«
Vedi come da indi si dirama (Par. X, 13-15) |
Come visto nelle due lezioni precedenti (quella dedicata ai Pianeti del Sistema Solare e quella dedicata a Luna, Sole e all'esplorazione spaziale), la Divina Commedia pullula letteralmente di riferimenti astronomici: la stessa parola "stelle" è talmente cara a Dante, che con essa vuole chiudere tutte e tre le sue Cantiche. Il fatto che l'astronomia fosse una delle quattro Scienze del Quadrivio rendeva infatti necessaria per chiunque volesse definirsi "uomo colto" un'approfondita conoscenza dei fenomeni celesti. In questa lezione vedremo alcuni di questi riferimenti, che chiamano in causa il firmamento stellato, senza pretese di esaustività, perchè altrimenti ci ritroveremmo a rileggere insieme praticamente l'intero Poema.
Come si vede subito sopra, la nostra lezione parte da una terzina del Paradiso, molto interessante per i nostri scopi:
«
Vedi come da indi si dirama
l'oblico cerchio che i pianeti porta,
per sodisfare al mondo che li chiama. » (Par. X, 13-15)
Quello a cui Dante qui si riferisce è lo Zodiaco (dal greco ζώον, "vivente" perché composto da immagini di uomini e di animali), cioè la zona di cielo stellato attraversata dal Sole nel suo moto annuo apparente lungo la volta celeste. In pratica, esso è formato dalle costellazioni attraversate dall'eclittica (come spiegheremo meglio nella lezione seguente), e quindi comprende anche i percorsi apparenti della Luna, dei pianeti e della maggior parte degli altri corpi del Sistema Solare, che sono visibili solo in questa regione di cielo ("che i pianeti porta"). Si parla di "oblico cerchio", cioè di cerchio obliquo, perchè lo zodiaco è inclinato rispetto all'equatore terrestre di 23° 26' 21'', cioè esattamente quanto è inclinato l'asse terrestre sul piano dell'eclittica. Anche in questo caso possiamo fare riferimento a quanto Dante scrive nel Convivio:
« Dico adunque che 'l cielo del sole si rivolge da occidente in oriente, non dirittamente contra lo movimento diurno, cioè del die e de la notte, ma tortamente contra quello; sì che 'l suo mezzo cerchio, che equalmente e 'ntra li suoi poli, nel quale è lo corpo del sole, sega in due parti opposite lo [mezzo] cerchio de li due primi poli, cioè nel principio de l'Ariete e nel principio de la Libra, e partesi per due archi da esso, uno ver settentrione e un altro ver mezzogiorno. Li punti [di mezzo] de li quali archi si dilungano equalmente dal primo cerchio, da ogni parte, per ventitrè gradi e uno punto più; e l'uno punto è lo principio del Cancro, e l'altro è lo principio del Capricorno » (Convivio III, V, 13-14)
L'universo tolemaico circondato
dallo Zodiaco: modellino realizzato dai nostri
studenti per una mostra su Dante (grazie alla prof.ssa Rosita Rioda per la cortesia)
Lo zodiaco è ampio circa 8°, a causa dell'inclinazione rispetto all'eclittica degli effettivi moti planetari, e taglia complessivamente 13 costellazioni, nell'ordine: Ariete, Toro, Gemelli, Cancro, Leone, Vergine, Bilancia, Scorpione, Ofiuco, Sagittario, Capricorno, Acquario, Pesci. Gli antichi però tolsero di mezzo l'Ofiuco, che è lambito dall'eclittica solo nella sua regione meridionale, così da far diventare 12 le Costellazioni dello Zodiaco, e da far corrispondere a ciascuna di esse un mese dell'anno. In realtà la corrispondenza è fasulla, non solo perchè le costellazioni zodiacali sono in realtà tredici, ma anche perchè esse hanno estensioni molto diverse lungo la sfera celeste, e dunque il sole non impiega affatto un mese per transitare in ciascuna di esse. Inoltre, a causa della precessione degli equinozi, i segni zodiacali iniziano in momenti completamente diversi da quelli in cui il Sole entra negli omonimi asterismi. Così, la moderna astrologia sostiene che il Sole entri nel segno dell'Ariete il 20 marzo, cioè il giorno dell'equinozio di primavera, ma in realtà non entra nella costellazione con lo stesso nome se non un mese dopo; sempre secondo gli astrologi, il Sole transiterebbe nel Toro dal 21 aprile al 20 maggio, ma al giorno d'oggi il Sole transita in questa costellazione dal 13 maggio al 21 giugno; mentre nello Scorpione, il cui "segno" zodiacale dovrebbe durare dal 23 ottobre al 22 novembre, il Sole resta una sola settimana, dal 23 al 30 novembre. Eppure ancor oggi milioni di persone in tutto il mondo continuano a dare credito ad oroscopi costruiti su "segni" che, oltre ad essere 13 e non 12, non hanno nessun corrispettivo nelle omonime costellazioni celesti...
