Così la neve al sol si disigilla; (Par. XXXIII, 64-66) |
L'Inferno è per definizione un luogo "caldo", dominato da fiamme, fiumi di fuoco, lava, piombo fuso, e mille altri tormenti infuocati partoriti soprattutto dalla morbosa fantasia di artisti medioevali, soprattutto sulla scorta di alcuni passi del Nuovo Testamento. Ad esempio:
« Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli! » (Mt 25, 41)
« Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nella vita orbo, che essere gettato con due occhi nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue mai. » (Mc 9, 47-48)
« La Bestia fu catturata, e con essa il Falso Profeta che alla sua presenza aveva operato quei portenti con i quali aveva sedotto quanti avevano ricevuto il marchio della bestia e ne avevano adorato la statua. Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo. » (Ap 19, 20)
Per rimanere a Dante, basti leggere questa magistrale descrizione del terzo girone del Settimo Cerchio Infernale, dove sono puniti i Violenti contro Dio, cioè i Bestemmiatori. Agli occhi di Dante si presenta uno spettacolo atroce, disegnato con tono impassibile e con toni quasi da saggio scientifico: un immenso deserto di sabbia, su cui piovono larghe falde di fuoco come fiocchi di neve sulle Alpi, molto larghi per l'assenza di vento che tenderebbe a polverizzarli:
«
Sovra tutto 'l sabbion, d'un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.
Quali Alessandro in quelle parti calde
d'Indïa vide sopra 'l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,
per ch'ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch'era solo:
tale scendeva l'etternale ardore;
onde la rena s'accendea, com' esca
sotto focile, a doppiar lo dolore. » (Inf. XIV, 28-39)
La citazione dotta deriva da un passo di Alberto Magno ("De Meteoris", I, IV, 8), secondo il quale Alessandro Magno in India avrebbe visto fiocchi di fuoco cadere dal cielo ed avrebbe ordinato ai suoi soldati di calpestarli, in modo che la fiamma (il "vapore" infuocato) si estinguesse più facilmente finché rimaneva sola, prima cioè di dare tempo all'incendio di estendersi per l'accumularsi di falde infuocate. Si noti quel preciso "com'esca sotto focile", che fa riferimento all'incendiarsi di un combustibile grazie alla scintilla emessa da una pietra focaia percossa dall'acciarino.
Giotto, l'Inferno, dettaglio del Giudizio Universale nella Cappella degli Scrovegni a Padova (1306)
Anche il poeta inglese John Milton (1608-1674), 350 anni dopo Dante, darà dell'Inferno una terrorizzante descrizione legata al fuoco e allo zolfo nel suo capolavoro "Il Paradiso Perduto" (1667):
« At once as far as angels ken he views
The dismal situation waste and wild,
A dungeon horrible, on all sides round
As one great furnace flamed, yet from those flames
No light, but rather darkness visible
Served only to discover sights of woe,
Regions of sorrow, doleful shades, where peace
And rest can never dwell, hope never comes
That comes to all; but torture without end
Still urges, and a fiery Deluge, fed
With ever-burning sulfur unconsumed... »
[subito osserva quell'aspro, pauroso e desolato luogo,
quella prigione orribile e attorno fiammeggiante,
come una grande fornace, e tuttavia da quelle
fiamme nessuna luce, ma un buio trasparente, una tenebra
nella quale si scorgono visioni di sventura,
regioni di dolore e ombre d'angoscia, e il riposo e la pace
non si troveranno, né mai quella speranza che ogni cosa
solitamente penetra; e solo una tortura senza fine
urge perenne, e un diluvio di fiamme nutrito
di zolfo sempre ardente, mai consunto...]
("Paradiso Perduto", libro I, vv. 59-69)
Nonostante tanta immaginazione, ai tempi di Dante e di Milton non esisteva ancora una "Termodinamica" come noi oggi la conosciamo, cioè come ramo distinto della fisica che studia il calore ed i suoi fenomeni, ed in particolar modo il comportamento dei gas. Già nell'antichità il calore era stato oggetto di studio; così si esprime in particolare il solito Aristotele, nelle parole di Elémire Zolla:
« Aristotele insegna che il calore è una conseguenza della luce. Tutto ha forma e consistenza mercé il calore o il gelo, che è soltanto diminuzione di calore, fino al limite dell'assenza. Il calore coagula il fumo facendone evaporare gli umori; l'assenza di calore coagula viceversa i vapori, perché il calore interno, da cui erano debolmente, fluidamente stretti, il gelo lo risucchia e strappa via, sicché essi si stringono su se stessi, premuti dall'aria fredda che li fascia. Certi corpi, essendo fervidi e intrisi di scarsissima acqua, il calore non li può coagulare oltre, come il miele e il mosto; altri il calore ingrossa soltanto perché sono saturi più d'aria che d'acqua, come l'argento vivo, l'olio, la pece, lo sterco d'uccelli
»
(Elémire Zolla, da "Le meraviglie della natura. Introduzione
all'alchimia")
Erone di Alessandria (I secolo a.C.) si interessò della trasmissione del calore e riuscì ad ideare e realizzare un primissimo modello di macchina a vapore, l'eolipila (vedi disegno soprastante). Esso consisteva in una pentola di rame piena d'acqua e con il coperchio sigillato. Da quest'ultimo si staccavano due tubi che confluivano in una sfera rotante, anch'essa di rame. La sfera dispone di due tubicini ricurvi posti agli antipodi della sfera e rivolti in direzioni opposte. La pentola è posta sul fuoco. Quando l'acqua raggiunge una temperatura sufficiente, il getto del vapore dagli orifizi mette in rapida rotazione la sfera intorno al suo asse orizzontale in direzione opposta a quella dei getti. Si trattava indubbiamente di una scoperta notevole, ma purtroppo non ebbe seguito, e non si giunse ad una civiltà del vapore già in epoca romana. Perché? Ma perchè la macchina a vapore in età classica era ritenuta inutile, niente più che un giocattolo, dato che per svolgere i lavori più pesanti c'erano a disposizione migliaia di schiavi. Nessuna società schiavistica ha mai conosciuto uno sviluppo tecnologico, come dimostra anche il caso degli Stati Confederati d'America, sconfitti dai Nordisti meglio dotati di industrie, acciaierie e fabbriche di armi.
Secondo Emilio Segré la nascita della Termodinamica va fatta risalire alla costruzione dei primi rudimentali termometri e termoscopi ad opera del solito Galileo, ai primi del XVII secolo. A quell'epoca il calore era pensato come un fluido imponderabile chiamato calorico, che permea tutti i corpi, e può diffondersi dall'uno all'altro. La macchina a vapore venne studiata tra gli altri da Leonardo da Vinci (che realizzò l'Archituono), da Giovanni Battista della Porta (1535-1615) nel 1606 e da Thomas Savery (1650-1715) nel 1698, ma solo nel 1705 Thomas Newcomen (1664-1729) riuscì a mettere a punto la prima macchina sfruttabile per scopi industriali, e in particolare per pompare l'acqua fuori dalle miniere di carbone inglesi. L'invenzione del sistema biella-manovella per trasformare il moto alternato del pistone in moto rotatorio continuo lo si deve allo scozzese James Watt (1736-1819) nel 1765, quando ormai la manodopera schiavistica non era più disponibile da molto tempo, e l'energia animale, idrica o eolica non era più sufficiente per alimentare la nascente Rivoluzione Industriale. A differenza di quella di molte altre branche della Fisica, la storia della Termodinamica non è legata a ricerche teoriche finalizzate all'individuazione di leggi e principi fisici, ma a tutta una serie di innovazioni tecnologiche rese necessarie dalle accresciute richieste della civiltà tecnologica, messe a punto a partire da mere conoscenze empiriche sul calore. L'invenzione della macchina a vapore e tutti i successivi tentativi per migliorarne le prestazioni non furono dunque una conseguenza dei Principi della Termodinamica, ma li precedettero, imponendo ai Fisici lo studio scientifico del calore.
Sicuramente uno dei primi fenomeni termodinamici a colpire l'attenzione dei dotti fu quello relativo ai passaggi di stato. La materia si presenta sotto diversi stati di aggregazione, di cui i più comuni e diffusi sono quello solido, liquido ed aeriforme (di un quarto parleremo in fondo alla pagina). Lo stato solido è quello in cui le molecole sono tutte legate tra di loro in un reticolo cristallino; esso possiede forma e volume propri. Nello stato liquido le molecole non sono rigidamente collegate tra di loro; non possono allontanarsi, ma possono scorrere liberamente le une sulle altre. Per questo il liquido ha volume proprio, ma assume la forma del recipiente in cui è contenuto. Nello stato aeriforme le molecole sono slegate tra di loro, e perciò esso non ha né forma né volume proprio. I possibili passaggi di stato sono sei e sono riassunti in questo diagramma:
Si chiama fusione il passaggio da solido a liquido. Eccone un esempio in Dante:
«
Or, come ai colpi de li caldi rai
de la neve riman nudo il suggetto
e dal colore e dal freddo primai... » (Par. II, 106-108)
Cioè: come, esposto ai caldi raggi del sole, il "suggetto" della neve, cioè l'acqua, rimane "nudo", cioè spoglio delle sue qualità come il biancore o la bassa temperatura, per le quali appariva come neve, eccetera. Qui "suggetto" è il "subiectum" dei filosofi scolastici, per i quali la materia prima era una potenzialità verso forme accidentali. In questo caso, verso i passaggi di stato. Un altro esempio di passaggio di stato che chiama in causa la neve è nell'ultimo Canto della Commedia:
« Così la neve al sol si disigilla » (Par. XXXIII, 64)
Qui "disigilla" sta per "perdere la forma": infatti, sciogliendosi la neve distrugge il reticolo cristallino formato dalle molecole d'acqua, tornando allo stato liquido!
