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È ora venuto il momento di sfatare, come promesso, uno dei più resistenti "miti" circa le caratteristiche dei buchi neri, che li hanno resi tanto appetibili agli occhi degli scrittori di fantascienza e degli sceneggiatori di "Star Trek": il fatto cioè di assorbire tutto, senza mai emettere nulla. Se infatti le cose stessero così, com'è evidente, tutta la materia esistente nell'universo (1058 grammi, secondo alcuni calcoli) sarebbe destinata prima o poi a finire tra le fauci di un buco nero, e dovunque nel cosmo regnerebbe l'assoluto silenzio per tutta l'eternità.
Grazie al cielo, a gettare un fascio di luce su una prospettiva tanto fosca è venuto il grande fisico inglese Stephen Hawking (nato l'8 gennaio 1942 e scomparso il 14 marzo 2018), noto soprattutto per aver occupato la cattedra lucasiana di matematica a Cambridge, che fu di Isaac Newton, pur essendo costretto all'immobilità da una gravissima malattia neurologica. Nel 1974 è stato lui ad avanzare per primo l'ipotesi che, sebbene dopo un tempo lunghissimo anche su scala galattica, un buco nero potrebbe "evaporare", rilasciando materia e svuotandosi a poco a poco come un pupazzo di neve in primavera. Vale la pena di soffermarsi un momento per capire quale astruso fenomeno potrebbe riuscire là dove ha fallito persino l'estrema difesa del principio di Pauli.
Fig. 17 Stephen Hawking
Ispirandosi alle intuizioni di due astrofisici russi poco noti, Yakov Zel'dovic e Aleksandr Starobinskij, nel 1973 Hawking propose che un buco nero può emettere particelle sulla base delle leggi (microscopiche) della meccanica quantistica, mentre fino ad allora al suo studio erano state applicate solo quelle (macroscopiche) della relatività generale. Queste particelle non "evadono" dall'orizzonte degli eventi, come avrebbe fatto il capitano Janeway nella quarta serie di "Star Trek", bensì si formano nello spazio vuoto che si trova immediatamente all'esterno della sfera di Schwarzschild. Difatti, il celebre principio di indeterminazione formulato da Werner Heisenberg nel 1926 afferma che non è possibile conoscere con la stessa precisione nello stesso istante la posizione e la velocità di una particella. In altri termini, quanto maggiore è la precisione con cui io conosco l'una, tanto minore risulta quella con cui io posso misurare l'altra. Idem dicasi per l'energia: tanto meglio conosco il suo valore in un dato punto e in un dato momento, tanto peggio so con quale velocità esso sta variando, e viceversa. Ma allora anche lo spazio cosiddetto "VUOTO" non potrà esserlo mai del tutto, perchè altrimenti sarebbero ben determinati sia il valore dell'energia ivi contenuta (zero) che quello della sua rapidità di variazione (zero). Se ne deduce che anche nel vuoto più spinto vi deve essere un minimo d'incertezza sull'energia (e quindi anche sulla materia, perché E = m c2) in esso racchiusa.
Ciò implica il fatto che il vuoto appare perpetuamente percorso da fluttuazioni (dette appunto "fluttuazioni quantiche"), come la superficie del mare non è mai perfettamente piatta, bensì percorsa da onde anche solo di dimensioni minime. Queste fluttuazioni nel vuoto si traducono nella formazione di coppie particella-antiparticella (es. elettrone-positrone). Siccome non si può creare energia dal nulla, nemmeno in vicinanza di un buco nero, una delle due avrà energia POSITIVA, l'altra NEGATIVA. Dal momento che, in condizioni normali, l'energia delle particelle non può che essere positiva, quella con energia minore di zero potrà esistere solo per un tempo brevissimo, durante il quale cercherà il suo "partner" per annichilarsi: si parla in tal caso di particella "virtuale", che non può essere rivelata da nessuno strumento. Da questo si deduce che ciò che noi ingenuamente chiamiamo "vuoto" in realtà è tutto un ribollire di particelle ed antiparticelle che si creano e si distruggono in continuazione, vivendo per tempi così brevi che, al confronto, il periodo di rivoluzione dell'elettrone intorno al suo atomo dura quanto un'era geologica!
Fig.
18
Un semplice schema per comprendere
la complicata teoria di Stephen
Hawking sulla
"evaporazione" a lungo termine dei buchi neri.
