La ruina che l'Adice percosse

Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l'Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco...

(Inf. XII, 4-6)

 

Tra le Scienze Applicate cui Dante fa riferimento nella sua Commedia, propongo di partire dalla geologia. L'umanità si è interessata fin dalle origini a certi fenomeni geologici particolarmente pericolosi, come terremoti, vulcani ed erosione del suolo: basti pensare che una pittura murale ritrovata a Çatal Hüyük (in Turchia) risalente al VI millennio a.C. mostra un'eruzione vulcanica avvenuta nel Neolitico. Durante l'antichità tuttavia la geologia non emerse come scienza autonoma, fu considerata sempre un capitolo della geografia, ed argomenti come la mineralogia e la vulcanologia, pur stimolando la curiosità di Greci e Romani, erano pensati non avere alcun rapporto fra loro. Fino ad epoca relativamente avanzata sopravvissero spiegazioni mitologiche, come quella secondo cui l'Etna eruttava fuoco e lapilli perchè sotto di essa Zeus aveva imprigionato il gigante Tifone, che eruttava lava e lapilli dalla bocca. Aristotele credeva che i continenti possono sprofondare nel mare e viceversa, ipotesi già sostenuta da Platone nel "Timeo" a proposito del sommergimento della mitica Atlantide. Stratone di Lampsaco (335-269 a.C.) fu il primo a studiare i fenomeni di erosione e i trasporti fluviali dei sedimenti agli estuari. Zenone di Cizio (333-263 a.C.) afferma che:

« Se la Terra fosse esistita dall'eternità, [...] tutti i monti sarebbero stati appianati allo stesso livello, e tutte le colline sarebbero state riportate allo stesso livello delle pianure. »

Eratostene di Cirene (376-194 a.C.) fu il primo a cercare di interpretare i fossili marini ritrovati sulle montagne, ipotizzando che un tempo il Mar Mediterraneo avesse un livello assai più elevato dell'attuale, perchè lo stretto di Gibilterra era chiuso. Strabone (58 a.C.-25 d.C.) nella sua "Geografia" (XII, 2-4), oltre ad essere il primo a descrivere i canyon, confuta l'ipotesi di Ertostene sui fossili, spiegando la loro presenza in alta montagna in seguito ai terremoti, che avrebbero provocato l'innalzamento di antichi fondali marini. Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), una tra le fonti di Dante, riassunse tutte le conoscenze di geologia dei suoi tempi nella "Naturalis Historia" in 37 libri, dei quali i libri 3-6 sono dedicati alla geografia e i 33-37 alla mineralogia; Plinio stesso morì durante l'eruzione del Vesuvio del 28 agosto del 79 d.C., essendosi recato sul posto per studiare il fenomeno e per prestare aiuto alla popolazione locale. Quanto ai Padri della Chiesa, come Tertulliano, essi riconobbero nei fossili i resti di animali periti nel diluvio universale, e secondo loro, come vedremo più sotto, l'età della Terra non superava alcune migliaia di anni, in accordo con le Sacre Scritture.

Il medico e scienziato persiano Abu Ali al-Husayn ibn 'Abd Allah ibn Sīna, meglio noto in occidente come Avicenna (980-1037) e ben noto a Dante perchè lo cita in Inf. IV, 143, pubblicò un'opera conosciuta in Europa attraverso una traduzione di Alfred de Sareshel (1200 circa) intitolata "De mineralibus". In essa i fossili sono correttamente descritti come l'inclusione nella pietra di animali e vegetali convertiti essi stesse in pietre da una qualche virtù pietrificante dei terreni sassosi, mentre la genesi delle montagne è spiegata tramite violentissimi terremoti che avrebbero sollevato il suolo e tramite l'erosione che avrebbe lasciato intatti i rilievi più duri. Avicenna avvia anche la stratigrafia, spiegando gli strati sedimentari con le progressioni e regressioni successive dei mari.

Contrariamente a quanto si crede comunemente, il Medioevo europeo non considerò affatto la scienza sperimentale incompatibile con la fede cristiana: eruditi come Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone, Tommaso d'Aquino o Guglielmo d'Ockham sostennero la separazione tra fede e scienza, secondo la dottrina della doppia verità, una concernente la fede e l'altra la ragione. Il domenicano Sant'Alberto Magno (1206-1280), maestro di San Tommaso d'Aquino e tra le fonti principali della Divina Commedia, fu il massimo erudito tedesco del XIII secolo, ed oggi la Chiesa lo considera Patrono degli scienziati. Nell'ambito della geologia studiò i fossili del bacino parigino, riprese una parte delle idee di Avicenna attribuendo loro un'origine animale, ma non escluse che si fossero formati direttamente dentro le pietre senza avere un'origine biologica. L'italiano Ristoro d'Arezzo, contemporaneo di Alberto Magno, nel suo trattato "La composizione del mondo" in due libri difese l'origine organica dei fossili e propose una teoria sull'origine delle montagne: la forza di attrazione da parte delle stelle tenderebbe a sollevare la superficie della Terra, anticipando così la gravitazione universale di Newton.

