principio di Esclusione provoca così una repulsione tra i neutroni, sufficiente per arrestare il collasso. Del neutronio riparleremo nell'ultima lezione di questo ipertesto.
Però... c'è un però. Se la stella iniziale era davvero supermassiccia, sopra le 200 masse solari, l'azione gravitazionale del resto di Supernova è tale, che i neutroni reagiscono tra di loro, e danno vita a particelle dette bosoni, che non seguono la Statistica di Fermi-Dirac, ma quella di Bose-Einstein; e per i bosoni non vale il Principio di Esclusione: infiniti bosoni possono occupare lo stesso stato. Anche l'estremo baluardo del Principio di Esclusione è caduto, e nulla può più arrestare il collasso gravitazionale del resto di Supernova. La velocità necessaria per liberarsi dall'attrazione gravitazionale di un corpo celeste, detta velocità di fuga, è tanto maggiore quanto maggiore è la sua massa e quanto minore è il suo raggio; se il raggio di quell'astro scende sotto un certo valore, detto Raggio di Schwarzschild dal nome del fisico tedesco Karl Schwarzschild (1873-1916), allievo di Einstein, la velocità di fuga supera la velocità della luce, ed allora nulla, neppure i fotoni, possono liberarsi dal furioso campo gravitazionale di quel cadavere astrale. Esso si ritira per sempre in un oscuro isolamento, e prende il nome di buco nero, termine questo coniato dalla famosa serie TV di fantascienza "Star Trek"; chi vuole sapere di più su di essi, consulti quest'altro mio ipertesto. Ritenuti per molto tempo una fantasia al pari dei dischi volanti, oggi si hanno molte prove della loro esistenza, ed anche al centro della nostra Via Lattea vi è un colossale buco nero, con una massa pari a 4 milioni di masse solari, noto con il nome di Sagittarius A*.
Vi è un equivalente del "buco nero" nella mitologia di Tolkien? Probabilmente sì. Sto pensando alle famose "Porte della Notte", di cui abbiamo parlato trattando i modelli cosmologici:
« Così
avvenne che i Valar osarono mettere mano ad una grande impresa, la più
straordinaria delle loro opere; con l'aiuto di Ulmo essi realizzarono una flotta di
velieri magici - e comunque nessuno di questi era stato in grado di navigare sulle acque di Vai -,
giunsero al Confine di tutte le cose, e là essi fecero la Porta della Notte
»
("The Book of Lost Tales", Libro IX)
La loro origine e la loro vera funzione non sono chiare: secondo alcuni passi del Legendarium, sono state create dai Valar come una sorta di via d'accesso per il Sole, che sarebbe transitato sotto il mondo per riemergere ad est attraverso le Porte del Mattino; in altri passi, però, sembra che siano state realizzate apposta per espellere Morgoth nel Vuoto Atemporale, verso il quale si aprirebbero. Le Porte della notte erano sorvegliate da Eärendil, onde vigilare su un possibile ritorno del Re delle Tenebre. In ogni caso queste Porte si aprono sul Vuoto Atemporale, e quindi sul Mistero, là dove abitano Ilúvatar e, presumibilmente, gli spiriti degli Uomini che hanno lasciato Arda per sempre. Lo stesso mistero che avvolge la natura della materia all'interno di un buco nero, perchè in esso la gravità dovrebbe essere governata da leggi quantistiche, viste le sue ridotte dimensioni, ed invece la nostra ignoranza circa il comportamento quantistico della gravità è totale. Le Porte della Notte dovevano perciò apparire agli abitanti di Arda come un vero e proprio buco nero!
Le Porte della Notte (da questo sito)
Una domanda sorge spontanea a questo punto: quante sono le stelle? Per rispondere a questa domanda, anziché a Tolkien, dovremmo rifarci ad un altro grandissimo scrittore per ragazzi: Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944), universalmente noto per essere l'autore del « Piccolo Principe ». Infatti, Nel corso del suo lungo viaggio nell'universo, il Piccolo Principe visita molti pianeti, ed il quarto è abitato da un uomo d'affari:
«
Quest'uomo era così occupato che non alzò neppure la testa all'arrivo del Piccolo Principe.
"Buon giorno", gli disse questi. "La vostra sigaretta si è spenta."
"Tre più due fa cinque. Cinque più sette: dodici. Dodici più tre: quindici. Buon giorno. Quindici più sette fa ventidue. Ventidue più sei: ventotto. Non ho tempo per riaccenderla. Ventisei più cinque trentuno. Ouf! Dunque fa cinquecento e un milione seicento ventiduemila settecento
trentuno."
"Cinquecento e un milione di che?"
"Ehm! Sei sempre lì? Cinquecento e un milione di... non lo so più. Ho talmente da fare! Sono un uomo serio, io, non mi diverto con delle frottole! Due più cinque: sette..."
"Cinquecento e un milione di che?" ripete' il piccolo principe che mai aveva rinunciato a una domanda una volta che l'aveva espressa.
L'uomo d'affari alzò la testa: "Da cinquantaquattro anni che abito in questo pianeta non sono stato disturbato che tre volte. La prima volta è stato ventidue anni fa, da una melolonta che era caduta chissà da dove. Faceva un rumore spaventoso e ho fatto quattro errori in una addizione. La seconda volta è stato undici anni fa per una crisi di reumatismi. Non mi muovo mai, non ho il tempo di girandolare. Sono un uomo serio, io. La terza volta ... eccolo! Dicevo dunque cinquecento e un
milione."
"Milione di che?"
L'uomo d'affari capì che non c'era speranza di pace. "Milioni di quelle piccole cose che si vedono qualche volta nel
cielo."
"Di mosche?"
"Ma no, di piccole cose che brillano."
"Di api?"
"Ma no. Di quelle piccole cose dorate che fanno fantasticare i poltroni. Ma sono un uomo serio, io! Non ho il tempo di
fantasticare."
"Ah! di stelle?"
"Eccoci. Di stelle."
"E che ne fai di cinquecento milioni di stelle?" [...]
"Mi servono ad essere ricco."
"E a che serve essere ricco?"
"A comperare delle altre stelle se qualcuno ne trova." [...]
"Io", disse il Piccolo Principe, "possiedo un fiore che innaffio tutti i giorni, e possiedo tre vulcani dei quali spazzo il camino tutte le settimane.
È utile ai miei vulcani e al mio fiore che li possegga. Ma tu non sei utile alle
stelle..." »
("Il Piccolo Principe", cap. XIII)
Orbene, i due ricercatori americani Pieter van Dokkum dell'Università di Yale e Charlie Conroy dell'Università di Harvard hanno calcolato nel 2011 che, come recitava una famosa pubblicità dei tempi andati, « le stelle sono tante, milioni di milioni », e, per la precisione, 3 seguito da 23 zeri! Secondo loro nell'universo esistono almeno trecento miliardi di stelle (3 seguito da 11 zeri), e ogni galassia contiene fino a mille miliardi di stelle (1 seguito da 12 zeri). Una semplice moltiplicazione giustifica la stima dei due astrofisici. L'uomo d'affari in cui si imbatté il Piccolo Principe aveva dunque sbagliato per difetto: cinquecento milioni di stelle corrispondono "appena" a 5 seguito da otto zeri: un errore di 15 ordini di grandezza!
Fino a qui abbiamo parlato di stelle in generale; ma nel Legendarium di Tolkien possiamo riconoscere qualcuna in particolare?Allo scopo, ritorniamo alla Creazione delle Stelle da parte di Varda l'Accenditrice:
« Carnil e
Luinil, Nénar e Lumbar, Alkarinquë e Elemmírë
ella fabbricò in quel tempo, e molte altre delle antiche stelle radunò
insieme e le collocò come a guisa di segni nel cielo di Arda: Wilwarin,
Telumendil, Soronúmë e Anarríma; e Menelmakar con la sua cintura scintillante,
che preannuncia l'Ultima Battaglia che avrò luogo alla fine dei giorni. E in alto a nord,
come una sfida a Melkor, sospese una corona di sette possenti stelle che formano
Valacirca, la Falce dei Valar, e sono segno di destino.
Si vuole che, mentre Varda terminava le sue fatiche, ed esse furono lunghe,
quando salì nel cielo e il fuoco azzurro di Helluin baluginò nelle brume
sopra i confini del mondo, in quell'ora si destarono i Figli della Terra, i Primogeniti
di Ilúvatar... »
(QS, cap. III)
Come vediamo, questo breve passo del Quenta Silmarillion elenca i nomi di ben dodici oggetti celesti, di cui sei stelle e sei costellazioni (« le radunò insieme »), l'ultima delle quali comprende ben sette stelle. Questi oggetti creati da Varda per rischiarare il risveglio dei primi Elfi esistono soltanto nella fertile immaginazione di Tolkien (come i Lotofagi e i Lestrigoni in quella di Omero), o si possono identificare con stelle e costellazioni visibili nel nostro firmamento? Siccome Tolkien ha sempre affermato che la Terra di Mezzo è parte del nostro mondo, sebbene collocata in un'epoca anteriore a qualsiasi registrazione storica, appare ragionevole cercare di trovare una corrispondenza tra questi astri immaginari e quelli presenti nelle nostre mappe stellari.
Non è facile però identificare una precisa corrispondenza senza incorrere in ambiguità. Nel "Morgoth's Ring" ("L'Anello di Morgoth"), il decimo volume (inedito in Italia) della "History of Middle-earth", Christopher Tolkien, figlio di John Ronald, ha identificato Carnil (in lingua Quenya "stella rossa") e Alkarinquë (in Quenya "la gloriosa") non con due stelle propriamente dette, ma rispettivamente con i pianeti Marte e Giove (altrove Giove è chiamato Silindo), e l'interpretazione non è improbabile, visto che questi due pianeti sono tra i più luminosi oggetti celesti, di magnitudini apparenti rispettive – 2,91 e – 2,94. Bisogna ricordare che, all'epoca del risveglio degli Elfi, Giove era l'astro più luminoso del cielo, perchè il Sole e la Luna non erano stati ancora creati e neppure il Silmaril di Venere esisteva ancora; definire tale pianeta "glorioso" è dunque più che giustificato. Sempre nel "Morgoth's Ring", si avanza l'ipotesi che Elemmírë (in Quenya "stella gioiello") sia da identificare con il pianeta Mercurio, ma in questo caso l'attribuzione ha suscitato qualche perplessità, poiché Mercurio è così vicino al Sole che la sua osservazione diretta è possibile solamente subito dopo il tramonto, sull'orizzonte a ovest, oppure poco prima dell'alba verso est, e la rapidità del suo moto di rivoluzione (solamente 88 giorni) ne permette l'osservazione solamente per pochi giorni consecutivi, dopo di che il pianeta si rende inosservabile dalla Terra (fu chiamato Mercurio, come il Messaggero degli Déi, proprio per la sua rapidità). La sua magnitudine apparente oscilla tra – 0,4 e + 5,5, a seconda della sua posizione rispetto alla Terra e al Sole, e ciò non contribuisce certo a farne un "gioiello". Lumbar (in Quenya "casa d'ombra") viene invece accostato al pianeta Saturno, che ha una magnitudine apparente di + 0,7 (al perielio può arrivare anche a + 0,43); il nome "casa d'ombra" sarebbe da attribuire al fatto che esso è il meno luminoso dei pianeti visibili ad occhio nudo, se si fa eccezione per Mercurio oscurato dal Sole. E quanto a Luinil (in Quenya "stella azzurra") e Nénar (in Quenya "fiamma di diamante")? Alcuni hanno suggerito che essi rappresentino rispettivamente Urano e Nettuno, che al telescopio appaiono effettivamente dei colori loro attribuiti in lingua Quenya. Tale proposta fu respinta da Christopher Tolkien poiché secondo lui era difficile che questi pianeti poco luminosi e invisibili a occhio nudo (hanno magnitudine apparente rispettiva di + 5,32 e + 7,78) potessero definirsi "grandi stelle"; bisogna però ricordare che gli Elfi sono dotati di una vista estremamente più acuta di quella umana, e dunque per essi anche Urano e Nettuno erano sicuramente visibili in cielo! L'ipotesi che Varda abbia creato con tanta cura i pianeti, chiaramente distinguibili dalle stelle per via del loro moto, è tutt'altro che peregrina.