Come si vede dal diagramma soprastante, il passaggio dallo stato liquido a quello aeriforme può assumere due nomi: evaporazione o ebollizione. Il primo si ha quando il cambiamento di stato interessa solo lo strato superficiale del liquido: ad esempio, lasciando un contenitore pieno d'acqua fuori dalla finestra per alcuni giorni, lo troveremo vuoto, perchè le molecole più veloci via via si staccano dalla massa di fluido fino ad esaurirlo. Questo fenomeno spiega ad esempio la dissoluzione delle nebbie al levarsi del Sole, che troviamo attestato in due luoghi della Terza Cantica:
«
...a guisa del parlar di quella vaga
ch'amor consunse come sol vapori » (Par. XII, 15)
(di questa abbiamo già parlato nella pagina precedente a proposito dell'eco)
« Sì come il sol che si cela elli stessi
per troppa luce, come 'l caldo ha róse
le temperanze d'i vapori spessi,
per più letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa » (Par. V, 133-137)
Leggi: così come il Sole si nasconde da se stesso per via dell'eccesso della sua luce appena con il calore dei suoi raggi ha diradato i fitti vapori (le nebbie) che prima lo velavano e ne attenuavano il fulgore, allo stesso modo per l'accresciuta letizia si nascose alla mia vista l'anima santa di Giustiniano, avvolgendosi nei suoi raggi di luce. La nebbia altro non è che una nube formatasi a contatto con il suolo, costituita da goccioline di acqua liquida sospese in aria. A causa della diffusione della luce solare da parte dell'acqua in sospensione, la nebbia si manifesta come un alone biancastro che limita la visibilità. Di solito si parla di nebbia quando la visibilità è inferiore ai 1000 metri, mentre per visibilità compresa tra 1000 a 5000 metri si parla di foschia. Il calore del Sole naturalmente fa evaporare le goccioline in sospensione e dissolve le nebbie. Analogo fenomeno si ha nella rapida evaporazione mattutina della rugiada:
« Quando noi fummo là 've la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada... » (Purg. I, 121-123)
Sembra quasi di vederla, questa rugiada che combatte ("pugna") con il sole e resiste più a lungo, per il fatto di trovarsi in un luogo ombroso ("ad orezza" è toscanismo)!
Si parla invece di ebollizione quando tutta la massa di fluido è coinvolta nel passaggio di stato. Quando la temperatura del liquido si avvicina alla temperatura di ebollizione, che varia da sostanza a sostanza, dentro la massa liquida si formano le prime bolle di vapore (da cui il nome del fenomeno), ma esse vengono schiacciate e distrutte dalla pressione atmosferica. Una volta raggiunta la temperatura di ebollizione, tuttavia, la pressione del vapore uguaglia la pressione atmosferica, ed allora le bolle che si sono enucleate sul fondo del recipiente (più vicino alla sorgente di calore) salgono in superficie, provocando il tipico ribollire. Queste bolle peraltro spingono sul fondo altro liquido, che a sua volta vaporizza, finché il processo non è completato. Ne consegue che a quote maggiori, dove la pressione atmosferica è più bassa, la pressione di vapore la eguaglia già a temperature più basse, e quindi l'ebollizione avviene prima (a 2000 metri di quota l'acqua bolle a circa 80° C); al contrario, alzando la pressione esterna l'ebollizione ritarda. Quest'ultimo è il principio su cui si basa la pentola a pressione: ad alta pressione l'ebollizione è più lenta, e i cibi cuociono meglio. Inoltre, dato che la pressione di vapore non è mai nulla, abbassando sufficientemente la pressione esterna (ad esempio con una pompa a vuoto) è possibile provocare l'ebollizione a qualsiasi temperatura. Ciò spiega perchè nello spazio siderale non esistono corpi liquidi, se non racchiusi in atmosfere che esercitino una sufficiente pressione su di essi. E spiega anche perchè il vuoto assoluto è impossibile da realizzarsi: togliendo quasi tutta l'aria da un contenitore, le pareti di quest'ultimo (fossero anche metalliche!) evaporano, giacché la pressione esterna è scesa sotto la loro pur bassissima pressione di vapore!
Ma leggiamo i versi di Dante da cui si evince questo fenomeno:
«
Quale ne l'arzanà de' Viniziani
bolle l'inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani [...]
tal, non per foco ma per divin' arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che 'nviscava la ripa d'ogne parte.
I' vedea lei, ma non vedëa in essa
mai che le bolle che 'l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa » (Inf. XXI, 7-9.16-21)
Siamo nella Quinta Bolgia, quella dei Barattieri, e guardando in essa a Dante sembra di essere nell'Arzanà, cioè nell'Arsenale di Venezia, costruito ai primi del XII secolo, che ai tempi di Dante era il più attivo d'Europa (la voce veneta Arzanà ricalca l'arabo Dar sina'a, "casa di fabbricazione"). Infatti durante l'inverno, stagione poco propizia alle navigazioni di lungo corso, le navi venivano calafatate e rattoppate con pece bollente, la stessa di cui è zeppa la Bolgia. Da notare quella "tenace pece", quella "pegola spessa" che invischia, cioè ricopre di una massa appiccicosa sia l'arsenale veneziano che quell'oscuro angolo infernale. Da notare che, in questo mostruoso ammasso colloso, Dante non vede altro che le bolle che salgono continuamente in superficie coinvolgendo tutto il volume del fluido, proprio come spiegato sopra: il nostro poeta vede la superficie della pece sollevarsi tutta, proprio come fa un liquido viscoso che trattiene in sé del vapore, e subito dopo ricadere giù sgonfiandosi, come anche noi abbiamo visto fare ad esempio alla polenta che si rimescola nel paiolo!
Si parla infine di sublimazione quando si ha il passaggio di stato diretto da solido a vapore. Questo fenomeno avviene quando i raggi del sole mattutino investono la brina, minuscoli cristalli di ghiaccio depositatisi durante la gelida notte, ed essi si dissolvono immediatamente nell'atmosfera da cui provenivano. Ma lasciamo anche in questo caso la parola al nostro poeta:
«
quando la brina in su la terra assempra
l'imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra » (Inf. XXIV, 4-6)
Cioè: quando la brina sulla terra cerca di riprodurre l'immagine della sua bianca sorella (della neve), ma la tempera ("tempra") della penna con cui la brina "copia" la neve quasi disegnando, è di ben poca durata. L'immagine della sublimazione dell'acqua viene a Dante direttamente da Lucano:
« Non
duraturae conspecto sole pruinae »
[le brine pronte a dissolversi al cospetto del sole] (Farsalia IV, 53)
Nella Terza Cantica del "Sacrato Poema" si ha traccia persino del passaggio di stato inverso, il brinamento, allorché il nostro poeta vedere risalire all'Empireo quei Beati che avevano sostato con lui nel Cielo delle Stelle Fisse (vedi uno dei capitoli successivi):
«
Sì come di vapor gelati fiocca
in giuso l'aere nostro, quando 'l corno
de la capra del ciel col sol si tocca,
in sù vid'io così l'etera addorno
farsi e fioccar di vapor trïunfanti
che fatto avien con noi quivi soggiorno. » (Par. XXVII, 67-72)
In altre parole, così come l'atmosfera ("l'aere nostro") fa cadere in forma di fiocchi gelati i vapori umidi solidificati dal freddo, allorché il Sole si trova congiunto con la Costellazione del Capricorno (la "capra del ciel", dal 21 dicembre al 21 gennaio), così Dante vede lì adornarsi il cielo delle fiamme splendenti ("vapor trïunfanti") delle anime, che erano sostate lì con lui, e fioccare verso l'alto. Nel pieno dell'inverno, il gelo è tale che l'umidità atmosferica passa direttamente dallo stato aeriforme a quello solido, sotto forma di brina. L'immagine paradossale di una precipitazione atmosferica che ha luogo verso l'alto era già stata usata da Dante nelle sue "Rime":
« Levava li occhi miei bagnati in pianti,
e vedea, che parean pioggia di manna,
li angeli che tornavan suso in cielo » (Rime XX, 57-59)
Parlare dei passaggi di stato in generale, e dei passaggi di stato dell'acqua in particolare, ci conduce a pensare immediatamente al ciclo dell'acqua, che è una delle principali caratteristiche dell'idrosfera terrestre, e quindi del fenomeno delle precipitazioni atmosferiche. Il nostro autore vi accenna almeno in due passaggi importanti del Purgatorio. Il primo è il seguente:
«
Libero è qui da ogne alterazione:
di quel che 'l ciel da sé in sé riceve
esser ci puote, e non d'altro, cagione.
