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Verso una nuova Fisica

"Non esiste un mondo quantistico. C'è soltanto una descrizione quantistica astratta."

Niels Bohr

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5.1  La funzione d'onda

De Broglie pose le basi di una nuova meccanica, ma non fu lui a coglierne i frutti. Subito dopo la pubblicazione dei suoi lavori, infatti, due giovani talenti, uno tedesco ed uno austriaco, si misero al lavoro e diedero vita a due diverse formulazioni della nuova meccanica che, come anticipato, doveva rendere ragione di TUTTI i fenomeni del mondo microscopico, sopperendo ai limiti di quella di Newton. A Vienna, Erwin Schrödinger (1887-1961) elaborò la cosiddetta meccanica ondulatoria, scrivendo l'equazione a cui ogni onda di materia deve obbedire, ed a cui dedicheremo il prossimo capitolo; invece a Göttingen, città della Bassa Sassonia, Werner Heisenberg (1902-1976) elaborò una teoria parallela, detta meccanica delle matrici, che parte da presupposti completamenti diversi, ma perviene alle stesse identiche conclusioni. Più tardi, l'inglese Paul Adrien Maurice Dirac (1902-1984) avrebbe formulato un terzo approccio ancor più avanzato dal punto di vista formale, la cosiddetta meccanica dei vettori di stato, anch'esso convergente ai risultati degli altri due. Questo è molto importante, perchè ci aiuta a capire il significato profondo del formalismo matematico, il quale non è connaturato nella realtà, come sosteneva Galileo, il quale arrivò ad affermare che « la Matematica è l'alfabeto con cui Dio ha scritto l'universo ». È invece un armamentario ideato dall'uomo, con lo scopo di interpretare tutta la complessità del mondo reale. Come fece argutamente notare George Gamow, il grande fisico e divulgatore scientifico che abbiamo già citato nel capitolo precedente, le balene e i delfini (= la meccanica ondulatoria) sembrano non aver niente in comune con i cavalli e gli elefanti (= meccanica delle matrici), eppure sono tutti mammiferi. Entrambe le teorie sono cioè aspetti diversi di quella nuova fisica che va sotto il nome di meccanica quantistica.

Schrödinger, Dirac e Heisenberg disegnati insieme a Topolino e Pippo da Alessandro Perina nell'avventura a fumetti "Topolino e l'esperimento del Dottor Pi" pubblicata su "Topolino" n° 3175 del 28 Settembre 2016

Schrödinger, Dirac e Heisenberg disegnati insieme a Topolino e Pippo da Alessandro Perina nell'avventura a fumetti "Topolino e l'esperimento del Dottor Pi" pubblicata su "Topolino" n° 3175 del 28 Settembre 2016

Noi approfondiremo alcuni aspetti matematici della meccanica ondulatoria, che tra tutte è sicuramente quella dal formalismo matematico meno difficile, ma dovremo comunque far ricorso a molti strumenti propri dell'Analisi Matematica; chi non li conosce, salti pure al risultato dei nostri calcoli. Oggetto della meccanica ondulatoria è la funzione d'onda Ψ (x, t), che descrive la forma dell'onda di materia associata alla particella:

Se è così, la sua intensità è costante in ogni punto. Infatti:

Ciò crea un grosso problema, perchè dire che | Ψ (x, t) |2 = costante significa dire che l'indeterminazione sulla posizione è totale. Sarebbe come dire che, secondo un radar, un aereo è "uniformemente distribuito" su tutto l'Oceano Atlantico, perchè l'intensità del segnale da esso emesso è costante in ogni punto! Ma, se io faccio diffrangere la particella (cioè la sua funzione d'onda) attraverso una fenditura opportuna, ottengo una figura di diffrazione dotata di massimi e minimi di intensità, per cui la posizione della particella non è del tutto indeterminata. In altre parole, prima dell'urto non riesco ad individuare la particella, ma dopo sì!

La soluzione di questo paradosso sta nell'associare alla particella, prima dell'interazione con il reticolo di diffrazione, non un'onda piana monocromatica, bensì un pacchetto di onde, cioè una successione di onde piane, il cui vettore d'onda e la cui pulsazione variano con continuità dentro determinati intervalli Δk e Δω. Al pacchetto d'onde si attribuisce allora una velocità di gruppo vg, data da:

mentre la velocità di fase vf di una singola onda monocromatica è:

Allora la posizione della particella in ogni istante può essere descritta dalla formula classica:

Erwin Schrödinger chiamò Ψ (x, t) la funzione d'onda, ed ogni situazione fisica descritta da essa si dice stato quantistico. Vale allora il:

PRINCIPIO DI SOVRAPPOSIZIONE DEGLI STATI: Se le condizioni fisiche di un sistema sono tali per cui esso può essere descritto da più di una funzione d'onda, è uno stato ammissibile anche una loro combinazione lineare:

Ciò è importante, perchè ci dice che la meccanica ondulatoria è lineare. Uno stato descritto da una combinazione lineare di n stati diversi si chiama stato misto:

Se, come nel pacchetto d'onde, k varia con continuità tra ( k0 – Δk ) e ( k0 + Δk ), allora i termini della sommatoria diventano infiniti, ciascuno dei quali è infinitesimo:

Allora dobbiamo adoperare gli strumenti dell'Analisi Matematica, e la sommatoria diventa un integrale:

          (5.1)

Supponiamo che αk vari molto poco con k, ed estraiamolo dall'integrale. Ora, l'ottica ci dice che lunghezza d'onda e pulsazione sono legate tra di loro da quella che si chiama relazione di dispersione ω = ω(k). Per trovare la relazione di dispersione dell'onda di materia, ricordiamo che:

dove p è la quantità di moto della particella. Uso allora le due equazioni di de Broglie (4.3) e (4.4):

ed ho:

Dunque la relazione di dispersione ha aspetto parabolico. Noi la linearizzeremo nell'intorno di ( k, ω0 ), confondendo la parabola con la tangente ad essa in questo punto:

Nel nostro caso la velocità di gruppo vg vale:

Dunque la velocità di gruppo del pacchetto d'onde è pari alla velocità delle particelle nel punto in cui k = k0 (si chiama il "centro" del pacchetto). Ora cambio le variabili, chiamando ξ = k – k0 e di conseguenza dξ = dk. Se k = k0 – Δk, allora ξ = – Δk. Se k = k0 + Δk, allora ξ = + Δk. Allora:

e dunque:

L'integrale (5.1) sopra scritto perciò diventa:

Se ne deduce che la soluzione è una funzione di ( x –  v0 t ), cioè è un'ONDA la cui velocità è quella di gruppo calcolata in k = k0. Abbiamo così:

e ricordando che:

si ottiene:

          (5.2)

L'intensità dell'onda diffratta è proporzionale al modulo quadrato di questa funzione d'onda:

Se rappresento la precedente in funzione di x, mi accorgo che il risultato è:

Essa assomiglia incredibilmente ad una figura di diffrazione!

È così spiegato, alla luce della Meccanica Ondulatoria, il fenomeno della diffrazione degli elettroni. Naturalmente non abbiamo ancora capito quale sia il significato fisico di questa benedetta "funzione d'onda", problema che assillò fin da subito lo stesso Schrödinger, cioè il suo padre creatore. In verità, egli riteneva (almeno inizialmente) che essa avesse un significato materialistico, e cioè che, dopo la diffrazione, la particella effettivamente "si sciogliesse" e "si distribuisse" su tutto il fronte d'onda, presentando i massimi e i minimi che caratterizzano la figura di diffrazione sopra vista. Quest'idea apparve fin dal principio poco realistica, e fu Max Born a superarla brillantemente, come vedremo tra poco.

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5.2  Il Principio di Indeterminazione

Consideriamo l'ampiezza del massimo centrale nella figura di diffrazione (5.2) ricavata nel paragrafo precedente. Esso è largo come minimo il doppio dei primi minimi di intensità dell'onda diffratta, e dunque deve essere:

da cui:

Ma per la (4.3) si ha:

e quindi:

Questa relazione è importantissima, e fu ricavata dal grande fisico tedesco Werner Karl Heisenberg (1901-1976) quando aveva solo 25 anni, nel suo celebre articolo « Über den anschaulichen Inhalt der quantentheoretischen. Kinematik und Mechanik » ("Sul contenuto intuitivo della cinematica e della meccanica quantistica"), pubblicato il 23 marzo 1927 sullo "Zeitschrift für Physik". In seguito Heisenberg la ricavò nuovamente dalla sua meccanica delle matrici in forma più precisa, che è quella oggi utilizzata:

          (5.3)

Essa prende il nome di:

PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE DI HEISENBERG: il prodotto dell'indeterminazione sulla posizione e di quella sulla quantità di moto di una particella quantistica è maggiore o uguale della costante di Dirac divisa per 2.