A sinistra: Eärendil il Marinaio (da questo sito). A destra: Venere
A questo punto, voi mi direte: e Venere? Eh sì, perchè finora abbiamo identificato tutti i pianeti, tranne il più luminoso (ha una magnitudine media di – 4,89, ma può arrivare a – 4,89). Il fatto è che a Venere il nostro Professore ha dedicato un intero e suggestivo mito, quello di Eärendil il Marinaio. I tre preziosi Silmaril, i gioielli creati dall'abilità di Fëanor in cui era imprigionata la luce dei Due Alberi che un tempo aveva rischiarato Valinor, erano stati rubati da Morgoth, il Dio del Male, che li teneva incastonati nella sua corona, e per riconquistarli gli Elfi combatterono cinque terribili battaglie. Uno dei Silmaril fu recuperato da Beren e Lúthien durante la più gloriosa delle loro imprese, e alla fine pervenne ad Elwing, per metà Elfa grazie al sangue di sua nonna Luthien; gli altri due Silmaril andarono invece perduti. Elwing sposò Eärendil, un famoso navigatore della Prima Era, e dalla loro unione nacquero Elrond ed Elros, che furono poi conosciuti come i Peredhil, cioè i Mezzelfi. Eärendil ed Elwing decisero di fare vela verso le Terre Benedette a bordo del vascello Vingilot per implorare i Valar di salvare la Terra di Mezzo. Nonostante Eärendil fosse un mortale e come tale gli fosse proibito di mettere piede nelle terre dei Valar, al suo arrivo non fu affatto respinto, ed anzi venne accolto con parole di benvenuto da Eönwë, l'araldo di Manwë:
«
Salute, Eärendil, il più famoso di tutti i marinai, l'atteso che giunge inaspettatamente, il desiderato che arriva al di là di ogni speranza! Salute Eärendil, portatore della luce più antica del Sole e della Luna! Splendore dei Figli della Terra, stella nelle tenebre, gemma nel tramonto, fulgore del mattino!
»
(QS, cap. XXIV)
Eärendil comparì davanti ai Valar e perorò la causa della Terra di Mezzo, con tali accenti di pietà che i Valar acconsentirono di inviare un esercito in loro aiuto, ma proibirono a lui e a Elwing di ritornare nelle terre dei mortali, e a entrambi (e ai loro discendenti) venne data l'opportunità di scegliere liberamente se diventare Uomini o Elfi. Più tardi infatti Elrond scelse di essere annoverato tra i Primogeniti, mentre suo fratello Elros scelse di rimanere mortale, e fondò la grande stirpe regale di Numenor prima e del Regno di Arnor poi, stirpe da cui nascerà Aragorn. Ed Eärendil, che per amore di sua moglie aveva scelto la natura elfica?
«
[I Valar] trattennero Vingilot, lo consacrarono e lo portarono, attraverso Valinor,
al limite estremo del mondo, dove il vascello passò di là dalla Porta della Notte e fu portato su,
negli oceani del cielo. Ora, quel vascello era bellamente e meravigliosamente costruito,
ed era colmo di una fiamma guizzante, pura e lucente; ed Eärendil il Marinaio
sedeva al timone, scintillante della polvere di gemme elfiche. il Silmaril sulla fronte.
Lungi viaggiava a bordo di quella nave, spingendosi persino nelle vacuità
prive di stelle; ma soprattutto lo si vedeva al mattino o alla sera, splendente
all'aurora e al tramonto, quando tornava a Valinor dai viaggi al di là dei confini del mondo.
[...]
Ora accadde che, quando per la prima volta Vingilot fu inviata a solcare i
mari del cielo, si levò inaspettatamente, scintillante e lucente; e da lungi
la scorsero le genti della Terra di Mezzo che la interpretassero come un segno,sicché
la chiamarono Gil-Estel, "Stella dell'Alta Speranza". »
(QS, cap. XXIV)
È naturale identificare questa stella con Venere, che rappresenta l'astro più luminoso nel cielo notturno dopo la Luna; poiché tale pianeta si trova più vicino al Sole del nostro mondo, può essere visto soltanto per poche ore e nelle vicinanze del Sole stesso, raggiungendo la sua massima brillantezza poco prima dell'alba o poco dopo il tramonto. Per questa caratteristica gli antichi pensavano che si trattasse di due astri distinti, chiamati Lucifero, "la Stella del Mattino", ed Espero, "la Stella della Sera". Pare che il primo a riconoscere in entrambe le apparizioni lo stesso pianeta, Venere appunto, sia stato Pitagora da Samo, da noi già incontrato poiché fu il primo a portare prove della sfericità della Terra. L'identificazione di Eärendil con Venere è avvalorata da questa invocazione ad essa contenuta ne "Le Due Torri":
« Aiya Eärendil Elenion Ancalima! »
[Ti saluto, o Eärendil, la più luminosa delle stelle!]
(SdA, libro IV, capitolo IX)
Questa preghiera giustifica ampiamente il titolo che abbiamo dato a questa lezione! Venere è la stella più amata dagli Elfi, e secondo loro possiede qualità speciali, come Galadriel spiega a Frodo:
«
"A te, infine, Portatore dell'Anello", disse Galadriel rivolgendosi
a Frodo,
"giungo per ultimo, a te che ultimo non sei nei miei pensieri. Ecco quel
che ho preparato per te". Mostrò una piccola fiala di cristallo, che
scintillava mentre ella la muoveva, e sprigionava raggi di luce bianca.
"In questa fiala", disse, "è prigioniera la luce della stella di Eärendil,
impregnata delle acque della mia fontana. Splenderà ancor più luminosa, quando
sarai immerso nella notte. Possano i suoi raggi guidarti nei luoghi oscuri, ove tutte le altre luci
si spegnessero." »
(SdA, libro II, cap. VIII)
La fiala di Galadriel, dalla trilogia di Peter Jackson (da questo sito)
Da notare che, se Christopher Tolkien e soci hanno ragione, tutte le sei "stelle antiche" create da Varda con i germogli dei Due Alberi sono in realtà pianeti del Sistema Solare, i quali giungono al numero simbolico di sette aggiungendo Eärendil. Vi sono però interpretazioni alternative: dato che Luinil in Quenya significa "stella azzurra", essa è stato identificata anche con varie luminose stelle di questo colore. Le principali candidate sono la supergigante azzurra Rigel nella Costellazione di Orione (β Orionis, magnitudine apparente + 0,12, a 770 anni luce da noi), Spica nella Vergine (α Virginis, magnitudine apparente + 1,04, a 260 anni luce da noi), Regolo nel Leone (α Leonis, magnitudine apparente + 1,35, a 77 anni luce da noi) e Alnitak in Orione (ζ Orionis, una stella doppia la cui componente A ha magnitudine apparente + 1,70 e dista 820 anni luce da noi): questi quattro astri rappresentano rispettivamente la sesta, la quindicesima, la ventiduesima e la trentunesima stella più luminosa dei cieli.
Nel passo del QS da cui siamo partiti è citata, tra le stelle che brillavano alte nel cielo al momento del risveglio degli Elfi, anche Helluin (in Quenya "ghiaccio azzurro") che è stata identificata da Christopher Tolkien con Sirio (α Canis Majoris), la stella più brillante del cielo notturno, con una magnitudine apparente pari a – 1,46 e una magnitudine assoluta di + 1,40. Sirio dista solo 8,6 anni luce da noi (è la quinta stella più vicina al Sistema Solare), può essere osservata da tutte le regioni abitate della Terra e, nell'emisfero boreale, è uno dei vertici del Triangolo Invernale (gli altri due sono Procione nel Cane Minore e Betelgeuse in Orione). In realtà Sirio è un sistema doppio: attorno alla componente principale Sirio A orbita una nana bianca chiamata Sirio B, che compie la propria rivoluzione con un periodo di circa 50 anni. La sua levata con il Sole segnava nell'antico Egitto l'inizio delle inondazioni del Nilo, mentre a Roma indicava l'inizio della stagione calda (il suo nome deriverebbe dal greco "Seirios", "ardente"), e siccome Sirio fa parte della costellazione del Cane Maggiore, da qui deriva il termine "canicola" per indicare la calura estiva. Nel Corano (sura 53), Allah viene definito "il Signore di Sirio". Presso i Norreni la stella era nota come Lokabrenna ("la torcia di Loki"), mentre in giapponese il nome della stella è Aoboshi (青星), la "stella blu"; Sirio è anche al centro della mitologia dei Dogon, una popolazione del Mali. Esiste anche un altro riferimento a Helluin nei lavori di Tolkien: le prime gemme realizzate da Fëanor sarebbero state « bianche e prive di colore, ma esposte alla luce delle stelle brillano di un fuoco blu e bianco più luminoso di Helluin ».
Nella prima parte del "Book of Lost Tales" è citata anche Morwinyon, una stella che non sarà più ripresa nel resto del Legendarium di Tolkien. In "The Coming of the Elves and the Making of Kôr", Varda crea nuove stelle per accrescere la gloria del cielo in vista del risveglio degli Elfi . Al termine di questa fatica, Varda stava tornando in gran fretta a Valinor quando lasciò cadere Morwinyon ad occidente , dove divampa sopra il bordo del mondo. Nel "Tale of the Sun and Moon", invece, si dice che gli antichi gioiellieri trassero ispirazione dalle stelle, e « non da ultimo essi amano Morwinyon dell'occidente, il cui nome significa Scintilla del Crepuscolo ». Christopher Tolkien la identificò con Arturo, che con una magnitudine apparente di − 0,04 rappresenta la terza stella più brillante del cielo dopo Sirio e Canopo, nonché la stella più luminosa dell'emisfero celeste boreale. È una gigante arancione posta a soli 36,7 anni luce da noi; rappresenta la stella più brillante della costellazione di Boote, supera di 110 volte la luminosità del nostro Sole, e questo ne fa la stella più brillante in un raggio di 50 anni luce dal Sistema Solare. Il suo nome in greco significa "Guardiano dell'Orsa", essendo vicina ad entrambe le Orse.
Veniamo ora ai raggruppamenti stellari. Come si è già sottolineato in più occasioni, gli antichi (e i personaggi di Tolkien) pensavano che le stelle si trovassero tutte alla stessa distanza dalla Terra, e che fossero incastonate dentro la Sfera delle Stelle Fisse. Ora, le stelle appaiono raggruppate in particolari famiglie chiamate Costellazioni; sembrava perciò naturale credere che tali sistemi di stelle avessero un effettivo significato fisico, e che i disegni da essi tracciati sul fondo oscuro del firmamento fossero stati disegnati con uno scopo da una mente intelligente. Per lo più i nostri antenati si ispirarono alle leggende narrate nelle loro mitologie per identificare le immagini che essi credevano di scorgere nel cielo. Ad esempio, una delle costellazioni più brillanti e riconoscibili del cielo boreale fu identificata con Orione, il leggendario cacciatore citato anche nell'"Odissea" di Omero; esso solleva la clava per resistere alla carica di un altro grande asterismo ad esso vicino, che venne identificato con il Toro celeste, citato anche nel mito del dio persiano Mitra. Sotto i piedi di Orione c'è una costellazione nella quale gli antichi astronomi vollero vedere una Lepre, inseguita da altri due asterismi, identificati con gli inseparabili compagni di Orione, il Cane Maggiore ed il Cane Minore. Secondo la leggenda, Orione fu ucciso da uno scorpione aizzatogli contro dalla dea Artemide, e per questo la costellazione dello Scorpione si trova esattamente opposta ad Orione sulla volta celeste. Non è difficile comprendere allora la nascita dell'astrologia come vera e propria "scienza": le costellazioni avrebbero inviato i loro influssi sulla Terra, determinando il destino di coloro che nascevano mentre il Sole si trovava in quella costellazione.
