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Siamo così giunti quasi a chiudere il cerchio. Infatti, una stella di neutroni resta in equilibrio perché al proprio interno la materia si trova in uno "stato degenere", composto unicamente da neutroni, posti a distanza così piccola gli uni dagli altri, che gli effetti quantistici non risultano più trascurabili. In particolare, i neutroni non possono avvicinarsi ulteriormente tra di loro senza violare il principio di esclusione di Pauli, il quale afferma che, al massimo, solo DUE particelle come i neutroni (ma anche come gli elettroni e i protoni) possono occupare lo stesso livello di energia in un dato volume dello spazio e in un dato istante. Quando un gas di neutroni è compresso in un volume sufficientemente piccolo, tutti i possibili livelli di energia sono occupati, e quindi la pulsar risulta incomprimibile, riuscendo così a sostenere la propria contrazione gravitazionale.

C'è però un problema. Se la massa della stella supergigante era inizialmente ancora superiore alle dieci masse solari, gli ultimi attimi della sua vita risultano ancora più drammatici. Infatti la pressione gravitazionale dovuta al collasso astrale risulta  tanto elevata  da costringere i neutroni del nucleo a reagire tra di loro, formando particelle esotiche per le quali il principio di Pauli non vale più, e che possono per questo "impacchettarsi" fino a raggiungere densità inimmaginabili. Si parla allora di "collasso gravitazionale completo". Una  stella  che inizialmente risulta 30 volte più pesante del Sole, anche dopo aver "soffiato via" la maggior parte dei suoi strati esterni durante la trasformazione in supernova, conserva pur sempre un nucleo centrale di almeno cinque masse solari. Poiché una pulsar non può mantenersi stabile grazie al principio di esclusione al di sopra delle tre masse solari, il collasso continua; la velocità di fuga alla superficie aumenta sempre più rapidamente mentre il raggio si restringe, in base alla formula (2); i fotoni fanno sempre più fatica a sfuggire al  campo gravitazionale, e alla fine devono cedere le armi, spendendo tutta la propria energia nell'inutile lotta contro la risucchiante gravità che li incatena. Il minuscolo e furiosamente ardente  nocciolo della maestosa stella originaria si ritrae così  all'interno dell'orizzonte degli eventi, svanendo all'improvviso dalla  nostra vista per effetto della sua stessa gravità, e si taglia fuori per sempre da tutto il resto dell'universo. Ed ecco come nasce, per l' appunto, quello che noi abbiamo chiamato "buco nero".

Quando, nel 1930, questa teoria venne formulata per la prima volta  dal fisico indiano Subrahmanyan Chandrasekhar (1911-1995), come era prevedibile, essa fu rigettata da quasi tutti gli  studiosi dell'epoca. Secondo il nostro fisico, i nuclei stellari  superiori alle 1,44 masse solari (valore oggi noto come limite di Chandrasekhar) non avrebbero potuto assestarsi nello stadio finale di nane bianche, ma avrebbero dovuto proseguire la contrazione senza limi ti, fino a raggiungere raggio zero e densità infinita; cioè quella che oggi è appunto nota come SINGOLARITÀ. Subito, l'eminente fisico sir Arthur Eddington (1882-1944), che fu con Einstein uno  dei  fondatori della relatività, censurò pubblicamente quest'ipotesi,  sostenendo che « deve esserci una legge di natura per impedire ad una stella di comportarsi in modo così assurdo! » Egli definì  inoltre  l'orizzonte degli eventi come « il cerchio magico dentro il  quale nessuna misura ci può far entrare ».

Subrahmanyan Chandrasekhar

Fig. 15   Subrahmanyan Chandrasekhar

 

L'idea di una "legge di autoprotezione" che impedisca  alle  cose di comportarsi in modo contrario alle nostre convinzioni è una delle tentazioni che più hanno intrappolato, nel corso della storia, le menti dei geni; e lo stesso Einstein non ha fatto certo eccezione, con il suo rifiuto aprioristico della meccanica quantistica e del principio di indeterminazione di Heisenberg. Era logico aspettarsi che anche il pensiero dell'implosione totale di una stella sarebbe stato giudicato troppo inquietante dalla maggioranza dei fisici, per venire accettato a cuor leggero. Era più tranquillizzante  credere  che le stesse leggi della fisica (o Dio, se si preferisce)  sarebbero intervenute per proteggere i corpi celesti dall'orribile destino di diventare un buco nero, giacendo nascosto agli occhi di tutti in qualche angolo dell'universo, ad attendere che la Voyager gli caschi incautamente a tiro.