Se dunque la geologia moderna è considerata cominciare nel XVIII e XIX secolo grazie alle opere degli scozzesi James Hutton (1726–1797) e Charles Lyell (1797–1875), come si vede, già al tempo di Dante questa scienza era già fondata su solide basi, seppur ancora lontane dall'intuire l'effettiva scala cronologica della geologia terrestre, o l'immensità dei fenomeni che danno vita all'orogenesi e alla deriva dei continenti. E lo stesso Dante si occupò in più punti di questioni di natura geologica. Tanto per cominciare, un grande terremoto scuote la Montagna del Purgatorio:

« Noi eravam partiti già da esso,
e brigavam di soverchiar la strada
tanto quanto al poder n'era permesso,
quand'io senti', come cosa che cada,
tremar lo monte; onde mi prese un gelo
qual prender suol colui ch'a morte vada.
Certo non si scoteo sì forte Delo,
pria che Latona in lei facesse 'l nido
a parturir li due occhi del cielo. » (Purg. XX, 124-132)

"Esso" è Ugo Capeto, ospitato nella Quinta Cornice, e mentre Dante e Virgilio cercano come salire alla sesta, un sisma scuote tutto il monte. La sensazione di terrore qui descritta da Dante ha fatto pensare a qualcuno che egli avesse effettivamente avvertito un vero sisma, e piuttosto violento anche, nel corso della propria vita. In ogni caso, per descrivere l'evento (che accompagna la liberazione di un'anima dal Purgatorio) il nostro poeta fa ricorso ad una similitudine mitologica da lui tolta da Eneide III, 77 e ss.: Latona, amata da Zeus, restò incinta, ma Giunone, mossa dalla gelosia, proibì a qualunque terra di darle ospitalità per partorire. Zeus allora fece in modo che ella partorisse sull'isola di Ortigia, che a quel tempo era errante e galleggiante sulle acque, e dunque si agitava come una nave nella tempesta. Dopo che ella diede alla luce Apollo e Diana (erroneamente confusi con il Sole e la Luna, "i due occhi del cielo"), l'isola si fissò sul fondo del mare e da allora in poi prese il nome di Delo, cioè "la splendente". Forse questo mito adombra proprio antiche eruzioni vulcaniche che dovettero squassare periodicamente le isole del Mar Egeo.

Gli Slavini di Marco (vedi sotto) visti da satellite grazie a Google Earth

Gli Slavini di Marco (vedi sotto) visti da satellite grazie a Google Earth

Ma è nell'Inferno che Dante cita il più violento terremoto che avrebbe mai sconvolto la Terra:

« Poi disse a noi: "Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo l'arco sesto.
E se l'andare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso è un altro scoglio che via face.
Ier, più oltre cinqu'ore che quest'otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta." » (Inf. XXI, 106-114)

A parlare è Malacoda, capitano dei Malebranche, i demoni che custodiscono la quinta bolgia, quella dei barattieri (coloro che mercanteggiarono in modo fraudolento le cariche pubbliche), e sta spiegando a Virgilio che egli e Dante non potranno procedere lungo quel ponte (« iscoglio »), perchè esso è crollato sul fondo della sesta bolgia. In che occasione? Malacoda non lo dice ma lo lascia intendere: sono passati 1266 anni, un giorno e cinque ore da quella frana. Siccome i più ritengono che il viaggio di Dante ebbe inizio nell'anniversario della morte di Cristo, durante il Giubileo del 1300, la cronologia diabolica ci riporta al Venerdì Santo del 33 d.C., anno in cui, secondo la tradizione, Cristo fu messo a morte. Fu dunque il terremoto seguito alla morte di Cristo a causare quel disastro! E probabilmente esso fu la causa di altri crolli le cui macerie Dante può visitare durante il suo itinerario infernale. Vi è anzitutto un luogo franoso tra il Limbo e il cerchio dei lussuriosi:

« Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina. » (Inf. V, 34-36)

La parola "ruina", cioè "rovina", in Dante indica sempre uno scoscendimento di rocce, quale egli dovette vederne molti in montagna, durante le proprie peregrinazioni, e ce n'è uno anche nel settimo cerchio, presso le rive del Flegetonte, guardato a vista dal Minotauro:

« Era lo loco ov'a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v'er'anco,
tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva. » (Inf. XII, 1-3)

Su di esso ritorneremo tra un momento; per ora è importante leggerne la causa, una trentina di versi più avanti:

« [...] Tu pensi
forse a questa ruina ch'è guardata
da quell'ira bestial ch'i' ora spensi.
Or vo' che sappi che l'altra fïata
ch'i' discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,
da tutte parti l'alta valle feda
tremò sì, ch'i' pensai che l'universo
sentisse amor, per lo qual è chi creda
più volte il mondo in caòsse converso;
e in quel punto questa vecchia roccia
qui e altrove, tal fece riverso. » (Inf. XII, 31-44)