Werner Karl Heisenberg (Würzburg, 5 dicembre 1901 – Monaco, 1 febbraio 1976)

La sua importanza risiede nel fatto che esso pone un limite invalicabile alla precisione delle misure sperimentali, e quindi alla stessa conoscenza umana. Ora, il significato di Δx e di Δp è quello di indeterminazione sulle misure, nel senso che la posizione del corpuscolo è compresa fra ( x0 – Δx ) e ( x0 + Δx ) e la sua quantità di moto è compresa fra ( p0 – Δp ) e ( p0 + Δp ), è evidente che quanto meglio conosco la posizione, tanto peggio conosco la quantità di moto, e viceversa. Infatti, x e p sono le due coordinate con cui si studia l'evoluzione dei sistemi meccanici in quello che viene chiamato "spazio delle fasi"; x e p sono infatti due grandezze "canonicamente coniugate". Allora, rappresentando l'evoluzione di un sistema nello spazio delle fasi, ogni punto di questo rappresenta lo stato dinamico del sistema, caratterizzato da una posizione x e da una quantità di moto p. In realtà, siccome le due grandezze sono afflitte rispettivamente da un'indeterminazione Δx e Δp, il sistema può trovarsi in uno qualunque degli stati dinamici contenuti nel rettangolo [ x0 – Δx ; x0 + Δx ] x [ p0 – Δp ; p0 + Δp ]. L'area di questo rettangolo dev'essere maggiore o uguale ad h, secondo la (5.3), per cui al crescere di Δx diminuisce Δp, e viceversa, come mostrano i diagrammi seguenti:

_____

Se cerco di migliorare la precisione con cui conosco x, cioè se cerco di diminuire Δx, inevitabilmente devo allargare Δp, e quindi peggiorare la precisione con cui conosco p. Al limite, se conosco perfettamente la posizione, se cioè Δx = 0, si ha Δp → ∞, e non conosco più nulla su p, e viceversa! Quest'ultimo caso è quello dell'onda piana monocromatica, con velocità precisamente conosciuta, ma posizione assolutamente indeterminata, o meglio delocalizzata su tutta l'onda!

Ciò ha conseguenze esplosive sulla meccanica delle particelle elementari, perchè la mia capacità di individuare la particella e di conoscerne il moto ha dei limiti insuperabili. Non a caso, un mostro sacro come Albert Einstein si rifiutò sempre di accettare le conseguenze del Principio di Indeterminazione, pronunciando la frase storica: « Gott würfelt nicht », cioè « Dio non gioca a dadi » (al che Bohr rispose con una frase altrettanto famosa: « Albert, smettila di dire a Dio ciò che deve fare! ») Ma perchè Einstein negò la validità del Principio di Heisenberg? In altre parole, perchè è impossibile descrivere con precisione la vera traiettoria di una particella? Cosa ce lo può impedire?

Allo scopo, consideriamo un esperimento mentale (in tedesco lo si chiama Gedankenexperiment) suggerito dallo stesso Heisenberg. Prendiamo in considerazione una camera stagna in cui è stato praticato il vuoto perfetto, idealmente togliendo fino all'ultima molecola, e montiamo in essa un cannone C, una lampadina L e un telescopio T, quest'ultimo orientabile a piacimento. Il cannone spara un elettrone in direzione orizzontale; in assenza di campi magnetici, se la camera è ben schermata, l'elettrone seguirà una traiettoria parabolica. Sulla parete opposta della camera, il telescopio T registra tutti i singoli fotoni emessi dalla lampadina L che vengono riflessi dall'elettrone e. Con questa tecnica, è possibile agire con precisione assoluta il moto dell'elettrone, e quindi stabilirne la corretta traiettoria:

C'è però un problema. Il fotone ha una sua energia cinetica, come ci insegna la Teoria della Relatività, ed essa è in grado di "spostare" l'elettrone dalla sua traiettoria: si parla in proposito di pressione di radiazione. Se voglio poter descrivere il moto dell'elettrone indipendentemente da qualunque azione esterna, devo essere in grado di rendere questo disturbo infinitamente piccolo. Allo scopo, decidiamo di "discretizzare" la traiettoria, considerando solo 10 posizioni dell'elettrone in 10 istanti diversi, e facendo lampeggiare la lampadina solo in 10 istanti, come un faro a luce stroboscopica da discoteca. Così eliminiamo la pressione di radiazione mentre NON stiamo osservando la particella. Se queste "spinte"sono ancora sufficienti a far deviare la particella, riduciamo l'intensità luminosa della lampadina, il che si può fare a piacimento, poiché nella Fisica Classica non vi è alcun limite alla quantità di energia associata all'emissione luminosa, né all'assorbimento della luce riflessa. Devo naturalmente aumentare anche la sensibilità del telescopio, che può essere sostituito da una qualunque rivelatore, e così la perturbazione sull'elettrone diventa piccola a piacere. Allora, anziché 10 osservazioni posso eseguirne 100, così da ottenere una definizione più precisa della traiettoria, pur di diminuire contemporaneamente l'intensità della lampadina e di aumentare in corrispondenza la sensibilità del rivelatore. Se uso una lampadina 10 volte più fioca e un rivelatore 10 volte più potente, posso permettermi di colpire l'elettrone 100 volte anziché 10, senza aumentare sensibilmente il disturbo.

Naturalmente nessuno mi impedisce di compiere 1000, 10.000, 100.000 osservazioni, a patto di ritoccare ogni volta lampadina e telescopio. Il problema però sta nel fatto che, per quanto piccolo può essere l'elettrone, la sua immagine sullo schermo non può essere più piccola della lunghezza d'onda λ della radiazione utilizzata, per via dei ben noti fenomeni di diffrazione. Per ovviare a tali fenomeni, sfrutteremo radiazioni di frequenza via via maggiore: raggi X, raggi γ, eccetera. Nella Fisica Classica non c'è limite alla frequenza delle onde elettromagnetiche, per cui il diametro della figura di diffrazione può essere reso piccolo a piacere.

Ora, Heisenberg mise in chiaro che tutto questo si muove nel campo della più pura fantascienza: il procedimento ora descritto è inattuabile per via dell'esistenza dei quanti di luce. Essi pongono un limite ultimo sia all'energia associata alla radiazione che alla sua lunghezza d'onda. La più piccola energia associata ad un singolo flash è ( h f ), dove f è la frequenza della luce, e quindi la quantità di moto che il fotone attribuisce all'elettrone non può in alcun caso essere inferiore ad ( h f / c ). Dunque, aumentando il numero di osservazioni aumenta anche il numero di disturbi, per cui la traiettoria non seguirà una parabola, bensì piuttosto un moto a zig-zag simile al moto browniano. Per diminuire il disturbo dovrei diminuire la frequenza f, cioè aumentare la lunghezza d'onda, fino a farla diventare grande quanto l'intera camera stagna. Ma allora, invece di osservare la traiettoria della particella, vedrei solo dei grandi cerchi di diffrazione che riempirebbero l'intero campo visivo. Nessuna speranza, dunque, di "vedere" la "vera" traiettoria della particella.

Siccome io non vedo un punto materiale, bensì la figura di diffrazione prodotta dalla particella, l'indeterminazione Δx sulla posizione dell'elettrone è maggiore o uguale alla lunghezza d'onda di de Broglie dell'elettrone, cioè:

Essendo Δp = h f / c, ne segue proprio:

che è precisamente la relazione di indeterminazione di Heisenberg! Se ne deduce che l'impossibilità di conoscere con precisione la posizione e lo stato di moto di una particella discende dall'interazione di questa con il metodo di osservazione. Infatti, pensandoci bene, per osservare fenomeni su scala così piccola dobbiamo necessariamente vederli, cioè illuminarli con fotoni. Se l'energia di questi fotoni è di gran lunga inferiore a quella dell'oggetto che sto osservando, come per esempio nel caso di una palla da biliardo, va tutto bene, e mi muovo nell'ambito della Fisica Classica e delle sue traiettorie perfettamente determinate. Questo è il caso dello studio di tutti i fenomeni macroscopici, fino all'ordine di grandezza di un virus. Ma se io ho a che fare con particelle quantistiche, la loro energia è paragonabile a quella dei fotoni con cui li osservo, e quindi non c'è speranza di evitare la loro interazione con i fotoni di osservazione. Così come quando misuro la temperatura con un termometro, io misuro in realtà l'interazione tra sistema e termometro, così io non riesco ad osservare altro che un sistema inevitabilmente perturbato, che ha perso tutte le sue caratteristiche originarie!