Per fortuna, però, a volte anche le dispute scientifiche (e non solo le telenovele) conoscono un lieto fine. A cinquant'anni di distanza dalla sua scoperta, Chandrasekhar condivise per le sue intuizioni, che ormai sono state verificate da molto tempo, il premio Nobel 1983 per la fisica con William Fowler. E probabilmente non è casuale il fatto che a battezzare i buchi neri con questo nome, attualmente da tutti accettato, sia stato nel 1967 lo scienziato americano John Archibald Wheeler (1911-2008), che in precedenza era stato un tenace oppositore della loro esistenza!

Clicca qui per vedere un'animazione dedicata alla nascita dei buchi neri

(da www.cnnitalia.it )

Che tutto questo non sia ipotesi, ma realtà, lo ha dimostrato un bagliore nella costellazione di Ercole, eccezionalmente brillante e in rapida diminuzione, rilevato il 17 giugno 2018 dai due telescopi gemelli dell’ATLAS survey, nelle Isole Hawaii. Così è apparso nel cielo l’oggetto denominato AT2018cow (o familiarmente "The Cow"), posto a 200 milioni di anni luce di distanza da noi. Secondo quanto appurato da Raffaella Margutti, ricercatrice della Northwestern University, probabilmente si tratta dell’esito finale del collasso di una stella dotata di massa più di 10 volte superiore a quella del Sole, giunta alla fine del suo ciclo di vita, che ha dato vita a un buco nero o ad una stella di neutroni. A questa conclusione, Margutti e colleghi sono arrivati dopo aver analizzato i dati ottenuti con osservazioni in diverse regioni dello spettro elettromagnetico: raggi X, raggi X “duri” (10 volte più energetici dei normali raggi X), onde radio e raggi gamma. Inizialmente gli astronomi pensavano che l’evento del 17 giugno 2018 fosse un’esplosione di supernova, ma lentamente sono emersi dettagli che hanno fatto cambiare loro idea. Il primo di questi dettagli è la luminosità, da 10 a 100 volte superiore a quella di una tipica supernova. Inoltre il bagliore è apparso e scomparso molto più velocemente di altre esplosioni stellari note: in soli 16 giorni (un battito di ciglia su scale temporali astronomiche) l'oggetto aveva già emesso la maggior parte della sua energia. Utilizzando telescopi sofisticati come quello dell’Osservatorio Keck, alle Isole Hawaii, e dell'Osservatorio MMT, in Arizona, oltre al SoAR, in Cile, Margutti e colleghi hanno dato uno sguardo più ravvicinato all'oggetto continuando a studiare l'anomalia molto tempo dopo che la sua luminosità iniziale era andata scemando, e ne hanno pure esaminato la composizione chimica, trovando chiare prove della presenza in esso di idrogeno ed elio. Ciò ha permesso di escludere i modelli di fusione di oggetti compatti, per esempio di due buchi neri, come quelli che producono onde gravitazionali. Nel cosmo le stelle possono collassare continuamente in buchi neri, ma la grande quantità di materiale presente intorno ai buchi neri appena nati blocca la vista agli astronomi. Fortunatamente, il materiale intorno a "The Cow" era circa 10 volte inferiore rispetto a quello di una tipica esplosione stellare, e ciò ha permesso di osservare direttamente l’oggetto centrale all’origine della radiazione. Infine, ha giocato un ruolo favorevole anche la relativa vicinanza della stella alla Terra. Questa sarebbe la prima nascita di un buco nero osservata dagli astronomi in tempo reale!