L'ira bestiale che vigila su questo franoso passaggio è ovviamente quella del Minotauro, appena messo a posto da Virgilio con poche, secche parole. La prima volta che Virgilio era sceso fin nel fondo dell'Inferno, quella frana non esisteva ancora; ma, poco prima che Cristo scendesse al Limbo (« il cerchio superno », più in alto di tutti) per liberare i credenti in Cristo venturo (« la gran preda »), « l'alta valle feda », cioè il profondo e schifoso abisso infernale, tremò così forte, da dar quasi ragione a coloro che credono nella cosiddetta "Teoria delle Catastrofi", avanzata per la prima volta da Empedocle di Agrigento (492-430 a,C.) e ripresa più volte, anche dal geologo moderno Georges Cuvier (1769-1832), nonché dalla moderna New Age, la quale (sulla scorta dell'antico calendario Maya) ha indicato nel famoso 21 dicembre 2012 la fine della nostra era e l'inizio di una nuova. Secondo questa teoria, l'ordine del mondo deriverebbe dalla discordia degli elementi, che non possono mescolarsi tra di loro. Periodicamente però questa discordia cessa, ed allora fuoco, terra, acqua ed aria tornano a mescolarsi, trasformando il cosmo in un caos. Nella sua versione moderna, questa teoria afferma che il mondo ha attraversato periodiche fasi distruttive (a causa di fenomeni tettonici, esplosioni, alluvioni, tsunami, ecc.), ciascuna delle quali ha provocato l'estinzione di tutte o quasi le forme di vita esistenti, e la nascita di un mondo nuovo. In tal modo Cuvier spiegava i fossili di precedenti forme di vita (come il Mosasauro, dinosauro marino da lui stesso descritto) senza far ricorso ad alcuna teoria evoluzionistica: i dinosauri si estinsero in un'immane catastrofe, e Dio ricreò al loro posto nuove forme di vita. L'ultima delle catastrofi cui pensava Cuvier sarebbe stato il diluvio universale, in perfetto accordo con il racconto della Genesi.

Paradossalmente, la Teoria delle Catastrofi ha ricevuto un'incredibile conferma dalla moderna paleontologia, la quale ha dimostrato che sulla superficie della Terra si sono abbattute periodiche estinzioni di massa. L'ultima di grande portata avvenne 65 milioni e 950 mila anni fa, alla fine dell'Era Mesozoica, e portò all'estinzione dei dinosauri (ma anche dei rettili volanti, dei rettili marini e delle ammoniti); ma la più catastrofica che la Terra ricordi ebbe luogo alla fine dell'Era Paleozoica, al confine tra Permiano e Triassico, tra 252,3 e 251,4 milioni di anni fa: per cause tuttora ignote si estinse il 90% delle specie viventi negli oceani e il 70 % di quelle terrestri. La vita sulla Terra fu insomma prossima a venire spazzata via. Ciò che colpisce è la ciclicità di queste estinzioni, avvenute in media ogni 150-200 milioni di anni. Per spiegare questa ricorrenza sono state avanzate diverse ipotesi, note come Ipotesi di Shiva, dal nome della divinità distruttrice della mitologia indù. Secondo alcuni, il Sole avrebbe una stella compagna, una nana oscura chiamata Nemesi, che ogni 150-200 milioni di anni si avvicinerebbe pericolosamente al Sistema Solare, provocando una pioggia di asteroidi e comete sui pianeti interni, ed è noto che secondo molti sarebbe stata proprio la caduta di un asteroide a dare il colpo di grazia all'impero dei dinosauri. Siccome tale stella non è mai stata individuata, c'è chi pensa invece che il Sole, ruotando intorno al centro della Galassia Via Lattea, oscilli su e giù rispetto al piano galattico, e ogni volta che lo interseca incontrerebbe aree dense di polveri e ghiaccio, la cui caduta sulla Terra provocherebbe le periodiche estinzioni. Altri invece sostengono che la loro causa sia da ricercarsi non nello spazio esterno, ma nel cuore della Terra: dal nucleo si staccherebbero grosse "gocce" di lava che impiegherebbero milioni di anni a farsi strada nel mantello ma, una volta giunte in superficie, causerebbero disastrose eruzioni vulcaniche (nel caso dei dinosauri, localizzate dai geologi nella penisola del Deccan) il cui inverno nucleare provocherebbe la morte di vegetali e animali. Qualunque sia la causa, è incredibile notare come persino questa moderna teoria fosse adombrata nei versi dell'Inferno di Dante!!!

Gli Slavini di Marco visti da Rovereto: una montagna franata a valle!

Gli Slavini di Marco visti da Rovereto: una montagna franata a valle!

Eppure, le cognizioni dantesche in materia di geologia non si fermano a questa semplice citazione. Torniamo infatti al Settimo Cerchio, quello dei violenti, descritto da Dante in Inf. XII. Per dare un'idea ai lettori di quanto sia aspro e malagevole l'accesso a tale cerchio, l'Alighieri fa ricorso ad una località del trentino detta "Slavini di Marco", presso Rovereto, un'area di un'area di 35,57 ettari da cui le rocce stratificate del monte Zugna si sono staccate in epoca preistorica, precipitando nel fondovalle e deviando il corso del fiumeAdige. Il fenomeno è ben visibile dall'autostrada del Brennero, poco prima di Trento.

« Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l'Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch'alcuna via darebbe a chi sù fosse:
cotal di quel burrato era la scesa » (Inf. XII, 1-10)

Quasi sicuramente il nostro autore li vide di persona, ma poteva leggere a proposito di essi anche in una nota opera del su ricordato Sant'Alberto Magno (Meteororum, III, 6). Come si legge, Dante interpreta correttamente le possibili cause della frana che ha fatto scivolare le rocce dalla cima del monte fino alla pianura: un terremoto ("tremoto" nell'italiano trecentesco) o l'erosione del terreno ("sostegno manco"). Tra l'altro, il "tremoto" descritto dal Sommo Poeta contribuì in maniera determinante a mettere in luce uno dei maggiori sito paleontologici italiani: sotto le rocce che la grande frana aveva scoperto apparve un calcare grigio risalente al Giurassico, sul questo erano impresse le orme di numerosi dinosauri là vissuti quando il Trentino assomigliava ad una catena di isole tropicali e di atolli, emergenti da un grande mare caldo, la Tetide, chiusosi quando l'Africa si avvicinò all'Eurasia in seguito alla deriva dei continenti, ed il cui ultimo resto è rappresentato proprio dal Mediterraneo. Su quelle antiche spiagge sabbiose i dinosauri si muovevano alla ricerca di cibo e lasciavano le loro orme impresse nella sabbia, orme che poi vennero cementate per una serie di rare circostanze fortunate, tra cui il vento secco che qui soffiava incessante.

Orme di dinosauro visibili presso gli Slavini di Marco

Orme di dinosauro visibili presso gli Slavini di Marco

Ma Dante fornisce nel suo poema una spiegazione per l'origine dei terremoti, anche se tale spiegazione oggi è riconosciuta come inesatta. Infatti, di fronte alle rive dell'Acheronte, il nostro poeta ha questa scioccante esperienza:

« La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l'uom cui sonno piglia. » (Inf. III, 133-136)

Insomma, la terra dell'Antinferno, intrisa delle lacrime degli Ignavi, sprigionò un vento il quale a sua volta suscitò un lampo rossastro. La scienza del tempo infatti attribuiva i terremoti proprio alla spinta di venti o vapori sotterranei, come riportato anche da Ristoro d'Arezzo (cfr. Composizione del Mondo VII, 4, 6). La stessa strana ipotesi è ripresa anche in questo passo del Purgatorio:

« Trema forse più giù poco o assai;
ma per vento che 'n terra si nasconda,
non so come, qua sù non tremò mai. » (Purg. XXI, 57)

C'è posto anche per la vulcanologia, tra le conoscenze di Dante? Sì, grazie a questa citazione tratta dall'ottavo Canto del Paradiso:

« E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra 'l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo... » (Par. VIII, 67-70)

A parlare è Carlo Martello, erede dei regni di Provenza, d'Ungheria e d'Italia Meridionale, morto appena ventiquattrenne il 12 agosto 1295. Dante lo aveva incontrato nel 1294, quando Carlo Martello si era recato a Firenze per incontrare i genitori che rientravano in Francia; per onorare il principe era stata organizzata una delegazione, cui probabilmente prese parte anche Dante. In questa occasione i due strinsero amicizia, il che giustifica il tono affettuoso e tutto giocato sul filo della memoria dell'incontro nel Cielo di Venere. In questo passo il giovane figlio di Carlo d'Angiò sta parlando della Sicilia, suo dominio personale, qui chiamata "Trinacria" (la terra dei tre promontori: Capo Peloro, Capo Lilibeo e Capo Passero, rispettivamente a est, a ovest e a sud). Essa "caliga", cioè si ricopre di caligine, non a causa dello sbuffare del gigante Tifeo qui sepolto, come Dante leggeva nell'Eneide (III, 370-382) e nelle Metamorfosi di Ovidio (V, 354), bensì a causa delle emanazioni sulfuree dell'Etna. Questa spiegazione del vulcanismo etneo Dante la trova in Plinio il Vecchio ("Naturalis Historia" XXXV, 5) e in Isidoro da Siviglia ("De Natura Rerum", 47), ma è probabile che egli avesse presente anche un passo del succitato Ristoro d'Arezzo:

« Il calore del Sole entra per lo corpo della Terra, e anche quello dell'altre stelle. Truova la miniera del zolfo, la quale è esca del fuoco, e è acconcia a ricevere lo fuoco; per lo calore del Sole, scaldasi per lungo tempo e accendesene lo fuoco; e quando questo fuoco truova la terra aperta e forata, vedianne uscire fuori lo fumo e, per istagione, la fiamma » (Composizione del mondo, VII, IV, 7)

Naturalmente allo zolfo si fa cenno anche nell'Inferno (non poteva essere altrimenti!), e particolarmente nella descrizione della landa infuocata in cui si trovano i bestemmiatori, i sodomiti e gli usurai. Dalla Selva dei suicidi infatti Dante vede uscire un ruscello dalle acque color sangue, tanto da raccapricciare il poeta, ed egli così ce lo descrive:

« Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello. » (Inf. XIV, 79-81)

Il Bulicame era un laghetto di acqua solforosa e bollente situato presso Viterbo, usato presumibilmente come fonte termale; e noi sappiamo che il calore delle sorgenti idrotermali deriva proprio da quello sotterraneo del nostro pianeta. A quella fonte calda (che Dante dovette vedere con i suoi occhi) l'ignoranza del volgo doveva probabilmente attribuire un'origine infernale; ed ecco il Bulicame immediatamente trasportato di peso nell'Inferno di Dante, al quale sembra non sfuggisse davvero nulla della cultura del suo tempo!