Il problema sta dunque tutto nella misura: se non c'è strumento di osservazione, il sistema è osservabile, ma, non appena ci metto lo strumento, il sistema non è più osservabile nella sua forma originaria. In verità, "conoscere" significa "osservare", ma "osservare" significa "perturbare"! Non si può osservare un sistema microscopico indipendentemente dal dispositivo adoperato per studiarlo!

Concludendo: nella Meccanica Classica, una particella di materia si muove in UN solo stato possibile per volta; in quella ondulatoria, invece, si ha un diverso stato di moto a seconda di come la misuriamo!

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5.3  Oltre il limite semiclassico

Vediamo di applicare queste conclusioni al modello atomico elaborato da Bohr e Sommerfeld. Consideriamo una palla da biliardo del peso di 225 grammi (per regolamento una palla da biliardo pesa tra 224 e 228 grammi). Poiché d'ora in poi useremo il Principio di Heisenberg nella forma data dalla (5.3), quest'ultima si può riscrivere:

Avremo perciò:

La si può soddisfare ponendo Δx = 10–15 m e Δv = 2,5 x 10–19 m / s. Dunque l'errore che si commette nel valutare la posizione della particella è dell'ordine delle dimensioni del nucleo atomico, e quello che si commette nel misurare la velocità è dell'ordine di 8 millimetri ogni miliardo di anni! Tenendo conto degli inevitabili errori di misura dovuti ad imperfezioni degli strumenti o del nostro occhio, se ne deduce che la posizione e la velocità della palla da biliardo sono entrambe perfettamente conosciute. Del resto, se osserviamo le figure qui sotto, si osserva che, se la lunghezza d'onda di de Broglie è paragonabile all'ampiezza d della fenditura attraverso ci passano i corpuscoli, si ottiene una "vera" figura di diffrazione, per cui ci troviamo nel mondo della meccanica ondulatoria, ma se λ << d, allora il risultato è una figura rettangolare, il cui spessore è dato dall'ampiezza della fenditura, esattamente come la luce solare, attraversando il buco di una serratura, proietta un'ombra identica alle dimensioni del buco stesso.

Dunque, λ << d si dice il limite semiclassico; se questa condizione è soddisfatta, la meccanica quantistica NON è necessaria, e si possono usare gli strumenti della meccanica classica. Non è perciò esatto parlare di "crisi" della meccanica classica, perchè essa NON diventa affatto inutile dall'oggi al domani; al contrario, è la meccanica quantistica che risulta inutile per descrivere i fenomeni macroscopici. Infatti, consideriamo una persona di 70 kg che attraversa una porta larga un metro alla velocità di un metro al secondo. La lunghezza d'onda di de Broglie associata a quella persona è pari ad h / m v ≈ 10–35 m, e quindi il limite semiclassico è perfettamente soddisfatto. Ci rendiamo conto del fatto che l'inapplicabilità della meccanica quantistica al mondo macroscopico è legato all'estrema piccolezza di h. La larghezza d'onda dell'uomo che attraversa la porta è così assurdamente piccola (20 ordini di grandezza più piccola del nucleo atomico) perchè anche h è incredibilmente piccola. Se invece h valesse per esempio 6,62 J s, il nostro amico avrebbe una lunghezza d'onda associata di circa un metro, paragonabile alla larghezza della porta, e quindi diffrangerebbe attraverso la porta! I fenomeni ondulatori allora si manifesterebbero anche nel mondo macroscopico, e l'uomo vivrebbe in un universo quantistico! Notiamo che, se intendiamo d come la scala di grandezze su cui la nostra particella si muove, la condizione semiclassica:

si può riscrivere:

E siccome m v d rappresenta il momento angolare L della nostra particella, se ne deduce che il limite semiclassico si può esprimere nella forma L >> h; dunque, la costante di Planck rappresenta la scala dei momenti angolari sulla quale si verificano i fenomeni quantistici!

Ora, si è visto che nel modello di Bohr gli elettroni idrogenoidi hanno momento angolare:

per cui essi manifestano un comportamento tipicamente ondulatorio. Questo rappresenta la fine del sogno dei primi decenni del Novecento di interpretare l'atomo come un vero sistema planetario, nel quale gli elettroni seguono orbite ellittiche nel senso classico, e spiana la strada ad un nuovo modo di interpretare le strutture atomiche: è quello che si chiama il modello quantistico dell'atomo, o modello ad orbitali. In esso, l'elettrone non segue una vera e propria orbita, ma si trova delocalizzato in una certa regione di spazio attorno al nucleo, che prende il nome di orbitale atomico, ciascuno caratterizzato, come vedremo, da una terna di numeri quantici: n, l, m.

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5.4  Una beffa per Einstein

Nel capitolo 5 del suo saggio divulgativo « Trent'anni che sconvolsero la Fisica » (1966), ancor oggi una lettura pressoché obbligata per chi si accosta ai misteri della Meccanica Quantistica, lo scienziato russo George Gamow, forte della sua posizione vantaggiosa di testimone oculare delle scoperte che diedero vita alla Meccanica Quantistica, descrive un vivace scambio di battute, avvenuto nel corso del sesto Congresso Solvay di Bruxelles del 1930, tra Albert Einstein e Niels Bohr. Il primo infatti si rifiutò sempre di accettare le conseguenze dirompenti del Principio di Indeterminazione, mentre il secondo difese a spada tratta le ipotesi del suo discepolo Heisenberg. Vale la pena di discuterne, per mostrare come nascono le idee nuove nella testa dei Fisici, oltre che per mostrare un'ulteriore forma del Principio di Indeterminazione.

Tanto per cominciare, la (5.3) può essere scritta scomponendola lungo le tre dimensioni dello spazio:

Ma la Relatività Ristretta ci insegna che le dimensioni dello spazio-tempo sono in realtà quattro; la quarta coordinata introdotta da Hermann Minkowski è ( c t ), dove c è la velocità della luce. Anche la quantità di moto ha una componente in questa direzione, ed è ( E / c ). Le corrispondenti indeterminazioni naturalmente sono ( c Δt ) e ( ΔE / c ), per cui la relazione di Heisenberg diventa:

          (5.4)

In altre parole, non è possibile conoscere con la stessa precisione l'energia e la durata di un fenomeno. Ciò ha una notevole conseguenza : la (5.4) ci dice che possiamo conoscere l'energia di un sistema solo se la misura ha una durata infinita, perchè ΔE = 0 solo se Δt → ∞. Questo spiega perchè uno spettro a righe non è mai formato da righe di spessore nullo, ma tutte presentano quello che si chiama un allargamento ΔE. Secondo Max Planck la frequenza f è direttamente proporzionale all'energia E, e quindi la larghezza di una riga spettrale è inversamente proporzionale alla durata della transizione quantica tra due livelli energetici dell'atomo che la ha prodotta. Sia data ad esempio una riga spettrale dell'atomo d'idrogeno larga 1,5 x 107 Hz. L'incertezza sull'energia della transizione è pari a:

e per la (5.4) la transizione ha una durata massima di:

Ora, Einstein com'è noto era un pessimo sperimentatore, però era abilissimo nell'ideare esperienze mentali, come quella di Heisenberg che abbiamo visto sopra: esse non possono essere realizzate in pratica, ma aiutano ad esporre determinati punti di vista. E di punti di vista da esporre, Einstein ne aveva a iosa. Orbene, al sesto Congresso Solvay del 1930, il buon vecchio Albert asserì di poter proporre un esperimento mentale in grado di distruggere la credibilità del Principio di Heisenberg. Il dispositivo immaginato da Einstein è quello qui sotto, disegnato da George Gamow con le sue mani (lo scienziato russo amava illustrare lui stesso i propri libri):

Si tratta di una scatola tutta rivestita internamente di specchi, in grado di intrappolare la radiazione, sospesa ad un dinamometro. All'interno vi è un orologio connesso con un otturatore, che si apre e si chiude ad istanti predeterminati. Siccome questi specchi si trovano all'interno della scatola, il suo interno è del tutto isolato dal mondo esterno; io la riempio di radiazione, poi la peso mediante il dinamometro. La pesata può essere eseguita con tutta la precisione voluta, pur di avere a disposizione un tempo sufficiente, anche se ci volessero dei secoli; infatti, lo sperimentatore ideale che esegue un esperimento ideale è anche dotato di una pazienza ideale! Quando la sveglia suona, l'otturatore si apre e lascia che parte della radiazione fuoriesca. Subito dopo l'otturatore si richiude, e la pesata viene ripetuta. La differenza fra le due pesate fornisce, se moltiplicata per c2, la quantità esatta E di energia emessa, per cui l'incertezza ΔE è pari a zero! D'altro canto, la sveglia ideale funziona in modo perfetto, per cui non vi è alcuna incertezza fisica sul momento nel quale l'otturatore si apre e l'energia viene emessa. Ho così anche Δt = 0, per cui la relazione di indeterminazione (5.4) è stata distrutta.