Siccome però la Fisica è una disciplina in continua evoluzione, ogni tanto i ricercatori provvedono a smentire se stessi, ed è quanto è accaduto dopo la sorprendente scoperta di una stella gigantesca, 40 volte più grande del Sole, che avrebbe dato origine ad una stella di neutroni chiamata magnetar, perchè dotata di un supercampo magnetico. L'astro incriminato si trova a 16.000 anni luce dalla Terra, nell'ammasso stellare Westerlund 1, dove brillano centinaia di stelle molto massicce, alcune delle quali splendenti come un milione di soli e con un diametro 2.000 volte maggiore di quello solare. A scoprire il fenomeno è stato il Very Large Telescope (VLT) dell'Osservatorio Europeo Meridionale (ESO). Ciò in parte mette in crisi le teorie più accreditate sull'evoluzione delle stelle: come detto, finora si riteneva che le stelle con masse iniziali comprese tra circa 10 e 25 masse solari formassero le stelle di neutroni, e quelle superiori a 25 masse solari producessero buchi neri; ma ora gli astrofisici si domandano quanto debba essere grande una stella, affinché diventi un buco nero!

A ciò bisogna aggiungere il fatto che ai primi del 2013 è stata osservata una misteriosa struttura dinamica nel disco di accrescimento di un buco nero situato nella costellazione della Vergine, a circa 4900 anni luce di distanza dalla Terra. Il buco nero, di massa pari a tre masse solari, fa parte del sistema binario Swift J1357.2, che contiene anche una piccola stella compagna, di un quarto della massa del Sole, che ruota attorno al centro di massa del sistema ogni 2,8 ore. Per questa classe di sistemi binari non si era mai osservato un fenomeno di "eclissi", ossia un indebolimento della radiazione X emessa, in corrispondenza del fenomeno di occultamento di una stella da parte dell'altra. Studiando immagini ottiche di Swift J1357.2 ottenute con i telescopi Isaac Newton e William Herschel alle Canarie, Jesús M. Corral-Santana dell'Instituto de Astrofísica de Canarias (IAC) ha osservato un periodico indebolimento della luce proveniente dal disco di accrescimento del buco nero, il cui periodo è apparso variabile, e talvolta anche di soli pochi secondi. « Dato che il periodo orbitale del sistema è di 2.8 ore  », ha dichiarato Corral-Santana, « questi cambiamenti non possono essere prodotti da eclissi da parte della stella compagna. Devono essere quindi generati da una struttura nascosta situata nelle immediate vicinanze del buco nero, nel disco di accrescimento interno. » Dall'analisi dei dati i ricercatori hanno calcolato che la misteriosa struttura ha una forma toroidale, ipotizzando che essa si sposti con un movimento ondulatorio dall'interno all'esterno del disco di accrescimento, in virtù del fatto che, mentre il periodo dell'oscillazione nell'ottico è in costante aumento, l'emissione nei raggi X non mostra invece alcuna variazione. E questo rappresenta un altro grande mistero da sbrogliare, se vogliamo sperare di saperne di più sui buchi neri.

Ad essere sinceri, inoltre, una parte di ragione ce l'aveva anche Eddington: l'infinito in Fisica infatti è privo di senso, ed ogni volta che una teoria prevede in un certo punto una grandezza infinita, c'è da pensare che la teoria non sia valida in quei punti, e siano necessarie ricerche ulteriori per perfezionare la teoria. Se la Relatività Generale afferma che massa, densità e temperatura diventano infinite nella singolarità di un buco nero, probabilmente tale teoria in essa fallisce, e richiede una formulazione più complessa. Grazie al Cielo, tuttavia, non c'è bisogno di aspettare la nascita di un nuovo Einstein per indagare che accade in quei punti misteriosi: esiste già la Meccanica dei Quanti. Quasi tutti i fisici contemporanei sono concordi nell'affermare che la Relatività Generale prevede la nascita di un'impossibile singolarità proprio perché non considera gli effetti quantistici manifestati da materia ed energia su scala microscopica. Tutta la Fisica Teorica degli anni Duemila è protesa alla ricerca di una teoria più generale che includa come casi particolari sia la relatività generale che la meccanica quantistica, teoria indicata con il nome di Gravitodinamica Quantistica (QGD).