Della struttura geologica, per così dire della "struttura interna" della Terra, Dante si occupa anche nell'ultimo canto dell'Inferno, allorché chiede lumi a Virgilio sulla posizione di Lucifero:

« Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fé del mar velo,
e venne a l'emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella ch'appar di qua, e su ricorse. » (Inf. XXXIV, 122-126)

La spiegazione, notissima, è la seguente: "da questa parte" significa che Belzebù cadde dal Paradiso (cfr. Isaia 14, 12, Luca 10, 18 e Apocalisse 12, 9) dalla parte dell'emisfero australe. Le terre, che allora emergevano in quell'emisfero dalla superficie del mare, per paura di lui, si ritrassero sotto le acque, e andarono a formare « la gran secca » (Inf. XXXIV, 113), cioè il nostro emisfero boreale, dove vi sono terre emerse. Quella roccia che stava a contatto con il suo corpo villoso, sempre per paura di quel mostro, corse su "di qua", cioè nell'emisfero australe, formando l'altissima Montagna del Purgatorio, e lasciò la cavità sotterranea (la « natural burella » di Inf. XXXIV, 98) in cui Dante si ritrova dopo che Virgilio si è arrampicato sul corpo di Lucifero.

Del resto la Commedia non è l'unico testo in cui Dante affronta questioni attinenti alla geologia. Mi riferisco in particolare alla "Questio de aqua et terra", la trascrizione di una conferenza di argomento cosmologico tenuta da Dante il 20 gennaio 1320 nella Chiesa di Sant'Elena a Verona. Il problema era assai discusso ai tempi di Dante: secondo la Bibbia, vi è una divisione netta tra la terra e le acque (Genesi 1, 9: « Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo, e appaia l'asciutto »), mentre Aristotele sosteneva l'esistenza intorno al centro della terra di quattro sfere concentriche formate dai quattro elementi costituenti il mondo sublunare, dal più pesante al più leggero: terra, acqua, aria e fuoco. Ma se ciò fosse stato vero, la Terra avrebbe dovuto essere ricoperta interamente dalle acque. In pratica la questione discussa da Dante è: la terra emersa è più alta o no della superficie dell'acqua? L'Alighieri dapprima enumera le opinioni contrapposte, quindi risponde che a suo avviso la terra emersa è dovunque più alta della superficie del mare, ed emerge da essa nell'emisfero boreale, dando vita alle terre emerse allora conosciute, a causa di una forza di attrazione generata dal cielo delle stelle fisse: una tesi dunque simile a quella sopra letta di Ristoro d'Arezzo, e finalizzata a stabilire un vero e proprio "principio antropico": l'universo è strutturato in questo modo e non in altri, onde permettere l'esistenza degli esseri umani (del resto, in un universo incompatibile con la vita non ci sarebbero osservatori a descriverlo). Questa dottrina cosmologica appare in contrasto con quanto scritto da Dante alla fine della Prima Cantica, circa la "corsa" della roccia per schivare il contatto con Belzebù, e ciò ha fornito argomentazioni a certi studiosi che negano l'autenticità di questa tarda operetta dantesca. Tuttavia appare evidente che, in Inf. XXXIV, 122-126, non è esposta tanto una teoria scientifica, quanto piuttosto una grandiosa concezione fantastica, che è tra le più indovinate invenzioni dell'universo poetico dantesco.