Il ragionamento non fa una grinza, ed effettivamente tutti al congresso rimasero impressionati. Bohr allora trascorse una nottata insonne, ma il giorno dopo si presentò trionfante con la soluzione del paradosso. Secondo Bohr, infatti, per riuscire a "pesare" la scatola bisogna permetterle di muoversi in direzione verticale, cioè su e giù nel campo gravitazionale terrestre. Ma la Relatività Generale elaborata proprio da Einstein ci dice che, se l'orologio funziona per mezzo di oscillazioni elettromagnetiche, la sua frequenza varia a causa dell'attrazione gravitazionale terrestre. Dopo aver colmato il dislivello Δz, la frequenza f di tali oscillazioni è diventata:

dove g è l'accelerazione di gravità. La variazione di frequenza dell'orologio è dunque pari a:

e quindi, quando la bilancia sale per aver perso l'energia ΔE, l'orologio anticipa come minimo di:

Allora si può scrivere:

dove Δm è la variazione di massa della scatola a causa della perdita della radiazione. Ma, se f è la frequenza della radiazione perduta, si ha:

Ho così:

E poiché ( g Δm Δz ) è la variazione di energia totale della scatola che si muove nel campo gravitazionale di un dislivello Δz, la precedente si riscrive:

che è precisamente un'approssimazione della (5.4). Bohr smantellò dunque le obiezioni di Einstein facendo ricorso alle conclusioni della teoria dello stesso Einstein, e confermò una volta per tutte la validità del Principio di Indeterminazione.

Einstein e Bohr fotografati insieme al Congresso Solvay del 1930

Einstein e Bohr fotografati insieme al Congresso Solvay del 1930

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5.5  Lo "Spirito di Copenaghen"

Dobbiamo però ancora risolvere un grosso problema: che cos'è mai, la funzione d'onda associata ad una particella quantistica? De Broglie rispose che è l'onda in grado di "guidare" l'onda lungo il suo percorso, definizione questa in verità un po' "mistica". Schrödinger sostenne invece che si tratta veramente della distribuzione della particella nello spazio, come se essa si "sciogliesse" per ricomporsi solo quando le circostanze lo richiedono, un po' come Flint Marko, alias l'Uomo Sabbia, uno dei più celebri antagonisti dell'Uomo Ragno, il quale era in grado di scomporre il suo corpo in sabbia e ricomporlo a piacimento! È evidente che nessuna di queste spiegazioni è soddisfacente. Conscio di questo problema, fu ancora Niels Bohr, uno dei "grandi vecchi" della Meccanica Quantistica, autore della teoria quantistica dell'atomo d'idrogeno, a formulare nel 1928 un tentativo di escamotage per uscire da questo vicolo cieco. Suo è infatti il cosiddetto:

PRINCIPIO DI COMPLEMENTARIETÀ: Se un esperimento permette di osservare un aspetto del fenomeno fisico (ad esempio l'aspetto corpuscolare), esso impedisce altresì di osservare al tempo stesso l'aspetto complementare (ad esempio l'aspetto ondulatorio) dello stesso fenomeno.

In altre parole, se un fenomeno presenta in un certo esperimento l'aspetto corpuscolare, non è possibile osservare nello stesso esperimento anche effetti ondulatori, e viceversa. Quindi il fenomeno si presenta o come corpuscolo e basta, o come onda e basta. Tale principio sancisce l'irrinunciabilità del dualismo e, al tempo stesso, assicura che le particelle subatomiche NON sono al tempo stesso un "pasticcio", un "mix" di onde e corpuscoli: la realtà intrinseca dell'onda e della particella così sono salve. Proprio ispirandosi al suo Principio di Complementarietà, quando nel 1947 il danese Niels Bohr fu insignito dal Re di Danimarca Federico IX dell'Ordine dell'Elefante, una delle più alte onorificenze danesi, di solito attribuito solo a capi di stato e di governo, egli scelse lo stemma che vedete qui sotto a destra, contenente il duplice simbolo del Taijitu (太極圖), l'unione dello Yin (陰) nero e dello Yang (陽) bianco, caratteristici degli insegnamenti del filosofo cinese Lao Tse (老子, "Maestro Venerabile"), vissuto probabilmente nel VI secolo a.C. Ispirati dall'osservazione del giorno che si tramuta in notte e della notte che si tramuta in giorno, essi rappresentano gli opposti tra di loro complementari: l'oscurità è Yin, la luce è Yang; la terra è Yin, il cielo è Yang; il freddo è Yin, il caldo è Yang; il nord è Yin, il sud è Yang; la sfortuna è Yin, la fortuna è Yang; e così via. Questa concezione è alla base del Taoismo e Confucianesimo, ed è una delle linee guida della medicina tradizionale cinese, di molte arti marziali cinesi e della divinazione I Ching. Il Taijitu è visibile anche nella bandiera della Corea del Sud. Bohr (che vediamo qui sotto a sinistra ritratto da George Gamow) non poteva trovare rappresentazione grafica migliore del dualismo onda-particella tipico dei fenomeni microscopici. In quell'occasione, Bohr scelse come motto la frase latina « Contraria sunt complementa », che è la perfetta descrizione del Taijitu.

Fin da subito, però, la soluzione ipotizzata da Bohr non sembrò soddisfacente. Heisenberg, che pure (come abbiamo visto) seguiva la stessa corrente di pensiero di Bohr, affermò che « tale concetto aveva solo una vaga connessione con la realtà », mentre Schrödinger, che della scuola di Copenaghen era fiero oppositore, definì il concetto di complementarietà una « evasione » che « finisce per ammettere il fatto che noi abbiamo due teorie, due immagini della materia che non si accordano, cosicché talvolta dobbiamo far uso dell'uno, talvolta dell'altro... »

L'idea giusta per risolvere brillantemente il problema della complementarietà ed uniformare la visione corpuscolare e quella ondulatoria venne a Max Born (1882-1970), professore di Göttingen che aveva già collaborato con Heisenberg per elaborare la Meccanica delle Matrici. Egli ragionò nel modo che segue. Ripetiamo l'esperienza di Davisson e Germer usando non un fascio di elettroni, ma un elettrone singolo. Al di là della fenditura allora non osserveremo una figura di diffrazione, come sarebbe stato se avesse avuto ragione Schrödinger circa la natura puramente ondulatoria dell'elettrone, bensì una singola traccia. Essa però non compare esattamente al di là della fenditura, bensì in un punto qualsiasi. Se ripeto l'esperienza con un secondo elettrone, trovo ancora una traccia singola, ma in un punto diverso dal primo. Un terzo elettrone dà una traccia ancora diversa, e così via. In tal modo, non ha senso parlare di "dualismo" o di "complementarietà", perchè l'elettrone particella è e particella rimane. Il suo comportamento insolito deriva unicamente dal fatto che esso NON si comporta come una particella classica, che intercetterebbe lo schermo sempre nella stessa posizione, ma evidenzia un comportamento casuale, nel senso che noi NON possiamo sapere in anticipo dove l'elettrone colpirà lo schermo!