La necessità di una teoria quantistica della gravità pone interrogativi affascinanti. I buchi neri da essa descritti apparirebbero diversi dai buchi neri classici, oppure la descrizione classica rimarrebbe una buona approssimazione? In assenza di una teoria coerente di questo tipo ci costringe per ora a lavorare su approssimazioni e simulazioni al computer. Una delle approssimazioni oggi più usate, tese ad evitare le situazioni paradossali in cui ci conducono le equazioni della Relatività Generale è la cosiddetta Gravitodinamica Semiclassica (SCGD), un metodo che combina alcuni aspetti della fisica quantistica, in particolare l'Elettrodinamica Quantistica, con la gravità einsteiniana classica.

La cosiddetta Elettrodinamica Quantistica (QED) descrive le particelle fondamentali elettricamente cariche come se esse fossero non sferette fatte essenzialmente di materia, bensì in termini di un campo che riempie lo spazio, proprio come fa il campo elettromagnetico. Normalmente le equazioni dell'Elettrodinamica Quantistica vengono risolte in uno spazio-tempo piatto, cioè in assenza di quella gravità che lo spazio-tempo tenderebbe a curvarlo, esattamente come una palla da bowling curva le coperte, una volta buttata su di un letto. La Gravitodinamica Semiclassica usa invece l'Elettrodinamica Quantistica formulata in uno spazio-tempo curvo. Si tratta di un procedimento molto complesso, ma esso può essere sintetizzato come segue. Una certa distribuzione di materia produrrebbe, secondo la Relatività Generale einsteiniana, una particolare geometria dello spazio-tempo, chiaramente una geometria non euclidea, cui si dà il nome di spazio-tempo curvo. Ma la curvatura dello spazio-tempo modifica l'energia dei campi quantistici. Secondo la Relatività Generale classica, questa energia modificata altera a sua volta la curvatura dello spazio-tempo. E cosi via; continuando ad iterare, si spera di ottenere una soluzione coerente, cioè uno spazio-tempo curvo con una configurazione di campi quantistici la cui energia ha l'esatta distribuzione per generare quella curvatura. Questa soluzione coerente dovrebbe essere una buona approssimazione di come si comporta la realtà in quelle situazioni per così dire "di frontiera", cioè in cui le masse sono abbastanza grandi da produrre effetti gravitazionali sensibili, ma su scala così piccola da coinvolgere indubitabilmente degli effetti quantistici, sebbene la gravità non sia effettivamente descritta da una teoria meramente quantistica. La Gravitodinamica Semiclassica include nella Relatività Generale delle correzioni quantistiche, cioè considerando il comportamento della materia di tipo quantistico, ma trattando la gravità in modo classico. Insomma si lavora come faceva Niels Bohr nel 1912, allorché pubblicò un modello atomico cosiddetto « semiclassico »: gli elettroni potevano avere solo energie multiple di un valore fondamentale (come postulato da Planck nel 1900), ma si muovevano lungo orbite descritte dalla consueta Meccanica Classica. Infatti Ernest Rutherford, autore invece di un modello atomico puramente classico, scrisse al collega Bohr una lettera in cui affermava: « La vostra teoria è ingegnosa e spiega bene gli spettri di emissione dei vari elementi, ma non capisco perchè essa usi la vecchia Meccanica di Newton il lunedì, il mercoledì e il venerdì, e la nuova Ipotesi dei Quanti il martedì, il giovedì e il sabato! » Solo negli anni Trenta del secolo scorso Erwin Schrödinger e Wernher Heisenberg formularono una Meccanica puramente Quantistica. Analoghe parole si potrebbero ripetere per la Gravitodinamica Semiclassica, in attesa di una più coerente Teoria Quantistica della Gravità, che attende ancora uno o più geniacci del futuro per essere formulata.