Baie, ovviamente; oggi infatti sappiamo che le stelle non si trovano tutte alla stessa distanza dalla Terra, e se teniamo conto delle posizioni effettive degli astri nella terza dimensione, scopriamo che le costellazioni semplicemente... non esistono, giacché le stelle che le compongono sono quasi sempre distantissime tra di loro. senza alcun legame gravitazionale. Un tipico esempio è rappresentato dalla costellazione dei Gemelli, adiacente a quella di Orione. Le sue stelle più brillanti sono Castore (α Geminorum) e Polluce (β Geminorum), che hanno i nomi dei mitologici Dioscuri, figli di Zeus e di Leda che parteciparono alla spedizione degli Argonauti. Castore e Polluce in cielo sembrano vicinissime; in realtà Polluce, una stella di colore arancione di magnitudine 1,16, la diciassettesima più brillante del cielo, attorno a cui è stato scoperto un pianeta, dista dalla Terra 34 anni luce, mentre Castore, in realtà un sistema multiplo costituito da ben sei componenti di magnitudine apparente pari a 1,59, dista da noi oltre 51 anni luce. Tra le due stelle, identificate con le teste dei due gemelli, non vi può essere dunque alcuna correlazione, e la suddetta costellazione semplicemente non esiste, essendo frutto solo di un gioco di prospettiva.
E allora, perchè le costellazioni vengono utilizzate ancor oggi? Perchè rappresentano un modo molto comodo per classificare gli oggetti celesti. In effetti, noi vediamo gli astri come se fossero tutti fissati alla volta del firmamento; dunque, ci torna comodo dividere tale sfera in zone, ognuna delle quali contiene la costellazione omonima. Un tempo si conoscevano più di 200 costellazioni, ma oggi l'Unione Astronomica Internazionale ne riconosce solo 88, tra cui alcune dai nomi stravaganti (Mosca, Giraffa, Uccello del Paradiso...) Di solito si assegna la lettera α alla stella più luminosa dell'asterismo, β alla seconda, e così via; esaurite le lettere greche, si passa a numeri progressivi. Molte stelle hanno anche un nome proprio. Ad esempio α Lyrae, la stella più luminosa della costellazione della Lira e la quarta più splendente di tutto il firmamento, è universalmente nota con il nome di Vega, dall'arabo an-nasr al-wāqi', "l'avvoltoio che plana", perchè nella Costellazione della Lira gli astronomi arabi vedevano invece la testa di un'aquila (Vega era famosissima tra i bambini della generazione cui appartiene l'autore di queste lezioni, come patria del malvagio Re Vega contro cui si batteva il mitico robottone giapponese Goldrake!)
Valacirca, la Falce dei Valar (da questo sito)
Vediamo dunque alcune delle costellazioni immaginate da Tolkien nel suo firmamento. Menelmakar in lingua Quenya significa "Spadaccino del Firmamento" (in lingua Sindarin Menelvagor), e sono pochi i dubbi che esso vada personificato nella splendida costellazione di Orione, il leggendario cacciatore rappresentato in uno degli asterismi meglio visibili del cielo invernale. Ma la costellazione tolkieniana più famosa è probabilmente Valacirca, ovvero la "Falce dei Valar", in Sindarin Balcercor, da identificarsi con l'Orsa Maggiore, uno degli asterismi meglio riconoscibili anche nel nostro universo. Nel "Silmarillion", come si è visto in precedenza, le sette stelle del Grande Carro vengono create da Varda come una spada di Damocle sospesa nel nord sopra Angband, la fortezza di Morgoth, onde minacciarlo e ricordargli la vittoria finale del Bene:
«
E in alto a nord,
come una sfida a Melkor, sospese una corona di sette possenti stelle che formano
Valacirca, la Falce dei Valar, e sono segno di destino. »
(QS, cap. III)
Ne "Lo Hobbit", Bilbo ne scorge le sette stelle ("le Sette Stelle sprizzate dalla forgia di Aulë", come le definisce Tolkien) sopra il Lago Lungo:
«
Il Lago Lungo era così largo che le rive opposte parevano piccole e remote, e
così lungo che l'estremità settentrionale, in direzione della Montagna, non
si poteva distinguere per niente. Solo ricordando la mappa Bilbo era in
condizione di sapere che lassù, molto lontano, dove le stelle del Carro
stavano già scintillando, il Fiume Fluente scendeva nel lago da Dale... »
(H, cap. X)
Anche Frodo ha modo di osservare questa costellazione dalla stanza della locanda di Brea in cui si è asserragliato insieme agli amici e a Grampasso, onde resistere a un attacco notturno da parte dei Cavalieri Neri:
«
Guardando fuori attraverso i vetri, Frodo vide che la notte era ancora
luminosa. La Falcetta oscillava e brillava su Colle Brea. Chiuse e sbarrò le
pesanti persiane interne e tirò le tende. »
(SdA, libro I, cap. X)
Wilwarin (in Quenya "farfalla") è facilmente identificabile, come dimostrato da Christopher Tolkien, con Cassiopea. Infatti tale costellazione, nel nostro universo intitolata alla vanitosa regina di Etiopia della mitologia greca, ha una caratteristica forma a W, che normalmente viene interpretata come la regina assisa in trono, ma che può anche ricordare la forma di una farfalla in volo.
Altra costellazione di facile interpretazione è Soronúmë, in Quenya "aquila", che di solito viene associata proprio alla costellazione dell'Aquila, ma non tutti sono d'accordo. Infatti, come accennato in precedenza, nel Medioevo anche la vicina costellazione della Lira veniva rappresentata come un'aquila. Questo asterismo ha poi il vantaggio di comprendere anche Vega, la quinta stella dei cieli per luminosità, e non ci sarebbe da stupirsi se Tolkien avesse annoverato anch'essa, tra le brillanti costellazioni create da Varda nella notte dei tempi.
La costellazione chiamata Anarríma (in Quenya "lama di sole") non è di facile identificazione. Secondo alcuni il suo nome andrebbe interpretato invece come "bordo del sole", ed allora si è pensato ad un asterismo alla sommità del cielo boreale, come la Corona Boreale, che però è piccola e poco luminosa, oppure al grande Quadrato di Pegaso. Quest'ultimo è formato da Markab (α Pegasi), una gigante azzurra di magnitudine + 2,49, distante 140 anni luce (il vertice sudoccidentale del Quadrato di Pegaso), da Scheat (β Pegasi), una gigante rossa di magnitudine + 2,44, distante 199 anni luce (il vertice nordoccidentale del Quadrato), da Algenib (γ Pegasi), una gigante azzurra di magnitudine + 2,83, distante 333 anni luce (il vertice sudorientale del Quadrato), e da Alpheratz (α Andromedae), un sistema binario di magnitudine apparente + 2,06, situato a 97 anni luce dalla Terra (il vertice nordorientale del Quadrato). Parecchio oscura è anche la costellazione chiamata Telumendil (in Quenya "amante dei cieli"); essendo associata a Wilwarin, cioè a Cassiopea, io penso si possa identificare con suo marito Cefeo, oppure (se quest'ultimo coincide con la Corona di Durin) con suo genero Perseo, che ne sposò la figlia Andromeda dopo aver ucciso il mostro marino (la costellazione della Balena) a cui avrebbe dovuto essere sacrificata.
Il quadrato di Pegaso
Nel "Signore degli Anelli" stelle e costellazioni sono citate di rado. Uno dei passi più famosi in cui questo accade è il seguente, quando gli Hobbit incontrano Gildor Inglorion della casa di Finrod e i suoi Alti Elfi:
«
Alta ad oriente si ergeva Remmirath, la Rete di Stelle, e dalla nebbia,
solenne, maestosa, si innalzò la rossa Borgil, incandescente come un gioiello di fuoco.
Improvvisamente un leggero colpo di vento spazzò via la nebbia come fosse un velo,
e Menelvagor, lo Spadaccino del Cielo, apparve in tutto lo splendore della sua
cinta scintillante, mentre sorgeva all'orizzonte della Terra. »
(SdA, libro I, cap. III)
Remmirath è stata identificata da Christopher Tolkien con le Pleiadi, un ammasso aperto di giovani stelle chiamate anche "le Sette Sorelle", e inserite nel catalogo di Charles Messier con la sigla M45. Poste nella costellazione del Toro a circa 440 anni luce dalla Terra, esse hanno avuto origine dalla stessa nebulosa, ed in realtà non sono sette, ma qualche centinaio; ad occhio nudo in ambienti privi di inquinamento luminoso si riesce a scorgerne una dozzina. La mitologia greca però le associò alle sette figlie di Atlante e di Pleione: Asterope, Merope, Elettra, Maia, Taigete, Celeno e Alcione (Maia fu la madre di Hermes/Mercurio). In Giappone, le Pleiadi sono conosciute come Subaru (スバル), termine divenuto famosissimo grazie alla casa automobilistica che da esse prende il nome, e di cui si può vedere il logo qui sotto a destra; gli Indiani d'America misuvano la vista con il numero di stelle che riuscivano a distinguere nelle Pleiadi; tra i Maori della Nuova Zelanda esse sono chiamate Mataariki, e il loro sorgere ad oriente indica l'inizio del nuovo anno. Gli Aztechi basavano il loro calendario sulle Pleiadi, da essi chiamate Tianquiztli. Giovanni Pascoli (1855-1912) nel suo "Gelsomino notturno" chiama le Pleiadi "Chioccetta", paragonando l'ammasso aperto ad una chioccia in un'aia azzurra seguita da un "pigolio di stelle" (una delle più famose sinestesie della storia della letteratura). Gabriele d'Annunzio (1863-1938) aveva intenzione di chiamare i sette libri della sua raccolta "Laudi" come le sette stelle principali delle Pleiadi, ma pubblicò solo cinque libri (mancano Taigete e Celeno).
Rimane la rossa Borgil che si libra tra le Pleiadi e la già citata Menelvagor. La prima proposta che fu fatta parlava di identificarla con il pianeta Marte, ma già sappiamo che una migliore candidata a ricoprire questo ruolo è Carnil, la "stella rossa" per antonomasia, anche per la sua associazione con Giove e con altri pianeti. Meglio perciò cercare una stella di colore rosso vicina ad Orione e alle Pleiadi. Le possibilità che più saltano all'occhio sono due: Betelgeuse, la spalla più bassa di Orione, e Aldebaran, l'occhio del Toro. Quest'ultima però è favorita, perchè solo questa stella potrebbe sorgere prima di Orione; il suo stesso nome in arabo ha il significato di "colui che insegue" (le Pleiadi), il che si adatta perfettamente alla descrizione di Tolkien. Aldebaran (α Tauri) con una magnitudine + 0,98 è la quattordicesima stella più luminosa del cielo notturno, dista circa 65 anni luce dalla Terra, è una gigante rossa 500 volte più luminosa del Sole e 45 volte più grande; come Sirio, anch'essa è una stella doppia.
Ma non è finita. Parlando dell'astronomia della Terra di Mezzo c'è un'altra costellazione che riveste un ruolo fondamentale nel "Signore degli Anelli", e in particolare durante il periglioso viaggio attraverso le miniere di Moria. So che potrà parere strano, parlare di asterismi nel corso di un viaggio attraverso gallerie sotterranee e ben lontane dai cieli stellati, ma tutto dipende da una visione avuta da Durin I il Senzamorte, fondatore del Regno di Khazad-dûm, e rievocata da Gimli nella celeberrima "Canzone di Durin", che rappresenta una delle vette più alte raggiunte dalla poesia di Tolkien:
« He stooped and looked in Mirrormere,
And saw a crown of stars appear,
As gems upon a silver thread,
Above the shadow of his head. [...]
But still the sunken stars appear
In dark and windless Mirrormere;
There lies his crown in water deep,
Till Durin wakes again from sleep. »
« Egli si chinò per guardare nel Mirolago,
E di una corona di stelle vide il contorno vago;
Parean gemme incastonate in argento,
Sulle ombre del suo bel capo intento. [...]
Ma ancora appaiono le stelle morenti
Nel Mirolago oscuro e senza venti.
