La luce dei Silmaril  

Il fuoco interno dei Silmaril, Fëanor lo ricavò dalla luce degli Alberi di Valinor...

(QS, cap. VII)

 

Volendo iniziare una lezione dedicata alla luce in questo ipertesto, non si può certo partire da altro, che da quella dei Silmarilli, se non altro perchè essi danno il titolo ad una delle opere più importanti del Legendarium, e si trovano al centro praticamente di tutte le guerre della Prima Era. Ma di cosa si tratta? Diamo la parola allo stesso Tolkien:

« I Silmaril erano, quanto a forma, come tre grandi gioielli. Ma soltanto alla Fine, quando ritornerà Fëanor che perì prima che il Sole fosse fatto e siede ora nelle Aule d'Attesa, non prima che il Sole trapassi e la Luna crolli, si saprà di quale sostanza fossero fatti. La quale sembrava simile al cristallo dei diamanti, eppure ne era più forte, sicché non c'era forza, nel Regno di Arda, bastante a guastarla o spezzarla. [...]
Il fuoco interno dei Silmaril, Fëanor lo ricavò dalla luce amalgamata degli Alberi di Valinor, che pur sempre vive in loro, ancorché gli Alberi da tempo siano isteriliti e più non splendano. Sicché, anche nella tenebra del più profondo tesoro i Silmaril per radianza propria splendevano come le stelle di Varda; pure, essendo essi in effetti cose viventi, della luce godevano e la recepivano e la restituivano in sfumature più meravigliose ancora.
Chiunque dimorasse ad Aman fu ricolmo di meraviglia e piacere per l'opera di Fëanor, e Varda consacrò i Silmaril si che in seguito nessuna carne mortale, nessuna mano impura, nulla di malvagio potesse toccarli, senza bruciare e avvizzire. Allora Melkor bramò i Silmaril, e la memoria stessa della loro radianza fu un fuoco che gli smangiava il cuore. »
(QS, cap. VII)

I Silmaril insomma erano tre meravigliose gemme di indescrivibile perfezione, realizzate da Fëanor figlio di Finwë quando i Noldor vivevano ancora a Valinor; la loro unicità consisteva nel fatto che egli aveva racchiuso in essi la Luce dei Due Alberi di Valinor, Telperion e Laurelin, ed essi splendevano di luce propria. Nessuno seppe mai come Fëanor fosse riuscito a creare simili gioielli, e nessuno riuscì mai a duplicarli, nemmeno lo stesso Fëanor. Il loro valore era inestimabile, e per questo Varda fece in modo che nessun essere malvagio potesse toccarli, a meno di rimanerne bruciato per sempre. Infatti Melkor ne restò ustionato orribilmente, quando uccise Finwë e rubò i Silmaril, incastonandoli nella propria corona di ferro come un trofeo di guerra. Siccome anche l'Albero d'Oro e l'Albero d'Argento erano stati distrutti da Melkor, i Silmaril contenevano tutto ciò che rimaneva della magnifica luce dei Due Alberi; furibondo, Fëanor allora maledì Melkor, chiamandolo per la prima volta Morgoth ("l'Oscuro Nemico"), e giurò che né lui né i suoi figli avrebbero più avuto pace finché non avessero ritrovato i Silmaril. Furono combattute cinque grandi battaglie per i Silmaril, ma lo stesso Fëanor cadde nella lotta, ed insieme a lui moltissimi Elfi ed Uomini, fino a che Beren e Lúthien non ne recuperarono uno. Gli altri furono strappati a Morgoth nella Guerra d'Ira, e se ne impossessarono i due figli di Fëanor superstiti, Maedhros e Maglor, ma essi bruciarono loro le mani perché avevano perso il diritto a possederli, a causa di tutto il male che era stato commesso come conseguenza del loro giuramento. Impazzito dal dolore, Maedhros si buttò col Silmaril in un vulcano, mentre Maglor lo scagliò nel mare. Il terzo Silmaril fu invece ereditato da Eärendil, che aveva sposato Elwing, nipote di Beren e Lúthien, ed egli portò il gioiello in fronte navigando per i mari del cielo sulla sua nave Vingilot, apparendo ad Elfi ed Uomini come la Stella del Vespro, come abbiamo spiegato in un'altra lezione. Fu così che i Silmaril si fusero con i quattro elementi di Arda: aria, acqua, terra e fuoco.

Naturalmente, la domanda che sorge spontanea a questo punto è: com'è possibile che i Silmarilli emettano luce, anzi, la stessa luce degli Alberi? Non è certo un caso, se secondo Tolkien neppure lo stesso Fëanor, artefice dei gioielli, riuscì mai a ripetere l'esperimento: apparentemente solo un atto di magia unico ed irripetibile potrebbe riuscirci. Tuttavia noi sappiamo che qualunque tecnologia abbastanza avanzata è indistinguibile dalla magia, dunque una risposta scientifica a questa domanda dovremmo pur trovarla. Ed una possibile risposta è rappresentata dalla chemioluminescenza.

La chemioluminescenza è la conversione di energia chimica in energia luminosa nel visibile e nel vicino infrarosso attraverso una reazione chimica di ossidazione. In genere la reazione porta alla formazione di prodotti in uno stato eccitato, ed il loro decadimento allo stato fondamentale non porta all'emissione di calore ma di un fotone. Sono poche le reazioni chimiche che producono chemioluminescenza, ma esse sono molto importanti per le loro applicazioni alla chimica analitica. Un esempio è l'analisi del monossido di azoto NO presente nell'aria attraverso la sua reazione con l'ozono O3:

NO + O3 → NO2* + O2 → NO2 + fotone

L'asterisco indica uno stato eccitato della molecola. La più famosa applicazione della chemioluminescenza è però rappresentata dal luminol (nome comune del 5-ammino-2,3-diidro-1,4-ftalazindione), utilizzato dalla polizia scientifica per determinare e rilevare tracce di sangue, anche lavato o rimosso. Infatti il luminol, reagendo con il perossido di idrogeno o acqua ossigenata (H2O2) in presenza di un catalizzatore metallico, emette luce blu. Siccome il ferro presente nell'emoglobina del sangue può agire da catalizzatore, ricoprendo di luminol la scena del crimine e oscurandola completamente, le macchie di sangue diventano luminescenti per circa 30 secondi, anche se ormai restano solo poche molecole di emoglobina. Anche varie specie organiche catalizzano o inibiscono la reazione del luminol con il perossido di idrogeno, ed è così possibile rivelare tracce di gas nervini, insetticidi o altri composti.

Un fenomeno del genere può spiegare anche l'emissione di luce da parte dei Silmaril. In questo caso essi emettono la "stessa" luce degli Alberi perchè emettono luce della stessa intensità e lunghezza d'onda (che poi significa dello stesso colore). Uno strumento di largo uso e molto simile a quelli che potevano essere i Silmaril è rappresentato dal lightstick, una bacchetta chemioluminescente che si accende allorché le sostanze chimiche in esso contenute vengono miscelate, senza richiedere fonti di energia esterna. Esso sfrutta una reazione chimica tra acqua ossigenata e difenil-ossalato, un estere dell'acido ossalico sintetizzato per la prima volta da Frank Arthen e Laszlo J. Bollyky dell' American Cyanamid, importante industria chimica americana. Tale reazione fornisce l'energia necessaria per eccitare gli elettroni di un pigmento fluorescente. Gli elettroni passano dal livello energetico fondamentale a quello eccitato e tornando al livello fondamentale emettono luce, il cui colore dipende dal tipo di pigmento: giallo, blu, verde, viola, rosso, arancione o bianco. Per accendere il lightstick basta piegare la bacchetta, rompendo in questo modo la fiala contenuta al suo interno e facendo mescolare i composti chimici. Questa reazione ha in genere 24 ore di durata. Il principale problema consiste nel fatto che si tratta di un dispositivo monouso e che non è possibile spegnere questi dispositivi una volta accesi; se ne può solo rallentare moltissimo la reazione chimica, portandoli a bassa temperatura in un congelatore. Il calore e l'umidità accelerano l'invecchiamento dei lightstick, e per questo vengono venduti all'interno di buste sigillate.

I tre Silmarilli in una rappresentazione artistica a confronto con tre moderni lightstick in commercio

I tre Silmarilli in una rappresentazione artistica (da questo sito) a confronto con tre moderni lightstick in commercio

Naturalmente, i Silmarilli emettono luce senza bisogno di piegarli per miscelare dei composti, ed inoltre la loro emissione luminosa dura da ben più di 24 ore. La chemioluminescenza può spiegare l'emissione luminosa da corpi inanimati, ma ben difficilmente essa può durare per decine di millenni, anche ammettendo di far ricorso ad una reazione chimica lentissima, visto lo splendore dei tre gioielli di Fëanor, che doveva consumare moltissima energia. Per questo, occorre cercare strade alternative; ed una delle meno improbabili è la radioluminescenza, fenomeno scoperto da Marie Curie (1867-1934) la quale, si dice, entrò nel suo laboratorio buio di mattina presto, e vide splendere nell'oscurità i sali di radio da lei stessa isolati dentro una provetta. In pratica, in questo caso la luce è prodotta dall'emissione di fotoni da parte di un materiale radioattivo eccitato che decade allo stato fondamentale di energia, come spiegheremo in una prossima lezione. La radioluminescenza viene utilizzata come sorgente di luce che deve essere prodotta per lunghi periodi a basso livello senza fonti di energia esterne; tipicamente, le vernici radioluminescenti sono utilizzate per dipingere le lancette e i quadranti degli orologi, permettendoci di leggerli al buio. Storicamente, la prima vernice di questo tipo era costituita da una miscela di radio e rame drogato con solfuro di zinco, ed emetteva una tipica luce verdastra, ma oggi non è più utilizzata per i suoi gravissimi effetti collaterali, non in chi porta al polso gli orologi ma in chi ne dipingeva i quadranti: molti dei lavoratori addetti a tale attività manifestarono tumori alla lingua, poiché i pennelli intinti nella vernice radioattiva andavano umettati in bocca prima di essere adoperati. Oggi l'unico radioisotopo consentito per l'utilizzo commerciale di sorgenti radioluminescenti è il trizio, isotopo dell'idrogeno con il nucleo formato da un protone e due neutroni, e con un'emivita di 12,3 anni (anche in questo caso, vedi una lezione successiva). Il gas trizio è contenuto in un piccolo tubo di vetro, rivestito all'interno con fosforo. Le particelle beta emesse dal trizio colpiscono le molecole di fosforo, le eccitano, e la loro diseccitazione fa sì che emettano una luce di colore giallo-verde. A differenza del radio, il trizio rappresenta una minaccia trascurabile per la salute umana, giacché le basse emissioni energetiche delle particelle beta emesse dal trizio non possono passare attraverso il tubo di vetro che le racchiude e, anche il tubicino si rompesse, non sarebbero in grado di penetrare attraverso la pelle umana. Inoltre, sempre in caso di rottura il gas si disperderebbe nell'aria e si diluirebbe rapidamente a concentrazioni sicure. Oggi è usato, oltre che nei quadranti degli orologi da polso, anche nella segnaletica, per individuare al buio le uscite di sicurezza. Avendo un'emivita di 12,3 anni, la radioluminescenza di una sorgente di trizio si ridurrà a metà del suo valore iniziale in questo periodo. Esistono però isotopi con un tempo di dimezzamento lunghissimo: per esempio, il torio-232 ha un'emivita di oltre 14 miliardi di anni, circa l'età attuale dell'universo, e quindi, se Fëanor avesse scoperto un isotopo con vita così lunga in grado di eccitare il cristallo dei Silmaril e di far sì che esso emetta luce, potrebbe benissimo aver realizzato un gioiello in grado di brillare di luce propria per radioluminescenza per molte Ere del mondo, considerando che, come si è visto nel capitolo precedente, l'Era degli Alberi sarebbe iniziata 31.000 anni fa, e tenendo conto del fatto che i Silmaril non possono essere più vecchi di Teleperion e Laurelin, contenendone la luce. La difficoltà di rintracciare un tale isotopo e la materia cristallina atta a diventare radioluminescente potrebbe spiegare perchè nessuno in Arda, dopo il figlio di Finwë e di Míriel, unico tra gli Elfi a possedere conoscenze nel campo della radioattività, sia riuscito a ripeterne l'impresa...