Per che non pioggia, non grando, non neve,
non rugiada, non brina più sù cade
che la scaletta di tre gradi breve;
nuvole spesse non paion né rade,
né coruscar, né figlia di Taumante,
che di là cangia sovente contrade;
secco vapor non surge più avante
ch'al sommo d'i tre gradi ch'io parlai,
dov'ha 'l vicario di Pietro le piante. » (Purg. 43-54)
Con queste parole Stazio, appena apparso a Dante e Virgilio così come Gesù apparve improvvisamente ai discepoli sulla via di Emmaus, intende dire che la Montagna del Purgatorio, a partire dalla Porta che lo separa dall'Antipurgatorio, non sente alcuna alterazione dell'atmosfera, essendo collocata al di sopra del supposto limite delle precipitazioni atmosferiche. Su di essa possono essere avvertite solo le forze proprie del Cielo, non della Terra. Perciò, a partire dalla scaletta con tre gradini attraverso la quale si accede alla porta dove sta l'Angelo Guardiano (Purg. IV, 76-78), non cadono né pioggia, né grandine, né neve, né rugiada, né brina; non si addensano nubi, non scoccano lampi ("coruscar", vedi sotto) né compare l'arcobaleno (personificato negli antichi nella figlia di Taumante e di Elettra, vedi lezione precedente), che sulla Terra appare spesso in diverse parti del cielo. Quanto al "secco vapor", la fisica aristotelica attribuiva la causa dei fenomeni atmosferici ai vapori che sorgono dalla terra: dai vapori umidi dipenderebbero le precipitazioni atmosferiche, da quelli secchi e rarefatti nascerebbero i venti, mentre quelli secchi e densi, imprigionati dentro le viscere della terra, produrrebbero i terremoti. Così si spiega anche lo strano fenomeno che provoca lo svenimento di Dante al momento di attraversare l'Acheronte:
«
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l'uom cui sonno piglia » (Inf. III, 133-136)
Questi vapori e questi venti non possono però salire oltre la seconda regione dell'aria, che è quella fredda, al confine superiore della quale l'Alighieri immagina posta la Porta del Purgatorio vero e proprio. Secondo Aristotele, la sfera dell'aria sarebbe distinta in tre diverse regioni: quella inferiore o temperata, adatta alla vita umana; quella intermedia più fredda, dove si genererebbero le meteore; e quella più alta, serena e luminosa, posta oltre la zona delle tempeste. Sant'Alberto Magno e San Tommaso d'Aquino (Summa Theologica, I, CII, 1) ritenevano che il Paradiso Terrestre fosse comunque situato nella prima zona, essendo l'unica adatta alla vita umana; San Beda il Venerabile, San Bonaventura da Bagnoregio ed Egidio Romano lo ponevano invece nella terza zona, libera da ogni perturbazione, in modo da farne quasi una fotocopia dei pagani Campi Elisi, in cui freddo, vento, pioggia e inverno non esistevano. Dante si accorda con quest'ultima opinione, ponendo il Giardino dell'Eden in cima alla Montagna del Purgatorio.
La struttura del Purgatorio dantesco
Tuttavia, una volta raggiunto l'Eden, Dante si accorge che le foglie degli alberi stormiscono come se agitate da una brezza, e l'acqua dei fiumi del Paradiso sgorga proprio come fa sulla Terra; né del resto senza di essi gli alberi stessi del Paradiso Terrestre non potrebbero crescere! Come dunque spiegare questa apparente contraddizione con le suddette parole di Stazio? A rispondere al dubbio dantesco è Matelda, misterioso personaggio in cui alcuni vorrebbero vedere addirittura la madre del poeta (Matelda da "Mater Dantis"), la quale spiega:
«
Perché 'l turbar che sotto da sé fanno
l'essalazion de l'acqua e de la terra,
che quanto posson dietro al calor vanno,
a l'uomo non facesse alcuna guerra,
questo monte salìo verso 'l ciel tanto,
e libero n'è d'indi ove si serra. » (Purg. XXVIII, 97-102)
In pratica, affinché ai primi uomini, posti ad abitare nell'Eden, non recassero molestia ("guerra") le perturbazioni atmosferiche, prodotte - in accordo con la concezione di Aristotele - dai vapori emessi dalla terra e dalle masse d'acqua (le "esalazioni"), che tendono a salire quanto possono dietro il calore del sole, questo monte (quello del Purgatorio) si elevò tanto verso il cielo, che dal punto in cui si trova la porta di accesso ad esso, è libero da ogni perturbazione. In seguito Matelda spiega che il venticello dell'Eden è dovuto all'attrito dell'atmosfera, che si muove in circolo insieme ai Cieli superiori, contro l'elevatissima montagna del Purgatorio; e proprio i semi e le spore che il vento porta con sé dal Paradiso Terrestre, feconderebbero il mondo degli uomini e lo farebbero germinare. Tra l'altro, questi versi contengono anche una negazione della vecchia teoria della generazione spontanea:
«
...la percossa pianta tanto puote,
che de la sua virtute l'aura impregna
e quella poi, girando, intorno scuote;
e l'altra terra, secondo ch'è degna
per sé e per suo ciel, concepe e figlia
di diverse virtù diverse legna.
Non parrebbe di là poi maraviglia,
udito questo, quando alcuna pianta
sanza seme palese vi s'appiglia » (Purg. XXVIII, 109-117)
Secondo tale teoria, una nuova pianta o un nuovo animale potrebbe nascere senza semi e senza fecondazione dalla corruzione di materia organica. Contro tale tesi si era già espresso San Tommaso d'Aquino (Summa Theologica I, LXIX, 2), ed essa sarà definitivamente dimostrata falsa da Lazzaro Spallanzani (1729-1799) e da Louis Pasteur (1822-1895). Dante qui ribadisce che, quando germina una nuova pianta, il seme è stato portato dal vento grazie alla fertilità di cui l'aria è pregna; ponendo nell'Eden la fonte da cui si irradia la diffusione delle sementi , Dante fa di esso la sorgente stessa della vita. Quanto poi ai due fiumi del Purgatorio, il Lete e l'Eunoè, essi non scaturirebbero da una sorgente, ma da una miracolosa fontana sempre alimentata dalla Volontà di Dio:
«
L'acqua che vedi non surge di vena
che ristori vapor che gel converta,
come fiume ch'acquista e perde lena » (Purg. XVIII, 121-123)
Insomma, la sorgente dei due fiumi del Paradiso non è alimentata ("ristori") dal vapore convertito in pioggia dal freddo della seconda fascia atmosferica, come fanno i fiumi della Terra, che accrescono o diminuiscono la loro portata ("lena") a seconda dell'intensità delle piogge. Con queste ultime parole, il Sommo Vate dimostra, fisica aristotelica o no, di essere al corrente del concetto di ciclo dell'acqua: il calore del Sole fa evaporare l'acqua di fiumi, laghi e mari, e questo vapore, a contatto con il freddo dell'alta atmosfera, si condensa e ricade sotto forma di precipitazioni (pioggia, grandine, neve, rugiada, brina...), alimentando i fiumi. La teoria dei semi del Paradiso portati sulla Terra dai moti globali dell'atmosfera ci ricorda poi i complessi movimenti delle masse d'aria da zone ad alta pressione (anticicloniche) a zone di bassa pressione (cicloniche), come afferma la meteorologia moderna. Tali movimenti, che possono essere costanti o periodici, non corrono in linea retta dall'una zona all'altra, ma subiscono una deviazione dovuta alla forza di Coriolis, che tende a spostarli verso destra nell'emisfero boreale. e verso sinistra nell'emisfero australe, ed alle basse quote un'altra deviazione dovuta all'attrito con la superficie terrestre. Ancora una volta, l'interpretazione teologica è affiancata da una precisa conoscenza scientifica, a sua volta ricavata dall'attenta osservazione della Natura.