Oggi sappiamo che la Terra ha una struttura a "sfere concentriche", come è stato dedotto dallo studio delle onde sismiche. Sotto una crosta, che si estende fino a circa 40 Km di profondità ed è costituita principalmente da graniti (la crosta continentale), ricchi di quarzo e di silicati di alluminio, e da basalti (la crosta oceanica), ricchi in silicati di ferro e magnesio, si estende il mantello, dal quale è separata da una zona intermedia detta discontinuità di Mohorovičić, dal nome del geologo croato Andrija Mohorovičić (1857-1936). Il mantello a sua volta è diviso in mantello superiore (da 70 a 400 Km di profondità), mantello intermedio (da 400 a 650 Km) e mantello inferiore (da 650 a 2700 Km). A una profondità che varia da circa 80 km sotto gli oceani a circa 200 km sotto i continenti, vi è uno strato a bassa viscosità chiamato astenosfera, che si comporta come un fluido estremamente viscoso. Il mantello intermedio è considerato la sorgente dei magmi vulcanici, e dunque sarebbe qui che Jules Verne (1828-1905) avrebbe immaginato il suo straordinario "Viaggio al Centro della Terra" (1864); in realtà le temperature e le pressioni sono tali da rendere impossibile la vita alle creature preistoriche descritte da Verne. Il mantello inferiore costituisce quasi la metà della massa della Terra, ed è ricco di silicio e di magnesio. Al di sotto di esso si trova il nucleo, che costituisce il 30 % della massa della Terra e ha circa le stesse dimensioni del pianeta Marte. È diviso in nucleo esterno (da 2890 a 5150 Km di profondità), fatto di ferro e nichel, con una temperatura media di 3000° C, e in nucleo interno (da 5200 a 6371 Km di profondità), grande più o meno quanto la Luna, in cui sono concentrati gli elementi più pesanti del pianeta: è infatti composto quasi esclusivamente di ferro, la sua temperatura tocca i 5000° C e in esso la pressione è tre milioni di volte più elevata di quella rilevata al livello del mare. Tale pressione fa pensare che il nucleo interno sia solido, mentre quello esterno sarebbe fluido, e i suoi movimenti darebbero origine al campo magnetico del nostro pianeta, il quale tiene lontane le radiazioni cosmiche e permette la vita sul nostro pianeta. Ma sul cuore più riposto del nostro mondo sappiamo ancora molto poco, ed è affascinante pensare che Dante, anticipando il professor Lindenbrock di Verne, abbia potuto recarcisi a piedi, anche se egli immaginava che fosse occupato dal Cocito ghiacciato, e non da una sfera incandescente!

« non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l'universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo (...)
Per ch'io mi volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d'acqua sembiante. » (Inf. XXXII, 7-9.22-24)

Se volete avere maggiori informazioni in proposito, consultate quest'altro mio ipertesto.

La deriva dei continenti negli ultimi 500 milioni di anni

Il brusco movimento della terra, che si sposta dalla parte opposta del pianeta Terra avendo orrore di Lucifero che piomba « folgoreggiando giù dal cielo » (Purg. XII, 26-27), ricorda invece assai da vicino la moderna Teoria della Deriva dei Continenti. Tale teoria è oggi comunemente accettata da tutti, ma in passato ebbe una storia particolarmente travagliata. L'ipotesi secondo la quale i continenti si muoverebbero l'uno rispetto all'altro non è stata formulata in tempi recenti: il cartografo olandese Abraham Ortelius (1528-1598) nel suo saggio "Thesaurus Geographicus" (1590) fu il primo ad osservare che i profili delle coste dei continenti sembrano stranamente combaciare: se portate l'una accanto all'altra, l'Africa e il Sudamerica si saldano quasi perfettamente, ed oggi sappiamo che la coincidenza è ancora migliore a livello di piattaforme continenti: lo stesso si può dire per la Norvegia e la Groenlandia. Gli scienziati Francesco Bacone (1561-1626) e Alexander von Humboldt (1769-1859) ripresero l'idea di Ortelius ed ipotizzarono che i continenti si erano staccati l'uno dall'altro in seguito a terremoti violentissimi. Nel XIX secolo inoltre l'inizio dello studio scientifico dei fossili portò grandi paleontologi come Georges Cuvier (1769-1832) a notare come i resti di animali terrestri o di acqua dolce si trovassero oggi sulle rive opposte di oceani assai ampi: ad esempio, in ere geologiche passate il Nordamerica e l'Europa avevano avuto una flora comune. Il geologo austriaco Eduard Suess (1831-1914) avanzò l'ipotesi che India, Africa e Sudamerica fossero un tempo parte di un unico continente assai più vasto, denominato Gondwana (in sanscrito "Terra dei Gondi", una popolazione dell'India). Il primo a presentare una possibile spiegazione del movimento di masse rocciose così gigantesche fu il parmense Roberto Mantovani (1854-1933), il quale nel 1878 pensò che la deriva dei continenti fosse la conseguenza di una dilatazione globale della Terra. Il padre della deriva continentale è però unanimemente considerato il tedesco Alfred Wegener (1880-1930), il quale nel suo lavoro "Die Entstehung der Kontinente und Ozeane" ("La formazione dei continenti e degli oceani", 1915) presentò molte prove a favore di questo fenomeno, e suppose che la forza centrifuga dovuta alla rotazione terrestre fosse sufficiente a spiegare la deriva continentale. In realtà i calcoli dimostrarono che tale forza è un milione di volte inferiore a quella necessaria a far allontanare i continenti l'uno dall'altro, la teoria fu rifiutata a vantaggio di altre più semplici (come l'esistenza di cinture di isole o di ponti continentali che congiungessero tra loro le terre emerse), e Wegener morì in Groenlandia mentre cercava prove per la sua teoria.