Là giace in abissi d'acque di Durin la corona,
Lì si risveglierà, quando sarà giunta l'ora. »
(SdA, libro II, cap. IV)
Il prodigio qui narrato parla di un lago di montagna, il Kheled-Zâram ("lago di vetro") nella valle di Azanulbizar (la "Valle dei Rivi Tenebrosi"), noto in Ovestron anche come Mirolago, specchiandosi nel quale era possibile vedere riflesse anche durante il giorno le sette stelle di una costellazione nota come "Corona di Durin". Durin I, il più anziano dei padri dei nani, destatosi alle pendici del Monte Gundabad poco dopo che si erano svegliati i primi Elfi, arrivò sulle sponde del Mirolago osservando per primo quel fenomeno. Chinatosi, Durin vide quelle stelle riflesse brillare come una corona sulla sua testa, e lo considerò il pegno del fatto che quel luogo sarebbe diventato la dimora del suo popolo. Il prodigio si ripete alla presenza di Gimli e Frodo, attardatisi a specchiarsi in quel lago una volta usciti dalle miniere dopo la caduta di Gandalf e del Balrog:
« Pari a gioielli incastonati negli abissi, le stelle brillanti scintillavano;
eppure il cielo sulle loro teste era illuminato dal sole. Non vi era ombra delle
loro figure chine.
" O Kheled-Zâram splendido e meraviglioso!" disse Gimli. " Ivi giace la Corona di Durin, sino al giorno in cui egli si risveglierà. Addio!"
S'inchinò, e volgendo le spalle al lago risalì veloce la verde zona erbosa
sino alla strada. »
(SdA, libro II, cap. VI)
Le sette stelle erano così care ai Nani, che le scolpirono persino sulle porte di Moria; l'emblema di Durin era costituito proprio da un martello e da un'incudine coronata con sette stelle. Orbene, questi astri sono del tutto immaginari, o corrispondono a una costellazione realmente esistente? Alcuni hanno identificato la Corona di Durin con l'Orsa Maggiore, il più famoso gruppo di sette stelle visibile a settentrione, ma abbiamo visto che, per ammissione dello stesso Tolkien, il Grande Carro è piuttosto da identificarsi con Valacirca, la Falce dei Valar citata altrove nel SdA. Inoltre, la forma di questa famosissima costellazione non ha niente a che vedere con quella rappresentata sul cancello di Moria. Un candidato migliore potrebbe essere la Corona Boreale, un piccolo asterismo posta tra Ercole, Boote e il Serpente, che ha in comune con l'Orsa il fatto di essere circumpolare, cioè di non tramontare mai durante l'intera notte, ruotando intorno alla Stella Polare, e per questo sarebbe sempre visibile in cielo, se fosse possibile scorgere le stelle anche di giorno. Le stelle principali della Corona Boreale sono disposte ad arco, proprio come quelle istoriate sulle porte di Moria, anche se tale arco ha la concavità rivolta verso il nord; in tal caso Durin vide la costellazione alta sul suo capo guardando verso sud. La stella al vertice dell'arco è la già citata Alphecca, di magnitudine apparente + 2,23. Tra l'altro queste stelle sarebbero associate alla simbologia della corona sia nel nostro Mondo Primario che in quello Secondario di Tolkien: nel primo infatti esso rappresenta il diadema d'oro e di gemme donato dal dio Dioniso a sua moglie Arianna come dono di nozze, posto poi in cielo per eternare il loro amore (che ispirò a Lorenzo il Magnifico una canzone famosissima: « Quest'è Bacco e Arïanna, / belli, e l'un dell'altro ardenti: / perché 'l tempo fugge e inganna, / sempre insieme stan contenti. / Queste ninfe ed altre genti / sono allegre tuttavia. / Chi vuol esser lieto, sia: / di doman non c'è certezza. »)
Non tutti però sono d'accordo con tale identificazione. Infatti le stelle principali che formano l'arco della Corona Boreale sono sei, non sette: Alphecca (α Coronae Borealis), Nusakan (β Coronae Borealis, una gigante gialla di magnitudine + 3,66, distante 114 anni luce), γ Coronae Borealis (una stella bianca di magnitudine + 3,81, distante 145 anni luce), δ Coronae Borealis (una stella gialla di magnitudine + 4,59, distante 165 anni luce), ε Coronae Borealis (una stella gialla di magnitudine + 4,14, distante 230 anni luce) e θ Coronae Borealis (una stella azzurra di magnitudine + 4,14, distante 311 anni luce). Alcuni, come nell'immagine sottostante, aggiungono come settima stella ι Coronae Borealis (una stella azzurra di magnitudine +4,98, distante 351 anni luce). Inoltre sono tutte relativamente deboli, e difficilmente si potrebbe pensare ad esse come ad un simbolo di gloria imperitura per la Casa di Durin. Poco sopra il vertice della costellazione è presente un famoso ammasso di galassie noto come Abell 2065 (la settima stella della Corona?), ma esso è di magnitudine + 15 e può essere scorto solo con strumenti molto potenti. Inoltre, la Corona Boreale sembra somigliare solo alla prima versione dello stemma di Durin istoriato sulle Porte di Moria, disegnato dallo stesso Tolkien, come è evidente dalle immagini seguenti:
Per questo altri hanno proposto di identificare piuttosto la Corona di Durin con Cefeo, un'altra costellazione circumpolare, anzi posta così a nord da confinare direttamente con il Polo Nord Celeste. Essa rappresenta il mitologico re di Etiopia, marito di Cassiopea e padre di Andromeda, ed è attraversata dalla Via Lattea, risultando ricca di oggetti di grande interesse astronomico, tra cui δ Cephei, prototipo di un'importante classe di stelle variabili note come cefeidi. Per queste stelle vale una particolare relazione tra la variazione di luminosità, la magnitudine assoluta e il tempo di pulsazione, il che permette di determinare la distanza di galassie lontane in cui queste stelle vengono osservate. Cefeo ha una tipica forma ad angolo acuto, con la punta (rappresentata da γ Cephei) rivolta verso il nord, per cui può ricordare la forma ad arco della Corona di Durin, come si vede nel confronto qui sotto. Inoltre, come quest'ultima, anch'essa è composta da sette stelle principali: Alderamin (α Cephei, una stella bianca di magnitudine + 2,45 distante solo 49 anni luce); Alfirk (β Cephei, una stella azzurra di magnitudine + 3,23 distante 595 anni luce); Alrai (γ Cephei, una stella doppia arancione di magnitudine + 3,21 distante 45 anni luce, attorno a cui ruota un pianeta); la suddetta δ Cephei (una stella gialla variabile di magnitudine + 4,07, distante 982 anni luce); ζ Cephei (una stella gialla variabile di magnitudine + 3,39 e distante 726 anni luce); Al Agemim (η Cephei, una stella arancione di magnitudine + 3,41 distante 47 anni luce); ed Alwaeth (ι Cephei, una stella gialla variabile di magnitudine + 3,50 distante 115 anni luce). Infine, Cefeo fu un antico sovrano di Etiopia così come Durin fu il primo sovrano dei Nani (e ricordiamo che, nella mitologia norrena, Durin era il nome di un nano citato nell'Edda Poetica). L'identificazione sembra davvero convincente, anche se nessuno di noi probabilmente saprà mai se Tolkien aveva in mente proprio questa costellazione, quando descrisse il prodigio degli astri visibili di giorno nelle acque del Mirolago.
Questo miracolo ci conduce a porci un'altra domanda: perché normalmente di giorno le stelle non si vedono? Ovviamente mi si dirà perché di giorno il Sole è alto nel cielo, ed appare molto più luminoso di tutte le altre stelle osservabili nel cielo. Nello spazio profondo però la presenza del Sole in cielo non ostacola la visione delle stelle, e dunque il vero motivo per cui le stelle sono invisibili di giorno non consiste nella presenza del Sole, ma nella presenza dell'atmosfera terrestre, le cui molecole e polveri diffondono la molta energia solare lungo tutta la sfera celeste. Questa diffusione, più accentuata per le lunghezze d'onda blu e meno per quelle rosse, spiega perchè il cielo di giorno appare azzurro. A causa di tale fenomeno, la volta celeste risplende di luce propria, e la sua magnitudine superficiale, cioè la luminosità di una superficie unitaria di cielo è maggiore della luminosità di tutte le altre stelle, e per questo di giorno non siamo in grado di osservarle. L'aria secca e pulita, cioè priva o quasi di umidità e di particelle in sospensione, presenta una trasparenza maggiore e un minore potere di diffondere la luce. La stessa cosa, anche se in maniera molto meno evidente, succede di notte, soprattutto in presenza di sorgenti che sono molto intense se paragonate alle stelle, come la luna piena e le luci di una città, la cui luce viene diffusa dalle polveri presenti in atmosfera; per questo le stelle sono praticamente invisibili, se si osserva il firmamento notturno dalle finestre di una grande città ricca di luci artificiali. Non a caso, oggi si parla di "inquinamento luminoso", ed i grandi osservatori astronomici vengono edificati in zone della Terra remote e lontane da ogni moderna metropoli. È questo il caso del Cerro Paranal, una montagna alta 2.635 m situato nel deserto di Atacama in Cile, 120 km a sud della città di Antofagasta; su di esso è stato costruito il Very Large Telescope dell'ESO, l'Osservatorio Europeo Australe. In un'area di 800 km² attorno al telescopio (avente circa 16 km di raggio) è stata interdetta qualsiasi attività umana, proprio per eliminare eventuali fonti di inquinamento luminoso e di pulviscolo atmosferico, che interferirebbero con le osservazioni astronomiche. Se ricordate, anche il già citato Tar-Meneldur, quinto Re di Númenor, preferiva osservare il cielo da Forostar, la regione più settentrionale dell'isola, piuttosto che dalla capitale, certamente troppo luminosa ed affollata per studiare i corpi celesti!!
Nella ricostruzione sottostante (ispirata a questo link) è rappresentata la volta stellata come è visibile alla latitudine di 45° N, e quindi da Gondor, nelle sere di ottobre, con i nomi elfici di stelle e costellazioni che abbiamo ipotizzato in questa lezione. In essa, il Grande Carro è indicato con il nome Sindarin di Balcercor piuttosto che con quello Quenya di Valacirca, mentre sono rappresentate entrambe le ipotesi di identificazione della stella Borgil: Borgil 1 che corrisponde ad Aldebaran, e Borgil 2 a Betelgeuse.
Com'è noto, nel nostro universo la posizione del Polo Nord Celeste cambia di anno in anno a causa della precessione degli equinozi, fenomeno scoperto da Ipparco di Nicea nel II secolo a.C. In un universo caratterizzato da una Terra sferica e non immobile al centro dell'universo, tale fenomeno dovrebbe avere luogo anche nella volta celeste sopra riprodotta, ed anzi essere conosciuto molto meglio di quanto non lo conoscessero gli antichi Greci, poiché la Prima Era è durata innumerevoli millenni prima della creazione della Luna e del Sole, e dunque gli Elfi, notoriamente innamorati delle stelle, avrebbero potuto benissimo osservare un'intera rivoluzione del Polo Nord Celeste (ricordiamo che tale rivoluzione richiede non meno di 258 secoli). Il nostro Professore, tuttavia, non fa mai cenno ad essa.
Prima di cambiare argomento, aggiungiamo ancora un dettaglio. Ne "La compagnia dell'Anello", Libro II, Capitolo 2, Aragorn sostiene di essere penetrato « nelle lontane contrade di Rhûn e di Harad dove le stelle sono strane. » E la nota 10 a "Gli Istari", nei "Racconti Incompiuti" afferma letteralmente: « Le "stelle strane" riguardano esclusivamente l'Harad, e devono significare che Aragorn viaggiò o si spinse per un tratto nell'emisfero meridionale. » Davvero questo fu possibile? Come abbiamo visto nel capitolo dedicato alla cartografia, nella mappa che correda il SdA il bordo inferiore arriva a malapena a una latitudine di 30° N. Dopotutto il futuro Re era chiamato "Granpasso", e non c'è dubbio che se lo sia meritato viaggiando anche là dove nessuno si era spinto prima; tuttavia, non è necessario che si sia spinto addirittura a sud dell'equatore per osservare delle costellazioni insolite (perchè australi). Infatti, anche un astronomo dilettante sa che basterebbe rimanere anche molto a nord dell'equatore per riuscire già ad osservare molte costellazioni dell'emisfero sud celeste. Ad esempio, la costellazione australe del Centauro in tempi storici era visibile anche dal Mediterraneo, anche se oggi la precessione degli equinozi la ha resa interamente visibile solo dalle latitudini tropicali, e la Croce del Sud, utilizzata per rintracciare il Polo Sud Celeste, si può osservare per intero a sud del 27º parallelo Nord. Appare dunque probabile che Tolkien si sia lasciato prendere la mano, e che Aragorn si sia spinto in profondità nella terra degli Haradrim, però non così tanto in profondità da attraversare la linea dell'equatore.