Mi sembra già di sentire levarsi un'altra domanda... nei Silmaril era racchiusa la Luce degli Alberi di Valinor. Ma questa luce, a sua volta, da dove veniva? La risposta "era opera di magia", come abbiamo visto, non è ammessa. Di ogni "magia" del Legendarium noi cerchiamo una possibile spiegazione scientifica, come più sotto faremo per la vista degli Elfi e per l'invisibilità prodotta dall'Unico Anello, e dunque, come abbiamo fatto per i tre diamanti luminescenti rubati da Morgoth, anche in questo caso dobbiamo verificare se in Natura esiste un fenomeno in grado di giustificare la luce dell'Albero d'Oro e dell'Albero d'Argento. Cominciamo anche stavolta con il rileggere il giusto passo del "Silmarillion":

« Alle note di Yavanna, gli alberelli crebbero e divennero belli e alti e si coprirono di fiori; e così nacquero al mondo i Due Alberi di Valinor. Di tutte le cose fatte da Yavanna, sono essi le più rinomate, e tutte le narrazioni dei Giorni Antichi si imperniano sul loro destino. Uno, che era maschio, aveva foglie verde scuro che sulla faccia inferiore erano come argento lucente, e da ciascuno dei suoi innumerevoli fiori spioveva di continuo una rugiada di argentea luce, e il suolo sottostante era maculato dalle ombre delle sue foglie vibranti. L'altro, che era femmina, le aveva di un verde tenero come quello della betulla gemmata; e i loro bordi erano di oro baluginante. Fiori ne coprivano i rami in grappoli di fiamma gialla, ciascuno formato a guisa di corno scintillante che spandeva una pioggia d'oro sul terreno; e dai bocci di quell'albero promanavano calore e una gran luce. L'uno era detto Telperion a Valinor, l'altro invece era detto Laurelin.
Nel giro di sette ore, la gloria di ciascuno dei due alberi raggiungeva il pieno e svaniva nel nulla; e ciascuno tornava alla vita un'ora prima che l'altro cessasse di splendere. Sicché a Valinor due volte al giorno era una dolce ora di luce più tenue, quando entrambi gli alberi sbiadivano, e i loro raggi d'oro e d'argento si mescolavano. [...] Dunque, alla sesta ora del Primo Giorno e di tutti i gioiosi giorni successivi, fino all'Ottenebramento di Valinor, aveva termine il tempo della fioritura di Telperion; e alla dodicesima cessava la fioritura di Laurelin. E ogni giorno dei Valar ad Aman comprendeva dodici ore e terminava con il secondo mescolarsi delle luci, allorché Laurelin stava spegnendosi e Telperion invece riaccendendosi.
Ma la luce che gli alberi versavano, durava a lungo prima di essere assorbita dall'aria o inghiottita dalla terra; e le rugiade di Telperion e la pioggia che cadeva da Laurelin, Varda le conservava in grandi tinozze simili a laghi lucenti, che per tutta la terra dei Valar erano come sorgenti d'acqua e di luce. Così si iniziarono i Giorni della Felicità di Valinor; e così cominciò anche il Calcolo del Tempo. »
(QS, cap. I)

Come si vede, la Luce degli Alberi è descritta quasi come una sostanza fluida, a sua volta luminescente, che promana dai due meravigliosi vegetali: essa viene raccolta da Varda come fonte di luce ed acqua allo stesso tempo. In realtà, a differenza dei Silmarilli, non è poi così strano che nel mondo dei viventi esistano esseri in grado di produrre luce propria: basti pensare ai coleotteri indicati con il nome scientifico di Lampyris noctiluca, ed universalmente conosciuti come lucciole. Tale fenomeno è conosciuto come bioluminescenza.

Questo fotomontaggio mostra l'elmo di Morgoth in una rappresentazione artistica di SpentaMainyu tratta da questo sito, nel quale sono incastonati non i tre Silmarilli, ma tre esemplari di lucciola!

Le lucciole, sia allo stadio di larva che di adulto, producono luce da uno o più segmenti addominali, generalmente gli ultimi, da cui il termine latino "noctiluca", "che fa luce nella notte". Si tratta di una luce fredda, la cui lunghezza d'onda oscilla fra i 500 ed i 650 nanometri, mentre l'intensità invece varia a seconda delle specie. Come scoprì per primo nel 1949 il biochimico statunitense William David McElroy (1917-1999) della Johns Hopkins University di Baltimora, che reclutò i suoi studenti per raccogliere le lucciole necessarie agli esperimenti, questa emissione luminosa è dovuta all'ossidazione del composto chiamato luciferina ad ossiluciferina, che avviene in presenza di ossigeno, magnesio ed adenosin-trifosfato (ATP), grazie alla catalisi operata dall'enzima luciferasi. Infatti i segmenti addominali di questi coleotteri, oltre ad essere trasparenti sul lato ventrale, sono percorsi da innumerevoli trachee (gli insetti sono privi di polmoni) che conducono l'ossigeno necessario alla reazione di ossidazione; regolando il flusso dell'aria, l'insetto può regolare la frequenza dei lampeggiamenti.

Negli adulti la bioluminescenza è collegata all'accoppiamento: i maschi emettono segnali luminosi ritmici per attirare l'attenzione delle femmine, che a loro volta emettono luce a ritmi differenti. Nelle larve invece si tratta probabilmente di un segnale di avvertimento per i predatori, dal momento che esse contengono sostanze chimiche di gusto sgradevolissimo, e talora anche tossiche. Pochi sanno invece che anche le uova di lucciola sono luminescenti. Le lucciole tropicali, in particolare quelle del sudest asiatico, si riuniscono in gruppi numerosissimi e sincronizzano i loro lampi; nelle notti calde, lungo i fiumi che scorrono nella giungla malese, è possibile assistere a questi impressionanti brillamenti sincronizzati da parte delle lucciole, chiamate kelip-kelip in lingua malese. Le ipotesi circa le cause di questo comportamento coinvolgono la dieta, l'interazione sociale e l'avviso ai predatori di stare alla larga. Anche negli Stati Uniti è possibile avvistare grandi stormi di lucciole lampeggianti all'unisono nel Parco Nazionale di Congaree nella South Carolina. Di questo fenomeno parla anche Dante, nel canto di Ulisse, avendolo evidentemente osservato durante i suoi viaggi:

« Quante 'l villan ch'al poggio si riposa,
nel tempo che colui che 'l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov'è vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
l'ottava bolgia, sì com'io m'accorsi
tosto che fui là 've 'l fondo parea. »
(Inferno, canto XXVI, vv. 25-33)

Da notare che le femmina del genere di lucciole chiamate Photuris sono solite imitare i lampi di accoppiamento di altri generi di Lampyris a scopo di predazione: i maschi di quelle specie sono attratti da quelle che sembrano essere delle compagne ideali, ed invece fanno una brutta fine!

Ma la bioluminescenza non è certo limitata alle lucciole. Anzi, è diffusissima tra gli organismi marini, specie quelli che vivono a grande profondità. Di fatto, la luce solare in mare arriva solo fino a 200 m di profondità circa (la cosiddetta zona eufotica), per diventare molto debole fino ai 1000 m, dove giungono solo le componenti verdi e azzurre, e scompare a profondità maggiori. Ne consegue che gli oceani, lungi dall'essere quell'azzurro paradiso descritto in cartoni animati stile "La Sirenetta", sono in realtà il regno delle tenebre; di conseguenza l'uso della vista anche là dove la luce è minima o assente è possibile solo attraverso la bioluminescenza marina. La si riscontra così in animali diversissimi tra loro: negli Ctenofori, negli Anellidi, megli Cnidari dell'ordine Siphonophora, nei Cefalopodi e nei Pesci abissali; ad esempio, la femmina del Melanocetus johnsonii, detto anche diavolo nero, che vive in tutti i mari caldi fino a 4500 metri di profondità, ha sulla fronte un peduncolo mobile con l'estremità bioluminescente detto illicio, che usa come esca luminosa per catturare le prede. Il pesce vipera o Chauliodus sloani, che staziona fra i 500 e i 3000 metri di profondità, è un feroce predatore che attira le sue prede usando 350 organi luminosi all'interno della bocca. Alcuni pesci non utilizzano la bioluminescenza per attirare il cibo, ma per evitare di diventare cibo essi stessi. Infatti la sagoma del pesce può essere vista in controluce dal basso, in direzione della luce che viene dalla superficie; alcuni organismi abissali perciò producono luce sulla porzione della loro superficie rivolta verso il basso, mimetizzandosi con la luce superficiale attraverso una procedura detta di controilluminazione. Bisogna poi aggiungere che alcuni organismi liberano una nuvola di fluido luminescente, allo scopo di confondere o di abbagliare i predatori.

Sono bioluminescenti anche molti animali terricoli, ad esempio i coleotteri della famiglia Phengodidae, i cosiddetti "vermi luminosi", in riferimento alle loro larve (ad esempio Phrixothrix hirtus), e persino in molti batteri, alcuni dei quali (come il Vibrio harveyi) originano l'effetto del "mare di latte" che si verifica soprattutto nell'Oceano Indiano: il mare assume una luminescenza così intensa da conferirgli il colore bianco del latte! Si pensa che tali batteri potrebbero emettere luce in presenza di predatori: la loro luce attirerebbe predatori di maggiori dimensioni, che attaccherebbero i predatori di plancton!