Così come la Meccanica si basa sui tre famosi Principi formulati da Galilei e Newton, anche la Termodinamica si basa su tre altrettanto famosi Principi, che però verranno formulati solo nel corso del XIX secolo, quando ormai la civiltà umana era largamente basata sul vapore. Il Primo Principio, che esprime la conservazione dell'energia tenendo conto della degradazione del lavoro in calore, e il Terzo, che riguarda l'impossibilità di raggiungere lo zero assoluto con un numero finito di trasformazioni, richiedono il concetto di Dinamica Molecolare per essere formulati, ed erano perciò al di fuori delle possibilità della scienza trecentesca, che come abbiamo visto rifiutava il concetto di atomo. Discorso diverso vale per il Secondo Principio della Termodinamica, il quale fu enunciato sì per regolamentare il funzionamento delle macchine termiche, ma può estendersi facilmente al più generale concetto di degradazione attraverso la definizione di entropia. L'irlandese William Thomson, meglio noto come Lord Kelvin (1824–1907), fornì il seguente enunciato di questo Principio:
« È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di trasformare in lavoro meccanico il calore prelevato da un'unica sorgente »
In altri termini, se prelevo calore da una sorgente (es. una caldaia), dovrò sempre buttarne via una parte per raffreddare il fluido in circolazione nella macchina, e quindi il rendimento non potrà mai raggiungere il 100 %. Invece il tedesco Rudolf Clausius (1822–1888) elaborò questo enunciato:
« È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di trasferire calore da un corpo più freddo a uno più caldo »
In altre parole, ponendo un cubetto di ghiaccio in acqua, noi non vedremo mai l'acqua bollire e il ghiaccio diventare più freddo, ma il ghiaccio sciogliersi e l'acqua raffreddarsi. Non è difficile dimostrare che i due enunciati sono formulazioni diverse dello stesso Principio, perchè negando l'uno si contraddice anche l'altro e viceversa (vedi qui maggiori dettagli in proposito). Esiste però una terza formulazione, una volta che si introduca il concetto di entropia S. Tale grandezza fisica fu introdotta da Clausius nel 1864 nel suo testo "Abhandlungen über die mechanische Wärmetheorie" ("Trattato sulla teoria meccanica del calore"), e il suo nome deriva dal greco εν, "dentro", e τροπή, "rivolgimento", sul modello della parola "energia". Essa è definita come il rapporto tra la quantità di calore fornita a un corpo lungo un processo reversibile e la temperatura a cui avviene lo scambio; il suo scopo è quello di misurare l'utilizzabilità dell'energia interna di un sistema termodinamico. Attraverso opportuni calcoli è facile rendersi conto che l'entropia aumenta quando il calore passa da un corpo più caldo a uno più freddo, mentre diminuisce nel caso contrario. E siccome il Secondo Principio della Termodinamica predica l'impossibilità del passaggio spontaneo di calore da un corpo più freddo a uno più caldo, evidentemente il Primo e il Secondo Principio della Termodinamica si possono così esprimere con un solo enunciato:
« L'energia dell'universo è costante; la sua entropia è in continuo aumento »
Il fisico austriaco Ludwig Boltzmann (1844-1906) diede un'interpretazione statistica dell'entropia, trattando il gas come un sistema formato da numerosissime molecole ed applicando ad esse le leggi matematiche della statistica. Egli arrivò così ad interpretare l'entropia di un sistema come una misura del numero delle configurazioni che esso può assumere, secondo la nota formula:
S = KB x ln W
dove KB è la costante di Boltzmann, pari ad 1,38 x 10–23 J/K, e W è il numero delle possibili configurazioni suddette, detto anche probabilità termodinamica. Si consideri ad esempio il seguente sistema, formato da due recipienti collegati da un orifizio, e poniamo sei molecole in quello a sinistra:
Come si vede, la situazione in cui le molecole si trovano tutte a sinistra è una sola su 64 possibili configurazioni (il cui numero complessivo è 26 = 64), per cui la probabilità di imbatterci proprio in tale situazione è pari solo a 1/64. Molto più numerose sono le situazioni in cui abbiamo 3 molecole a sinistra e 3 a destra, o 2 a sinistra e 4 a destra, o 4 a sinistra e 2 a destra, per cui la probabilità termodinamica di una distribuzione uniforme è assai maggiore. Ecco perchè vedremo un gas diffondersi spontaneamente dal primo contenitore al secondo, finché le molecole non saranno ugualmente distribuite fra i due: la probabilità di una distribuzione uniforme è di gran lunga maggiore di quella di una distribuzione asimmetrica. Il mondo si muove spontaneamente dall'ordine al disordine, e mai viceversa, perchè il disordine è infinitamente più probabile dell'ordine. Noi potremmo vedere in teoria delle biglie gettate su un pavimento radunarsi spontaneamente in una situazione ordinata, ma tale evento spontaneo è così improbabile, che anche aspettando l'intera durata della vita dell'universo non assisteremmo mai alla sua realizzazione! L'Alighieri ha ben compreso questo concetto, quando mette in bocca a Beatrice nel Cielo di Mercurio le seguenti parole:
« Tu dici: "Io veggio l'acqua, io veggio il foco,
l'aere e la terra e tutte lor misture
venire a corruzione, e durar poco » (Par. VII, 124-126)
Se noi dunque vedessimo un filmato in cui un gas distribuito uniformemente tra i due contenitori si addensa spontaneamente in uno di essi, o il calore passa dall'acqua bollente al ghiaccio, o i cocci di vetro si ricompongono spontaneamente nella finestra che formavano prima che essa fosse rotta, concluderemmo di aver visto il filmato al contrario. Il Secondo Principio della Termodinamica è dunque importantissimo, perchè definisce il verso della Freccia del Tempo. Noi vediamo scorrere il tempo nella direzione che va dai sistemi ordinati verso quelli disordinati, mai viceversa, e questo divieto mette la pietra tombale sulla speranza di mettere a punto una macchina del tempo per tornare nel passato.
« Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,
udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
poscia che le cittadi termine hanno.
Le vostre cose tutte hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte. » (Par. XVI, 73-81)
Beatrice propone al suo amato gli esempi delle città di Luni (in Liguria) e di Urbs Salvia (nelle Marche), che un tempo erano grandi e potenti ed ora sono praticamente scomparse dalla carta geografica, e quelli delle città di Chiusi, antico centro etrusco ridotto oggi a piccolo paese, e di Senigallia, spaventosamente decaduta nel XIII secolo a causa dei saccheggi e della malaria; non c'è dunque da stupirsi che anche le potenti famiglie e dinastie cadano in decadenza e si estinguano. Anche San Tommaso afferma:
« Perpetuo
homo non manet; etiam ipsa civitas deficit »
[L'uomo non dura in eterno, e persino la città muore] (Summa Theologica III,
XCIX, I)
Sennonché, aggiunge il Ghibellin Fuggiasco, in alcune cose apparentemente la morte non si vede, ma solo perchè esse durano molto più a lungo della vita umana. Il che dimostra quanto abbiamo detto sopra: pur senza conoscere il concetto fisico-matematico di entropia, Dante aveva chiaro il fatto che tutte le cose vanno scivolando verso la corruzione e il disfacimento, quello che in Termodinamica è noto come "morte termica" (tutti i punti dell'universo hanno temperatura uguale, e dunque è impossibile trasformare il calore in lavoro utile). Un concetto che ritornerà anche in una poesia di un altro grande scrittore italiano, Giovanni Pascoli (1855-1912), intitolata "La Porta Santa" (1900):
« Non ci lasciar nell'atrio
del viver nostro, avanti
la Porta chiusa, erranti
come vane parole;
ad aspettar che l'ultima
gelida e fosca aurora
chiuda alle genti ancora
la gran porta del sole:
quando la Terra nera
girerà vuota, e ch'era
Terra, s'ignorerà. »
Da notare, prima di cambiare argomento, che nell'Inferno il Secondo Principio della Termodinamica sembra non valere! Ecco infatti ciò che capita al ladro pistoiese Vanni Fucci nella Settima Bolgia:
«
Ed ecco a un ch'era da nostra proda,
s'avventò un serpente che 'l trafisse
là dove 'l collo a le spalle s'annoda.
Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com'el s'accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e 'n quel medesmo ritornò di butto. » (Inf. XXIV. 97-105)
Noi abbiamo detto sopra che è facilissimo vedere un bicchiere che va in frantumi cadendo sul pavimento, ma non è altrettanto agevole vedere i cocci che si ricompongono da soli sul tavolo. L'episodio in sé non è impossibile, ma si è detto che la probabilità che ciò avvenga è così piccola, che passera tutta quanta la vita dell'universo prima che lo vediamo verificarsi. Allo stesso modo, un corpo può disintegrarsi per qualche motivo, ma non vedremo mai la polvere che ne risulta ricomporre l'oggetto di partenza. Esattamente quello che succede invece nelle Malebolge. Del resto, è naturale che questo principio nella Valle Inferna sia ignorato: se infatti un dannato venisse disintegrato da un serpente infernale e tutto finisse lì, come potrebbe la sua pena essere eterna?
In assenza di una vera scienza Termodinamica, nel Medioevo i fenomeni legati al calore erano territorio di conquista per lo più per gli alchimisti, tenendo ben presente il fatto che essi non erano dei chimici ante litteram, quanto piuttosto dei sedicenti maghi dediti a pratiche esoteriche. Nel 1144 l'inglese Roberto di Chester tradusse dall'arabo il "Liber de compositione alchimiae", un libro dai forti connotati iniziatici, mistici e semimagici, che tra l'altro si proponeva di realizzare la panacea universale, cioè un rimedio per curare tutte le malattie, e la pietra filosofale, capace di trasmutare i metalli vili in oro tramite pratiche che in seguito avrebbero dato vita alla moderna chimica. L'erudito Alberto Magno (1193-1280) si occupa di alchimia nel "De mirabilibus mundi", ma il primo grande alchimista dell'Europa medievale fu il francescano Ruggero Bacone (1241-1294), il cui "Speculum Alchimiae" fu utilizzato dagli alchimisti dal XV al XIX secolo. Contemporanei di Dante furono Arnaldo di Villanova (1240-1312), che con il suo "Rosarium Philosophorum" trasformò l'alchimia in un sistema strutturato come una scienza, e il catalano Raimondo Lullo (1235-1315), autore del "Liber de segretis naturae seu de quinta essentia", una vera leggenda per la sua presunta abilità alchemica. Impossibile a questo punto non nominare il fiorentino Capocchio, incontrato da Dante nella Decima Bolgia tra i falsari, che secondo alcuni era stato compagno di studi dell'Alighieri, e venne bruciato vivo a Siena come stregone nell'estate del 1293. Rivolgendosi al poeta, l'ombra di Capocchio, condannata ad essere eternamente malata di lebbra, così lo apostrofa:
«
Sì vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l'alchìmia;
e te dee ricordar, se ben t'adocchio,
com'io fui di natura buona scimia. » (Inf. XXIX, 136-139)
Ecco cosa dunque volevano essere gli alchimisti: "scimia di natura", cioè imitatori della Natura nel creare materie nuove come i metalli preziosi! Ora, si sono sparsi fiumi d'inchiostro per cercare di dimostrare che anche Dante fosse un esperto di pratiche alchemiche ed esoteriche, dissezionando verso per verso la sua Commedia alla ricerca di messaggi iniziatici: un lavoro ovviamente destinato al fallimento, dato che non vi è nessuna traccia, in alcuna opera dantesca, di una sua presunta ricerca di "verità alternative" (anzi, abbiamo visto che la sua opera è la sintesi di tutta la cultura antica e medievale, e dell'aristotelismo in particolare).