Questo concetto è veramente esplosivo perchè, fino all'avvento della Meccanica Quantistica, la Fisica era stata dominata da una logica fortemente deterministica: ogni evento è sempre connesso a una causa che lo provoca, a cui posso risalire in modo univoco e incontrovertibile. Questa visione della Fisica è nota con il nome di meccanicismo: a partire da certe condizioni iniziali, un sistema può evolvere in un modo e in uno solo. È vero che la Termodinamica ha introdotto nella Fisica il concetto di Statistica, ma solo perchè essa si occupa di sistemi costituiti da un numero molto grande di particelle, e quindi è impossibile andare a valutare tutte le condizioni iniziali di posizione e velocità delle singole particelle. Se però io riuscissi a misurare 1023 posizioni iniziali e 1023 velocità iniziali, e poi a risolvere un sistema di 1023 equazioni in 1023 incognite, potrei ottenere con precisione l'evoluzione nel tempo di ogni particella del sistema. Invece, nell'interpretazione data da Born della Meccanica Quantistica, il concetto di probabilità è connaturato nel comportamento stesso dei suoi protagonisti: essi NON possono seguire orbite e traiettorie determinate e determinabili, ma solo casuali, regolate interamente del calcolo probabilistico. Secondo Einstein, la Fisica avrebbe dovuto « rappresentare una realtà nel tempo e nello spazio ». Born invece era di diverso avviso: per lui, anche la probabilità è una realtà fisica. Noi medesimi abbiamo una certa probabilità di sopravvivere fino ad una certa età, e un'altra di non farcela!

Era logico che concetti così rivoluzionari avrebbero diviso il mondo dei fisici, e non è certo un caso se si parlò di Kopenaghener Geist ("Spirito di Copenaghen"), dal nome della città in cui Bohr insegnava, per indicare quel vento di rinnovamento che scosse le fondamenta della Fisica negli anni '30 del secolo scorso, sconvolgendo i principali concetti sui quali si basava, a partire da quello di "oggetto fisico".

Doodle di Google pubblicato l'11 dicembre 2017 per il 135° anniversario della nascita di Max Born

Doodle di Google pubblicato l'11 dicembre 2017 per il 135° anniversario della nascita di Max Born

Secondo quella che oggi chiamiamo l'interpretazione di Copenaghen, Born propose di ripetere milioni di volte l'esperimento ideale appena descritto, mandando verso la fenditura non un singolo elettrone, bensì un elettrone per volta un miliardo di volte. Quanto segue richiede la conoscenza dei principali concetti dell'Analisi Matematica, per cui chi non li sa maneggiare può passare subito al paragrafo successivo. Suddividiamo lo schermo, supposto monodimensionale, in una matrice di rivelatori di ampiezza Δx. Ogni rivelatore, dopo un tempo abbastanza lungo, segnalerà l'arrivo di un numero N(xi) di particelle, dove xi è la posizione dell'i-esimo rivelatore (i = 1, 2, 3, ..., N). Tabulando N(xi) in funzione di xi, come in figura, si trova un grafico che... coincide con una figura di diffrazione! Il risultato che si ottiene è dunque lo stesso che se io mandassi gli elettroni contro la fenditura tutti assieme!

È insomma il comportamento casuale del corpuscolo a giustificarne l'aspetto ondulatorio: la figura di diffrazione è in realtà una distribuzione di probabilità! Born ebbe l'idea di introdurre la probabilità p(xi) che l'elettrone sia catturato dall'i-esimo rivelatore, come limite della frequenza di rilevazione per un numero infinito di elettroni:

          (5.5)

Abbiamo visto che l'intensità dell'onda è proporzionale al modulo quadrato della funzione d'onda; ma tale intensità, per quanto detto prima, è proporzionale al numero di elettroni che colpiscono il rivelatore e, quindi, alla probabilità di trovare l'elettrone in un determinato punto di esso. Ne segue che il modulo quadrato della funzione d'onda è legato alla probabilità di trovare l'elettrone in ogni punto:

          (5.6)

C'è però un problema da risolvere per avallare questa interpretazione. Infatti, il concetto di probabilità ha senso solo se la variabile x è discreta, perchè la (5.5) prevede di poter contare il numero di elettroni captati dall'i-esimo rivelatore di larghezza Δxi. Se la x varia con continuità, come prevede la definizione matematica di Ψ (x, t), avrei Δxi → 0, ed allora le cellette del rivelatore si ridurrebbero a punti (risoluzione infinita), capterebbero zero elettroni ciascuno, e in definitiva la probabilità sarebbe nulla.

Per uscire da questo vicolo cieco si introduce il concetto di densità di probabilità. Supponiamo di dividere lo schermo in un numero infinito di celle infinitesime di spessore dx; allora la probabilità che l'elettrone vada a cadere proprio tra x e x + dx è infinitesima anch'essa, e la chiameremo dp(x). La (5.5) ci dice che essa è proporzionale a | Ψ (x, t) |2, con t fissato; ma, siccome questo modulo quadrato è finito, il coefficiente di proporzionalità deve essere infinitesimo. L'idea che ci viene è quella di scrivere:

          (5.7)

da cui:

Il modulo quadrato della funzione d'onda è dunque identificabile con la variazione puntuale di probabilità, esattamente come la variazione puntuale della massa è chiamata densità di massa. Il modulo quadrato della funzione d'onda rappresenta dunque una grandezza probabilistica: per questo, distribuzione di probabilità e figura di diffrazione vengono a coincidere.

Questo implica che non tutte le funzioni possono essere interpretate come funzioni d'onda, perchè essa deve essere normalizzata. Si sa che, se getto un dado, ho una probabilità su sei di sortire una qualunque delle facce, ma la somma di tutte queste probabilità deve essere pari ad uno, perchè sicuramente dopo ogni lancio una delle sei facce sarà sortita. Analogamente, se p(xi) è la probabilità che l'elettrone sia individuato nell'i-esima cella del rilevatore, si avrà:

Se la variabile è continua, p(x) è infinitesima e la sommatoria si tramuta in un integrale:

e per la (5.7):

L’esperimento suggerito a Max Born fu effettivamente eseguito per la prima volta nel 1974 a Bologna dai fisici bolognesi Pier Giorgio Merli, Gianfranco Missiroli e Giulio Pozzi, inviando un elettrone per volta sulla lastra fotografica. Nonostante i risultati di tale esperimento fossero stati pubblicati e nonostante fosse stato anche realizzato un documentario in proposito, questi risultati furono pressochéignorati, tant’è vero che quando nel 1989 il giapponese Akira Tonomura (1942-2012) e i suoi collaboratori dell'Hitachi Central Research Laboratory ripeterono l’esperimento, la si considerò erroneamente la prima esecuzione di esso, da cui il nome di "esperimento di Tonomura" dato ad esso. Qui sotto si vedono i risultati di tale esperimento: gli elettroni attraversano ad uno ad uno la fenditura e impressionano una lastra. Si vede chiaramente il formarsi progressivo di bande luminose e di bande scure mano a mano che gli elettroni colpiscono la lastra! Le quattro immagini corrispondono alla traccia sulla lastra di (b) 100, (c) 3.000, (d) 20.000 e (e) 70.000 elettroni.

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5.6  Dall'orbita all'orbitale

Il fatto che la funzione d'onda, anziché di realtà materiale, abbia un significato di tipo probabilistico, ha esplosive conseguenze circa il significato di "oggetto fisico". Infatti, nella Meccanica Classica ogni oggetto possiede una velocità e una posizione chiaramente definite, e quindi segue una traiettoria nel senso euclideo della parola. L'introduzione delle proprietà probabilistiche nel mondo fisico e la formulazione del Principio di Indeterminazione ci costringono ad abbandonare tale visione: le vere proprietà possedute dagli oggetti sono delle grandezze chiamate osservabili, le uniche che possono essere oggetto di operazioni di misura, reale o ideale che essa sia.

Ad esempio, non è possibile identificare in alcun modo la propagazione rettilinea di un'onda elettromagnetica mediante alcun osservabile; io posso stabilire con precisione l'istante in cui il raggio luminoso è emesso, e quello in cui è assorbito da un atomo, ma è materialmente impossibile osservare il fotone mentre si propaga "in linea retta", come asserivano Newton e Maxwell. Per osservarlo, infatti, dovrei interagire con esso, cioè assorbirlo, ma così lo distruggerei o lo devierei dalla sua traiettoria mediante urti Compton. Quando noi osserviamo il sottile fascio di luce che penetra attraverso le righe di una tapparella in una stanza oscura, noi vediamo in realtà dei fenomeni di diffrazione dovuti al pulviscolo atmosferico diffuso nell'aria della stanza, cioè quella frazione di fotoni del fascio che vengono deviati verso il nostro occhio, e ci permettono di caratterizzare il fascio luminoso e la sua propagazione rettilinea, benché essi non si muovano più in linea retta. Il concetto di propagazione rettilinea rappresenta dunque un modello e null'altro, che non è in alcun modo estrapolabile dal mondo macroscopico a quello microscopico.