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Ora, però, una particella che si trova in prossimità di una massa ha meno energia di quanta ne avrebbe a una grande distanza da essa poiché, per allontanarsene contro l'azione gravitazionale di quella massa, deve spendere energia. Ed ecco una sorpresa: il campo gravitazionale in prossimità dell'orizzonte degli eventi è talmente intenso che persino una particella reale può avere ivi energia NEGATIVA! E' dunque possibile che, inaspettatamente, la particella virtuale con E < 0 precipiti nel buco nero e diventi una particella reale con E > 0. L'altra, generata insieme ad essa, può allora sfuggire dai dintorni del buco nero come una particella REALE. Un osservatore esterno avrà l'impressione che questo corpuscolo sia stato emesso dal buco nero, in barba alla relatività di Einstein.
Tanto più piccolo è il buco nero, tanto minore è il tragitto che la particella virtuale deve percorrere prima di diventare reale, e quindi tanto maggiori saranno la frequenza di emissione e la temperatura apparente del buco nero.
Contemporaneamente, tuttavia, un flusso di particelle di energia negativa penetra nell'astro morto e, siccome l'energia equivale a massa, essa riduce progressivamente la massa totale del buco nero. Mano a mano che il buco nero perde massa, per la (2) il raggio di Schwarzschild cala e il volume dell'orizzonte degli eventi si restringe. La temperatura di un buco nero è inversamente proporzionale alla sua massa, quindi un buco nero che evapora diventa più caldo ed evapora più velocemente via via che massa e raggio diminuiscono. Il ritmo della sua emissione allora aumenta progressivamente, e quindi il buco perde massa ancor più alla svelta. Alla fine, svapora completamente in un tremendo impulso di emissione finale, al cui confronto l'esplosione di miliardi di bombe H equivale a quella di un innocuo mortaretto. La radiazione emessa nello spazio da un buco nero oggi prende il nome di radiazione di Hawking.
Come tutte le teorie innovative, anche quelle di Hawking generarono subito mille polemiche tra favorevoli e contrari. La veridicità delle sue affermazioni fu stabilita solo nel 2010 da un gruppo di ricercatori guidati da Daniele Faccio del Dipartimento di fisica e matematica dell'Università dell'Insubria a Como e da Francesco Belgiorno dell'Università degli Studi di Milano, i quali raccolsero prove inconfutabili a sostegno delle tesi dell'astrofisico britannico. Dopo aver fatto alcuni calcoli, questi ha concluso che un buco nero la cui massa è cinque volte quella del nostro Sole emette particelle ad un ritmo tanto lento, che la sua temperatura apparente è solo di 60 nanokelvin, cioè meno di un decimilionesimo di grado superiore allo zero assoluto. Orbene, il processo è stato ricostruito in laboratorio a Como, illuminando con un laser un blocco di vetro con particolari caratteristiche. Daniele Faccio ha spiegato: « I fotoni della luce, interagendo con il materiale molto denso, riproducono lo stesso effetto che si verifica nella zona circostante l'orizzonte degli eventi. Qui accade che una particella, il fotone a frequenza negativa, venga assorbita e quella che lo accompagna a frequenza positiva emerga. A separarli è proprio l'orizzonte, e una volta divisi non possono più ricongiungersi. Così nasce la radiazione di Hawking ». Il risultato ottenuto non solo conferma le intuizioni di Hawking su uno dei misteri più affascinanti del cosmo, ma prospetta addirittura delle future applicazioni nel mondo delle telecomunicazioni quantistiche.
I calcoli di Hawking ci dicono che, trovandosi a una temperatura così bassa rispetto allo spazio circostante, per svuotarsi completamente un buco nero impiegherebbe ben 1066 anni (un bilione di trilioni di trilioni di trilioni di anni, tanto per far uso di una terminologia cara a Paperon de' Paperoni). È un tempo considerevolmente più lungo dell'età dell'universo, che è dell'ordine di "soli" dieci miliardi di anni (1010 anni)! Buchi neri più piccoli, con una massa pari a quella di una montagna, potrebbero però avere una vita comparabile con quella del cosmo, e alcuni di essi potrebbero anche essere già evaporati. Buchi come questi non meritano certo però l'epiteto di NERI, in quanto la loro emissione è tanto intensa (dell'ordine dei diecimila MegaWatt!) da portarli al calor bianco. Ciascuno di tali "buchi bianchi" potrebbe essere in grado di alimentare dieci grandi centrali elettriche, se solo fossimo in grado di imbrigliarne l'energia.