Solo negli anni cinquanta del secolo scorso il geologo americano Harry Hammond Hess (1906-1969) formulò una nuova versione della teoria della deriva dei continenti, quella della cosiddetta tettonica delle placche, individuando il corretto motore del moto continentale. Secondo Hess la crosta terrestre é formata da grosse zattere o "placche", che "galleggiano" sopra il mantello terrestre, il quale si trova in uno stato pressoché fluido. Il nucleo del pianeta è tenuto incandescente dall'attività di elementi radioattivi, e a causa della differenza di temperatura tra il nucleo e la crosta si innescano nel mantello potenti moti convettivi, i quali sono in grado di aprire nuovi oceani (in corrispondenza delle cosiddette dorsali oceaniche) e di spostare le placche su colossali tapis-roulant. Oggigiorno tale teoria è universalmente accettata, e il moto dei continenti è stato ricostruito con buona approssimazione nel corso degli ultimi tre miliardi di anni. Secondo il geologo Richard Fortey, per avere un'idea della lentezza della deriva si deve immaginare che le nostre unghie crescano, crescano, crescano sino a diventare lunghe come da Londra fino a New York: perchè ciò avvenga occorrono quasi 200 milioni di anni. E questo è circa il tempo necessario all'apertura dell'Oceano Atlantico, dopo la frammentazione dell'antico supercontinente Pangea ("tutte le terre"), poiché i continenti si muovono circa ad una velocità pari a quella con cui crescono le unghie!

Lo sconvolgimento della Terra provocato dalla caduta di Lucifero, « colui che fu nobil creato più ch'altra creatura » (Purg. XII, 25-26), com'è descritto da Dante fu tanto devastante da ricordarci proprio il formidabile moto delle celle convettive del mantello terrestre, così immense da coinvolgere quasi l'intero volume planetario, che permette agli oceani di aprirsi e di chiudersi, e ai continenti di scontrarsi sollevando altissime catene montuose. In ogni caso, l'analisi dei testi portata avanti in questa pagina ci consente di affermare che dagli scritti danteschi emerge un modello di terra dinamica, in continua mutazione, nella quale agiscono delle forze che sfuggono al controllo umano, e avente come criterio finale la compatibilità con il formarsi e il progredire della vita.

Prima di passare ad altro, occorre afferrare l'occasione di parlare dell'età che Dante attribuisce alla Terra, onde poterla confrontare con la durata della storia geologica oggi nota (per la quale vedasi l'altro mio ipertesto didattico intitolato L'Anno della Terra). Vista la concezione che il nostro autore ha della storia, questo problema equivale a chiedersi quando Dante colloca la Creazione del mondo. Sembrerà impossibile, ma i versi della Divina Commedia sono sufficienti per calcolare numericamente quella data, però occorrerà spostarsi nella Terza Cantica, e precisamente nel Canto Ventiseiesimo, quello dell'incontro con Adamo. Dopo l'esame sulle tre virtù cardinali sostenuto con gli Apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, il poeta scorge un lume brillante che si è unito agli altri, e Beatrice gli presenta « l'anima prima / che la prima virtù creasse mai » (Par. XXVI, 83-84). Subito Dante ne approfitta per porgere al « padre antico / a cui ciascuna sposa è figlia e nuro » (Par. XXVI, 92-93) quattro domande, che però Adamo non ha bisogno di ascoltare, avendole lette direttamente nella Mente di Dio. Le quattro domande riguardano, nell'ordine, il tempo intercorso fra la sua creazione ed il presente, la durata del soggiorno nel Paradiso Terrestre, il vero motivo dell'ira divina nei suoi confronti, e qual era la lingua che egli parlava: tutti temi ampiamente dibattuti all'epoca di Dante. A noi interessa la risposta alla prima questione:

« Quindi onde mosse tua donna Virgilio,
quattromilia trecento e due volumi
di sol desiderai questo concilio;
e vidi lui tornare a tutt'i lumi
de la sua strada novecento trenta
fïate, mentre ch'ïo in terra fu' mi. » (Par. XXVI, 118-123)

Vediamo di interpretare questi versi. Dal Limbo, il cerchio infernale da cui Beatrice fece partire Virgilio in soccorso di Dante, Adamo desiderò di salire al concilio celeste per 4302 anni ("volumi di sol" sta per "rivoluzioni solari"); e prima, finché visse sulla Terra, egli aveva visto il Sole ripercorrere la sua strada nel cielo attraverso i segni dello Zodiaco per 930 volte. La durata della vita terrena di Adamo è quella attestata da Genesi 5, 5; invece assai più arduo all'epoca era la determinazione degli anni trascorsi dalla sua morte fino alla discesa di Gesù al Limbo, e in questo ogni autore forniva una diversa cronologia. Probabilmente Dante si attiene al calcolo effettuato dallo storico Eusebio di Cesarea (265-340 d.C.). Sommando le due cifre, ne risulta che la liberazione di Adamo dal Limbo avvenne 5432 anni dopo la Creazione del mondo. Assunto che, secondo Dante, Gesù morì nel 33 d.C., se ne conclude che il mondo venne creato nell'anno 5199 a.C. Sommando invece ai 5432 anni suddetti i 1266 anni trascorsi secondo Inf. XXI, 112-114 tra la morte di Cristo e il viaggio ultraterreno del Ghibellin Fuggiasco, si arriva ad un totale di 6498 anni. Dunque, nel momento in cui Dante ascende al Paradiso, dalla Creazione sono trascorsi quasi esattamente 65 secoli.