Fig. 16   John Archibald Wheeler

 

Anche a prescindere dall'uso disinvolto di due teorie inconciliabili tra loro, però, questo approccio porta subito a un risultato imbarazzante: il calcolo tramite esso dell'energia più bassa possibile dei campi quantistici (il cosiddetto "punto zero"), l'energia dello spazio in cui non sono presenti particelle, cioè dei vuoto, produce un risultato infinito. In realtà questo problema si verifica normalmente nella già ben delineata Elettrodinamica Quantistica dello spazio piatto (cioè senza gravità), ma grazie a Dio il comportamento delle particelle dipende solo dalle differenze di energia tra i vari stati che esse occupano, e quindi il valore dell'energia dei vuoto quantistico non entra in gioco; con un metodo detto di rinormalizzazione è possibile eliminare il problema dei valori infiniti e calcolare con precisione le differenze di energia.

Quando si tira in ballo la gravità, però, l'energia dei vuoto è estremamente importante. Secondo logica infatti una densità di energia infinita dovrebbe produrre una curvatura enorme dello spazio-tempo, e quindi anche lo spazio "vuoto" apparirebbe come se producesse un'intensa forza gravitazionale: una conclusione certo incompatibile con l'universo che noi osserviamo. Le osservazioni compiute nei primi dieci anni del XXI secolo, eseguite sia tramite telescopi da terra che tramite satelliti, indicano che il contributo dell'energia di punto zero alla densità totale di energia dell'universo è pressoché trascurabile. La Gravitodinamica Semiclassica non tenta di risolvere questo problema, evidentemente per essa irrisolubile, ma assume invece che la soluzione, qualunque essa sia, cancelli il contributo del punto zero alla densità di energia nello spazio-tempo piatto. Questo postulato produce un vuoto semiclassico coerente: la densità di energia è nulla ovunque, e in questa situazione la Relatività Generale prevede uno spazio-tempo piatto.

Se c'è materia, lo spazio-tempo è curvo, e ciò altera la densità di energia di punto zero dei campi quantistici: dunque l'energia di punto zero non e più cancellata. E la quantità in eccesso? Si ritiene che essa sia dovuta ad un fenomeno chiamato "polarizzazione del vuoto", per analogia con l'effetto di una carica elettrica che polarizza un mezzo. Infatti il campo elettrico prodotto da un oggetto carico all'interno di un mezzo polarizza gli atomi vicini, riducendo il campo elettrico totale: è questo il motivo per cui la costante dielettrica di un mezzo è maggiore di quella del vuoto. L'Elettrodinamica Quantistica afferma che addirittura il vuoto può essere polarizzato, perché un campo elettrico polarizza le coppie virtuali particella-antiparticella che si formano continuamente in essa. Nella Relatività Generate il ruolo della carica elettrica viene svolto dalla massa e dall'energia, e quello del campo elettrico dallo spazio-tempo curvo (cioè dalla gravità). La polarizzazione del vuoto produce un deficit di energia, cioè di fatto una nube di energia negativa, e di conseguenza una forza repulsiva.

In questa trattazione semplificata ho descritto la Gravitodinamica Semiclassica in termini di massa e di energia, ma nella Relatività Generale non sono solo queste due grandezze a produrre la curvatura dello spazio-tempo: ad essa contribuiscono anche la densità di quantità di moto, la pressione e le tensioni associate a una specifica sostanza soggetta alla gravità. Per descrivere i contributi di tutte queste grandezze con un unica realtà matematica è stato introdotto il cosiddetto Tensore Energia-Impulso (Stress-Energy Tensor, SET). La Gravitodinamica Semiclassica assume che i contributi di punto zero dei campi quantistici al Tensore Energia-Impulso totale siano cancellati nello spazio-tempo piatto; mediante questo procedimento di sottrazione si ottiene così una nuova entità matematica detta Tensore Energia-Impulso Rinormalizzato (RSET). Applicato allo spazio-tempo curvo, questo procedimento di sottrazione cancellare la parte divergente del SET, ma lascia un valore finito e non nullo per il RSET. A questo punto si applica il procedimento iterativo già descritto: la materia classica curva lo spazio-tempo secondo le equazioni di Einstein di una quantità determinata dal Tensore Energia-Impulso classico della materia; grazie a questa curvatura il Tensore Energia-Impulso Rinormalizzato del vuoto quantistico acquisisce un valore finito e non nullo. Questo RSET del vuoto diventa un'ulteriore sorgente gravitazionale, modificando la curvatura. La nuova curvatura induce a sua volta un diverso RSET dal vuoto, e cosi via.