Siccome però un oggetto tanto esotico avrebbe la massa di un miliardo di tonnellate compressa in meno di un bilionesimo di centimetro, le dimensioni di un nucleo atomico, la cosa è più facile a dirsi che a farsi. Lo si potrebbe sistemare solo in orbita attorno alla terra, e il solo modo per immetterlo in una tale orbita sarebbe quello di attirarvelo trascinando davanti ad esso una grande massa, come si fa camminare un asino agitandogli una carota davanti al muso. Temo perciò che questa non sia una proposta molto praticabile per risolvere i problemi energetici dell'umanità, almeno non nell'immediato futuro!
Nel 2016 Jeff Steinhauer, un fisico della Technion University di Haifa in Israele, ha creato un "buco nero acustico" e ha potuto osservare particelle scivolare fuori dal sua raggio d'azione, arrivando sostanzialmente a verificare l'ipotesi di Stephen Hawking. C'è riuscito intrappolando in un raggio laser atomi a bassissime temperature, fino a formare il cosiddetto condensato di Bose-Einstein, uno stato molto esotico della materia. Tramite un secondo laser ha realizzato una sorta di "dislivello" che ha consentito agli atomi di trovarsi in una situazione che modella l'orizzonte degli eventi del buco nero. Le particelle sonore hanno accelerato fino a velocità supersonica sul dislivello, che non poteva essere ripercorso in senso inverso. Steinhauer ha quindi osservato il comportamento differente delle particelle in prossimità del modello di buco nero, con una che cadeva nel buco e l'altra che riusciva a fuggire. Questo dimostrerebbe l'esistenza della radiazione di Hawking. Questo esperimento ha permesso anche di analizzare lo stato quantico delle particelle e di fare luce sul fenomeno di "entanglement", la connessione a livello quantistico in base alla quale le particelle correlate sono collegate indipendentemente dalla loro distanza. Se una particella cade nel buco nero, la reciproca particella all'esterno è ancora portatrice dell'informazione contenuta in quella scivolata nel buco.
Insomma, grazie agli sforzi dei fisici, compreso il calcolo approssimativo del RSET nelle varie configurazioni possibili di collasso, negli anni ottanta la correttezza del modello di Hawking è stata confermata: oggi l'opinione comune è che i buchi neri si formino come descrive la Relatività Generale Classica, e poi subiscano una lenta evaporazione quantistica, rilasciando la radiazione di Hawking. Tuttavia, la teoria di Hawking fin qui esposta presenta purtroppo due grossi problemi che non sono stati ancora risolti, noti come problema dell'entropia e problema dell'informazione, strettamente correlati all'esito finale dell'evaporazione di un buco nero.
Infatti, come si è detto, lo spettro della radiazione di Hawking fa pensare che i buchi neri abbiano una temperatura, per quanto bassissima, come si è detto. Tradizionalmente però il calore è emesso dagli atomi di un oggetto. La temperatura dei buchi neri implica dunque che essi abbiano una struttura interna, cioè che siano fatti di atomi, i quali si possono disporre in vari modi. Tuttavia, nel modello quantomeccanico della radiazione di Hawking, questa possibilità di disposizioni diverse conferisce ai buchi neri un'entropia, che ne misurerebbe il disordine. Ma la relatività generale di Einstein vieta che i buchi neri abbiano un'entropia, prevedendo che siano assolutamente omogenei e privi di struttura interna. Questo prende il nome di problema dell'entropia. Oggi tuttavia si pensa che, quando avremo in mano una teoria quantistica coerente della gravità (o Gravitodinamica Quantistica, il più grosso "buco nero" della nostra Fisica, se mi si passa il gioco di parole), il problema sarà risolto in maniera automatica e naturale.
Ancora più spinoso però è il secondo problema: la materia che cade in un buco nero porta con sé un'enorme quantità di informazione: posizioni, velocità e altre proprietà delle oltre 1055 particelle da cui è composta. I risultati dei calcoli indicano che un buco nero può evaporare emettendo la radiazione di Hawking fino ad arrivare a una massa nulla, ma secondo il calcolo di Hawking le particelle casuali che emette trasportano un'informazione quasi nulla. E anche se ci fosse qualche resto del buco nero, come potrebbe un oggetto tanto piccolo contenere tutta l'informazione presente nella stella originaria? Questa apparente perdita di informazione viola una proprietà fondamentale della meccanica quantistica, l'unitarietà.
Questa strana situazione prese il nome di "paradosso di Hawking". Alcuni fisici, come l'americano John Preskill, continuarono tuttavia a sostenere che doveva esistere una qualche via, ancora da scoprire e basata sulle teorie quantistiche, per riottenere l'informazione inghiottita dal buco nero: in altre parole, secondo Preskill, se precipitassimo in un buco nero, questo potrebbe restituire la nostra massa ed energia all'Universo da cui proveniamo in una forma distorta, ma che conterrebbe ancora informazioni sul nostro stato originario, anche se molto difficili da recuperare.