Jan Van der Straet, "Il laboratorio dell'Alchimista", Firenze, Palazzo Vecchio (1570)
Le elucubrazioni degli esoterici si basano sul fatto che tutte le pratiche alchemiche ruotassero intorno al fuoco come elemento purificatore della materia, e il fuoco ricorre innumerevoli volte nell'Inferno, nel Purgatorio e persino nel Paradiso, dove le anime vengono spesso definite "fuochi". In particolare, tre versi hanno attirato l'attenzione degli studiosi di esoterismo:
«
Così si fa la pelle bianca nera
nel primo aspetto della bella figlia
di quel ch'apporta mane e lascia sera... » (Paradiso, XXVII, 136-138)
Questa terzina rappresenta uno dei più astrusi enigmi danteschi, ed ogni commentatore ne ha dato un'interpretazione diversa. E, proprio come è accaduto ai versetti più misteriosi dell'Apocalisse, gli esoterici si sono impossessati anche di questi versi, sostenendo che in essi va inteso un riferimento alchemico alla materia che si trasmuta passando dalla fase nera a quella bianca: la pietra nera, cioè la materialità plumbea-saturnina, opportunamente trattata darà origine alla pietra bianca per eccellenza, la pietra filosofale. A questo scopo viene citata la Tavola Smeraldina, uno dei testi ermetici fondanti dell'Alchimia, composto nel IX secolo da un anonimo autore arabo, secondo il quale il Sole ("quel ch'apporta mane e lascia sera") è il padre della materia e quindi anche della materia più nobile, sempre la pietra filosofale (in arabo al-Khimiya, da cui il termine stesso "alchimia"). La spiegazione probabile della terzina è invece molto meno esoterica, e verosimilmente allude all'abbronzatura, un fenomeno assai poco alchemico, tuttavia prodotto dalla "bella figlia", cioè dalla luce, di colui che giunge al mattino e se ne va alla sera, ovviamente il Sole; "il primo aspetto" sta qui probabilmente per "aspetto primitivo", essendo chiaro il colore naturale della nostra pelle. Del resto, all'irraggiamento da parte del Sole (così in Termodinamica è detto il trasporto di calore sotto forma di onde elettromagnetiche) Dante aveva già fatto riferimento nel Purgatorio:
«
"O dolce lume a cui fidanza i' entro
per lo novo cammin, tu ne conduci",
dicea, "come condur si vuol quinc'entro.
Tu scaldi il mondo, tu sovr' esso luci;
s'altra ragione in contrario non ponta,
esser dien sempre li tuoi raggi duci" » (Purg. XIII, 14-21)
(qui il Sole è preso a metafora della ragione speculativa che deve sempre guidare l'uomo nel mondo). A questo fenomeno, insieme astronomico e termodinamico, troviamo un altro riferimento sempre nella Seconda Cantica, allorché Dante usa una complicata perifrasi per spiegarci che ha un incubo poco prima del levare del Sole:
«
Ne l'ora che non può 'l calor dïurno
intepidar più 'l freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno... » (Purg. XIX, 1-3)
In altre parole, nell'ora più fredda nella notte il calore assorbito dalla Terra nelle ore diurne è ormai spento, "vinto" dal freddo naturale della Terra e dalle irradiazioni gelide del pianeta Saturno, cui già Virgilio si era riferito in Georgiche I, 336 come « frigida Saturni stella » ("talor", perchè ciò accade quando Saturno si trova sopra l'orizzonte), e non può più compensare la corrente di gelo proveniente dalla Luna. Infatti, per le conoscenze scientifiche del tempo, così come il Sole irraggia il calore sulla Terra, così la Luna irraggia il freddo, e Saturno può fare altrettanto.
Del fatto che non soltanto il Sole, ma qualunque corpo rovente irraggia calore (l'irraggiamento è cioè l'unico mezzo per trasportare calore nel vuoto, ma si verifica anche in presenza di materia) troviamo accenno anche in questa similitudine, nella quale Dante ci dice che molte braci accese irraggiano come un sol corpo, proprio come dagli spiriti del Cielo di Giove, disposti a formare un'aquila, si sprigiona una voce sola, e non un coro:
«
Così un sol calor di molte brage
si fa sentir, come di molti amori
usciva solo un suon di quella image. » (Par. XIX, 19-21)
Tre sono le forme nelle quali il calore si propaga: conduzione, convezione e, appunto, irraggiamento. Se l'irraggiamento prevale nel vuoto, la conduzione (trasferimento di calore senza trasporto di materia) è tipica dei solidi, mentre la convezione (trasferimento di calore con trasporto di materia) caratterizza i fluidi. Quest'ultimo fenomeno può essere osservato ponendo una spirale di carta sopra una sorgente di calore: l'aria calda, più leggera, sale e fa ruotare la spirale. Incredibilmente Dante lascia traccia nel Paradiso anche di questo fenomeno, nella seguente terzina:
« Poi, come nel percuoter d'i ciocchi arsi
surgono innumerabili faville,
onde li stolti sogliono agurarsi... » (Par. XVIII, 100-102)
Mia madre, cresciuta in una famiglia patriarcale, mi ha raccontato che, quando era bambina, trascorreva le serate d'inverno (ovviamente senza televisore) davanti al caminetto, ed era gioco assai diffuso quello di percuotere il ciocco sul fuoco, augurandosi di possedere in figura tanti beni quante scintille si riuscivano a produrre. Il legno che brucia, se percosso, si disintegra in tanti frammenti incandescenti, e questi, essendo leggeri, vengono portati verso l'alto dall'aria riscaldata dal fuoco, per mezzo del fenomeno della convezione!
Concentriamoci ora sul concetto di irraggiamento, perchè l'Alighieri ci permette di approfondire adeguatamente questo argomento.
Al tempo del nostro Poeta il fuoco era parte integrante non solo dell'alchimia, ma anche della metallurgia. L'"Edda" e la "Canzone dei Nibelunghi" dimostrano in quale considerazione fossero tenuti i fabbri e i fucinatori nel Medioevo; di metallurgia parlano l'anonimo "Mappae clavicula de efficiendo auro" ("Chiave della formula per lavorare l'oro") dell'VIII secolo e il "Diversarum artium schedula" ("Saggio su varie arti") del monaco Teofilo (XI secolo); e le tecniche siderurgiche cominciarono a fare grandi passi in avanti proprio all'epoca di Dante. A quest'epoca appartengono infatti i Kriegsbücher ("Libri sulla guerra"), ed i Rüstungsbücher ("Libri sull'armamento"), che trattano della metallurgia finalizzata alla fabbricazione di armi. L'acciaio utilizzato nel XIII secolo per la fabbricazione di armi ed armature era una lega di ferro e carbonio, quest'ultimo con tenore inferiore al 2,1 %, anche se nel Medioevo nessuno era in grado di determinare a priori il tenore di carbonio nell'acciaio. I Romani avevano usato forni a tino con tiraggio naturale, ma nel XIII secolo l'acciaio era già ottenuto grazie ad antenati dei moderni altiforni, i cui mantici erano azionati da mulini: il ferro fuso veniva fatto colare in modo che entrasse in contatto con il carbonio e ne sciogliesse una parte, integrandola nella sua struttura e poi solidificandosi come acciaio o ghisa. La lega ottenuta in tal modo veniva successivamente arroventata assieme a barre di ferro dolce, e quindi avvolta con esse in modo da formare una treccia, che veniva ribattuta in modo da far saldare assieme i due materiali e dargli la forma della lama della spada. La sola operazione di ribattitura richiedeva dalle 120 alle 180 ore di martellamento, e serviva anche a rendere omogenea la struttura, che acquisiva quindi la robustezza tipica dell'acciaio e la flessibilità del ferro dolce. Il procedimento era svolto interamente a mano; tali caratteristiche non sarebbero state ottenibili con la semplice colatura del metallo fuso in uno stampo, che avrebbe comportato una spada troppo fragile, in caso di eccessivo tenore di carbonio, o troppo malleabile, che quindi si sarebbe piegata durante i duelli, qualora il carbonio fosse stato insufficiente. Visto che le tecniche siderurgiche a inizio Trecento erano già così avanzate, non è certo un caso se le mura della Città di Dite al nostro poeta appaiono di ferro incandescente!