Infatti, nel mondo microscopico l'interazione tra lo strumento di misura e la realtà fisica implica una distribuzione di valori di ogni grandezza fisica, anziché un unico valore preciso, ed ognuno dei valori ottenuti ha una certa probabilità di essere assunto. L'incertezza sulla misura non può essere ridotta sotto un certo valore, imposto dal Principio di Indeterminazione. Però è pensabile di poter misurare il valor medio di questa distribuzione. Se infatti la variabile x è discreta, il valor medio di x si ottiene "pesandone" tutti i valori con la probabilità che ciascuno di essi sia assunto:

Se invece la variabile x è continua, allora N va all'infinito, la probabilità p è infinitesima e anche in questo caso si deve necessariamente passare da una sommatoria ad un integrale:

Allora è possibile dare un'interpretazione probabilistica anche del Δx che compare nelle differenze fra tutti i possibili valori di x e il valor medio < x > ora calcolato, cioè:

Ma < x > è indipendente da x, essendosi già fatta la media di questa variabile, per cui:

dunque l'espressione < x – < x > > è sempre nulla. Allora, per definire Δx si usa il cosiddetto scarto quadratico medio:

È possibile dimostrare che questo risultato NON è nullo. Allora, mediante la Meccanica delle Matrici e degli Operatori, si può verificare che la "vera" veste del Principio di Indeterminazione è:

che si può riscrivere:

e questa è proprio la (5.3) scritta lungo la direzione x!

Ma, in definitiva, quando si parla di "onda di materia", cos'è che oscilla? L'oscillazione sulla superficie del mare descrive il moto su e giù delle molecole d'acqua su tale superficie, ma che cosa oscilla nel caso dell'onda di materia? Esse sono ben diverse dalle onde elettromagnetiche connesse ai fotoni, che di massa (dinamica) sono provvisti eccome, se non altro perchè sono prive di massa: George Gamow diceva che « teoricamente si può comprare al mercato un chilo di luce rossa, ma non si può trovare al mondo un chilo di onde di de Broglie »! Non si tratta cioè di realtà materiali come le intendiamo noi, ma piuttosto rappresentano l'equivalente quantistico delle traiettorie della Fisica Classica. In questo senso "guidano" il moto delle particelle quantistiche, come le traiettorie lineari guidano quelle delle particelle classiche. Però le traiettorie classiche NON sono delle "rotaie" su cui i corpi devono muoversi, ma solo una descrizione geometrica del moto stesso. Analogamente, allora, la funzione Ψ (x, t) non può essere assimilata ad un campo di forze che obbliga la particella a seguire una certa traiettoria anziché un'altra; piuttosto, esse sono solo una descrizione statistica del moto quantistico, nel senso che Ψ (x, t) fornisce, punto per punto ed istante per istante, la probabilità di trovare la particella quantistica. Il concetto di traiettoria come la conosciamo perde di senso, sostituita dalla regione di spazio dove è più probabile trovare il corpuscolo.

Anche l'elettrone dell'atomo, allora, non seguirà un'orbita nel senso classico della parola, come i pianeti attorno al Sole, bensì si troverà in una certa regione di spazio dove sarà più probabile individuarlo. E questo è il vero senso della parola orbitale, al quale si è già accennato. Questo nuovo modo di ragionare ha avuto conseguenze dirompenti sul modo in cui noi percepiamo il mondo che ci circonda e la stessa indagine scientifica dell'universo, e qualcuno ha subito cominciato a scherzarci su, come si vede nella vignetta sottostante:

Utilizzando |Ψ (x, t)|2, cioè il modulo quadrato della funzione d'onda, è possibile trovare il valore delle grandezze fisiche che noi ci aspettiamo di misurare, detto comunemente valore di aspettazione. Il valore di aspettazione della generica grandezza G è dato dal seguente integrale:

Con dP(G) ricavabile da |Ψ (x, t)|2. Ne segue che la funzione d'onda contiene tutta l'informazione sul moto della particella quantistica e sulle grandezze che la caratterizzano. Siccome gli osservabili sono i valori medi delle distribuzioni di probabilità, e noi conosciamo solo questi, è evidente che tutto ciò che ci occorre conoscere è racchiuso nella funzione d'onda, ed è per questo che è così importante saperla ricavare!

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5.7  Il gatto nella scatola

Chi ha a disposizione conoscenze avanzate di Analisi Matematica vedrà nel prossimo capitolo che, come tutti i corpi in moto secondo la Fisica Classica obbediscono al Secondo Principio della Dinamica F = m a, così tutte le funzioni d'onda quantistiche Ψ (x, t) obbediscono a una particolare equazione chiamata equazione di Schrödinger, dal nome del suo scopritore. Ora, siccome tale equazione è lineare, ne consegue che la funzione d'onda gode anche di un'altra proprietà, che può essere espresso con la formula seguente:

PRINCIPIO DI SOVRAPPOSIZIONE: Se un certo sistema quantistico può trovarsi in due possibili stati, descritti rispettivamente da due funzioni d'onda ΨA e ΨB, allora esso può trovarsi anche in uno stato descritto da una combinazione lineare delle due funzioni d'onda:

dove a e b sono due numeri reali qualunque. In termini matematici il principio di sovrapposizione ci dice che tutti i possibili stati di un sistema quantistico formano uno spazio vettoriale lineare.

Anche questo principio ha conseguenze esplosive. Per capire in che senso, consideriamo un sistema costituito da un elettrone emesso da una sorgente di luce, da uno schermo opaco in cui sono presenti due fenditure A e B e da un rivelatore posto al di là dello schermo. Un elettrone che giunge sul rivelatore può essere descritto da due funzioni d'onda: ΨA descrive l'elettrone che è passato dalla fenditura A, mentre ΨB descrive quello che è passato dalla fenditura B. Entrambe queste situazioni, cioè questi due stati quantici, sono ben definite anche dal punto di vista della Fisica Classica, e persino della nostra esperienza quotidiana. Ma cosa significa dire, in termini di Meccanica Quantistica, che lo stato dell'elettrone è descritto dalla funzione d'onda ΨA + ΨB? Come può essere passato per entrambe le fenditure? Oppure, che senso ha dire che l'elettrone è passato in parte attraverso la prima e in parte attraverso la seconda fenditura?

La soluzione giusta naturalmente è quella fornita da Max Born. Egli suggerì di porre due rivelatori RA e RB davanti a ciascuna delle due fenditure. Scopriremo così che a volte un elettrone è rivelato da RA, e quindi è passato da A, e a volte invece è rivelato da RB, e quindi è passato da B; mai due elettroni sono rivelati contemporaneamente. Lasciando passare abbastanza tempo, questo esperimento finirà per dirci che, su N elettroni che attraversano lo schermo, NA passano per la fenditura A e NB = N NA passano attraverso la B. Il risultato di ogni singola misurazione non è in alcun modo prevedibile a priori, e si possono conoscere solo le due probabilità che l'elettrone passi rispettivamente attraverso la prima o la seconda fenditura:

Utilizzando la Meccanica Quantistica è possibile calcolare tali probabilità attraverso i coefficienti a e b:

Quando si esegue questo tipo di osservazione, l'elettrone è certamente passato per una fenditura determinata, e quindi non è più descritto dallo stato ΨA + ΨB ma da uno dei due stati ΨA e ΨB, a seconda della fenditura da cui è passato. Ora, secondo l'interpretazione di Copenaghen, si dice che l'atto di compiere una misura (nel nostro caso il segnale avvertito da uno dei due rilevatori RA o RB) fa « collassare » la funzione d'onda dallo stato di sovrapposizione a uno dei due stati di partenza. I coefficienti numerici che compaiono nella combinazione lineare delle due funzioni d'onda determinano le probabilità dei diversi eventi, e quindi del fatto che la funzione d'onda collassi nello stato A piuttosto che nello stato B.

Ad esempio, immaginiamo che un milione di elettroni venga inviato verso uno schermo nel quale sono aperte due fenditure A e B; gli elettroni sono inviati uno alla volta. Ogni elettrone è descritto dalla funzione d'onda:

Allora le probabilità che gli elettroni passino attraverso le due fenditure sono rispettivamente pari a:

e quindi possiamo stimare che 0,265 x 1.000.000 = 265.000 elettroni passeranno attraverso la fenditura A e 0,735 x 1.000.000 = 735.000 attraverso la fenditura B.

Chiediamoci ora quanto devono valere i coefficienti a e b affinché le probabilità di entrambi gli stati siano pari esattamente al 50 %. Deve risultare:

Il sistema fornisce facilmente a = ± b, quindi basta che i due coefficienti siano uguali in modulo affinché le probabilità si distribuiscano equamente fra i due stati!