Voi mi direte: ma questi sono tutti animali, invece gli Alberi dei Valar erano vegetali. Ebbene, incredibile ma vero, anche nel Regno Vegetale si riscontrano esempi di bioluminescenza, come mostra la parte inferiore della foto sottostante:

La foto soprastante mostra dei funghi bioluminescenti (sotto) a confronto con gli Alberi di Valinor (sopra), come sono immaginati in questo sito

Il fenomeno della bioluminescenza è stato trovato in 71 specie di funghi appartenenti a 9 generi nell'ordine dei Basidiomiceti. Nel caso dei vegetali, però, non vi sono risposte certe circa l'utilità della bioluminescenza. I funghi come Omphalotus olearius e Gerronema viridilucens, simili a quelli ritratti nella fotografia soprastante, potrebbero utilizzare la bioluminescenza per attrarre insetti che propagano le loro spore, ma siamo nel campo delle ipotesi.

Il principio alla base della bioluminescenza è lo stesso della chemoiluminescenza: alcune molecole, prodotte in uno stato elettronico eccitato, emettono parte della loro energia sotto forma di radiazione luminosa tornando allo stato fondamentale. La luce è generalmente verde (510-520 nm). Gli studi biochimici però hanno dimostrato che i meccanismi di emissione della luce da parte degli organismi viventi sono molto vari e quindi, con buona probabilità, tale fenomeno si è sviluppato in maniera indipendente nei vari ordini. Ad esempio, nei batteri del tipo Photobacterium la bioluminescenza è associata al consumo di ossigeno (O2), e quindi avviene solo in condizioni di aerobiosi. Possiamo dunque pensare che i due Alberi dei Valar irradiassero la loro meravigliosa luce attraverso un processo di bioluminescenza simile a quello ora descritto, anche se su frequenze ben diverse: Telperion nello spettro dell'azzurro tenue, tra 600 e 630 nm, e Laurelin nel giallo dorato, tra 480 e 520 nm. Ma quanta energia richiedeva, questa reazione?

La risposta dipende dalla grandezza degli Alberi, e quindi dalla loro superficie fogliare complessiva. Il problema è che in nessun punto del Legendarium, Tolkien parla esplicitamente delle loro dimensioni; tuttavia, siccome essi davano luce a tutta la Terra Beata di Valinor, in moltissimi hanno pensato che essi dovessero avere dimensioni gigantesche, addirittura mostruose, superiori a quelle degli alberi colossali che Carson Napier trova sul pianeta Venere come immaginato nei romanzi di Edgar Rice Burroughs (1875-1950): su quel pianeta sorgerebbero infatti alberi alti più di millecinquecento metri! In effetti da nessuna parte è scritto che gli Alberi illuminassero Aman con uno splendore paragonabile a quello del Sole; infatti, la ricostruzione mostrata qui sopra li immagina sullo sfondo di un cielo nero, piuttosto che di uno azzurro o dorato. Non è dunque necessario immaginare alberi di dimensioni fantascientifiche, sul tumulo di Ezellohar, dinanzi alla porta occidentale di Valmar dalle molte campane, anche perché alberi del genere richiederebbero una tale energia per illuminare la Città dei Valar, da necessitare addirittura di un reattore nucleare come fonte di energia!

Il fatto che Telperion, l'albero maschio, spandesse all'intorno una luce argentea, come la Luna che da un suo fiore sarebbe nata, e Laurelin, l'albero femmina, ne generasse una aurea, come il Sole sorto da un suo frutto, ci porta automaticamente a parlare dei colori. Sicuramente il più esperto su questo argomento nella Terra di Mezzo era Gandalf: egli infatti era bravissimo a realizzare fuochi d'artificio di ogni forma e colore, come vedremo in una prossima lezione. E non basta: nella casa di Beorn, dopo essere stato via tutto il giorno, lo Stregone evita le domande di Bilbo e dei Nani, cena e poi si mette spaparanzato a fumare, giocando a fare anelli di fumo:

« Per un bel po' non riuscirono a cavargli fuori nient'altro, tanto era occupato a spedire anelli di fumo ad attorcigliarsi attorno ai pilastri della sala, trasformandoli in tutta una varietà di forme e colori, e facendoli poi fluttuare uno dietro l'altro, verde, blu, rosso, grigio argento, giallo, bianco; grossi, piccoli, che si avvolgevano attraverso quelli grossi formando degli otto, e svanivano come uno stormo di uccelli in lontananza. »
(Lo Hobbit, cap. VII)

Come Gandalf potesse fare anelli di fumo multicolori, questo non è semplice da spiegare, ed è un problema di natura chimica, giacché si può pensare che il Grigio Pellegrino miscelasse qualche particolare erba al proprio tabacco (state tranquilli nessuna erba allucinogena!). A noi qui interessa invece spiegare in che cosa consistono i diversi colori che l'Hobbit e i Nani vedono. Di solito si intende con colore la percezione visiva generata dagli impulsi nervosi che i fotorecettori della retina inviano al cervello quando assorbono la luce di determinate lunghezze d'onda. In pratica, ogni diversa frequenza della luce viene percepita dal nostro cervello come un diverso colore. Se perciò si parla semplicisticamente dei "sette colori dell'iride", in realtà i colori sono tanti quanti le frequenze, cioè infinite (nella vita di tutti i giorni ciò si esprime affermando che vi sono infinite sfumature di rosso, infinite di verde, e così via). L' occhio umano può distinguere circa dieci milioni di colori diversi. I "sette colori dell'iride" sono dunque in realtà sette intervalli di frequenze, che solitamente vengono così suddivisi:

Colore

f (THz)

λ (nm)

rosso

400-490

610-750

arancione

490-510

590-610

giallo

510-575

520-590

verde

575-640

470-520

azzurro

640-670

450-470

indaco

670-700

430-450

violetto

700-790

380-430

Perchè allora le foglie di Lórien sono verdi, e l'oro rubato da Smaug è giallo? Il primo a fornire una risposta fu Isaac Newton, il quale nella sua opera "Opticks" (1704) sostenne che le foglie di Lórien ci appaiono verdi perchè assorbono tutte le radiazioni tranne quella verde, che viene riflessa e raggiunge i nostri occhi; l'oro ci appare giallo perchè assorbe tutte le radiazioni tranne quella gialla, che viene riflessa verso di noi; il mantello di Gandalf il Bianco invece ci appare di questo colore perchè non assorbe nessuna radiazione, ma le riflette tutte ai nostri occhi, e la sovrapposizione di tutte le frequenze dà proprio vita al bianco; infine, gli Spettri dell'Anello appaiono neri perchè assorbono tutte le radiazioni e non ne riflettono alcuna verso i nostri occhi; e l'assenza di frequenze luminose viene percepita dai nostri occhi come nera. Il colore dunque non è un colore, ma è l'assenza di colori. Infatti, ponendo sotto una lampada da tavolo due superfici identiche di carta, una dipinta di bianco ed una di nero, quella nera ci apparirà più calda, avendo assorbito tutte le radiazioni che l'altro ha riflesso. Ed anche ponendo al sole un palloncino nero e uno bianco, quello nero scoppia molto prima, perchè assorbe molto più calore. Questa, infine, è la spiegazione del perchè chi veste abiti neri in estate di solito ha molto più caldo, e per questo i sacerdoti e le suore missionarie nei paesi tropicali non vestono di nero, ma di bianco!

Parlando di colori... Quello qui sotto rappresentato sembra uno straordinario paesaggio fantastico della Terra di Mezzo, ed invece si trova proprio sul nostro mondo: siamo nello Zhangye Danxia Geopark in Cina, nella provincia di Gansu, istituito nel novembre 2011, che si estende per circa 510 chilometri quadrati. Si tratta di una zona a bassa piovosità vicina al deserto del Gobi, e il suo incredibile tessuto multicolore, che fa venire in mente il mescolamento di innumerevoli sacchi di sabbia colorata, è il risultato di depositi successivi di vari minerali di pigmentazione diversa. Le increspature della terra, causate dalla collisione della placca indo-australiana con l’Eurasia (come detto nel capitolo precedente), hanno portato alla genesi di questo paesaggio surreale, fatto di miraggi multicolori che ci fanno credere di trovarci a Valinor, o in qualche splendido regno elfico della Prima Era:

La realtà supera la fantasy: lo straordinario paesaggio dello Zhangye Danxia Geopark!

In realtà però il colore non è una proprietà intrinseca di un oggetto, ma dipende fortemente dalla luce che lo colpisce. Ad esempio, una lampada di luce rossa rende di questo colore tutti gli oggetti che investe, perchè essi possono riflettere solo il rosso, tranne quelli neri che restano neri. Quelli che alla luce bianca appaiono già rossi, in queste condizioni appaiono più luminosi degli altri. Anche Sam ha vissuto un'esperienza del genere, quando si è inoltrato nella torre di Cirith Ungol alla ricerca di Frodo, scoprendo che quegli idioti si sono uccisi l'uno con l'altro per dividersi le cose appartenute allo Hobbit, e specialmente la cotta di mithril:

« Sam notò due uniformi diverse, una con il simbolo dell'Occhio Rosso, e l'altra di una Luna sfigurata da un orrido teschio, ma non si fermò a guardare più da vicino. Dall'altro lato del cortile una porta socchiusa conduceva nella Torre: ne usciva una luce rossa che illuminava un grosso Orco morto sulla soglia. Sam oltrepassò il cadavere con un salto ed entrò. »
(SdA, libro VI, cap. I)

Se la luce bianca attraversa un prisma di vetro, essa dà vita ad uno spettro luminoso, cioè si scompone in tutti i colori (vale a dire in tutte le frequenze) che la compongono. Questo fenomeno, chiamato dispersione della luce, era ben noto fin dall'antichità, ed ancor oggi rappresenta uno degli esperimenti di Fisica più semplici da riprodurre: basta far incidere la luce sul retro di un comune DVD per osservare tutto lo spettro dei colori. Non è certo un caso se i Pink Floyd lo usarono come copertina dell'album "The Dark Side of the Moon" (1973)! Certamente la dispersione ottica era ben conosciuto anche nella Terra di Mezzo, visto che Gandalf ne parla con Saruman, come attesta il brano seguente:

« "Io sono Saruman il Saggio, Saruman Creatore di Anelli, Saruman il Multicolore."
Lo guardai, e vidi che le sue vesti non erano bianche come mi era parso, bensì tessute di tutti i colori, che quando si muoveva scintillavano e cambiavano tinta, abbagliando quasi la vista.
"Preferivo il bianco", dissi.
"Bianco!" sogghignò, "Serve come base. "Il tessuto bianco può essere tinto. La pagina bianca ricoperta di scrittura, e la luce bianca decomposta."
"Nel qual caso non sarà più bianca", dissi. "E colui che rompe un oggetto per scoprire cos'è. ha abbandonato il sentiero della saggezza." »
(SdA, libro II, cap. II)

La decomposizione della luce da parte di un mezzo rifrangente è dovuta al fatto che l'indice di rifrazione di un materiale è funzione della lunghezza d'onda della luce. Di conseguenza l'angolo di rifrazione dei diversi colori è differente, e le frequenze escono dal prisma separate tra di loro. Questo è anche alla base del fenomeno dell'arcobaleno, già citato nella Genesi ma descritto correttamente per la prima volta dal persiano Qutb al-Din al-Shirazi (1236–1311). Le gocce di pioggia ancora disperse nell'aria scompongono la luce del sole che torna a fare capolino tra le nuvole, ed ecco comparire quello che i norreni credevano un ponte tra la Terra (Midgard, guarda caso, "Terra di Mezzo"!) e l'Asgard, residenza degli déi:

« Gli Ent continuarono a riversare acqua fin quando ogni fuoco fu estinto ed ogni caverna colmata. La nebbia si addensò lentamente, e s'innalzò trasformandosi in un immenso ombrello di nubi, alto almeno un miglio. Di sera comparve sui colli orientali un grande arcobaleno; poi il tramonto fu offuscato da una fitta pioggerella lungo i fianchi delle montagne. »
(SdA, libro III, cap. 9)

Degli spettri, così come dei colori, riparleremo in futuro, introducendo la meccanica quantistica attraverso i fuochi d'artificio di Gandalf. Ora vogliamo passare ad un altro, importantissimo capitolo dello studio della luce e delle sue manifestazioni: la cosiddetta ottica geometrica. Essa tratta di tutti quei fenomeni luminosi che possono essere descritti senza bisogno di ricorrere al concetto di onda. In pratica la luce viene considerata come un raggio che si propaga in linea retta in un mezzo omogeneo (uguale a se stesso in ogni punto) ed isotropo (uguale a se stesso in ogni direzione). Il fenomeno più semplice che può venire descritto in questo modo è quello della riflessione. Quando un raggio di luce che si propaga nell'aria incide sulla superficie liscia di uno specchio d'acqua, esso "rimbalza" indietro e torna a propagarsi nell'aria, dando vita ad un raggio riflesso. Tale raggio obbedisce a due leggi di grande importanza:

1) il raggio incidente, il raggio riflesso e la retta perpendicolare alla superficie di separazione tra i due mezzi nel punto di incidenza giacciono tutti nello stesso piano;
2) l'angolo formato dal raggio incidente con la perpendicolare nel punto di incidenza, detto angolo di incidenza, è congruente all'angolo formato dalla perpendicolare con il raggio riflesso, detto angolo di riflessione.

Di tale fenomeno assistiamo a una chiara manifestazione durante la visita di Frodo a Lothlórien, quando Galadriel invita l'hobbit a guardare in un recipiente pieno d'acqua che gli potrà mostrare il passato, il presente e il futuro. È questo il celebre Specchio di Galadriel, la cui descrizione vale la pena di rileggere per intero:

« Scese una lunga scalinata Dama Galadriel, e mise piede in una profonda conca verde, attraversata dal mormorante ruscello d'argento che sgorgava dalla fontana sulla collina. Sul fondo, una vasca d'argento bassa e poco profonda poggiava su un piccolo piedistallo scolpito come un albero frondoso; accanto vi era una brocca d'argento. Con l'acqua del ruscello Galadriel riempì la vasca sino all'orlo, e vi soffiò, e quando l'acqua fu nuovamente calma, disse: "Questo è lo specchio di Galadriel. Vi ho portati qui affinché possiate guardarvi, se lo desiderate."
L'aria era molto tranquilla, e la conca molto oscura e la Dama Elfica accanto a lui era alta e pallida. "Che cosa dobbiamo cercare, e che cosa vedremo?", domandò Frodo pieno di meraviglia.
"Molte cose comando allo Specchio di rivelare", rispose ella, "e ad alcuni posso mostrare ciò che desiderano vedere. Ma lo Specchio può anche spontaneamente mostrare delle immagini, che sono spesso più strane e utili di quelle che noi stessi desideriamo vedere. Non vi so dire quel che potrete mirare, lasciando lo Specchio libero di creare. Esso infatti mostra cose che furono, e cose che sono, e cose che ancora devono essere. Ma quali fra queste egli stia vedendo, nemmeno il più saggio può sapere. »
(SdA, libro II, cap. VII)

Galadriel e il suo magico Specchio nella trilogia di Peter JacksonIl radiotelescopio di Arecibo e la geometria di uno specchio parabolico

Galadriel e il suo magico Specchio nella trilogia di Peter Jackson (a sinistra) a confronto con il radiotelescopio di Arecibo e con la geometria di uno specchio parabolico (a destra)

Quello che Galadriel esegue con la sua magica bacinella è un esempio di catoptromanzia, l'arte di predire il futuro per l'appunto mediante gli specchi: una pratica molto antica, che fa parte delle tradizioni religiose di moltissimi popoli. Gli antichi Franchi, per esempio, predicevano il futuro osservando uno specchio nero posto in una stanza illuminata da una candela; in Ungheria, la notte di San Silvestro, le fanciulle in età da marito immergevano a mezzanotte uno specchio nell'acqua della sorgente illuminandolo con un cero per vedere riflesso in esso il volto del futuro sposo; anche in Russia, la notte di Natale, le fanciulle si chiudevano in una stanza illuminata da due candele e recitavano delle preghiere davanti a due specchi per poter vedere riflessi in essi il volto del futuro marito. Un caso particolare di catoptromanzia è la famosa divinazione mediante la sfera di cristallo, che è stata consacrata da film fantasy e cartoni animati come uno dei principali accessori di maghi e chiaroveggenti, fino ai moderni ciarlatani televisivi. « Non ho la sfera di cristallo! » è una locuzione ormai comunissima per indicare l'incapacità di immaginare il futuro. Nella tomba del re dei Franchi Childerico I (436-481), padre di Clodoveo, fu ritrovato un globo di berillo trasparente del diametro di 4 centimetri; nacque così la leggenda che il re lo utilizzasse per predire il futuro. Invece il tentativo di predire il futuro usando come specchio una bacinella d'acqua fa parte della tradizione araba e di quella norrena, e fu da quest'ultima che Tolkien lo riprese per creare lo Specchio di Galadriel. Nell'antichità lo specchio, essendo fatto di bronzo o argento lucidati e non rispecchiando nitidamente la realtà come quelli attuali, simboleggiava l'imperfezione della condizione umana, come dimostra un famoso passo di San Paolo: « Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia » (Prima Lettera ai Corinzi 13, 12). In epoca medioevale invece lo specchio, un accessorio molto prezioso che solo le nobildonne potevano permettersi, venne guardato come una porta per scrutare al di là del mondo sensibile ed investigare i segreti dell'anima. In tale senso si interpreta lo specchio magico della perfida regina nella favola "Biancaneve" dei fratelli Jacob (1785-1863) e Wilhelm Grimm (1786-1859), poi ereditato dalla Alice di Lewis Carroll (1832-1898) in "Attraverso lo Specchio e quel che Alice vi trovò" (1871) e dalla filmografia di Ingmar Bergman (1918-2007).

In questa sede ovviamente non ci occuperemo di chiaroveggenza, ma solo delle leggi che regolano il "funzionamento" degli specchi. Una sorgente luminosa puntiforme irraggia luce in tutte le direzioni; se la poniamo vicino ad uno specchio piano, come appunto la superficie dell'acqua in una bacinella, oltre a vedere tale sorgente direttamente, vedremo anche una sua immagine riflessa, che sembra provenire da dietro lo specchio. Infatti alcuni raggi di luce emessi dalla sorgente vengono riflessi dallo specchio, prima di raggiungere l'occhio dell'osservatore. Prolungando tali raggi dietro lo specchio (i cosiddetti raggi virtuali), essi convergono in un punto chiamato sorgente virtuale, che è l'immagine riflessa della sorgente reale. Se un osservatore guarda lo specchio, il suo occhio è colpito da alcuni raggi che sembrano provenire proprio dalla sorgente virtuale, e così egli ha l'impressione che essa si trovi dietro lo specchio. Naturalmente è un'illusione, perchè lo specchio non è trasparente, e dietro di esso non c'è alcuna sorgente. Ma il nostro cervello parte dal presupposto che la luce si propaga in linea retta, e dunque localizza la sorgente nel prolungamento dei raggi che arrivano all'occhio, come mostra questa figura:

Nel caso di Frodo che guarda nello Specchio di Galadriel, la luce di una sorgente luminosa (la candela che abbiamo detto venire usata nella catoptromanzia) si riflette sul suo viso e viene inviata verso lo specchio, che sulla base delle leggi della riflessione viene a sua volta rinviata verso gli occhi dello stesso Frodo. Tutti i raggi riflessi dal volto di Frodo che incidono sullo specchio, si riflettono in modo che i loro prolungamenti si intersecano in punti posti dietro lo specchio, che disegnano un'immagine del viso dell'Hobbit. Tale immagine non può essere raccolta su uno schermo, ed è per questo che viene detta virtuale. Costruire l'immagine di qualunque oggetto è facile: basta individuare il simmetrico di ogni punto rispetto allo specchio. L'immagine virtuale  ha le stesse dimensioni dell'oggetto reale, ma oggetto ed immagine non sono sovrapponibili: se Frodo alza il braccio destro, l'immagine riflessa alza il braccio sinistro.

In effetti, però, se le due leggi della riflessione fossero scrupolosamente rispettate, Frodo non potrebbe vedere il suo volto riflesso in ogni posizione, ma solo mettendosi nella direzione per la quale l'angolo di incidenza è congruente all'angolo di riflessione. Anzi, se fosse così, Galadriel stessa potrebbe vedere Frodo solo nella direzione particolare nella quale i raggi di luce emessi dalla fiamma della candela, riflettendosi sul volto dello Hobbit, raggiungono i suoi occhi. Ciò è controintuitivo: certamente Galadriel vede Frodo in qualunque posizione relativa essi si trovino! E allora, come si spiega questa palese contraddizione? Il fatto è che superfici reali non sono mai perfettamente piane e lisce, ma sono scabre. Poiché ogni piccola porzione di superficie ha inclinazione diversa dalle altre, i raggi riflessi vengono sparpagliati in tutte le direzioni. Ne consegue che l'immagine del volto di Frodo è diffusa in tutte le direzioni, ed è per questo che Galadriel può vedere quel volto sotto qualunque angolazione! Questo fenomeno prende il nome di diffusione della luce.