La Città di Dite nel famoso videogame
"Dante's Inferno" (in alto) a confronto con
"Metropolis",
la città del futuro immaginata dal regista Fritz Lang nel 1927 (sotto)
«
E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
ch'entro l'affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno».
Noi pur giugnemmo dentro a l'alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse. » (Inf. VIII, 70-78)
"Meschite" (spagnolo Mezquitas) sono le "moschee", i cui minareti dovevano suggerire a Dante l'idea di torri alte ed appuntite, oltre che, per la mentalità del tempo, quella di qualcosa di infedele e quindi di diabolico. Il modello poetico è fornito da un passo dell'Eneide:
Respicit Aeneas: subito et sub rupe sinistra
Moenia lata videt, triplici circumdata muro,
Quae rapidus flammis ambit torrentibus amnis
Tartareus Phlegethon torquetque sonantia saxa.
Porta adversa ingens solidoque adamante columnae,
Vis ut nulla virum, non ipsi exscindere ferro
Caelicolae valeant; stat ferrea turris ad auras,
Tisiphoneque sedens, palla succincta cruenta,
Vestibulum exsomnis servat noctesque diesque.
Hinc exaudiri gemitus et saeva sonare
Verbera, tum stridor ferri tractacque catenae.
[Enea guardò intorno, ed ecco vede, a sinistra,
sotto rupi, alte mura e triplo bastione le cinge:
rabbioso di fiamme ruggenti un fiume le aggira,
il Flegetonte tartareo, e massi sonanti trascina.
In faccia, enorme, la porta: d'acciaio massiccio i pilastri,
non forze d'uomini, non valgon gli stessi Celesti
a smantellarli col ferro: di ferro si drizza nell'aria
la torre e Tisifone siede, avvolta in cruento mantello,
e guarda il vestibolo, insonne di notte e di giorno.
Di qui s'udivano gemiti, e fruste fischiare
feroci, e stridore di ferro e trascinate catene.]
(Eneide VI, 548-558)
L'insegnamento scientifico che qui possiamo trarne è fornito da quel colore rosso delle mura arroventate dal fuoco eterno. Infatti oggi sappiamo che, quando si attribuisce calore ad un corpo, i suoi elettroni saltano su un livello energetico superiore (si eccitano); ma su di esso non possono restare a lungo. Ritornando al loro livello energetico, essi emettono la differenza di energia tra i due livelli sotto forma di radiazione elettromagnetica (tale fenomeno prende il nome di diseccitazione). Ciò provoca il fenomeno dell'irraggiamento, cioè dell'emissione di radiazione da parte del corpo riscaldato, la cui frequenza è proporzionale alla suddetta differenza di energia secondo l'equazione di Planck:
E = h f
essendo f la frequenza ed h = 6,63 x 10–34 J s la costante di Planck. Se la temperatura non è sufficiente, il corpo riesce ad emettere solo raggi infrarossi (con frequenza inferiore a quella della luce rossa), ma se essa sale, la frequenza arriva a quella della luce rossa (quella con frequenza, e quindi con energia minima): ed ecco perchè il ferro arroventato diventa rosso! Aumentando ulteriormente la temperatura, si arriva al colore giallo; aumentandola ancora, il ferro fuso emette su tutte le frequenze della luce visibile, ed irraggia perciò una luce bianca. Per questo si dice che il corpo diventa incandescente (dal latino candesco, "divento bianco", a sua volta dal sanscrito c'and-ati, "risplendere", da cui anche c'andra, la Luna). Troviamo un riferimento a questo fenomeno nei seguenti versi del Paradiso, allorché Dante fissa direttamente il Sole:
«
Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch'io nol vedessi sfavillar dintorno,
com' ferro che bogliente esce del foco » (Par. I, 58-60)
ed anche in quest'altra terzina, dove il ferro incandescente è chiamato in causa per dare ai lettori un'idea della luminosità dei cerchi angelici:
«
E poi che le parole sue restaro,
non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro » (Par.XXVIII, 88-90)
Quello ora descritto in poche parole è il cosiddetto "spettro di corpo nero", cioè la tipica emissione di un oggetto ideale che assorbe tutta la radiazione elettromagnetica incidente senza rifletterne alcuna porzione. Nonostante il nome, però, il corpo non appare necessariamente nero, perchè non riflette la radiazione ricevuta ma può emetterne di propria. Lo spettro di corpo nero ha una forma caratteristica, visibile nel diagramma qui sotto, ed obbedisce alla Legge dello Spostamento di Wien:
T x λmax = 2,898 x 10–3 m K
dove T è la temperatura assoluta del corpo nero e λmax è la lunghezza d'onda per la quale è massima la radiazione emessa dal corpo (non quindi la massima lunghezza d'onda da esso irradiata).
La legge di Wien ci dice che l'energia emessa per unità di frequenza o di lunghezza d'onda da parte di un corpo nero ad una certa temperatura mostra un picco, che si sposta verso le alte frequenze all'aumentare della temperatura. Se ne deduce quanto spiegato sopra, cioè che al variare della temperatura del corpo varia il colore da esso emesso. Si chiama "temperatura di colore" quella temperatura a cui corrisponde un ben determinato massimo di emissione. Questo metodo può essere utilizzato per risalire alla temperatura di sorgenti particolarmente calde per cui è impossibile ricorrere ad un termometro a dilatazione. Per esempio, lo spettro di corpo nero del Sole ha un picco a circa 500 nanometri, cui corrisponde una temperatura superficiale di 5778 K.
Fu proprio studiando l'emissività di un corpo nero, che Max Planck (1858-1947) nel 1900 diede l'avvio alla Meccanica Quantistica. Infatti, cercando di prevedere l'andamento dello spettro di corpo nero usando le equazioni elettromagnetiche di Maxwell, si perviene ad un assurdo: l'emissività aumenta indefinitamente all'aumentare della frequenza e al diminuire della lunghezza d'onda, senza presentare alcun massimo come previsto invece dalla Legge di Wien. Se fosse così, un corpo scaldato a sufficienza diventerebbe ben presto una pericolosa sorgente di raggi ultravioletti, e poi di letali raggi X; tale paradosso va sotto il nome di catastrofe ultravioletta. Tuttavia, supponendo che la radiazione possa scambiare con la materia non quantità qualsivoglia di energia, ma solo "pacchetti" discreti detti quanti, tutti multipli di un valore fondamentale, la catastrofe ultravioletta è scongiurata, e la teoria prevede esattamente l'andamento dello spettro di corpo nero. Della Meccanica Quantistica riparleremo in una prossima lezione.
Prima di cambiare argomento, vorrei fare alcuni cenni agli indizi presenti nella Divina Commedia che fanno riferimento alla teoria elettromagnetica. Le proprietà elettriche e magnetiche della materia furono scoperte da Talete da Mileto (624-547 a.C.), uno dei Sette Savi dell'Antica Grecia e considerato il primo vero filosofo nella storia del pensiero occidentale. Questi si accorse che un frammento d'ambra, strofinato, attirava piume e frammenti di carta; siccome "ambra" in greco si dice ηλεκτρον, Talete diede a questo fenomeno il nome di elettricità, sopravvissuto fino ai giorni nostri. D'altro canto, egli si accorse anche che un particolare minerale estratto da una miniera presso Magnesia, in Asia Minore, attirava chiodi ed altri oggetti di ferro. Per questo chiamò il minerale magnetite (oggi sappiamo che si tratta di un ossido di ferro, e che è il minerale con il più alto tenore di ferro utilizzabile industrialmente, contenendone il 72,5 %) e il fenomeno magnetismo. Talete pensò che si trattasse di due aspetti dello stesso fenomeno; gli studi ottocenteschi in proposito misero l'accento sulle differenze tra elettricità e magnetismo, ma James Clerk Maxwell (1831-1879) dimostrò invece che Talete aveva ragione, e i due fenomeni possono essere unificati nella teoria dell'interazione elettromagnetica, una delle quattro forze fondamentali della natura. Nel 360 a.C. nel suo dialogo "Timeo" anche Platone aveva descritto l'elettricità e il magnetismo come aspetti diversi di un unico fenomeno:
« Si spiegano così lo scorrere delle acque, la caduta dei fulmini, e la meravigliosa forza d'attrazione dell'ambra e della calamita... »
In seguito Teofrasto di Ereso (371-287 a.C.) descrisse altri materiali aventi le stesse proprietà elettriche dell'ambra. Pare che Archimede (287-212 a.C.) abbia cercato di magnetizzare le spade dell'esercito siracusano nel tentativo di disarmare i nemici, catturando le loro spade. Nel 1936 nei pressi dell'odierna Baghdad sono stati portati alla luce vasi di terracotta contenenti parti metalliche e tracce di acido, che alcuni scienziati moderni hanno interpretato come possibili pile (le famose "pile di Baghdad") da usarsi per dorare oggetti tramite procedimenti di galvanostegia, ma questa interpretazione è controversa. Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nella sua "Naturalis Historia" annotò le proprietà dell'ambra e del magnete, e l'erudito inglese Beda il Venerabile (672-735) descrisse proprietà analoghe a quelle dell'ambra in un tipo particolare di carbone, il giaietto.