Naturalmente Tolkien dedica una pagina della sua mitologia anche ai due astri a noi meglio noti, il Sole e la Luna. Troviamo questo mito nel capitolo XI del Quenta Silmarillion, il quale idealmente rappresenta un riassunto del Narsilion, il "Canto del Sole e della Luna". Dopo che i Due Alberi di Valinor vennero avvelenati da Melkor e da Ungoliant e smisero di dare la loro luce, grazie al canto di Yavanna e alle lacrime di Nienna l'argenteo Telperion produsse un ultimo fiore e l'aureo Laurelin un ultimo frutto. Essi vennero raccolti dai Valar e posti in vasi particolari per impedire che il loro fulgore si disperdesse. La Vala Varda creò poi due vascelli in grado di navigare nel cielo, le quali trasportavano tali vasi con il loro contenuto sfolgorante, illuminando le terre in vista del risveglio ormai prossimo degli Uomini. L'isola del fiore d'argento fu affidata al Maia Tilion, un cacciatore della schiera di Oromë, mentre quella del frutto d'oro fu consegnata alla Maia Arien, uno Spirito di Fuoco che (a differenza dei Balrog) non era mai stata irretita da Morgoth, e che in precedenza aveva badato ai fiori d'oro di Valinor, annaffiandoli con le lucenti rugiade di Laurelin; era infatti l'unica a sopportarne lo splendore, essendo un puro Spirito di Fuoco. Ebbero così origine Isil, la Luna, e Anar, il Sole. Da notare che in italiano e in moderno inglese il nome della Luna è femminile e quello del Sole è maschile, come nella mitologia greca Selene è femminile ed Elio è maschile. Invece nell'universo di Tolkien è esattamente il contrario: il Sole è di genere femminile e la Luna di genere maschile, esattamente come accade nella mitologia norrena con gli dei Sòl e Máni.
« Isil venne fabbricato e approntato per primo, e per primo si levò nel reame delle stelle, e fu il più anziano dei nuovi luminari, come Telperion lo era stato degli Alberi.
Ed ecco che, per un certo tempo, il mondo ebbe la luce della Luna [...]
Tilion aveva attraversato il cielo sette volte, ed era pertanto nel più remoto
oriente, quando il vascello di Arien fu pronto. Allora Anar ascese in gloria, e
la prima aurora fu come un grande fuoco sopra le torri delle Pelòri: le nubi
della Terra di Mezzo ne vennero accese e si udì il suono di molte cascate. E
Morgoth restò invero sgomento, e calò nelle più remote profondità di Angband...
»
(QS, capitolo XI)
Isil fu il primo vascello ad essere terminato e fu il più anziano dei nuovi Luminari, così come Telperion lo era stato degli Alberi. Gli Elfi lo tenevano in maggior considerazione rispetto ad Anar: infatti, gli Elfi furono i primogeniti tra i Figli di Ilúvatar, e la Luna fu fatta in loro onore, mentre essi ritenevano che il Sole fosse stato creato in onore degli Uomini, e rappresentasse il simbolo del sorgere degli Uomini e del declino degli Elfi. Da notare che, come ci insegna la moderna astronomia, accadde esattamente il contrario: nella originaria nebulosa solare prima si formò il Sole, quindi i pianeti, e infine la Luna. I Noldor chiamavano la Luna Rána ("il Caparbio"), mentre in Sindarin fu detta Ithil, e in questa forma appare in alcuni nomi come Minas Ithil e Ithilien. I Noldor invece chiamavano il Sole Vása ("il Cuore di Fuoco"); Anor era poi il nome del Sole in lingua Sindarin, come dimostrano i nomi di Minas Anor (più tardi conosciuta come Minas Tirith) e della provincia gondoriana dell’Anórien. Da notare che Gollum chiamava i due astri rispettivamente "la Faccia Bianca" e "il Viso Giallo". I Troll temevano il Sole, perchè quando erano illuminati dalla sua luce venivano tramutati per sempre in pietra, come accadde a Berto, Maso e Guglielmo, i tre Troll che catturarono Bilbo e i Nani nel capitolo II de "Lo Hobbit".
Da notare che Tilion è conosciuto anche come "l'Uomo della Luna"; con questo, Tolkien riprende una leggenda popolare secondo cui le macchie lunari disegnerebbero l'immagine di un volto umano. In particolare, molto diffusa nel Medioevo era la leggenda di un uomo con un fascio di spine in spalla. Secondo alcuni, quest'uomo sarebbe Caino, esiliato lassù dopo l'assassinio di Abele sulla base di un passo della Genesi: « Disse Caino al Signore: "Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono! Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere." » (Gen 4, 13-14) Secondo altri, si tratterebbe di un uomo che nell'Antico Testamento avrebbe raccolto legna in giorno di Sabato: « Mentre gli Israeliti erano nel deserto, trovarono un uomo che raccoglieva legna in giorno di sabato. Quelli che l'avevano trovato a raccogliere legna, lo condussero a Mosè, ad Aronne e a tutta la comunità. Lo misero sotto sorveglianza, perché non era stato ancora stabilito che cosa gli si dovesse fare. Il Signore disse a Mosè: "Quell'uomo deve essere messo a morte; tutta la comunità lo lapiderà fuori dell'accampamento". Tutta la comunità lo condusse fuori dell'accampamento e lo lapidò; quegli morì secondo il comando che il Signore aveva dato a Mosè. » (Numeri 15, 32-36) Secondo una leggenda ebraica, l'uomo sarebbe stato esiliato sulla Luna insieme al suo cane. In tal senso compare nel "The Testament of Cresseid" dello scozzese Robert Henryson (1430-1506), nel quale Cynthia (la Luna) è descritta in modo tale che « hir gyse was gray and full of spottis blak, / And on hir breist ane churle paintit full evin / Beirand ane bunche of thornis on his bak, / Quhilk for his thift micht clim na nar the hevin » (in Middle Scots: « la sua veste era grigia e piena di macchie nere, / e sul suo seno un uomo dipinto allo stesso modo / che portava un fascio di spine sulla sua schiena, / e che per il suo furto non poteva avvicinarsi al Paradiso. » Del mito resta traccia anche nella "Tempesta" di William Shakespeare (1564-1616), Atto 2, Scena 2, in cui Stefano dice: « I was the man / i' th' moon when time was » (« Al tempo dei tempi, io ero l'Uomo della Luna! »), e Calibano gli risponde: « I have seen thee in her, and I do adore thee: / My mistress show'd thee, and thy dog, and thy bush » (« Infatti ti ho visto e ti adoro. La mia padrona mi ha mostrato te, il tuo cane e il tuo fascio di pruni »). E nella letteratura italiana? Lo ritroviamo anche nella Commedia di Dante: « Ma vienne omai, ché già tiene 'l confine / d'amendue li emisperi e tocca l'onda / sotto Sobilia Caino e le spine, / e già iernotte fu la luna tonda » (Inferno XX, 124-127) Qui "Caino e le spine" viene usato addirittura come un sinonimo della Luna. La leggenda ha probabilmente ispirato anche una delle più celebri icone della storia del cinema, la navicella spaziale che si schianta in un occhio della Luna rappresentata con un volto umano (vedi foto sottostante) nel celeberrimo "Voyage dans la Lune" di Georges Méliès (1861-1938), entrato nell'immaginario collettivo come il primo film di fantascienza della storia!
A sinistra: la luna con volto
umano nel film di Georges Méliès "Le voyage dans la Lune"
del 1902. A destra: Tilion, il Maia della
Luna., immaginato da Ereglin
(da questo
sito)
Quella ora riportata non è l'unica teoria sull'origine della Luna. Cosa ci dice in proposito la scienza moderna? George Howard Darwin (1845-1912), quinto figlio di Charles Darwin, nel 1878 propose la teoria della fissione, in base alla quale il nostro satellite si sarebbe staccato dalla Terra primordiale a causa di una elevata velocità di rotazione e fluidità di quest'ultima. In pratica, una parte della massa che apparteneva alla Terra si sarebbe separata, provocando una enorme cicatrice che G.H. Darwin identificò erroneamente con l'anello di fuoco che circonda l'Oceano Pacifico (oggi tale anello è spiegato con la teoria della Tettonica a Placche). Questa ipotesi, per quanto ingegnosa considerati i tempi in cui fu proposta, oggi è considerata inverosimile perché, per provocare il distacco della Luna, sarebbe stata necessaria una velocità di rotazione della Terra che la avrebbe portare a compiere un giro completo in 2,5 ore, e questo valore è incompatibile con il momento angolare del sistema Terra-Luna; inoltre, visto che la teoria della fissione ipotizza un distacco dalle zone equatoriali, non si spiega il motivo per cui l'orbita della Luna è inclinata rispetto all'orbita della Terra. Questa teoria, molto in voga ai tempi in cui Tolkien concepiva il suo Legendarium, ha però lasciato una traccia in quest'ultimo. Infatti, in uno degli scritti più oscuri di Tolkien, che poi è stato scartato al momento dell'elaborazione finale del "Silmarillion", è contenuta una teoria dell'origine lunare alternativa alla leggenda del fiore di Telperion. Leggiamola insieme:
«
E ho ascoltato anche quest'altroo racconto: che nel mezzo della guerra, e prima ancora
che alcuna cosa crescesse o camminasse sulla Terra, [...] Melkor fu scosso dalle risate di Tulkas e
fuggì dal mondo. Poi radunò tutta la sua potenza e il suo odio, ed esclamò:
"Io farò a pezzi la Terra, e la distruggerò, e nessuno lo possederà!"
Ma questo Melkor non poteva farlo, perché la Terra non può essere interamente distrutta contro il suo
destino; tuttavia Melkor afferrò una parte di essa, la strappò e la scagliò
in cielo; in tal modo fece una piccola Terra di sua proprietà, ed essa roteò
nel cielo, seguendo la Terra maggiore dovunque essa andasse, in modo che Melkor potesse osservare da lì tutto quello che
succedeva quaggiù, e diffondervi la sua malizia, agitare i mari e scuotere le terre
[...] Ma i Valar aggredirono la roccaforte di Melkor, lo scacciarono, e
allontanarono ulteriormente quel piccolo mondo dalla Terra, lasciandolo in
cielo; e così esso divenne Ithil, nome con il quale gli uomini chiamano la Luna.
Su di essa ci è sia accecante calore che freddo insopportabile, come vi è in ogni
opera di Melkor, ma ora almeno essa è pulita dalla sua cattiveria, anche se assolutamente sterile.
Nulla vive lassù, nulla vi visse, né mai nulla vi vivrà. »
("L'Anello di Morgoth", 41)
Appare evidente l'influsso su questo mito della teoria della fissione di G.H. Darwin. Inoltre essa tiene conto anche di due verità scientifiche che oggi sono date per assodate: il fatto che la Luna si sta allontanando progressivamente dalla Terra di circa 3,8 centimetri all'anno, a causa del rallentamento della sua rotazione per via del fenomeno delle maree; e il fatto che la superficie sulla Luna è assolutamente sterile e inadatta alla vita (molti autori di fantascienza, tra cui H.G. Wells, all'epoca la consideravano abitabile). Si noti che questa leggenda "alternativa" descrive la Luna come un vero e proprio pianeta autonomo, non come un'isola celeste o una "astronave" comandata da Tilion; una visione decisamente più realistica ed affine alle moderne conoscenze astronomiche circa il nostro satellite! Quanto all'origine della Luna, su di essa sono state formulate molte altre teorie scientifiche, come quella della cattura da parte della Terra di un pianetino nato altrove nel Sistema Solare, o quella della formazione con i residui del materiale originario con il quale si formò la Terra. L'ipotesi oggi prevalente sostiene però l'idea del doppio impatto cosmico, avanzata per la prima volta nel 1974 da William Kenneth Hartmann (1939-) sulla base dei dati scientifici ottenuti dalle missioni Apollo, e perfezionata nel 2001 da Robin M. Canup (1968-): la prototerra subì una collisione da parte di un corpo celeste di massa poco inferiore a quella marziana, battezzato Teia, il nome della madre della Luna nella mitologia greca. L'impatto avrebbe scaraventato in orbita il materiale da cui si sarebbe originato un corpo celeste che, essendo troppo vicino alla Terra, sarebbe nuovamente ricaduto su di essa, e questo secondo impatto avrebbe finalmente originato la Luna, che infatti ha la stessa densità del mantello terrestre.