Quanto detto finora vale per gli specchi piani. E per quelli curvi? Consideriamo il cucchiaio con cui Sam prepara per Frodo il coniglio al ragù che dà il titolo ad uno dei capitoli de "Le Due Torri":

« Sam e il suo padrone, seduti tra le felci, mangiarono lo stufato dalle padelle dividendosi il vecchio cucchiaio e la forchetta. Si concessero mezzo pan di via elfico per ciascuno. Sembrò loro un banchetto. »
(SdA, libro IV, cap. IV)

Se Sam guarda in esso il suo volto riflesso nella parte concava, esso gli sembrerà capovolto e rimpicciolito. Se invece lo osserva nella parte convessa, gli apparirà diritto e rimpicciolito. Per quale motivo? Vale la pena di parlarne nei dettagli. Se lo specchio è parabolico, cioè se la loro superficie si ottiene dalla rotazione di una parabola intorno al loro asse di simmetria, chiamato asse ottico dello specchio, tutti i raggi di luce paralleli a tale asse che incidono sulla parte concava dello specchio vengono concentrati in un punto, detto fuoco della parabola. Infatti, ponendo in tale punto un pezzo di carta, la concentrazione di energia è tale che la carta prende fuoco. Su tale principio erano basati i famosi specchi ustori con i quali, come narra la tradizione, Archimede (287-212 a.C.) cercò di salvare Siracusa dall'assedio dei Romani incendiandone le navi per mezzo della concentrazione su di esse dei raggi solari. Sempre con uno specchio parabolico ancora oggi ad Olimpia viene accesa la torcia che poi, portata dai tedofori, farà il giro del mondo e servirà per accendere il braciere, simbolo dei Giochi Olimpici. Contengono uno specchio parabolico pure i grandi telescopi riflettori: essi raccolgono le onde luminose provenienti da stelle e galassie lontane, e quindi praticamente paralleli tra loro, e le concentrano nell'oculare o su una fotocamera digitale posizionata nel fuoco; per riuscire ad osservare oggetti celesti molto deboli occorre mantenere lo strumento puntato per tempi molto lunghi, in modo che il loro tenue flusso luminoso possa essere captato in quantità sufficiente da essere registrato. Infine, sono specchi parabolici anche i radiotelescopi, come il grande radiotelescopio di Arecibo, sull'isola di Portorico, che con un diametro di 300 metri è il più grande radiotelescopio con singola apertura mai costruito dall'uomo; nell'immagine soprastante lo vediamo a confronto con lo Specchio di Galadriel. In questo caso però il radiotelescopio riflette nel fuoco non luce visibile, ma onde elettromagnetiche. Nel 1974 il radiotelescopio di Arecibo  fu utilizzato non per ricevere, ma per trasmettere verso l'ammasso globulare M13, distante 25.000 anni luce dalla Terra, un messaggio radio diretto ad eventuali forme di vita extraterrestri, ideato da Frank Drake (1930-). Allo stesso modo, i fari delle automobili hanno la lampadina posta nel fuoco di uno specchio parabolico perchè i raggi da essa emessi in tutte le direzioni vengono riflessi all'interno di esso e trasformati in un fascio di raggi di luce paralleli tra di loro. In tal modo lo specchio parabolico funziona da proiettore., così come ha funzionato da proiettore il radiotelescopio di Arecibo per trasmettere il messaggio radio di Drake.

Consideriamo ora invece uno specchio sferico, che cioè ha la forma di una calotta sferica di centro C e raggio r. I raggi di luce emessi da una sorgente luminosa, o da un oggetto illuminato, si riflettono su di esso ma non si concentrano in un solo punto. L'inviluppo di tutti i raggi riflessi forma invece una tipica curva chiamata caustica di riflessione, che ai nostri occhi appare come una macchia luminosa dai contorni sfocati. Questo inconveniente si manifesta in modo meno evidente se lo specchio ha una piccola curvatura, cioè se è quasi piano, e se i raggi sono poco inclinati, cioè se sono quasi paralleli all'asse ottico (si parla in tal caso di raggi parassiali). In queste condizioni, infatti, uno specchio sferico differisce poco da uno parabolico. Per questo, di solito nella maggior parte delle applicazioni pratiche si fa riferimento a specchi sferici, tenendo conto anche del fatto che la geometria dello specchio sferico è più semplice di quello dello specchio parabolico. Anche noi faremo riferimento solo a questo tipo di specchi, avvertendo però chiaramente che le nostre conclusioni sono valide solo per specchi di piccola apertura e per raggi pressoché parassiali. Se queste due condizioni sono rispettate, allora:

Queste vengono chiamate le approssimazioni di Gauss. Consideriamo dunque una sorgente luminosa (diretta o riflettente) posta in un punto P dell'asse ottico. Uno dei raggi che parte da essa intercetta lo specchio sferico (in figura sottostante la curvatura è stata esagerata) nel punto Q, per poi riflettersi e ritornare a tagliare l'asse ottico nel punto P'. Per la seconda legge della riflessione, l'angolo PQC è congruente all'angolo CQP', dove C è il centro dello specchio e CQ il suo raggio passante per Q:

Il raggio CQ è dunque la bisettrice dell'angolo PQP'. Ora, per il teorema della bisettrice dell'angolo interno di un triangolo, essa divide il lato opposto in parti proporzionali agli altri due lati, per cui:

Poiché lo specchio è di piccola apertura potremo ammettere che approssimativamente QP = VP e QP' = VP'. La precedente allora diventa:

Poniamo ora VP = p e VP' = q, misurando le distanze positive da V verso sinistra. Allora p è la posizione dell'oggetto e q quella della sua immagine. Inoltre CQ = r, essendo il raggio dello specchio sferico. Il nostro specchio, come si vede in figura, è concavo, e per gli specchi concavi il raggio è considerato positivo, poiché il centro C si trova dalla parte riflettente dello specchio. La precedente diventa allora:

Riducendola a forma intera, si ha:

e dividendo entrambi i membri per p q r :

     (1)

Questa relazione è simmetrica: scambiando infatti p con q, il risultato non cambia. Ciò significa che se la sorgente luminosa è posta in P', la sua immagine si forma in P. Supponiamo ora che la sorgente P si allontani all'infinito verso sinistra. Quando p diventa grandissimo, 1/p tende a zero, e la precedente fornisce:

Dunque, se i raggi luminosi incidenti provengono dall'infinito, se cioè sono paralleli all'asse ottico, essi vanno a convergere in un punto F la cui distanza dal vertice V è pari alla metà del raggio di curvatura dello specchio. Si tratta di un risultato di grande importanza: se valgono le approssimazioni di Gauss, infatti, tutti i raggi luminosi provenienti dall'infinito convergono in un unico punto, posto a metà del raggio dello specchio; in altre parole, lo specchio sferico si comporta come uno specchio parabolico, senza generare alcuna caustica! Il valore di q così trovato prende il nome di distanza focale f. La (1) assume perciò la forma:

     (2)

Questa viene chiamata legge dei punti coniugati. Essa può venire verificata sperimentalmente ponendo un oggetto luminoso, ad esempio una candela accesa, a distanze differenti da uno specchio di nota distanza focale, e raccogliendo l'immagine su di uno schermo. Si noti che se p = 2 f, anche q = 2 f; ponendo la sorgente nel centro dello specchio, l'immagine si forma in quello stesso punto. Questo naturalmente vale per uno specchio concavo. Si potrebbero tuttavia ripetere gli stessi calcoli per uno specchio convesso, verificando che stavolta si trova un'equazione di questo tipo:

     (3)

A mo' di esempio, consideriamo i famosi specchi ustori di Archimede e supponiamo che fossero specchi sferici. Supponendo che la distanza delle navi romane dalle torri dove erano posti gli specchi fosse pari a 100 metri, quale doveva essere il raggio di curvatura degli specchi? Essendo il Sole lontanissimo, i raggi che provengono da esso si possono considerare provenienti dall'infinito, quindi 1/p = 0. Ne consegue dalla (1) che r = 2 q = 200 metri.

Torniamo invece al famoso cucchiaio di Sam citato sopra, e supponiamo che esso abbia proprio la forma di una calotta sferica con il raggio di 15 centimetri. Se il nostro eroe si avvicina fino a 5 centimetri dal cucchiaio guardando in esso, p = 5 cm ed f = 7,5 cm, e la (3) ci fornirà:

Quindi q = – 15 centimetri. Ciò vuol dire che l'immagine si forma dietro al cucchiaio, a 15 centimetri dal vertice. La si può ottenere solo intersecando i prolungamenti dei raggi luminosi al di là della superficie riflettente del cucchiaio, e per questo si parla di immagine virtuale.

Si noti che nell'esempio ora svolto la sorgente non è più puntiforme, coincidendo con il volto di Sam. Nel caso di corpi estesi di ampiezza AB si introduce il concetto di ingrandimento I dello specchio, che rappresenta il rapporto tra la misura A'B' dell'immagine e quella AB dell'oggetto. Utilizzando i triangoli simili, si può dimostrare che esso è dato dalla formula:

     (4)

Il segno meno dipende dal fatto che, se l'ingrandimento I è positivo, l'immagine è diritta come l'oggetto, mentre se è negativo, risulta capovolta. Nel caso del cucchiaio di Sam appena citato, l'ingrandimento I risuta pari a – ( – 15 ) / 5 = + 3, dunque l'immagine del suo volto risulta diritta (per via del segno +) e ingrandita tre volte. Ciò si sintetizza affermando che l'immagine è virtuale, diritta e ingrandita.

Proviamo ora a costruire l'immagine generata da uno specchio sferico a diverse distanze dal suo vertice. Come oggetto AB useremo il nostro eroe Frodo nell'atto di osservarsi nello Specchio di Galadriel. Ovviamente immagineremo che esso sia vuoto e che lo Hobbit si stia specchiando direttamente nella bacinella d'argento, supposta lucidissima e con la forma di una calotta sferica di raggio r = 2 m. Ecco i vari casi possibili:

I) Frodo si trova oltre il centro dello specchio. Ad esempio, si pone a 3 metri da esso. Dalla sommità B del suo capo faccio partire due raggi luminosi; uno passa per il centro C e ritorna indietro lungo lo stesso tragitto, l'altro corre parallelamente all'asse ottico CV, si riflette sullo specchio e passa per il fuoco F (se le approssimazioni di Gauss sono valide). L'intersezione tra i due raggi, come si vede qui sotto, genera un'immagine B' reale, ma capovolta:

Siccome f = 1 m, applicando la (2) si ottiene 1/q = 1/f  – 1/p = 1/1 – 1/3, da cui si ha q = 1,5 m. Se ne conclude che l'immagine si forma effettivamente tra il centro e il fuoco, e quindi è reale. Calcoliamo ora l'ingrandimento: usando la (4) si ha I = – 1,5/3 = – 1/2. Supponendo che Frodo sia alto circa un metro e venti, l'immagine sarà alta circa sessanta centimetri e sarà capovolta, per via di quel segno meno. Ne concludiamo che l'immagine è reale, capovolta e rimpicciolita. Lascio a voi verificare che, se Frodo si trova esattamente nel centro, l'immagine si forma nello stesso punto, è capovolta e ha le stesse dimensioni di Frodo Baggins.

II) Frodo si trova tra il centro e il fuoco dello spettro. Supponiamo che la distanza AV = p sia pari a 1,25 m. Stavolta il raggio BC passante per il centro e quello BQ parassiale, dopo essersi riflessi sullo specchio, si incrociano in un punto a sinistra del centro, per cui l'immagine è ancora capovolta, ma stavolta è ingrandita:

Applicando la (2) si ha che 1/q = 1/f  – 1/p = 1/1 – 1/1,25, da cui si ha q = + 5 m. Se ne conclude che l'immagine si forma effettivamente al di là del centro, e dunque è reale. E l'ingrandimento? Con la (4) abbiamo I = – ( + 5 )/1,25 = – 4. Stavolta l'immagine sarà alta circa quattro metri e ottanta e sarà reale, capovolta e ingrandita. Lascio a voi verificare che, se Frodo si trova esattamente nel fuoco, l'immagine si forma all'infinito e sarà di dimensioni infinite.