Non sappiamo invece chi inventò la bussola: la tradizione che la attribuisce all'amalfitano Flavio Gioia è destituita di ogni fondamento. Di sicuro la conoscevano i cinesi fin dall'anno mille, quindi è probabile che in Europa sia stata introdotta dagli Arabi, anche se lo storico Valerio Massimo Manfredi nel suo romanzo "L'Ultima Legione" immagina che i protagonisti usino un ago magnetizzato per orientarsi nella nebbia e attraversare la Manica nell'anno 476. Sempre secondo Valerio Massimo Manfredi tale ago magnetizzato sarebbe stato scoperto da un certo Aristea di Proconneso, misterioso scienziato vissuto a cavallo tra il settimo e il sesto secolo avanti Cristo, al quale Erodoto (Storie, IV, 13) attribuì avventurosi viaggi nel Nordeuropa, nelle leggendarie terre degli Iperborei, alle quali sarebbe giunto proprio usando un rudimentale modello di bussola (si ritiene che, se esistito davvero, Aristea abbia visitato le terre dei Saci, nomadi dell'Asia centrale). Ecco cosa scrive Valerio Massimo Manfredi nel romanzo succitato:
« L'uomo
scese sottocoperta e risalì poco dopo con una scodella di terracotta, piena
d'olio per metà. "E' tutto quello che ho trovato", disse.
"Si avvicinano!" gridò ancora Demetrio dalla cima dell'albero.
"Va bene", approvò Ambrosinus, "è sufficiente. Appoggiala sulla
tolda, torna al timone e al mio cenno tutti gli uomini validi si mettano ai
remi." Detto questo, prese dalla bisaccia il pagillare che usava per
scrivere, rimosse la fodera di pergamena e, sotto gli occhi stupiti degli
astanti, estrasse una lamina di metallo in forma di freccia, così sottile che
il vento l'avrebbe portata via, e l'appoggiò sulla superficie dell'olio.
"Mai sentito parlare di Aristea di Proconneso?" domandò? "No,
naturalmente. Ebbene, gli antichi dicevano che aveva una freccia che lo
conduceva ogni anno nel paese degli Iperborei e cioè nell'estremo Nord. Ed
eccola qua. E' lei che ci indicherà la strada per la Britannia. Basterà
seguirla."
E sotto gli occhi sempre più meravigliati dei compagni, la freccia si animò e
cominciò a ruotare sulla superficie dell'olio, finché si dispose stabilmente
in una direzione fissa.
"Quello è il Nord", proclamò solennemente Ambrosinus. "Uomini
ai remi!" » (cap. XXXI)
Per quanto ne sappiamo, il primo riferimento europeo all'uso della bussola nella navigazione risale al 1187 e si trova nel "De nominibus ustensilium" di Alexander Neckam (1157-1217). Nel 1269 il frate italiano Pietro Pellegrino di Maricourt scrisse una "Epistola de magnete", tentando di realizzare il moto perpetuo facendo ingegnosamente uso di una combinazione di magneti, e per i suoi studi realizzò un modello sferico di magnetite chiamato "terrella". Dante conosce bene l'uso di questo strumento, poiché lo cita allorquando sente la voce di San Bonaventura da Bagnoregio e si volta verso di lui con la prontezza con cui l'ago magnetizzato si volge verso la Stella Polare:
« Del cor de l'una de le luci nove
si mosse voce, che l'ago a la stella
parer mi fece in volgermi al suo dove » (Par. XII, 28-30)
Lo studio scientifico moderno dei fenomeni elettrici iniziò solo nel XVI secolo, quando Gerolamo Cardano (1501-1576) si occupò di elettricità nel suo "De Subtilitate" (1550), distinguendo per la prima volta la forza elettrica da quella magnetica. Nel 1600 lo scienziato inglese William Gilbert (1540–1603), medico personale della regina Elisabetta I d'Inghilterra, dimostrò che la Terra è un gigantesco magnete dotato di polo nord e polo sud, e ciò spiega perchè gli aghi delle bussole puntano in una direzione precisa. Il tedesco Otto von Guericke (1602-1686) invece costruì nel 1660 la prima macchina elettrostatica. Ben presto divenne una moda eseguire esperimenti di elettrostatica nei salotti e nelle corti del settecento, soprattutto in virtù del nuovo clima del "Secolo dei Lumi". Nel 1726 l'irlandese Jonathan Swift (1667-1745) pubblicò il classico "I Viaggi di Gulliver", nei quali descrisse l'isola volante di Laputa, che si libra nel cielo grazie ad un enorme magnete che respinge il campo magnetico terrestre. Stephen Gray (1666-1736) nel 1729 studiò la conducibilità dei corpi, introducendo i concetti di conduttore e isolante. Nel 1733 Charles François de Cisternay du Fay (1698-1739) distinse tra "elettrizzazione vetrosa" ed "elettrizzazione resinosa" (quelle che noi oggi chiamiamo rispettivamente "carica positiva" e "carica negativa"), e scoprì che cariche opposte si attraggono, cariche uguali si respingono, proprio come i poli del magnete. Proprio quest'ultima scoperta ci riconduce ad un altro dei motivi di dubbio per Dante, nella sua ascesa verso l'Empireo: il concetto dell'incompenetrabilità dei corpi, ben espresso dl Poeta nei seguenti versi:
«
S'io era corpo, e qui non si concepe
com'una dimensione altra patio,
ch'esser convien se corpo in corpo repe » (Par. II, 37-39)
Dante è asceso nel Cielo della Luna (ne riparleremo nel prossimo capitolo), ed è penetrato dentro "l'etterna margarita", cioè la gemma incorruttibile rappresentata dal disco lunare. E qui gli sorge un dilemma: posto che io fossi un corpo solido, qui sulla Terra non si riesce a comprendere ("concepe") come un corpo esteso ("una dimensione") abbia potuto compenetrarsi con un'altra, il che necessariamente avviene quando un corpo si insinua ("repe") in un altro senza distruggerne la compattezza. Il problema dell'incompenetrabilità dei corpi, qui accennato, fu risolto solo nel XX secolo con la teoria atomica. Se io avvicino una mano a un muro e la premo contro di esso, mi accorgo che la mano non può attraversare il muro; e questo perchè le orbite elettroniche degli atomi superficiali della mia mano sono nuvole di carica negativa, che respingono le nuvole di carica negativa rappresentate dagli elettroni dello strato atomico superficiale del muro. In pratica, anche se io mi siedo su un sedile, il mio fondoschiena non lo toccherà assolutamente, ma resterà sempre sospeso sopra di esso a una distanza piccolissima, per via della repulsione tra i miei elettroni e quelli di una sedia. Evidentemente la Quintessenza dantesca che compone i Cieli non aveva questa limitazione!
Ma proseguiamo ancora brevemente nella storia delle ricerche in campo elettromagnetico. L'abate Jean-Antoine Nollet (1700-1770) elaborò la prima teoria scientifica dei fenomeni elettrici, attribuendone gli effetti a un misterioso fluido ("fluido elettrico"), non dissimile dal calorico allora in voga, da noi citato sopra. Nel 1745 Ewald Jürgen Georg von Kleist (1700-1748) e poco dopo Pieter van Musschenbroek (1692-1761) realizzarono indipendentemente l'uno dall'altro il primo condensatore, la bottiglia di Leida. Con Charles Augustin de Coulomb (1736-1806), autore dell'omonima legge secondo cui la forza di attrazione o repulsione tra due cariche è direttamente proporzionale a entrambe le cariche ed inversamente proporzionale al quadrato della distanza, hanno inizio gli studi ottocenteschi che porteranno alla Seconda Rivoluzione Industriale e ad un mondo azionato ed illuminato dalla corrente elettrica.