A questo proposito vorrei citare una scoperta molto recente, annunciata nel maggio 2018, secondo la quale il Principio di Sovrapposizione avrebbe un ruolo cruciale nel fenomeno della fotosintesi clorofilliana. Tale scoperta la dobbiamo a Thomas la Cour Jansen (1974-) e colleghi dell'Università di Groningen, nei Paesi Bassi. Questo risultato ha messo fine a un annoso dibattito sul coinvolgimento della Meccanica Quantistica nei processi biologici, e potrebbe fornire utili indicazioni per realizzare dispositivi che sfruttano la luce per produrre energia. Gli scienziati si sono concentrati sulla reazione fotosintetica che avviene nei batteri della famiglia Chlorobiaceae, e in particolare sul complesso Fenna-Matthews-Olson (FMO). Questa proteina media il trasferimento di energia dai clorosomi, strutture proteiche legate alla membrana cellulare batterica deputate alla raccolta della luce, al centro di reazione fotosintetico, dove avviene effettivamente la fotosintesi grazie all'azione di altri complessi formati da diverse proteine. L'interesse per il complesso Fenna-Matthews-Olson è dovuto alla sua relativa semplicità strutturale, che ne facilità l'analisi. I biologi hanno scoperto che in questo complesso l'incidenza di un fotone può eccitare gli stati elettronici di due molecole contemporaneamente. Questo stato di eccitazione elettronica misto è l'esito della combinazione di stati quantistici di elettroni diversi, proprio come afferma il Principio di Sovrapposizione: il sistema dei due elettroni, complessivamente, si può descrivere solo considerando una probabilità di eccitazione del primo elettrone combinata con una probabilità di eccitazione del secondo elettrone. L'eccitazione complessiva dei due elettroni dura poco più di un picosecondo (10–12 secondi). Jansen e colleghi hanno centrato il loro obiettivo usando una tecnica di microscopia elettronica su un complesso di Fenna-Matthews-Olson tenuto a 77 kelvin (– 196°C): nel caso di sovrapposizione elettronica, la spettroscopia doveva mostrare uno specifico segnale oscillante, ed è proprio quello che è stato osservato; gli effetti quantistici sono durati proprio quanto previsto dalla teoria e, dunque sono riconducibili all'energia sovrapposta di due molecole contemporaneamente. Jansen ha concluso che i sistemi biologici mostrano gli stessi effetti quantistici dei sistemi non biologici. I risultati ottenuti potrebbero giocare un ruolo importante nello sviluppo di nuovi dispositivi tecnologici per lo stoccaggio dell'energia solare o per lo sviluppo di computer quantistici.

Rappresentazione artistica di un disco protoplanetario attorno a una giovane stella (credits: Gemini Observatory/AURA /Lynette Cook)

Rappresentazione artistica di un disco protoplanetario attorno a una
giovane stella (credits: Gemini Observatory/AURA /Lynette Cook)

E non è tutto. Avrebbe senso applicare la Meccanica Quantistica di Schrödinger, Heisenberg e Dirac al mondo macroscopico o addirittura al moto dei corpi celesti? La maggior parte di voi risponderebbe probabilmente di no, ma Konstantin Batygin (1986-) e colleghi del California Institute of Technology hanno usato proprio l'equazione di Schrödinger per risolvere proprio un problema astrofisico: l'evoluzione su tempi molto lunghi delle strutture astronomiche. Infatti le grandi masse dell'universo (stelle, galassie e ammassi di galassie) sono spesso circondate da gruppi di oggetti più piccoli che orbitano attorno a loro, come i pianeti attorno al Sole. Per esempio, attorno ai buchi neri supermassicci si osservano sciami di stelle. Attorno a queste stelle, enormi quantità di roccia, ghiaccio e altri detriti spaziali. Per effetto delle interazioni gravitazionali, spesso questi enormi volumi di materia formano strutture a forma di disco, piatte e circolari. I dischi, costituiti da moltissime particelle, possono variare dalle dimensioni del sistema solare fino ad arrivare a un diametro di molti anni luce. Queste forme circolari, tuttavia, non sono eterne. Nel lungo passato dell'universo, nell'arco di milioni di anni, si sono evoluti lentamente fino a produrre distorsioni su larga scala, un po' come increspature sulla superficie dell'acqua di uno stagno. Ma come emergono e si propagano queste distorsioni? La risposta finora è sfuggita anche alle più avanzate tecniche di modellizzazione al computer, che invece hanno avuto successo nel riprodurre molti altri aspetti del comportamento dinamico delle galassie e di altre strutture del cosmo. Batygin invece ha applicato all'evoluzione dei dischi di materia una tecnica molto usata in fisica, chiamata teoria perturbativa. Spesso i sistemi fisici sono troppo complessi per poterli descrivere alle quadrature con equazioni matematiche, e così si preferisce cercare una soluzione approssimata delle equazioni, nell'ipotesi che il sistema reale studiato non si discosti molto da un sistema noto, descritto da equazioni semplici. Ebbene, l'impiego di questa approssimazione in un modello per l'evoluzione di un disco di materia cosmica ha avuto risultati inaspettati. Pensando a un disco formato da frammenti sempre più piccoli si arriva quasi a una struttura continua, ed è da questi calcoli che, sorprendentemente, emerge l'equazione di Schrödinger. Il lavoro di Batygin indica che le increspature su larga scala nei dischi astrofisici si comportano in modo simile alle particelle; inoltre, lo studio mostra che la propagazione delle increspature all'interno del materiale del disco può essere descritta dalla stessa matematica usata per descrivere il comportamento di una singola particella quantistica che rimbalza avanti e indietro tra i bordi interno ed esterno del disco. In un certo senso, le onde che rappresentano le distorsioni e le asperità dei dischi astrofisici non sono troppo diverse dalle onde di una corda che vibra, che a loro volta non sono troppo diverse dal movimento di una particella quantistica in una scatola. Una simile analogia appare incredibile, ma anche sensazionale, e potrebbe aprire nuove strade all'astrofisica degli anni Duemila.

A questo punto, non possiamo evitare di parlare di uno dei cavalli di battaglia dei professori che spiegano la Meccanica Quantistica ai loro studenti: sono sicuro che risulterà interessante anche per voi. Per mettere in evidenza le difficoltà concettuali legate all'interpretazione di Copenhagen, nel 1935 Erwin Schrödinger propose un nuovo gedankenexperiment, uno dei più famosi della storia della Fisica del Novecento, a pari merito con il paradosso dei gemelli formulato da Albert Einstein; proprio tale paradosso ha dato il titolo a questo ipertesto. Supponiamo di porre un gatto dentro una scatola isolata dall'esterno; contro di esso è puntata una pistola, e la pistola è azionata dal decadimento di un nucleo radioattivo. Siccome il decadimento di un nucleo radioattivo è soggetto alle leggi quantistiche (vedi in proposito un altro dei miei ipertesti), nel corso di un certo periodo di tempo, diciamo un'ora, il nucleo ha esattamente una probabilità del 50 % di decadere e una del 50 % di non decadere.

Secondo la Fisica Classica, indipendentemente dall'osservatore, il gatto è vivo per una certa parte di quell'ora, fino a che il nucleo non è decaduto, e morto per il resto del tempo. Invece, dal punto di vista della Meccanica Quantistica, siccome i due stati "gatto vivo" e "gatto morto" sono entrambe descrizioni accettabili del sistema quantistico rappresentato dal gatto nella scatola, in base al principio di sovrapposizione è una descrizione accettabile anche quella rappresentata da una combinazione lineare di "gatto vivo" e "gatto morto". In altre parole, finché il Fisico non apre la scatola, all'interno di essa il gatto è... al 50 % vivo, e al 50 % morto!