III) Frodo si trova tra il fuoco e il vertice dello specchio. In questo caso ad esempio AV = p = 0,66 m. Come si vede qui sotto, però, il raggio BC passante per il centro dello specchio e il raggio QF che si riflette verso il fuoco risultano divergenti. Ad intersecarsi perciò sono i loro prolungamenti, dalla parte opposta dello Specchio di Galadriel:

Applicando la (2) si ha che 1/q = 1/f  – 1/p = 1/1 – 1/0,66 da cui si ha q = – 2 m. Se ne conclude che l'immagine questa volta è virtuale, giacché il segno meno indica la sua formazione dalla parte opposta rispetto a quella riflettente. Quanto all'ingrandimento, per la (4) si ha I = – ( – 2 )/0,66 = + 3, e l'immagine sarà alta circa tre metri e sessanta, ma risulterà virtuale, diritta e ingrandita. In questo caso potremo usare lo specchio concavo per ingrandire ed osservare meglio gli oggetti, dato che essi non ci appariranno capovolti. Sono di questo tipo gli specchi che gli uomini usano per farsi la barba e che le donne tengono nella borsetta per ritoccarsi il trucco.

Consideriamo ora uno specchio convesso: nel caso più semplice, il nipote di Bilbo Baggins svuota lo Specchio di Dama Galadriel, lo capovolge e guarda verso la sua parte convessa, anch'essa immaginata come perfettamente riflettente, essendo perfettamente lucidata. Stavolta dobbiamo usare la (3), e non è difficile rendersi conto che vi è un caso solo, senza le distinzioni sopra operate. Come si vede nello schema sottostante, infatti, un raggio di luce si riflette perpendicolarmente allo specchio, in modo che il suo prolungamento passi per il centro virtuale C (è dalla parte opposta rispetto a quella in cui Frodo si specchia), mentre il raggio parassiale si riflette in modo che il suo prolungamento passi per il fuoco virtuale F. Di conseguenza l'immagine si forma sempre tra il centro dello specchio ed il fuoco virtuale, ed è virtuale, diritta e rimpicciolita:

Immaginiamo che Frodo si trovi a 1,25 metri dal vertice dello specchio. Avremo allora 1/q = – 1/f – 1/p = – 1/1 – 1/1,25 da cui otteniamo q = – 0,56 m. L'ingrandimento I vale – ( – 0,56)/1.25 = + 0,44: l'immagine è alta solo il 44 % dell'originale, cioè circa 53 centimetri, come mostra appunto la figura qui sopra. Non è dunque una buona idea usare uno specchio convesso per farsi la barba, poiché esso ci restituisce sempre immagini diritte sì, ma rimpicciolite.

Il discorso fin qui svolto per gli specchi potrebbe essere ripetuto per le lenti. Mentre gli specchi sono chiamati sistemi catottrici, perché fanno convergere o divergere raggi luminosi attraverso il fenomeno della riflessione e le sue leggi, invece le lenti sono chiamate sistemi diottrici, formando delle immagini attraverso il fenomeno della rifrazione e le sue leggi. Per le lenti vale una legge analoga alla (2), ma su di essa in questa sede non ci soffermeremo. Nel Legendarium di Tolkien infatti non vi è alcuna attestazione dell'uso di lenti per correggere i difetti della vista, anche se non c'è nessun motivo per escludere che nella Terra di Mezzo essi venissero usati. Più volte infatti abbiamo riferito che a Númenor i Dúnedain avevano sviluppato una tecnologia molto avanzata, e in essa poteva essere diffusa anche l'arte di produrre e utilizzare lenti. Del resto, nonostante i primi occhiali siano stati fabbricati in Italia alla fine del XIII secolo, l'utilizzo di dispositivi diottrici è molto più antico di quanto si pensi anche nel nostro mondo. Un esempio è rappresentato dalla cosiddetta Lente di Nimrud, scoperta da Austen Henry Layard (1817-1894) nella sala del trono del palazzo di Sargon II. Essa risale al 720 a.C. circa ed oggi è esposta al British Museum. Layard pensò che fosse usata come lente di ingrandimento per delicati lavori di oreficeria, ma c'è anche chi pensa ad un monocolo per la correzione della vista. Le prime informazioni scritte sull'uso di lenti risalgono invece alla commedia "Le nuvole" (423 a.C.) di Aristofane (450-385 a.C.), in cui si fa menzione della lente come strumento per concentrare i raggi solari e accendere il fuoco. Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nella sua "Naturalis Historia" inoltra ne cita il primo uso come strumento di correzione ottica: durante i giochi, Nerone guardava i gladiatori attraverso uno smeraldo opportunamente lavorato, presumibilmente per correggere la sua miopia. Il matematico arabo Alhazen (965-1039) intorno all'anno 1000 scrisse il primo grande trattato di ottica, in cui descrisse l'occhio umano ed il meccanismo con cui il cristallino forma un'immagine sulla retina. Il primo cannocchiale invece fu fabbricato in Olanda nel 1608 dall'occhialaio Hans Lippershey (1570-1619), e poi utilizzato per la prima volta nel 1609 da Galileo Galilei (1564-1642) per osservare il cielo. Com'è noto, nell'universo di Tolkien gli Elfi chiamano se stessi Quendi ("coloro che parlano con voci"), ma il Vala Oromë li chiamò invece Eldar ("Popolo delle stelle"), perché sotto la luce delle stelle si risvegliarono, quando ancora il Sole e la Luna non erano stati creati. Non appare dunque bizzarro pensare che essi osservassero gli astri del cielo con spirito scientifico, usando dei veri e propri telescopi. La tecnologia delle lenti perciò avrebbe fatto loro parecchio comodo!

A questo punto, però, una domanda sorge spontanea. Per osservare le loro amate stelle, gli Elfi avevano realmente bisogno di un telescopio? Tolkien ci dice infatti in più punti che la loro vista, così come quella delle Aquile, era assai migliore di quella degli Uomini. Ma di quanto? Riguardo alle Aquile, ecco il passaggio che ci interessa:

« [Le aquile] volteggiarono in cielo e guardarono in giù verso il cerchio dei lupi mannari, una macchiolina lontana sotto di loro. Ma le aquile hanno occhi acuti, e possono vedere cose piccole a grande distanza. Il Signore delle Aquile delle Montagne Nebbiose aveva occhi che possono vedere un coniglio muoversi al suolo un miglio più sotto, perfino alla luce della Luna! »
(Lo Hobbit, cap. VI)

Questo passo invece è illuminante circa le capacità visive degli Elfi:

« "Cavalieri!", esclamò Aragorn, balzando in piedi. "Molti cavalieri su rapidi destrieri si dirigono verso di noi!"
"Sì!", disse Legolas, "sono centocinque. Hanno capelli biondi e reggono lance scintillanti. Il loro capo è molto alto."
Aragorn sorrise. "Penetranti sono gli occhi degli Elfi", disse.
"No! I cavalieri distano poco più di cinque leghe di distanza ", rispose Legolas. »
(SdA, libro III, cap. II)

Quanto è ragionevole tutto questo, in termini di fisica? Alla base di tutto c'è il concetto di risoluzione ottica, che rappresenta la minima lontananza a cui devono trovarsi due oggetti posti ad una certa distanza dall'osservatore, perchè quest'ultimo possa percepirli come separati. Ciò che limita la risoluzione ottica è la natura ondulatoria stessa della luce, che abbiamo lasciato in sordina trattando l'ottica geometrica: i raggi che passa attraverso qualsiasi fenditura infatti danno vita a fenomeni di interferenza e diffrazione, e i punti si trasformano in macchie circondate da aloni circolari. Se i due massimi centrali dovuti alla diffrazione della luce si sovrappongono completamente, risolverli (cioè percepirli come fisicamente distinti) è impossibile, come mostra l'immagine sottostante:

Di solito per determinare se due oggetti vicini possono essere risolti si usa il cosiddetto Criterio di Rayleigh, dal nome di John William Strutt, terzo Barone di Rayleigh (1842–1919). Esso è così esprimibile:

     (5)

θR rappresenta la separazione angolare tra i due oggetti, cioè l'angolo formato dalle due linee che congiungono tali oggetti con l'osservatore, λ è la lunghezza d'onda della luce e d è il diametro dell'apertura attraverso cui passa la luce. Se ne deduce che, per ottenere una migliore risoluzione, è necessario usare una lunghezza d'onda minore o un diaframma più aperto.

Usando questo criterio possiamo fare una stima approssimativa di ciò che gli occhi dell'Aquila e quelli di Legolas potrebbero effettivamente risolvere. Cominciamo con il Signore delle Aquile de "Lo Hobbit". Un coniglio (prendiamo in considerazione la specie Oryctolagus cuniculus) misura circa trenta centimetri, e l'uccello lo distingue da una distanza di un miglio, distanza che sappiamo equivalere a 1.609,344 metri. Il seno di un angolo estremamente piccolo può essere approssimato con l'angolo stesso, che a sua volta può essere determinato dividendo la dimensione dell'oggetto da risolvere per la loro distanza d all'osservatore. Nel nostro caso, sen θR = 0,30/1609 = 1,9 x 10–4. Supponendo il coniglio rossiccio, come visto sopra la luce che esso diffonde avrà una lunghezza d'onda di circa 480 nanometri, cioè 4,8 x 10–7 m, e dunque le pupille dell'aquila dovrebbero avere un diametro pari circa a d = 1,22 λ / sen θR = 3 x 10–3 metri, cioè grosso modo a 3 millimetri. Questa misura appare dunque realistica.

Veniamo ora al nostro Elfo Silvano; stavolta non parliamo di acutezza di visibilità, come nel caso del coniglio, ma di acutezza di risoluzione. Come si è detto, Legolas dice che i cavalieri Rohirrim distano da lui « poco più di cinque leghe ». In Gran Bretagna una lega equivaleva a circa 4,828 km, cioè a 1/25 di grado di meridiano, dunque cinque leghe possono equivalere a 24,14 km; arrotondiamole a 25.000 metri. Supponiamo ora che i due Cavalieri che Legolas vuole vedere separati tra loro siano distanti un metro l'uno dall'altro. Se ne deduce che sen θR = 1/25.000 = 4 x 10–5. Come detto a suo tempo, i capelli biondi dei Cavalieri riflettono una luce gialla che può avere una lunghezza d'onda media di circa 550 nanometri, cioè 5,5 x 10–7 m. Se ne deduce che le pupille di Legolas dovrebbero avere un diametro d = 1,22 x 5,5 x 10–7 / 4 x 10–5 = 1,68 x 10–2 metri, cioè poco più di un centimetro e mezzo. Ora, questo risultato sarebbe ragionevole solo se Legolas fosse il personaggio di un anime giapponese, disegnato con le iridi e le pupille grandi come tazze da tè. Senza tenere conto del fatto che i dettagli che egli sostiene di vedere sono quasi certamente su scale più piccole di un metro, il che richiederebbe pupille ancora più grandi, anche ammettendo di usare una lunghezza d'onda minore, e quindi più blu. Se ne deduce che, a differenza delle Aquile, gli Elfi di Bosco Atro sono un po' sbruffoni. A sbugiardare le loro millantate capacità visive infatti non è qualche salace battuta di Gimli, ma il modello ondulatorio stesso della luce.