A sinistra: una violenta eruzione solare ripresa nel dicembre 2010 dal satellite Solar Dynamics Observatory della NASA. A destra: Arien, la Maia del Sole, immaginata da Lady Elleth (da questo sito). Si osservi l'incredibile somiglianza tra le due immagini! |
Assodato questo, all'inizio il Sole e la Luna sorgevano entrambi da ovest e tramontavano a est, esattamente all'opposto di quanto accade oggi. A questo proposito, un'importante allusione alla nascita del Sole e della Luna è stata eliminata dalla versione finale del Signore degli Anelli. Nella prima stesura Tom Bombadil descriveva se stesso agli Hobbit come « colui che era presente sin dall'inizio », affermando: « quando gli Elfi emigrarono a Ovest Tom era già qui, prima ancora che i mari fossero collocati al loro posto. Ha visto il Sole sorgere a Ovest e la Luna seguirlo prima che ai giorni venisse imposto un nuovo ordine. Ha conosciuto l'oscurità sotto le stelle quando essa non incuteva timore »! In ogni caso, Sole e Luna navigavano attraverso l'Ilmen, una regione di aria tersa e di estensione indefinita pervasa dalla luce, che circondava completamente il mare di Ekkaia, e nella quale già si muovevano le stelle e i pianeti. Probabilmente Tolkien fece derivare il nome da ilma, parola finlandese che significa "aria". È presumibile che essa coincida con l'etere, la quintessenza di cui era composto il mondo celeste secondo il modello aristotelico e tolemaico di cui abbiamo già parlato in un'altra lezione. Non è chiaro cosa ne sia stato di Ilmen dopo il cataclisma che pose fine alla Seconda Era, ma si suppone che abbia continuato a mantenere al suo interno i corpi celesti, ricoprendo il ruolo dello spazio siderale. Il moto del Sole e della Luna attraverso l'Ilmen è descritto con queste parole:
«
Ora, il proposito di Varda era che i due vascelli transitassero in Ilmen e fossero
sempre in volo, non però insieme; ciascuno dei due doveva andare da Valinor verso l'est e
tornare, l'uno uscendo dall'ovest e l'altro dall'est. [...] Tilion però era
ostinato e di velocità ineguale, per cui non s'atteneva all'itinerario prestabilito;
e cercava di avvicinarsi ad Arien, attirato dallo splendore di questa, sebbene
la fiamma di Anar lo ustionasse, sì che l'isola della Luna ne fu annerita. A
causa della caparbietà di Tilion, dunque, e ancor di più per via delle
preghiere di Lórien ed Estë, i quali dicevano che dalla Terra erano stati
banditi sonno e riposo, e che le stelle erano eclissate, Varda mutò parere e
concesse un tempo in cui il mondo avesse ancora ombra e mezza luce. Anar
riposava quindi per un tratto a Valinor, giacendo sul freddo seno del Mare
Esterno; e Sera, il momento della discesa e del riposo del Sole, fu l'ora
della massima gioia di Aman. [...]
Varda comandò che la Luna seguisse uguale cammino, passando sotto la Terra
per levarsi a est, ma soltanto dopo che il Sole fosse sceso dal cielo. Tilion,
però, procedeva con incerto passo, come fa tuttora, ed era pur sempre
attratto da Arien, come sempre sarà; sicché sovente accade che entrambi
siano visti assieme sopra la Terra, e che a volte egli tanto le si accosti,
che la sua ombra ne esclude la luce, e nel bel mezzo del giorno succeda la
tenebra.
Pertanto, da allora i Valar computarono i giorni, secondo l'andare e il venire
di Anar. [...] Ma nè il Sole né la Luna valgono a ricordare la luce di un
tempo, quella emanata dagli Alberi prima che fossero tocchi dal veleno di
Ungoliant: quella luce oggi sopravvive soltanto nei Silmaril. »
(QS, capitolo XI)
Qui vediamo interpretati, con il linguaggio della mitologia e non della scienza, molti fenomeni astronomici a noi ben noti. In principio, secondo il disegno della Signora dei Valar, almeno una delle due grandi lampade doveva splendere sempre nel firmamento, ma esse non dovevano mai trovarsi in cielo contemporaneamente. A quanto pare, però, Tilion si era perdutamente innamorato di Arien, e cercava in continuazione di starle appiccicato. Ciò spiega perchè in molte occasioni i due astri siano visibili in cielo nello stesso momento, ma anche le macchie lunari, causate dalle bruciature provocate sulla Luna dal tremendo ardore del Sole. Si noti che a queste macchie solari Tolkien allude anche nei primi versi della già citata e giustamente celebre "Canzone di Durin":
«
The world was young, the mountains green,
No stain yet on the Moon was seen... »
« Giovane era il mondo, e le montagne verdi,
Ancora sulla Luna macchia non era da vedervi... »
(SdA, libro II, cap. IV)
In questi versi, però, le macchie lunari sembrano piuttosto segni di vecchiaia del Satellite. Nel "Silmarillion", invece, con un unico mito Tolkien fornisce la spiegazione per le macchie lunari, per i moti del Sole e della Luna ed anche per il fenomeno delle eclissi. Su queste in particolare è stata elaborata un'enorme mole di leggende in ogni parte del mondo. Per molte culture le eclissi ispirano puro terrore, rappresentando una sorta di rottura (per quanto temporanea) dell'ordine costituito dell'universo. Così ha dichiarato in proposito Edwin C. Krupp, direttore del Griffith Observatory di Los Angeles: « L'uomo dipende dal movimento del Sole. È regolare, affidabile, non lo si può manomettere. Poi, all'improvviso, ecco la tragedia: il tempo va fuori sesto, il Sole e la Luna si comportano come non dovrebbero ». Di solito l'eclisse è spiegata da questi popoli attraverso l'immagine di un mostro che cerca di divorare il Sole; così in Cina, dove si pensava che il mostro in questione fosse un drago. Caratteristico di queste mitologie è il fatto che gli uomini e le donne durante il fenomeno scendono in piazza con pentole, tamburi e qualsiasi strumento musicale, e fanno un chiasso d'inferno per cercare di spaventare l'animale mitologico e costringerlo a mollare l'osso (cioè il Sole o la Luna). Non a caso, in antico cinese "eclisse" di diceva "shih", che significava anche "mangiare"! Appare legittima ovviamente la domanda: se un demone o un qualunque mostro è in grado di divorare un intero astro, perchè dovrebbe lasciarsi spaventare da pignatte e campanacci? « Eppure ci riuscivano sempre », ha ironizzato il dottor Krupp, visto che il fenomeno ha comunque breve durata! La mitologia norrena presenta una concezione simile a quella dei cinesi: secondo gli antichi Vichinghi, il Sole era perennemente inseguito da un cane celeste che, quando si avvicinava all'astro, provocava un'eclisse. In Vietnam invece è un rospo a tentare di divorare il Sole o la Luna. Si osservi che lo stesso Tolkien elaborò almeno due miti, non uno, sul fenomeno delle eclissi: uno è quello suddetto dell'amore provato da Tilion per Arien, che lo porta ad eclissarne il fulgore nell'intento di starle il più possibile vicino, e l'altro è compreso in una prima stesura non confluita nel "Silmarillion", secondo cui è Morgoth a tentare di rapire Arien, della quale si è a sua volta invaghito, e periodicamente ne offusca lo splendore. È sempre lui a scrollare furiosamente la volta celeste, provocando le piogge di meteore.
Altre leggende spiegano le eclissi mediante un furto. Nella mitologia greca, durante le eclissi la Luna era vittima di sortilegi da parte delle streghe della Tessaglia, le quali sarebbero state in grado di "tirar giù" l'astro dal firmamento. Questa credenza popolare appare in un passo di Aristofane (Le nuvole, V, 748-752), in cui Strepsiade spiega a Socrate come ha immaginato di rinviare la fine del mese, per non pagare i suoi debiti: « E se comprassi una maga tessala e di notte facessi scendere la Luna e la chiudessi in un astuccio rotondo, come uno specchio, e la tenessi ben guardata? » Le eclissi di Sole e di Luna venivano infatti chiamate "kathàiresis", cioè "discesa"! Invece nella mitologia induista il demone Rahu si travestì da dio per poter rubare un sorso di un elisir che gli avrebbe dato l'immortalità, ma il Sole e la Luna lo videro e avvisarono il dio Visnù, che tagliò la testa al demone un attimo prima che inghiottisse l'elisir. Ne conseguì che solo la testa di Rahu divenne immortale, e continua a inseguire il Sole e la Luna nel cielo per vendicarsi. Ogni tanto li raggiunge e li divora, ed è allora che avviene l'eclissi; ma siccome Rahu non ha uno stomaco, il Sole e la Luna ricadono giù dal fondo della testa, e l'inseguimento riprende. Nella mitologia coreana un re ordina ai "cani di fuoco" di rubare il Sole o la Luna. Gli animali li inseguono senza riuscirci, ma a volte riescono a morderli, e così è spiegata l'eclisse. Fa eccezione invece il popolo dei Batammaliba, che abitano in Togo e in Benin: secondo loro, durante l'eclisse il Sole e la Luna litigano, e allora gli uomini scendono in strada non per spaventare un misterioso divoratore, ma per incoraggiare i due astri a far pace. I Batammaliba insomma considerano l'eclisse un momento per tornare a parlarsi e lasciarsi alle spalle litigi e rancori: una credenza che sarebbe bello se fosse sopravvissuta anche nella nostra civiltà!
Aggiungiamo qualche altro riferimento a Isil, la Luna, nel Legendarium tolkieniano. Non possiamo non citare le cosiddette lettere lunari, scoperte da Elrond sulla mappa di Thorin Scudodiquercia:
« La luna brillava in una
larga falce d'argento. [Elrond] sollevò la mappa e la luce bianca splendette
attraverso di essa. "Che cos'è questo?" disse. "Ci sono delle
lettere lunari, qui, accanto alle rune visibili, che dicono: la porta è alta
un metro e mezzo e ci si può passare in tre per volta."
"Cosa sono le lettere lunari?" chiese lo Hobbit, pieno
d'eccitazione. [...]
"Le lettere lunari sono rune, ma non le si può vedere", disse Elrond,
"non quando le si guarda direttamente. Si può vederle soltanto quando la luna brilla dietro di
esse, ma ciò che conta di più, anzi il punto fondamentale, è che la luna deve trovarsi nella stessa fase e nella stessa stagione di quando le
lettere furono scritte. Furono i Nani a inventarle e le scrissero con penne d'argento,
come potrebbero dirti i tuoi amici. Devono essere state scritte in una notte di
Ferragosto, quand'era luna crescente, molto tempo fa. »
(H, capitolo III)
Di queste rune, ideate da Daeron, menestrello del re Thingol, si parla ampiamente nell'Appendice E del SdA. E non basta: alla Luna è legato anche il metallo chiamato ithildin, in Ovestron "Stellaluna", con il quale sono state ornate le porte di Moria; esso riflette i raggi della luna e delle stelle, se vengono pronunciate alcune parole magiche. L'ithildin era forgiato dai Noldor con il rarissimo mithril, un metallo che poteva essere trovato solo nelle miniere di Moria, così descritto: « leggero come la piuma ma duro come le scaglie di drago ». Il valore del mithril era incalcolabile: Gandalf afferma che la cotta di maglia realizzata in questo materiale e regalata da Bilbo a suo nipote Frodo aveva un valore superiore a quello dell'intera Contea! Dato che il metallo era raro e la richiesta sempre maggiore, per reperirlo i Nani dovettero scavare sempre più in profondità, e così facendo finirono per ridestare il "Flagello di Durin", lo stesso balrog al quale si oppose Gandalf sul ponte di Khazad-dûm.