Michelangelo Buonarroti, Adamo ed Eva ritratti nella volta della Cappella Sistina (1508-1512)

Michelangelo Buonarroti, Adamo ed Eva ritratti
nella volta della Cappella Sistina (1508-1512)

Si noti che questa non è l'unica cronologia che cerca di collocare temporalmente la Creazione del mondo. La tradizione rabbinica, ad esempio, collocava l'inizio stesso del tempo il 29 marzo o il 22 settembre del 3760 a.C., e ancor oggi gli Ebrei osservanti contano gli anni a partire da quella data presunta. Invece la Chiesa Ortodossa bizantina poneva la Creazione il 1 settembre del 5509 a.C., mentre il vescovo anglicano James Ussher (1581-1656), sulla base di calcoli da lui effettuati sulla Bibbia, riteneva che il mondo fosse stato creato a mezzogiorno in punto del 23 ottobre del 4004 a.C. La cronologia di quest'ultimo è quella tuttora seguita dai seguaci del Creazionismo.

A partire dall'Illuminismo tuttavia si è fatta strada l'idea che il mondo è in realtà assai più antico di quanto le Sacre Scritture sembrano affermare. Il primo a mettere in discussione le cronologie tradizionali fu il francese Giovanni Buridano (1290-1358), il quale sosteneva che il sole riscalderebbe le terre alleggerendole, e questo alleggerimento provocherebbe un sollevamento delle terre, contrastato dai fenomeni di erosione; ciò comporterebbe una scala dei tempi incompatibile con la Bibbia, poiché i fenomeni che egli descrive richiedono diverse decine di migliaia di anni per avere luogo. Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788), fu il primo a proporre l'ipotesi che i pianeti del sistema solare fossero stati generati dalle collisioni tra il Sole e alcune comete; basandosi sul tasso di raffreddamento del ferro calcolò il tempo minimo che sarebbe stato necessario al nostro pianeta per raggiungere la temperatura attuale, stimando l'età della Terra in 75.000 anni, molti più quindi dei 6500 anni circa calcolati da Dante. Il già citato scozzese James Hutton (1726–1797), considerato il fondatore della geologia moderna, nel 1785 presentò un articolo intitolato "Teoria della Terra: un'indagine delle leggi osservabili nella Composizione, Dissolvimento e Ristabilimento delle terre sul globo", in cui espose per la prima volta il concetto di plutonismo, e sostenne che i tempi necessari per accumulare i sedimenti sul fondo del mare, per formare nuove rocce e per sollevarle in superficie non si possono valutare in millenni, ma in decine o addirittura in centinaia di milioni di anni. Utilizzando le leggi della termodinamica, William Thomson (1824-1907), meglio noto con il titolo di Lord Kelvin, stimò il tempo necessario alla Terra per raffreddarsi gradualmente dopo la sua formazione, ritenendo che il nostro pianeta dovesse avere all'incirca cinquanta milioni di anni. Questo risultato supponeva però che la diffusione del calore avvenisse per semplice conduzione, ignorando i fenomeni di convezione attraverso il mantello terrestre, e soprattutto il decadimento delle sostanze radioattive presenti nelle viscere della Terra, che ai suoi tempi non era noto. Ciò lo portò così a sottostimare l'età reale della Terra. Proprio la radioattività permise una precisa datazione dei fossili e anche delle rocce più antiche, stabilendo che la Terra ha circa 4,54 miliardi e mezzo di anni. La vita comparve invece sulla Terra in un periodo compreso tra i 4 e i 3,5 miliardi di anni fa, epoca alla quale visse l'"Ultimo Antenato Comune Universale" (LUCA, "Last Universal Common Ancestor"), l'unica tra le primitive forme di vita a dare origine a una discendenza durata sino ai nostri giorni. Quanto all'universo, nel 1927 l'abate belga Georges Lemaître (1894–1966) propose la Teoria del Big Bang, secondo cui l'universo non sarebbe affatto eterno, come riteneva Einstein, ma ebbe origine da una colossale esplosione (da cui il nome della teoria) di cui resta traccia nella radiazione cosmica di fondo e nell'espansione dell'universo, attestata dallo spostamento verso il rosso delle galassie, indicante il fatto che esse si stanno allontanando progressivamente l'una dall'altra, come scoperto nel 1924 da Edwin Hubble (1889-1953). Inizialmente rifiutata dagli scienziati, oggi questa teoria è universalmente accettata; i calcoli sulla velocità di allontanamento delle galassie sembrano indicare che il Big Bang abbia avuto luogo 13,73 miliardi di anni fa, con un errore in più o in meno di 120 milioni di anni. Altro che i 65 secoli danteschi! C'è però da dire che secondo i Purana, testi sacri induisti risalenti ai primi secoli dopo Cristo, la Creazione sarebbe avvenuta 50 "Anni di Brahma" fa, equivalenti per noi a 155 miliardi di anni fa!

 

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