Legolas interpretato da Orlando BloomA dir la verità, quello ora citato non è l'unico passo in cui Tolkien fa riferimento alla vista  insolitamente acuta degli Elfi. Il passaggio più famoso è probabilmente questo, in cui Gandalf sfrutta tale capacità per prevedere le mosse dei suoi nemici (lo stesso motivo per il quale era stato inventato il cannocchiale, ben prima che Galilei lo usasse per scoprire i satelliti di Giove):

« Gandalf galoppò più lento per attendere Legolas che cavalcava accanto ad Éomer. "Hai lo sguardo acuminato caratteristico della tua bella stirpe, Legolas", disse; voi sapete distinguere un passero da un fringuello a una lega di distanza. Dimmi, vedi nulla laggiù in direzione di Isengard?" »
(SdA, libro III, cap. VII)

Qui le cose peggiorano, poiché Legolas è detto in grado di distinguere particolari dell'ordine del centimetro o ancora meno a cinque chilometri di distanza. Lascio al lettore volonteroso il calcolo di d in questo caso usando la (5). In ogni caso, gli Elfi sembrano proprio dotati di pupille dilatabili a piacimento, e questo senz'altro non li motiverebbe a costruire un telescopio, in particolare se, come Elrond, vivono in una valle molto stretta dove l'orizzonte è in gran parte ostruito dall'orografia della regione. Ma potrebbe invece aver motivato i Númenoreani, certamente desiderosi di rivaleggiare con gli Eldar quanto a capacità visiva!

Altrove invece Tolkien suggerisce che gli Orchi hanno un'ottima visione notturna, come i felini. Questo non vuol dire che gli Orchi al posto degli occhi hanno dei visori termici, come quelli in dotazione all'esercito. Infatti basta che la loro iride sia in grado di dilatare moltissimo la pupilla, e che i loro occhi (per l'appunto, come quelli dei gatti) abbiano un particolare rivestimento cellulare interno, il cosiddetto "tapetum lucidum", che come uno specchio riflette la luce sulla retina, amplificando la visione di quasi 50 volte. Per questo agli Orchi basta una minima fonte di luce per distinguere dei particolari anche in quello che agli occhi degli Uomini risulta il buio più totale. Si noti che la capacità di dilatare in modo abnorme la pupilla è conciliabile con la straordinaria acutezza della vista degli Elfi, e rafforza la leggenda secondo cui gli Orchi derivarono da Elfi corrotti nella mente e nel corpo da Melkor durante la Prima Era, come narrato nel "Silmarillion".

L'ultimo argomento che vogliamo trattare in questa lezione è pressoché obbligato: si tratta dell'invisibilità assicurata dall'Unico Anello. In effetti, quest'ultimo nell'intera trama de "Lo Hobbit" appare solo come un manufatto in grado di rendere invisibili; solo nel SdA verrà rivelata la sua potente natura malefica. Ecco come ci viene presentato per la prima volta quel gioiello, e come Tolkien ne descrive le qualità:

« Gollum aveva un anello, un anello d'oro, un anello prezioso, un tesoro. "Il mio regalo di compleanno", sussurrò tra sé e sé, come faceva spesso nelle buie giornate senza fine. "Ecco cosa ci serve adesso, sì; ci serve!" Gli serviva perchè era un anello magico e, se uno se lo infilava al dito, diventava invisibile; solo in pieno sole si poteva essere visti, e solo per la propria ombra, che restava comunque vaga e indistinta. [...]
In un attimo, Gollum gli fu sopra. Ma prima che Bilbo potesse fare qualcosa, riprendere fiato, tirarsi su o brandire la spada, Gollum lo sorpassò senza accorgersi affatto di lui, imprecando e sussurrando mentre correva. »
(Lo Hobbit, cap. V)

Il tema dell'invisibilità ha una tradizione molto lunga nella narrativa e nella mitologia. Secondo il mto ripreso da Platone nella "Repubblica", Gige era un pastore al servizio del re Candaule di Lidia. Dopo un terremoto scoprì una tomba contenente un corpo di protezioni gigantesche con un anello d'oro al dito; essendosi accorto che esso poteva rendere invisibili, Gige lo usò per entrare nel palazzo reale, sedurre la regina e uccidere il re con il suo aiuto, per poi diventare re di Lidia lui stesso. Invece Perseo sfruttò un copricapo magico, di proprietà del dio Ade, per rendersi invisibile ed uccidere la mostruosa Medusa. Ne "L'Oro del Reno" di Richard Wagner (1813-1883), il nano Mime forgiò per suo fratello Alberich un elmo magico chiamato Tarnhelm, che rendeva invisibili chi lo indossava. Nel secondo ramo del "Mabinogion", uno dei testi più importanti della mitologia gallese, si dice che il re Cassivellauno (un personaggio storico citato da Giulio Cesare nei suoi Commentari) avrebbe ucciso Caradog ap Bran e altri capitribù Britanni indossando un mantello dell'invisibilità. Giovanni Boccaccio (1313-1375) incluse nel "Decameron" la novella "Calandrino e l'elitropia" (VIII, 3), nella quale compare l'omonima pietra « di troppa gran virtù, perciocché qualunque la porta sopra di sé non è da alcun'altra persona veduto. » Di essa aveva già parlato anche Dante: « Tra questa cruda e tristissima copia / correvan genti nude, e spaventate, / senza sperar pertugio o elitropia. » (Inf. XXIV, 91-93) Nel "Faust" di Christopher Marlowe (1564-1593) il famoso mago acquista dal demonio Mefistofele il potere di rendersi invisibile. "L'Uomo Invisibile" (1897) è un celebre romanzo di fantascienza dell'immaginifico Herbert George Wells (1866-1946), nel quale lo scienziato Griffin testa su se stesso un siero sperimentale che lo rende invisibile e, non riuscendo più a riacquistare il proprio aspetto originario, decide di utilizzare tale capacità per dominare l'umanità, ma gli va male e viene ucciso. Questo romanzo diede vita a un filone di film sull'argomento. "L'ombra e il baleno" (1902) è un racconto breve di Jack London (1876-1916), che parla di due amici in gara tra di loro fin dall'infanzia, i quali seguono due strade opposte per ottenere l'invisibilità. Uno dei "Fantastici Quattro" creati nel 1961 da Stan Lee (1922-) e Jack Kirby (1917-1994) per la Marvel Comics è la Donna Invisibile, il cui vero nome è Susan Storm. Anche Harry Potter di Joanne Rowling (1965-) possiede un mantello dell'invisibilità ereditato da suo padre James. Nella saga di "Star Trek", le navi Klingon e Romulane sono dotate di un dispositivo di occultamento che le rende invisibili, anche se Capitan Kirk riesce più volte ad aggirarlo. L'"Ombra", fumetto ideato nel 1974 da Alfredo Castelli (1947-) e Ferdinando Tacconi (1922-2006) per il "Corriere dei Ragazzi", narra le avventure dell'omonimo giustiziere con Locandina de "Il ragazzo invisibile" di Gabriele Salvatores il dono dell'invisibilità, del quale resta visibile, per l'appunto, solo l'ombra. Nel serial televisivo "Heroes", Claude Rains ha il potere di rendersi invisibile; successivamente quest'abilità viene acquisita anche dal protagonista, Peter Petrelli. Infine, il 18 dicembre 2014 è uscito il film "Il ragazzo invisibile" (vedi la locandina qui a fianco) del regista Gabriele Salvatores (1950-), con Ludovico Girardello, Fabrizio Bentivoglio e Valeria Golino, dedicato alle vicende di Michele, un tredicenne introverso e deriso dai compagni, che un bel mattino si sveglia e scopre di essere invisibile!

Come si vede, Tolkien si inserisce in un filone già piuttosto ricco. A sfruttare il suo Anello dell'invisibilità, che fa il paio con quello di Gige di Lidia, è soprattutto Bilbo che, dopo averlo utilizzato per sfuggire a Gollum e agli Orchi, continua a servirsene per sfuggire alle visite dei suoi terribili cugini, i Sackville-Baggins, che non gli hanno mai perdonato di essere tornato dalla sua avventura col drago e di non avergli lasciato Casa Baggins. Il giorno del suo 111° compleanno, infine, Bilbo decide di lasciare Hobbiville con l'aiuto dell'Anello ed organizza uno scherzo: si infila l'Anello nel bel mezzo del discorso agli invitati, ed ecco quello che succede:

"Ora è giunta la fine. Me ne vado. Parto subito. Addio!" Scese dalla sedia e scomparve. Una luce accecante abbagliò per un attimo gli invitati. Quando aprirono gli occhi non c'era più nessuna traccia di Bilbo. [...] Fin dalle prime parole del discorso, Bilbo Baggins aveva giocherellato con l'Anello d'oro nascosto in tasca: il suo magico Anello ch'era riuscito a mantenere segreto per tanti anni. Mentre scendeva dalla sedia se lo infilò al dito, e nessun Hobbit lo rivide mai più a Hobbiville. »
(SdA, libro I, cap. I)

L'Anello viene ereditato da suo nipote Frodo, ma a questo punto Gandalf ha già compreso la sua vera natura, e convince Frodo e i suoi amici a mettersi in viaggio per Gran Burrone, onde sfuggire ai servitori di Sauron che lo ricercano in ogni dove. Nella locanda "Al Puledro Impennato" di Brea, però, l'Anello combina un brutto scherzo al suo Portatore, cercando di rivelarsi agli alleati di Sauron, e dimostrando così di possedere quasi vita propria:

« Sentì l'Anello attaccato alla catenella, ed il desiderio folle di infilarselo al dito e sparire dalla stanza, uscendo da quella situazione imbarazzante, s'impadronì di lui. Ma era come se il suggerimento gli venisse da fuori, da qualcuno o da qualcosa in quella stanza. [...]
Frodo piroettava e saltellava sul tavolo e quando per la seconda volta cantò: "E la mucca saltò al di là della Luna", spiccò un balzo per aria. Ma era zompato con troppa energia: piombò giù con fracasso su un vassoio pieno di boccali e, scivolando, capitombolò dal tavolo con un sibilo, un rombo, un tonfo e uno schianto! Il pubblico si sganasciò dalle risate, ma rimase paralizzato dallo stupore: il cantante era scomparso, svanito d'un tratto, come ingoiato dal terreno, senza lasciare un buco o una traccia! [...] Frodo si sentiva un idiota. Non sapendo che cosa fare, strisciò sotto i tavoli fino all'angolo buio dove si trovava Grampasso, immobile e impassibile. Frodo si appoggiò contro il muro, togliendosi l'Anello. Come diavolo si trovasse infilato al suo dito era un vero e proprio mistero. »
(SdA, libro I, cap. IX)