Dato che i calcoli che prevedono la radiazione di Hawking si basano sulla Gravitodinamica Semiclassica, non si sa se la perdita di informazione è un effetto spurio delle approssimazioni da essa usate, oppure una proprietà che rimarrà identica a sé stessa anche quando scopriremo come calcolare con precisione il processo tramite la Gravitodinamica Quantistica. Se il processo di evaporazione distrugge l'informazione, le equazioni della Gravitodinamica Quantistica devono per forza violare la natura unitaria della meccanica quantistica come la conosciamo. Al contrario, se l'informazione si conserva e una teoria completa della Gravità Quantistica rivelerà dove diavolo è finita nella radiazione, allora sembra che o la relatività generale o la meccanica quantistica abbiano bisogno di modifiche. Questa contraddizione nasconde un nesso profondo, e ancora oggi non compreso appieno, tra gravità, meccanica quantistica e termodinamica: un problema che richiede giocoforza una soluzione. Tra gli altri, Joseph Polchinski del Kavli Institute for Theoretical Physics presso l’Università della California a Santa Barbara ha proposto che, sull'orizzonte degli eventi di un buco nero, le leggi della fisica non abbiano più alcun valore. Invece di un confine impercettibile, secondo lui deve esserci una netta discontinuità, che chiama "firewall", un termine tipico dell’informatica. « Il firewall è una specie di muro di energia, che potrebbe essere la fine dello stesso spazio-tempo », ha spiegato Polchinski. « Qualsiasi oggetto lo colpisca di fatto dovrebbe dissolversi nei suoi costituenti fondamentali ». Il primo ragionamento per sostenere i firewall si basava sul complesso concetto di entanglement descritto dalla meccanica quantistica, in conseguenza del quale due particelle, anche se separate da una grande distanza, possono mantenere tra loro un collegamento assai stretto. Una seconda versione di tale teoria invece rafforza e semplifica la tesi a favore dei firewall, aggirando la questione dell'entanglement.
Ma non basta. Nel 2017 Pisin Chen, della National Taiwan University di Taipei, e Gerard Mourou, dell'École Polytechnique di Palaiseau, in Francia, hanno proposto un'elegante soluzione per il paradosso dell'informazione. Finora i tentativi di risolvere questo paradosso sono rimasti nel dominio teorico, data l'impossibilità di verificare qualche previsione con l'osservazione diretta di buchi neri reali. Un'alternativa è realizzare in laboratorio degli analoghi dei buchi neri cosmici, ed è proprio quello che hanno pensato Chen e colleghi: riprodurre in laboratorio l'evaporazione di un buco nero. Uno specchio accelerato può infatti imitare gli effetti di un orizzonte degli eventi, grazie al principio di equivalenza di Einstein, secondo cui in certe condizioni non è possibile distinguere tra l'accelerazione dovuta al campo gravitazionale e quella dovuta a una causa diversa: i fotoni di un impulso di luce riflesso dallo specchio rappresenterebbe la radiazione di Hawking, mentre quelli intrappolati nel bordo dello specchio le loro controparti intrappolate nel buco. Quando lo specchio arresta il suo moto, produce un'emissione improvvisa di energia simile a quella che accompagna la morte del buco nero, riemettendo le controparti. In laboratorio, l'apparato in grado di riprodurre tutto questo, almeno in linea di principio, sarebbe un impulso laser che incide su un plasma. E si avrebbe così la possibilità di risolvere il paradosso dell'informazione del buco nero: se le misurazioni evidenziassero un entanglement tra i fotoni e le loro controparti riemesse, vorrebbe dire che l'informazione in qualche modo viene conservata.
L’idea del firewall e del buco nero riprodotto in laboratorio rappresentano sicuramente dei passi in avanti, ma hanno anche svelato un problema che nessuno finora aveva considerato, costringendo gli scienziati a ripensare alcuni progressi che sembravano acquisiti nel tentativo di risolvere un conflitto fondamentale della fisica, ovvero l'incompatibilità tra la relatività generale, che descrive l'universo su grande scala, e la meccanica quantistica, che si applica al mondo subatomico. Per descrivere il comportamento di buchi neri di piccole dimensioni ma massicci sono necessarie entrambe le teorie, ma attualmente non c'è modo di renderle compatibili fra loro. Come riuscirci?
Fig. 19 L'astronave "Endurance" al comando dell'ingegner Cooper si avvicina al buco nero ribattezzato "Gargantua" nel famoso film "Interstellar" di Christopher Nolan (2014)