Evidentemente, con il suo paradosso noto a tutti con il nome di gatto di Schrödinger, l'omonimo scienziato intendeva sottolineare l'assurdità di assegnare delle probabilità ai possibili esiti di un esperimento, mentre ogni esperimento ha, in effetti, uno ed un solo risultato reale. In altre parole, una indeterminazione a livello microscopico, cioè la sovrapposizione di due stati di un nucleo, genera conseguenze paradossali quando è trasferita al livello macroscopico, nel nostro caso al povero gatto. Tale assurdità ha fatto sorgere numerose parodie ed ironie, come mostrano le divertenti immagini sottostanti:

    

Tuttavia, il vero paradosso della scatola con il gatto dentro è un altro. Infatti, i due stati quantistici"gatto vivo" e "gatto morto" sono sovrapposti fino al momento in cui il nostro Fisico esegue l'osservazione. Appena però egli apre la scatola e ci guarda dentro, egli vede il gatto "tutto vivo" o "tutto morto", e quindi lo stato quantistico di sovrapposizione "collassa" su uno dei due stati di partenza. Di conseguenza non è il nucleo che decade, bensì l'osservatore, a stabilire così il destino del gatto, perchè solo quando egli interagisce con il sistema, quest'ultimo è "obbligato" a "scegliere" fra le due possibili configurazioni: solo in quel momento, uno dei due possibili stati del sistema diventa reale. Si tratta di una visione molto vicina all'« esse est percipi » (« essere significa venire percepiti ») del vescovo anglicano George Berkeley (1685-1753), uno dei fondatori dell'empirismo.

Con il suo paradosso, dunque, Schrödinger mise in evidenza l'aspetto più controverso dell'interpretazione di Copenhagen, legato al ruolo centrale che in esso gioca l'osservatore: lo scienziato che effettua la misura diventa colui che obbliga la natura a scegliere. Come disse Edoardo Amaldi, « possiamo accettare che la mente dello sperimentatore abbia un ruolo privilegiato nell'universo? » Una via d'uscita soddisfacente da questo paradosso è quella della cosiddetta decoerenza dinamica, introdotta nel 1970 dal fisico tedesco Heinz-Dieter Zeh (1932-): sarebbero le continue interazioni del sistema quantistico con l'ambiente esterno che, fungendo da strumento di misura, distruggerebbero la sovrapposizione dei due stati. E ciò accadrebbe tanto più rapidamente quanto più esteso è il sistema. Per questo, sebbene chiuso nella scatola e non osservato dal di fuori, il gatto sarebbe ad ogni istante "tutto vivo" o "tutto morto", perchè l'aria e le superfici interne della scatola non smetterebbero mai di "osservarlo". Questa soluzione però non è accettata da tutti gli scienziati. Un'altra possibile interpretazione è la cosiddetta teoria del collasso spontaneo, detta anche teoria GRW dalle iniziali dei suoi fautori, gli italiani Gian Carlo Ghirardi (1935-), Alberto Rimini (1937-2017) e Tullio Weber. Nel 1985 essi proposero che il collasso della funzione d'onda sia naturale e avvenga spontaneamente nei sistemi quantistici, ma diventi significativo quando il sistema interagisce con un oggetto macroscopico. Una buona idea, indubbiamente, ma è necessaria l'invenzione di un nuovo meccanismo di collasso. Finché tale meccanismo non potrà essere verificato sperimentalmente, resta un'ipotesi misteriosa quanto il collasso indotto dall'osservatore nell'interpretazione di Copenaghen. Un'altra possibile soluzione al paradosso del gatto nella scatola è quella del bayesianismo quantistico o teoria QBism, ispirato alle ricerche del pastore presbiteriano inglese Thomas Bayes (1701-1761) e sviluppato nel 2001 da Carlton Morris Caves (1950-), Christopher Fuchs e Rüdiger Schack. Secondo il QBism, molti aspetti del formalismo quantistico sono di natura soggettiva. In altre parole, la funzione d'onda è solo uno strumento matematico utilizzato da un osservatore per associare il proprio grado di fiducia personale sui possibili risultati delle misurazioni. In quest'ottica la funzione d'onda non esiste, e si limita a riflettere lo stato mentale soggettivo di un individuo, mentre il gatto di Schrödinger è sempre inevitabilmente tutto vivo o tutto morto, e l'osservazione svela quale delle due descrizioni è vera. Questa visione del mondo ha conquistato vari seguaci negli anni recenti, ma alcuni filosofi della scienza lo hanno considerato una forma di anti-realismo (anche se Caves, Fuchs e Schack preferiscono parlare di "realismo partecipativo") e lo hanno respinto in blocco.

Doodle di Google pubblicato il 12 dicembre 2013 per il 126° anniversario della nascita di Erwin Schrödinger. interamente dedicato al suo celeberrimo gatto

Doodle di Google pubblicato il 12 dicembre 2013 per il 126° anniversario della
nascita di Erwin Schrödinger. interamente dedicato al suo celeberrimo gatto

Chiudiamo con un'ultima possibile interpretazione del paradosso del gatto di Schrödinger, la più intrigante di tutte: è la cosiddetta interpretazione a molti mondi, formulata nel 1957 dal fisico statunitense Hugh Everett III (1930-1982). Essa tenta di ridurre il ruolo dell'osservatore nella misura e di rimuovere il problema del collasso della funzione d'onda (che consiste nel prevedere secondo quale strategia una proprietà di un sistema si trova a caso in uno dei possibili risultati esattamente solo nel momento della misura). Per ottenere questo, considera sia l'osservatore che il sistema misurato insieme in uno stato, chiamato "universo" o "linea temporale", che evolve in modo deterministico senza alcuna scelta casuale dei risultati delle misure. Al momento dell'osservazione, in seguito all'interazione fra gli apparati sperimentali o fra i sensi dell'osservatore con il sistema misurato, l'universo si partenza si divide in numerosi universi, uno per ogni possibile risultato della misura, ciascuno dei quali poi evolve per conto suo, in maniera indipendente dagli altri. In questo modo nessun risultato casuale verrà prodotto dalla misurazione. Supponiamo che si lanci una moneta che può sortire uno dei due valori "testa" o "croce". Da quel momento in poi esisteranno due universi (o due linee temporali), uno in cui l'osservatore otterrà come risultato "testa" e un altro in cui invece otterrà "croce". La Meccanica Quantistica ci dice che l'osservazione è un processo che modifica sempre gli stati dei sistemi misurati, ma secondo Everett, al contrario dell'interpretazione di Copenaghen, i sistemi osservati e gli osservatori evolvono insieme secondo leggi deterministiche che stabiliscono come sono fatti i singoli universi. Nel nostro caso, come mostra efficacemente lo schema sottostante, l'esperimento mentale del gatto di Schrödinger non produce un gatto che è parzialmente vivo e parzialmente morto, diventando "tutto vivo" o "tutto morto" in seguito alla misteriosa interazione con un osservatore; produce invece una biforcazione del nostro universo. Nascono insomma due universi, uno nel quale il gatto è vivo, l'altro nel quale il gatto è morto, senza nessuna concessione alle leggi della probabilità.

Secondo l'interpretazione a molti mondi, l'universo si ramifica come un albero fino a dare vita un multiverso, cioè un'infinità di universi coesistenti fuori del nostro spaziotempo, chiamati anche universi paralleli, in cui ogni possibile esito si verifica da qualche parte. Il termine "multiverso" fu coniato nel 1895 dallo scrittore e psicologo americano William James (1842-1910) e ripreso dal grande Jorge Luis Borges (1899-1986), divenendo un classico della fantascienza: basti pensare all'"Universo dello Specchio" di Star Trek, o alla saga di "Ritorno al Futuro". Il multiverso emerge da molte altre teorie, specialmente dalla teoria delle superstringhe, da quella delle brane e dalla teoria dell'"inflazione caotica". Fin dalla sua prima formulazione, l'interpretazione a molti mondi ha incontrato reazioni molto diversificate da parte del mondo accademico. I principali difetti di questo approccio stanno nel fatto che esso non spiega quali "misurazioni" portano alla biforcazione e quali no, e soprattutto il concetto stesso di nascita di due o più universi a partire da uno solo, il che, a parte ciò che pretende dalla nostra immaginazione, sembra violare il principio di conservazione dell'energia. Questa teoria è però immensamente affascinante, e mi sembrava giusto metterla qui, a suggello di questo capitolo, nel quale abbiamo messo in dubbio così tante certezze che sembravano radicate nel pensiero intuitivo dell'uomo.

 

    

Il gatto di Schrödinger sulle copertine di due numeri de "Le Scienze" (febbraio 2000 e agosto 2013)

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Il capitolo successivo sarà dedicato ad alcune soluzioni rigorose dell'equazione di Schrödinger, per chi è interessato a questo argomento, e dunque è riservato a chi ha conoscenze avanzate di Analisi Matematica. Chi vuole accedere ad esso, clicchi qui; a chi non dispone di tali conoscenze, conviene piuttosto saltare direttamente al capitolo 7 cliccando qui. Per tornare all'indice, invece, il link è questo.

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