Una delle scene in cui gli effetti dell'invisibilità concessa dall'Anello sono più eclatanti è però quella che leggiamo qui sotto, in cui Sam Gamgee vede la barca maneggiata da Frodo muoversi da sola, quando egli cerca di partire di soppiatto verso Mordor per salvare tutti i suoi amici da una terribile fine; una scena che ha veramente poco da invidiare all'"Uomo Invisibile" di Herbert George Wells o al Mantello dell'Invisibilità di Harry Potter:

« Sam rimase un attimo immobile, come paralizzato, guardando a bocca aperta una barca scivolare da sola giù dalla sponda. Lanciando un urlo, Sam si precipitò dall'altro lato del prato. La barca si immerse nelle acque. [...] Un'esclamazione costernata si levò dalla barca vuota. Un remo volteggiò e l'imbarcazione virò di bordo. "Forza, ragazzo mio!" disse Frodo. "Afferrati alla mia mano." "Salvatemi, signor Frodo!" disse Sam boccheggiante. "Affogo. Non vedo la vostra mano." »
(SdA, libro II, cap. X)

Naturalmente a noi spetta chiederci: quanto è possibile, scientificamente, l'occultamento visivo di un oggetto o di un'intera persona? Molto più di quanto si potrebbe credere di primo acchito. I primi prototipi furono messi a punto a partire dal 1994, utilizzando metodi ottici, cioè sensori e telecamere comandati da opportuni processori. All'Università di Rochester (nello Stato di New York) ad esempio è stato messo a punto un dispositivo fatto di materiali facilmente reperibili e poco costosi, in grado di nascondere perfettamente gli oggetti alla vista mostrando lo sfondo retrostante. Esso è costituito da quattro lenti, di potenza e distanza calibrate in modo da realizzare un occultamento « tridimensionale, continuo e multidirezionale », come hanno affermato i suoi creatori, senza alterare lo sfondo. La combinazione di specchi studiata inganna lo sguardo: non fa percepire l'oggetto nascosto per molti gradi dalla posizione frontale, senza che si possa notare la presenza del dispositivo stesso. A differenza di altri strumenti simili, capaci di nascondere gli oggetti solo a determinate frequenze, il dispositivo dell'Ateneo di Rochester funziona per tutto lo spetto del visibile. Questo potrebbe essere uno strumento perfetto in campo medico perché, come mostra la foto sottostante, consentirebbe ai chirurghi di vedere attraverso la propria mano durante gli interventi chirurgici!

La mano di un ricercatore diventa invisibile grazie al dispositivo dell'Università di Rochester, che qui appare davvero simile all'...Unico Anello!

La mano di un ricercatore diventa invisibile grazie al dispositivo dell'Università di Rochester, che qui appare davvero simile all'...Unico Anello! (da questo sito)

Anche Tolga Ergin e Nicolas Stenger del Karlsruher Institut für Technologie hanno battuto la stessa strada, realizzando nel 2013 un metascreen, cioè un dispositivo composto da speciali lenti assemblate in una struttura polimerica delle dimensioni dell'ordine di milionesimi di metro che ricorda una catasta di legna. La loro caratteristica è di legarsi parzialmente alle onde luminose, in modo da impedire alla luce di diffondersi  rimbalzando sulla superficie degli oggetti, come descritto sopra. I ricercatori hanno utilizzato questo dispositivo per rendere invisibile una protuberanza su una superficie d'oro, un po' come accade cercando di nascondere un piccolo oggetto sotto un tappeto, ma facendo scomparire contemporaneamente anche il tappeto. I test hanno avuto successo e hanno dimostrato che il nuovo materiale funziona, rendendo la parte schermata realmente invisibile. I metodi di occultamento precedentemente ottenuti erano tutti bidimensionali, ed anche questo era stato progettato inizialmente a due dimensioni, ha spiegato Ergin, ma poi ha dimostrato di poter funzionare anche nella terza dimensione. I metascreen sono stati testati allo scopo di realizzare giubbetti ottico-mimetici da dare in dotazione ai militari durante missioni pericolose in zona di guerra.

Qualcosa che somiglia più al mantello dell'invisibilità di Harry Potter, piuttosto che all'Unico Anello di Tolkien, è stato messo a punto invece presso l'Imperial College di Londra, dove per la prima volta è stato proposto l'uso dei cosiddetti metamateriali, realizzati a partire dai risultati teorici ottenuti da John Pendry, e dotati di proprietà elettriche e magnetiche aliene rispetto a qualsiasi tipo di sostanza finora esistente. Essi sono dei semiconduttori in grado di rifrangere la luce che incide su di essi nella direzione opposta rispetto a quella del materiali convenzionali; in pratica, il loro indice di rifrazione è negativo. Com'è noto, quando una radiazione elettromagnetica incide su un materiale trasparente, la direzione di propagazione all'interno di esso viene deviata rispetto alla verticale. Come detto sopra, il rapporto tra il seno dell'angolo incidente e il seno dell'angolo rifratto è costante ed è chiamato indice di rifrazione. In questo caso, l'indice di rifrazione negativo indica che, quando la radiazione arriva sulla superficie che separa il metamateriale dall'aria, la componente parallela a tale superficie cambia verso. L'effetto è straordinariamente interessante perché riguarda anche lo spettro della radiazione nel vicino infrarosso, molto utilizzata nella realizzazione di sensori e nelle telecomunicazioni. Tutto questo, tenendo conto del fatto che tali materiali sono del tutto analoghi a quelli che compongono i chip dei computer, potrebbe aprire la strada a numerose applicazioni, dalle comunicazioni ad alta velocità, alla diagnostica medica, fino alla realizzazione di sensori in grado di rivelare eventuali attacchi terroristici.

I metamateriali tuttavia possono essere applicati anche alla realizzazione di dispositivi di occultamento, curvando le onde luminose in maniera anomala. Già il 26 maggio 2006 sulla rivista "Science" alcuni ricercatori americani della Duke University di Durham, nella North Carolina, guidati da David Smith hanno proposto l'utilizzo di metamateriali che deviano le onde elettromagnetiche per occultare oggetti; grazie ad essi, un cilindro di rame sul tavolo del laboratorio americano irradiato con microonde è letteralmente scomparso, una volta avvolto in un metamateriale, perché quest'ultimo, invece di far rimbalzare le onde elettromagnetiche come avviene normalmente, le devia come in un torrente, quando un flusso d'acqua incontra un masso e lo aggira proseguendo oltre. Naturalmente arrivare a rendere invisibili gli oggetti percepiti dai nostri occhi è molto più difficile rispetto alle microonde, ma gli studi sui metamateriali proseguono nell'ambito del cosiddetto Progetto Phome, portato avanti da John Pendry presso l'Imperial College e finanziato dalla Commissione Europea di Bruxelles.

In seguito Alberto Favaro, Martin McCall e Paul Kinsler del Dipartimento di Fisica dell'Imperial College di Londra, in collaborazione con Allan Boardman dell'Università di Salford (vicino a Manchester), hanno fatto passi da gigante battendo un sentiero diverso. « Se un uomo è avvolto nel nostro mantello spazio-temporale e saluta con la mano, il suo gesto sarà invisibile a chi osserva », ha spiegato Favaro: « l'uomo sembrerà fermo per tutto il tempo. Normalmente infatti noi vediamo un individuo o un oggetto perché la luce gli va contro e viene riflessa. Se, però, manipoliamo la velocità della luce e illuminiamo l'uomo solo prima e dopo il compimento di un'azione, abbiamo eliminato la frazione di tempo in cui ha agito. La velocità della luce che attraversa i materiali può essere manipolata, a differenza di quella nel vuoto ». Con i futuri mantelli dell'invisibilità si potranno realizzare componenti elettronici miniaturizzati più efficienti, lenti più efficaci, mantelli acustici per prevenire la penetrazione di vibrazioni, suoni o onde sismiche, e ancora si prospettano possibili applicazioni nella difesa e nelle telecomunicazioni. Tuttavia fin fin da ora è chiaro che sarà molto difficile farne in tutto e per tutto l'equivalente del magico Anello di Tolkien: è vero che, infilandoselo, nessuno può vedere chi lo porta, ma è anche vero che quest'ultimo non può vedere nulla di quello che c'è all'esterno, a differenza di chi si infilava l'Unico Anello, che poteva vedere il mondo esterno, anche se in maniera indistinta e distorta, come questo breve passo e il fotogramma sottostante dimostrano:

« L'Anello. Non fu né un pensiero né una scelta; Sam si accorse semplicemente che aveva estratto la catenella e preso in mano l'Anello. I primi Orchi apparvero nel Valico. Allora se lo infilò al dito. Il mondo si tramutò, ed un solo attimo di tempo si empì di un'ora di riflessione. Si accorse subito che il suo udito era più acuto e la vista più debole, ma non come era avvenuto nella tana di Shelob. Ogni cosa intorno a lui non era scura bensì vaga, indistinta; e lui, in quel grigio mondo nebuloso, pareva una piccola roccia nera e solida. Non si sentiva per nulla invisibile, ma orribilmente e opacamente visibile: sapeva che da qualche parte un Occhio lo cercava alacremente. Udiva lo scricchiolio delle pietre, e il mormorare delle acque giù nella Valle di Morgul, e nel profondo della roccia la viscida disperazione di Sheob, brancolante, persa in qualche cieco corridoio e le voci nei sotterranei della torre, e le grida degli Orchi prorompenti dalla galleria, assordante per le sue orecchie il fragore dei piedi e il frastuono di Orchi innanzi a lui. »
(SdA, libro IV, cap. X)

Il modo distorto e annebbiato nel quale Bilbo vede il drago mentre è occultato dall'Anello, nel film "Lo Hobbit - La Desolazione di Smaug" (da youtube)

Il modo distorto e annebbiato nel quale Bilbo vede il drago mentre è occultato dall'Anello, nel film "Lo Hobbit - La Desolazione di Smaug" (da youtube)

Insomma, in tantissimi inseguono il sogno dell'invisibilità, percorrendo strade talvolta stravaganti, come la vernice al glicerolo con la quale uno scienziato texano rendeva momentaneamente trasparenti i tessuti delle sue cavie, oppure i test all'Università della Pennsylvania grazie ai quali si riusciva a « non far apparire » gli oggetti con un effetto di lente generato da alcuni minerali, o le prove all'Università di Tokyo con un impermeabile che mostrava davanti ciò che era nascosto dietro usando una combinazione di stereocamere e specchi.

 

Ma c'è un altro aspetto del "Signore degli Anelli" che richiama in qualche modo la visione: si tratta dei Palantiri, le "pietre veggenti" che vediamo all'opera durante la Guerra dell'Anello, e che giocarono un brutto scherzo a Pipino. Esse però più che all'ottica sono connesse alla tecnologia televisiva, e quindi ad esse dedicheremo una lezione a parte. Per inoltrarvi con me in questo territorio fin qui inesplorato, cliccate qui e date anche voi una sbirciata insieme a me dentro la pietra di Orthanc!