Ritorniamo ora al Sole, e chiediamoci: nell'universo di Tolkien, come si producevano le stagioni? L'Ambarkanta, tradotto magistralmente da Roberto Fontana, afferma che « i giorni sono misurati dai cicli del Sole, che viaggia da Est verso Ovest attraverso Ilmen inferiore, cancellando le stelle; e passa sopra il centro della Terra-di-Mezzo e non si ferma, e curva la sua rotta a meridione od a settentrione, non in modo capriccioso, ma nel dovuto corso e stagione. E quando sorge sopra le Mura del Sole è l'Alba, e quando cala dietro le Montagne di Valinor è la sera ». Le stagioni vengono quindi spiegate tramite la curvatura dell'orbita del Sole verso Nord e Sud. In altre parole, Anar avrebbe seguito una traiettoria ad arco che gli faceva sorvolare tutta la piana di Arda, uscendo da est e tramontando dietro Aman all'ovest.
Partendo da questo presupposto, l'amico Edoardo "Almavarno" Secco ha proposto due ipotesi e costruito due schemi per spiegare l'alternarsi delle stagioni nelle prime due Ere del mondo:
1) i punti di alba e tramonto erano sempre gli stessi (le estremità occidentale e orientale del mondo), e l'inclinazione dell'arco cambiava, pendendo verso nord o verso sud;
2) oppure, l'arco si manteneva sempre verticale, ma i punti di alba e tramonto si spostavano più a nord o più a sud nel corso dell'anno:
Ciò implica però che nel primo caso la durata del dì fosse la stessa tutto l'anno, cambiando solamente la vicinanza del Sole alla metà settentrionale o meridionale di Arda; nel secondo che le giornate si accorciassero sempre in estate e inverno. Naturalmente è possibile che la nostra Arien seguisse ulteriori tipi di orbite, naturalmente più complesse. Il dato fondamentale però consiste nel fatto che il freddo dell'inverno o il caldo estivo non si producevano per la bassa o alta incidenza dei raggi luminosi a terra, bensì per la lontananza o vicinanza del Sole. Esattamente il contrario, insomma, di quanto accade nel nostro universo: la Terra è più vicina al Sole mentre nell'emisfero boreale è inverno, ed è più lontana mentre nell'emisfero boreale è australe. Del resto, è vero che l'orbita della Terra è ellittica, e dunque la sua distanza dal Sole cambia nel tempo, ma l'eccentricità dell'orbita terrestre è appena 0,017, cioè il semiasse maggiore differisce dal semiasse minore solo dell'1,7 %, e una tale differenza non è sufficiente a giustificare un così drastico cambiamento climatico tra estate ed inverno. Secondo l'amico Almavarno, i problemi or ora evidenziati nel coniugare i moti solari con la forma piatta di Arda potrebbero aver indotto Tolkien, verso la fine della sua vita, a ritenere testi come l'Ambarkanta delle semplici credenze mitologiche sulla cosmologia di Arda mentre gli Elfi, grazie ai Valar, avevano una corretta conoscenza dell'universo, e sapevano fin dall'inizio che la Terra è sferica.
Per quanto riguarda Arda rotonda, dopo la caduta di Numenor Tolkien voleva rendere Eä il più somigliante possibile al nostro universo, e quindi anche Arda, il Sole e la Luna dovevano rientrare nel modello astronomico del "nostro" Sistema Solare. Per questo il Sole compirebbe la sua rivoluzione attorno a Arda percorrendo traiettorie circolari parallele all'equatore: si troverebbe al punto più meridionale al solstizio d'inverno, al livello equatoriale agli equinozi e al punto più settentrionale al solstizio d'estate, come mostra l'immagine sottostante di Almavarno:
Sull'alternarsi delle stagioni e sui moti del Sole e della Luna sono basati i calendari, per cui è opportuno fare un cenno anche ad essi. L'Appendice D al "Ritorno del Re" contiene una dettagliata disquisizione su svariati calendari in uso nella Terra di Mezzo durante la Terza e Quarta Era, e naturalmente questi calendari contengono diversi riferimenti a fenomeni astronomici. Ad esempio secondo gli Elfi il giorno solare (stabilito nei moderni calendari nel periodo di 24 ore che va da mezzanotte a mezzanotte) era chiamato ré (in Quenya "giorno") e andava da tramonto al tramonto, poiché gli Eldar letteralmente erano il Popolo delle Stelle. Il momento in cui le stelle appaiono al crepuscolo e a quello in cui impallidiscono all'alba venivano chiamati rispettivamente undómë (in Quenya "crepuscolo") e tindómë (in Quenya "crepuscolo delle stelle"). Il termine Sindarin per crepuscolo serale era aduial, e quello per il crepuscolo mattutino minuial. Noi oggi distinguiamo tra giorno solare, cioè il tempo che intercorre tra due culminazioni consecutive del Sole su di un determinato meridiano, e giorno sidereo, cioè il tempo che intercorre tra due passaggi consecutivi della medesima stella su un determinato meridiano. Il giorno sidereo dura 23 ore, 56 minuti e 4 secondi ed è più corto del giorno solare vero di quasi 4 minuti, perché la Terra, mentre ruota attorno a se stessa, percorre anche un tratto di orbita attorno al Sole, e quindi il Sole transita al meridiano con 4 minuti di ritardo al giorno rispetto alle altre stelle. Il risultato è il moto apparente annuo del Sole rispetto alle stelle, in senso antiorario per un osservatore posto nell'emisfero Nord, alla velocità di circa 1 grado al giorno. Questa è anche la ragione per cui l'angolo giro fu diviso in 360 gradi sessagesimali, il numero arrotondato dei giorni dell'anno.
Gli Eldar basavano il loro calendario sul Sole, e chiamarono l'anno astronomico coronar (in Quenya "giro del Sole"). Essi inoltre misuravano il trascorrere del tempo basandosi sui cicli stagionali. L'anno "stagionale" era chiamato loa (in Quenya "crescita"), era diviso in stagioni e comprendeva alcuni giorni particolari che cadevano al di fuori di esse, per un totale di 365. L'anno tropico, o anno solare, è la durata che intercorre fra due passaggi successivi del Sole allo zenit di uno stesso tropico, e sull'anno tropico è fondato il nostro calendario gregoriano; esso è pari a 365,2422 giorni (365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 46 secondi). Anch'esso, come quello elfico, in sostanza coincide con il ciclo delle stagioni, cioè con il tempo impiegato dal Sole per tornare nella stessa posizione vista dalla Terra lungo l'eclittica, che ha come punto zero il Punto d'Ariete o Punto Gamma (la lettera greca gamma è molto simile al simbolo astrologico della costellazione dell'Ariete). Il Punto Gamma è uno dei due punti equinoziali in cui l'equatore celeste (il piano perpendicolare all'asse di rotazione della Terra) interseca l'eclittica (il piano in cui giace il cammino apparente del Sole nel cielo). Quando il Sole, nel suo moto annuo dal punto di vista della Terra, transita per tale punto, cade l'equinozio di primavera: il Sole "sale" dall'emisfero celeste australe a quello boreale e ha inizio la primavera astronomica. In posizione diametralmente opposta al Punto Gamma si trova il Punto della Bilancia o Punto Omega: il Sole transita di lì in corrispondenza dell'equinozio autunnale "scendendo" dall'emisfero celeste boreale a quello australe. A causa della precessione degli equinozi, il Punto Gamma arretra progressivamente lungo l'eclittica rispetto alle stelle fisse, e questo spiega il suo nome. Infatti in corrispondenza dell'equinozio di primavera tra il 2300 e il 100 a.C., il Sole si trovava nella costellazione dell'Ariete; oggi, a causa della precessione degli equinozi, in corrispondenza dell'equinozio di primavera il Sole si trova nella costellazione dei Pesci, e a partire dall'anno 2200 d.C. passerà in quella dell'Acquario (da qui il nome della famosa "Era dell'Acquario" vagheggiata dalla moderna New Age).
Nel nostro caso bisogna prendere in considerazione il fatto che il sistema cosmologico tolkieniano è geocentrico, e quindi letteralmente è Anar che passa sullo zenit di un punto di Arda! La mappa stellare che abbiamo pubblicato sopra mostra anche l'eclittica, che nel nostro universo rappresenta l'intersezione della sfera celeste con il piano dell'orbita terrestre, ma nel Mondo Secondario coincide proprio con il cammino reale del Sole attorno ad Arda; in particolare, l'intersezione tra eclittica e equatore celeste nella nostra mappa è quella relativa all'equinozio d'autunno. Come ha fatto notare il nostro amico Edoardo "Almavarno" Secco, tutti i calcoli sui calendari, gli anticipi ed i ritardi descritti nell'Appendice D del SdA sono stati eseguiti riferendosi all'attuale durata dell'anno. Perché Almavarno ha sottolineato la parola "attuale"? Perché nella sua concezione del Mondo Secondario Tolkien immaginava le avventure dei suoi personaggi ambientate in un lontano passato. Secondo l'ipotesi sulla successione delle Ere elaborata da Chris Seeman e da Thomas Morwinsky, il passaggio dalla Prima alla Seconda Era, andrebbe collocato attorno all'11.500 a.C., quello dalla Seconda alla Terza attorno all'8.100 a.C. e quello fra la Terza e la Quarta verso il 5.100 a.C. Ora, l'anno si allunga di circa mezzo secondo ogni secolo, quindi 10.000 anni fa era più lungo di ben 50 secondi: un intervallo che in rapporto alla vita umana può sembrare breve, ma nell'ambito della Cronometria vuol dire molto. Da notare che Tolkien stesso nell'Appendice D si chiede se l'anno aveva la stessa durata di quello attuale, ed egli considera l'anno tropico di 365,2422 giorni, trascurando tale variazione di durata.
Aggiungiamo i risultati di un'altra ricerca compiuta dall'amico Almavarno. Nei "Racconti Incompiuti", la nota 9 di Tolkien a "Il disastro dei Campi Iridati" ci dice che il 5 Narbeleth, alla latitudine di Gran Burrone, in terreni aperti la durata del giorno era di almeno 12 ore, che però si riducevano a meno di 8 a "mezz'inverno"; una data che potrebbe coincidere con il solstizio d'inverno. Stando alla ricostruzione dei Calendari operata da Lalaith e reperibile in questo sito, l'equinozio d'autunno cade proprio nei primi giorni del mese di Narbeleth. Dalla tabella che segue si deduce che al solstizio d'inverno il dì dura effettivamente meno di otto ore a una latitudine di circa 50° Nord, e questa deve essere la latitudine di Gran Burrone, confermata da altre fonti: segno, questo, che nell'universo da lui creato Tolkien non ha lasciato nulla al caso!
LATITUDINE (sia nord che sud) |
durata del giorno |
differenza in ore |
|
più lungo |
più corto |
||
0° [Equatore] |
12h 00' |
12h 00' |
00h 00' |
5° |
12h 17' |
11h 43' |
0h 43' |
10° |
12h 35' |
11h 25' |
1h 10' |
15° |
12h 53' |
11h 07' |
1h 46' |
20° |
13h 13' |
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4h 42' |
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5h 42' |
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Tolkien non sembra fare differenza sulla durata dell'anno in Arda piatta e in Arda rotonda. Si può pensare che dopo la Caduta di Númenor e il cambiamento del mondo, per non stravolgere il ciclo stagionale delle genti, Ilúvatar e i Valar abbiano decretato che il Sole si muovesse intorno al pianeta, ora rotondo, in modo da generare le stagioni con la stessa durata che avevano prima. Chi è interessato ai calcoli dell'amico Almavarno sul computo degli anni secondo l'Appendice D del "Signore degli Anelli" è invitato a consultare questo link.