Come si è visto nel capitolo 2, il Sole ha un raggio di 690.000 chilometri, motto più grande dal suo raggio di Schwarzschild (2960 metri). Le equazioni della Gravitodinamica Semiclassica affermano che in queste condizioni il RSET del vuoto quantistico è assolutamente trascurabile. Quindi, secondo le equazioni classiche, il Sole è ben lontano dal poter dar vita ad un buco nero, e le correzioni quantistiche non modificano di molto questa situazione. Insomma, gli astrofisici possono ignorare gli effetti delta gravità quantistica quando analizzano il Sole e la maggior parte degli altri oggetti astronomici.

Le correzioni quantistiche possono però diventare significative se una stella non è molto più grande del proprio raggio di Schwarzschild. Nei primi anni settanta David G. Boulware, della Washington State University, analizzò il moto di una stella molto densa nel caso stazionario (cioè nel caso in cui non collassa), e dimostrò che più la stella è vicina al suo raggio di Schwarzschild, più cresce il RSET del vuoto prossimo alla sua superficie, e quest'ultimo aumenta fino a una densità di energia infinita. Ciò semplicemente implica che le equazioni della Gravitodinamica Semiclassica non permettono l'esistenza di un buco nero stazionario, cioè il cui orizzonte degli eventi resti di dimensioni costanti. E allora, le domande che inevitabilmente mi porrete sono: in che modo queste correzioni quantistiche influenzano la descrizione dei buchi neri? In particolare, come alterano la vita stessa di un buco nero?

A queste domande cercheremo di rispondere nei capitoli seguenti.



Vorrei aggiungere che, quando ero ragazzo, ho letto l'avventura a fumetti intitolata "Zio Paperone e il tuffo nel black hole", sceneggiata da Giorgio Pezzin, disegnata da Guido Scala e pubblicata sui numeri 1327 e 1328 di "Topolino" del 3 e 10 maggio 1981; qui sopra ne vedete alcune vignette. La storia doveva far da traino all'uscita in Italia di un film di fantascienza Disney intitolato "The Black Hole", che avrebbe dovuto rappresentare la risposta della Disney a "Star Wars", ma che ha lasciato poche tracce di sé. In questa storia viene scoperto un buco nero che passa vicino alla Terra e Paperon de' Paperoni ha l'idea di usarlo come discarica e si fa pagare per smaltire i rifiuti della Terra con l'intenzione di scaraventarli nel buco nero,. Quando però ne ha raccolti miliardi di tonnellate, sono così pesanti da far uscire la Terra dalla sua orbita e farla precipitare proprio verso il buco nero. Archimede Pitagorico risolve la situazione inventando un razzo "ad oro liquido" (che fantasia!) in grado di impedire che la Terra cada nel buco nero, e così Paperone ci perde tutto quello che ha guadagnato in questo affare. Però il razzo ferma la Terra quando è già per metà dentro il buco nero; attraversando l'orizzonte degli eventi, i nostri eroi paperi si ritrovano nella Terra del XXVI secolo, retaggio delle teorie secondo cui i buchi neri sarebbero ponti ("wormholes") verso altri mondi e altre epoche storiche. Alla fine Qui, Quo, Qua scoprono che Zio Paperone ha imboscato una parte dell'oro, lo convincono ad utilizzare anche quello come combustibile, ed allora il razzo ce la fa a strappare la Terra dal buco nero e a riportarla nella sua orbita. Questa storia ovviamente con il senno di poi è piena di strafalcioni scientifici:

Insomma, lo sceneggiatore in realtà non sapeva nulla di buchi neri. Ma negli anni '80 alcuni scienziati ancora pensavano che essi neppure potessero esistere, e comunque altri blockbuster di Hollywood come "Armageddon" e "Ad Astra" non contengono meno stupidaggini di quella ingenua ma appassionante storia di "Topolino"!