Ma il più grande studioso dei fenomeni elettrici del settecento fu sicuramente l'americano Benjamin Franklin (1706-1790), oggi raffigurato sulla banconota da 100 dollari (vedi immagine a fianco). Questi il 10 maggio 1752 dimostrò che il fulmine è un fenomeno elettrico, compiendo un esperimento pericolosissimo: fece volare un aquilone durante un temporale, collegato al suolo con un filo di canapa cui era collegata una chiave. Quando i fulmini colpivano l'aquilone, tra la chiave e la mano di Franklin scoccavano scariche elettriche, perchè il filo di canapa impregnato di pioggia conduceva corrente. Franklin rischiò la vita, ma gli andò bene, e a seguito di questo esperimento inventò il parafulmine. Ovviamente ne parliamo con tanto risalto perchè Dante conosceva molto bene il fenomeno del fulmine, ma non lo attribuiva a una scarica elettrica, bensì a fuoco che, contro la sua natura che lo porterebbe verso l'alto, si scarica invece verso il basso, come si legge nel Primo Canto del Paradiso:
« ...e sì come veder si può cadere
foco di nube... » (Par. I, 133-134)
Questo sulla scia di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), che nel suo "De Divinatione" scrive:
« Che osservazioni, dunque, si sono fatte riguardo ai fulmini e ai lampi? Gli etruschi divisero il cielo in sedici parti, in modo da poter dire da quale parte venisse il fulmine [...] Non è evidente che in seguito alla meraviglia degli uomini primitivi, poiché temevano i tuoni e il precipitare dei fulmini, sorse in loro la credenza che ne fosse autore Giove, assoluto dominatore di tutto l'universo? [...] Gli stoici affermano che quelle esalazioni della terra che sono fredde, quando incominciano a fluire, costituiscono i venti; quando poi penetrano in una nube e incominciano a scindere e a squarciare le sue parti meno dense, e fanno ciò con particolare frequenza e violenza, allora ecco che sorgono i lampi e i tuoni; se, poi, un fuoco prodotto dal cozzo delle nubi si sprigiona, ecco il fulmine. Dunque da ciò che vediamo prodursi per forza di natura, senza alcuna regolarità, in nessun tempo determinato, ricaveremo un presagio di necessari avvenimenti futuri? Sta a vedere che, se Giove volesse dare simili preannunci, scaglierebbe inutilmente tanti fulmini! » (De Divinatione II, 18-19)
Nel secondo libro delle sue "Naturales Quaestiones", Lucio Anneo Seneca (4 a.C. - 65 d.C.) si occupò di fulmini, distinguendone tre diversi tipi: il fulmine che incendia, quello che distrugge e quello che non distrugge, e riconosce che tutti e tre nascono nell'aria dall'urto delle nubi. Anche Plinio il Vecchio nel secondo libro della sua "Naturalis Historia" parla diffusamente di fulmini, cadendo nella stessa confusione di Cicerone e Seneca, poi ereditata da Dante nella seguente terzina del Purgatorio:
« Non scese mai con sì veloce moto
foco di spessa nube, quando piove
da quel confine che più va remoto... » (Purg. XXXII, 109-111)
ed in quest'altra del Paradiso:
« Come foco di nube si diserra
per dilatarsi sì che non vi cape,
e fuor di sua natura in giù s'atterra... » (Par. XXIII, 40-42)
Ma forse la confusione si può perdonare se sostituiamo alla parola "fuoco" la parola "plasma". Si chiama plasma il quarto stato di aggregazione della materia (sopra abbiamo nominato i primi tre), così battezzato nel 1879 da William Crookes (1832-1919), costituito da un gas ionizzato, in cui cioè gli elettroni siano in larga misura separati dai loro atomi. Il plasma è globalmente neutro ma formato da particelle cariche, e da ciò dipende il suo moto. Siccome il fulmine rappresenta una scarica elettrica da un miliardo di Volt concentrata in una colonna di gas il cui diametro è compreso tra 10 cm e un metro, per un'intensità di corrente di oltre 100.000 Ampére, l'aria viene bruscamente ionizzata ed il lampo risulta effettivamente costituito da una colonna di plasma. Sulla Terra lo stato di plasma è piuttosto raro e limitato, oltre ai fulmini, alle fiamme e alle aurore boreali, oltre ai tubi al neon fabbricati dall'uomo, ma nell'universo più del 99 % della materia conosciuta si trova sotto forma di plasma, perché in questo stato si trovano le stelle, le nebulose ed anche il nostro Sole. Incredibilmente, Dante potrebbe aver visto giusto un'altra volta...
Chiudiamo questo lungo ed interessante capitolo con una citazione da un romanzo appassionante ma poco noto di Jules Verne, "La sfinge dei ghiacci", pubblicato nel 1897 e concepito che il seguito e l'ideale conclusione di un ben più famoso romanzo di Edgar Allan Poe, "Le avventure di Gordon Pym", pubblicato nel 1837. In esso si trova una possibile spiegazione del campo magnetico terrestre, e quindi del moto dell'ago della bussola, ovviamente una spiegazione che oggi definiremmo fantasiosa, ma quanto mai ingegnosa ed intrigante. Al Polo Sud magnetico si troverebbe un immenso massiccio interamente di magnetite, con la bizzarra forma di un'immensa ed enigmatica sfinge, per l'appunto la sfinge dei ghiacci:
« E allora mi
venne in mente un'ipotesi, un'ipotesi che spiegava quegli stupefacenti fenomeni.
"Ah!" esclamai "un magnete... Là... Là c'è... Un magnete... Dotato di una
prodigiosa forza di attrazione!..."
Venni capito e in un attimo l'ultima catastrofe, della quale Hearne e i suoi
complici erano stati vittime, si illuminò di una terribile chiarezza. Quella
roccia non era che una colossale calamita. Era stato sotto la sua influenza che
le parti in ferro della scialuppa dell'Halbrane erano state
strappate e proiettate via, come se fossero state lanciate dalla molla di una
catapulta!... Era stata lei ad attirare con forza irresistibile tutti gli
oggetti di ferro del Paracuta!... E il nostro canotto avrebbe
avuto la stessa sorte, se nella sua costruzione fosse stato usato un solo pezzo
di quel metallo!...
Era dunque la vicinanza del polo magnetico a produrre quell'effetto?... Fu
quella l'idea a cui giungemmo all'inizio.
Poi, dopo aver riflettuto, quella spiegazione venne respinta...
Del resto, nel punto in cui si incrociano i meridiani magnetici, non risulta
altro fenomeno che la posizione verticale dall'ago magnetico in due punti simili
del globo terrestre. Questo fenomeno, già sperimentato nelle regioni artiche con
osservazioni fatte sul posto, doveva essere identico nelle regioni
dell'Antartide.
Dunque esisteva una calamita di prodigiosa intensità nella cui zona d'attrazione
noi eravamo entrati. Sotto i nostri occhi si era verificato uno di quegli
effetti sorprendenti che fino ad allora erano stati relegati tra le fila delle
favole. Chi mai ammetterebbe che delle navi possano essere attratte
irresistibilmente da una forza magnetica, che le loro parti in ferro possano
essere sbalzate ovunque e che il loro scafo mezzo aperto possa permettere al
mare di inghiottirle nelle sue profondità?... Eppure era così!...
Ecco la spiegazione che mi pareva si potesse dare a quel fenomeno:
I venti alisei trasportano in maniera costante verso le estremità dell'asse
terrestre nuvole o brume nelle quali sono immagazzinate immense quantità di
elettricità, che i temporali non hanno completamente esaurito. Da ciò deriva un
formidabile accumulo di quel fluido ai poli, fluido che scende verso terra in
maniera permanente.
Ecco la causa delle aurore boreali e australi, la cui luminosa magnificenza si
irradia al di spora dell'orizzonte, soprattutto durante la lunga notte Polare, e
che sono visibili anche nelle zone temperate, quando raggiungono il loro massimo
culmine. Si può anche ammettere, fatto non constatato tuttavia, che nel momento
in cui si verifica una violenta scarica di elettricità positiva nelle regioni
artiche, quelle antartiche sono sottoposte a scariche di elettricità contrarie.
Ebbene, quelle correnti continue ai poli, che fanno impazzire le bussole, devono
avere una straordinaria influenza, e basterebbe che una massa di ferro fosse
sottoposta alla loro azione perché si trasformi in un magnete di potenza
proporzionale all'intensità della corrente, al numero di giri della spirale
elettrica e alla radice quadrata del diametro del masso di ferro calamitato.
Nella fattispecie, il volume di quella sfinge, che si ergeva in quel punto delle
terre australi, poteva essere calcolato in migliaia di metri cubi. Ora, perché
la corrente le circolasse attorno e ne facesse per induzione una calamita, che
cosa occorreva?... Null'altro che un filone metallico le cui innumerevoli spire,
insinuandosi attraverso il suolo, fossero collegate per via sotterranea alla
base della roccia. Ritengo inoltre che la roccia dovesse essere situata
nell'asse magnetico, come una sorta di calamita gigantesca, dalla quale si
sprigionava il fluido imponderabile e le cui correnti trasformavano in
inestinguibile accumulatore posto ai confini del mondo. Quanto a determinare se
si trovasse esattamente al polo magnetico delle regioni australi, la nostra
bussola non avrebbe potuto farlo dato che non era stata costruita a questo
scopo. Tutto quello che posso dire è che il suo ago impazzito e instabile non
indicava più alcuna direzione. Poco importava, del resto, per quanto riguardava
la costituzione di quella calamita artificiale e il modo in cui le nuvole e il
filone mantenevano la sua forza di attrazione.
È in questo modo molto plausibile che fui indotto a spiegare il fenomeno, per
istinto. Non si poteva dubitare che fossimo in prossimità di una calamita, la
cui potenza produceva effetti tanto terribili quanto naturali. [...] Per
concludere, qualunque bastimento si fosse avvicinato a quella calamita colossale
sarebbe andato incontro alla distruzione completa, e la nostra goletta avrebbe
avuto la stessa sorte della scialuppa, della quale non restavano ora che alcuni
rottami informi. » (La sfinge dei ghiacci, parte II, cap. XV)
È venuto il momento di lasciare il Pianeta Terra e di inoltrarci con Dante nell'alto dei Cieli. Cliccate qui per proseguire il nostro cammino e per studiare quale modello cosmologico adottò il Ghibellin Fuggiasco nella sua descrizione del Sistema Solare.