Invece i Nani per il loro calendario si regolavano sulla Luna. Il primo giorno dell'anno, il Capodanno nanesco, era chiamato Giorno di Durin e corrispondeva al primo giorno dell'ultima luna crescente d'autunno. Del resto, molti calendari anche nel nostro universo sono basati sulle fasi lunari: quello babilonese, quello celtico, quello indù, quello cinese, quello Maya e soprattutto quello islamico, che ignora le stagioni e considera solo i moti lunari. Anche il calendario ecclesiastico cattolico è ancorato alla Luna e non solamente al Sole, visto che la Pasqua cade la domenica che segue il primo plenilunio di primavera, come stabilito dal Concilio di Nicea nel 325 d.C. Si noti che le fasi lunari sono state ampiamente utilizzate da Tolkien per sincronizzare gli eventi nel "Signore degli Anelli", ma non sempre in modo accurato; facciamo un esempio per rendercene conto, sfruttando tre citazioni dal nostro Romanzo. L'8 gennaio 3019 (1419 nel Calendario della Contea) Aragorn guida la Compagnia dell'Anello verso il Passo Cornorosso, e Tolkien ci dice:
« Sotto la guida di
Aragorn si avviarono per un buon sentiero, che a Frodo parve il residuo di
un'antica strada in passato ampia e ben progettata, collegante l'Agrifogliere
al passo di montagna. La Luna, ormai piena, s'innalzò sulle montagne,
proiettando una pallida ombra nelle quali le ombre delle pietre erano nere. »
(SdA, libro II, cap. III)
Il 6 marzo successivo, dopo che Gandalf e re Théoden hanno affrontato Saruman prigioniero nelle rovine di Isengard, lo Stregone lascia Orthanc portando Merry sul suo cavallo, e questo è il panorama che lo Hobbit vede durante il viaggio:
« La via scorreva lenta,
serpeggiando per la valle. Ora vicino, ora più distante, l'Isen fluiva nel
suo letto sassoso. La notte discese dalle montagne, la nebbia era del tutto
scomparsa. Un vento gelido soffiava. La Luna, ormai tonda, riempiva il cielo
orientale di un pallido lustro freddo. »
(SdA, libro III, cap. XI)
Entrambi gli eventi sono stati scelti perchè corrispondono manifestamente a due pleniluni. Ora, tra l'8 gennaio e il 6 marzo intercorrono esattamente 57 giorni. Un mese sinodico, cioè il tempo che intercorre tra un plenilunio e quello successivo, dura 29 giorni, 12 ore, 44 minuti e 2,9 secondi (cioè 29,530589120 giorni, usando la notazione decimale). I 57 giorni suddetti equivalgono quindi quasi esattamente a due mesi lunari, ed è perciò corretto che entrambi gli eventi siano accompagnati da una luna piena.
Le fasi lunari rappresentate
sopra la casa di Frodo a Hobbiville così
come è stata ricostruita per la trilogia di Peter Jackson (da questo
sito)
Se però in questo caso Tolkien è stato davvero scrupoloso nella sua rappresentazione delle fasi lunari, non si può dire che lo sia stato altrettanto su scale temporali più ampie. Per averne una prova, spostiamoci al 22 settembre 3021 (1421 nel Calendario della Contea), una data davvero importante nella cronologia dell'universo tolkieniano, perchè è quella in cui Frodo e Sam, partiti da Hobbiville con l'intenzione di andare a festeggiare il 131° compleanno di Bilbo (un traguardo fino ad allora mai festeggiato da alcun Hobbit), incontrano a Terminalbosco la Cavalcata dei Custodi degli Anelli, tra i quali si annoverano Elrond con l'Anello Vilya e Galadriel con l'Anello Nenya, e ovviamente lo stesso Bilbo Baggins. Dopo che Sam ha compreso che tutti, Frodo compreso, hanno intenzione di passare il Mare e partire per le Terre Imperiture, Tolkien ci narra:
« Allora Elrond e
Galadriel ripresero il cammino; la Terza Era era infatti finita, ed i Giorni
degli Anelli ormai passati, e si concludevano così la storia ed i canti di
quei tempi. [...] Benché cavalcassero attraverso la Contea durante tutta la
sera e tutta la notte, nessuno li vide passare, se non gli animali dei boschi,
e qua e là qualcuno che vagando nel buio scorse ad un tratto un bagliore fra
gli alberi, o una luce e un'ombra scivolare sull'erba mentre la Luna volgeva a
occidente. »
(SdA, libro VII, cap. IX)
Ora, facciamo insieme due conti. Tra il 6 marzo e il 31 dicembre 3019 intercorrono esattamente 300 giorni (25 + 30 + 31 + 30 + 31 +31 + 30 +31 + 30 + 31). Ad essi dobbiamo aggiungere i 365 giorni dell'anno 3020. Tra il 1 gennaio e il 22 settembre 3021 intercorrono 265 giorni (31 + 28 + 31 + 30 + 31 + 30 + 31 + 31 + 22). Sommando tra di loro 300, 365 e 265 otteniamo un totale di 930 giorni, i quali equivalgono esattamente a 31,493 mesi lunari. Insomma, a 31 mesi sinodici e mezzo. Come abbiamo visto, il 6 marzo la luna era piena, dunque lo sarà anche dopo esattamente 31 lunazioni. Quel "mezzo" mese lunare fa sì che, al momento del fatidico incontro a Terminalbosco, la Luna sia nuova, e quindi pressoché completamente oscura ed invisibile. Non era dunque possibile osservare la Luna che « volgeva ad occidente » come ci dice Tolkien.
Questa incongruenza non può essere spiegata in alcun modo, se non con un errore di calcolo del nostro Professore. Il quale era peraltro ben cosciente delle difficoltà di sincronizzare un racconto di fantasia con una scansione cronologica che pretende di essere scientificamente esatta, come dimostra il seguente passo tratto da una lettera al figlio Christopher: « Sto lottando con un passaggio recalcitrante dell'Anello". A questo punto ho bisogno di sapere quanto più tardi la Luna si alza ogni notte quando è quasi piena, e come si fa a stufare un coniglio » (Carpenter 74). Tuttavia, come quasi in ogni altro punto del suo Legendarium, il nostro Autore ha saputo risolvere brillantemente il problema, e non solo riguardo allo stufato di coniglio. Infatti in questo sito viene analizzata praticamente ogni citazione del SdA contenente la parola "Luna", e su 30 date prese in considerazione, ben 25 sono dimostrate coerenti con le fasi lunari, cioè l'83 % del totale, e solo 5 sono definite "problematiche", perchè in contrasto con il calendario lunare (l'ultimo di questi casi "problematici" è rappresentato proprio dal fatidico 22 settembre del 3021, che pone fine alla Terza Era). Si tratta sicuramente di una precisione degna di un astronomo professionista, che dimostra con quale passione e cura dei particolari Tolkien ha creato il proprio personale universo parallelo!
Ma c'è un ultimo fenomeno astronomico ben noto a tutti gli uomini che ritroviamo nel Legendarium. Infatti nei "Racconti Incompiuti" si narra di Eöl, l'Elfo Scuro che durante la Prima Era forgiò due spade usando il ferro proveniente da un meteorite. La prima, Anglachel, la diede a Thingol in cambio del permesso di vivere nelle foreste di Nan Elmoth; la seconda, Anguriel, la tenne per sé e più tardi gli fu rubata da suo figlio Maeglin. Anglachel venne consegnata da un riluttante Thingol a Túrin Turambar con l'avvertimento che in essa era contenuta la stessa malizia di colui che l'aveva forgiata. L'avvertimento si rivelò profetico, perchè Túrin con essa uccise inavvertitamente il suo amico Beleg. In effetti gli uomini usarono fin dall'antichità strumenti realizzati con ferro nativo proveniente dalle meteoriti, come dimostra un famoso passo del Corano: « Facemmo scendere il ferro, strumento terribile e utile per gli uomini, affinché Allah riconosca chi sostiene Lui e i Suoi messaggeri in ciò che è invisibile » (Sura 57, 25). Già nel 3000 a.C. in Mesopotamia venivano prodotti piccoli oggetti di ferro meteoritico come ornamenti o come punte delle lance, molto prima che fossero scoperti i fondamenti della fusione del ferro, ed anche dalla tomba di Tutankhamon è venuta alla luce una spada forgiata con ferro di meteoriti. Secondo la leggenda anche Excalibur, la spada di Re Artù, era forgiata con ferro proveniente dal cielo. Naturalmente l'esistenza di massi vaganti sopra Arda è incompatibile con un modello di Terra Piatta come quello della Seconda Era, perchè i meteoriti sono resti della nebulosa protosolare da cui nacque il Sistema Solare. Però è sicuramente possibile mettere in piedi una leggenda per spiegare l'esistenza di meteoriti anche in un universo caratterizzato da un mondo piatto; semplicemente, Tolkien non si è mai preoccupato di inventare una tale leggenda (purtroppo, aggiungo io).
Chiudiamo questa lunga lezione con un'osservazione che ci lascerà strabiliati. Quello di Tolkien è pur sempre un Medioevo fantasy, e quindi ci si potrebbe chiedere: davvero in un "Medioevo", e per lo più collocato da Tolkien stesso almeno seimila anni prima della nostra epoca, un Elfo come Elrond oppure un Re di Númenor come Tar-Meneldur avrebbero potuto inventare un telescopio, e magari possedere conoscenza cosmologiche estremamente "moderne", come possono essere quelle di un universo infinito o di un Big Bang? La risposta ancora una volta è positiva, poiché anche nel "nostro" Medioevo ci fu chi, pur non possedendo telescopi, avanzò dei modelli di universo assolutamente incompatibili con l'universo geocentrico e finito allora imperante. Vediamone due esempi.
Nel 1225 il teologo inglese Roberto Grossatesta (1175-1253) scrisse il "De Luce", un trattato in cui preconizzava alcune idee che stanno alla base della moderna cosmologia, idee addirittura compatibili con le più ardite teorie odierne che prevedono l'esistenza di universi multipli. Grossatesta, che aveva studiato le opere recentemente riscoperte di Aristotele sul moto delle stelle, propose nel suo scritto l'idea di un universo iniziato con un lampo di luce: un lampo che avrebbe spinto tutta la materia verso l'esterno, partendo da un punto piccolissimo fino a trasformarla in una vastissima sfera. Si tratta di una concezione sorprendente moderna, assai vicina alla ben nota teoria del Big Bang. Nell'universo di Grossatesta luce e materia sono addirittura accoppiate insieme; quando dall'impulso iniziale la loro espansione raggiunse una densità minima, l'universo entrò in quello che Grossatesta definì uno stato perfetto, e il processo di accrescimento si arrestò. Questa sfera perfetta emise allora una nuova forma di luce che invece si propagò verso l'interno, purificando la materia imperfetta dentro la sfera e comprimendola, fino a che raggiunse anch'essa uno stato ideale, lasciando come unico residuo una materia per così dire "imperfetta", da cui si sarebbe generata proprio la Terra. Tutto ciò ha portato Tom McLeish, fisico presso la Durham University nel Regno Unito, ad affermare addirittura che Grossatesta era un "teorico delle superstringhe medievale"! Due secoli dopo il tedesco Niccolò Cusano (1401-1464) si spinse ancora più in là e nei suoi trattati "De Docta Ignorantia" (1440) e "De Visione Dei" (1453) sostenne, contro la dottrina di Aristotele ed ispirandosi alla tradizione neoplatonica, che la Terra non è immobile, ma ruota intorno al proprio asse, e che l'universo è infinito, e come tale non possiede alcun centro; si disse inoltre convinto che le stelle sono astri simili al nostro Sole, che intorno ad esse possono ruotare dei pianeti, e addirittura che alcuni pianeti possono essere abitati da uomini come noi; questo fa di lui uno dei primi in assoluto ad avanzare l'ipotesi dell'esistenza di intelligenze extraterrestri! E nessuno si sognò di perseguitarlo; anzi, nel 1448 Papa Niccolò V lo creò addirittura Cardinale di Santa Romana Chiesa! Se dunque Grossatesta e Cusano si erano già spinti così avanti rispetto ai loro contemporanei, perchè non ipotizzare che qualche scienziato elfico o numenoreano abbia seguito le loro orme?
Se, dopo questa lunghissima lezione, sono riuscito a non annoiarvi abbastanza, cliccate qui e passiamo insieme ad un altro argomento che concluderà lo studio della meccanica.