Ma, prima di andare oltre, soffermiamoci sul concetto di Costellazione. Nell'antichità si pensava che a ciascuna di esse corrispondesse un effettivo raggruppamento fisico di astri, ma oggi sappiamo che non è così. Prendiamo per esempio la costellazione dei Gemelli, tanto magnificata da Dante perchè corrispondeva al "suo" segno zodiacale, e quindi gli avrebbe infuso tutto il suo genio poetico:
«
O glorïose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
con voi nasceva e s'ascondeva vosco
quelli ch'è padre d'ogne mortal vita,
quand'io senti' di prima l'aere tosco » (Par. XXII, 112-117)
Le stelle più luminose della suddetta costellazione sono Castore (α Geminorum) e Polluce (β Geminorum), intitolate ai mitologici Dioscuri, la cui magnitudine apparente è rispettivamente pari a 1,58 e 1,16. Apparentemente esse sono vicinissime l'una all'altra, separate solo da 3°, ma in realtà Polluce dista solo 34 anni luce, mentre Castore dista ben 52 anni luce: la loro vicinanza è solo un effetto di prospettiva. Inoltre differenti culture hanno diviso il firmamento in costellazioni differenti; così, i Cinesi hanno diviso lo Zodiaco in 28 "Xiu", riuniti in quattro grandi animali: la Tartaruga Nera del Nord, la Tigre Bianca dell'Ovest, l'Uccello Vermiglio del Sud e il Dragone Azzurro dell'Est. Ad esempio il nostro Capricorno corrisponde al cinese Niu, il Bue. Solo pochi asterismi sono stati identificati da molte culture con la stessa figura, come Orione o l'Orsa Maggiore. In ogni caso, la moderna astronomia ha conservato il concetto di "costellazione" intesa come area di volta celeste misurata in gradi quadrati, in modo da poter localizzare facilmente una stella. Ad esempio Sirio, la stella in assoluto più luminosa del nostro cielo, viene designata come α Canis Majoris, essendo la stella più luminosa della Costellazione del Cane maggiore (le altre sono indicate come beta, gamma... in ordine di magnitudine decrescente).
Nel II secolo d.C. l'astronomo Claudio Tolomeo, di cui abbiamo già ampiamente parlato due lezioni fa, introdusse in tutto 48 costellazioni (comprese le 12 dello Zodiaco), tra cui quella della Nave Argo, che in seguito, essendo troppo vasta, è stata smembrata in tre distinte costellazioni: Carena, Poppa e Vele. Più tardi a questa lista tradizionale vennero fatte molte aggiunte, anzitutto per riempire i buchi fra gli asterismi di Tolomeo, ed in secondo luogo per ricoprire anche l'emisfero meridionale, quando si cominciò a studiarne le stelle in seguito alle grandi scoperte geografiche del XVI, XVII e XVIII secolo. Per questo i nomi delle costellazioni visibili dalle latitudini settentrionali sono ricavati principalmente dalla mitologia greca (Pegaso, Andromeda, Ercole, la Corona Boreale di Dioniso e Arianna, Boote, l'Orsa Maggiore in cui fu mutata la ninfa Callisto...), mentre i nomi di quelle visibili dall'emisfero australe si rifanno ad invenzioni di età moderna, come l'Orologio o il Microscopio.
Il primo grande atlante stellare dell'età moderna, intitolato "De le stelle fisse", fu pubblicato nel 1543 da Alessandro Piccolomini (1508-1579), che introdusse le lettere greche per distinguere le stelle all'interno di ogni costellazione; egli ne elencò 47, cioè tutte quelle tradizionali tolemaiche meno quella del Puledro. Il primo atlante astrale a ricoprire l'intera sfera celeste fu però l'"Uranometria" (1603) del tedesco Johann Bayer (1571-1625), amico di Keplero; la sua opera comprende un catalogo di 1277 stelle e 51 mappe, una per ciascuna delle 48 costellazioni tolemaiche, più una per i cieli dell'estremo sud che erano ignoti a Tolomeo, e due planisferi. La mappatura del cielo australe da lui eseguita era ricavata dai resoconti di navigatori come il fiorentino Amerigo Vespucci (1454-1512) e l'olandese Pieter Dirckz Keyser (XVI secolo). Nel 1627 l'avvocato tedesco Julius Schiller (1580-1627) pubblicò l'opera "Coelum Stellatum Christianum", in cui tentava di sostituire le costellazioni tolte dalla mitologia pagana con altrettanti personaggi della Bibbia; ad esempio, le dodici costellazioni dello Zodiaco diventavano i Dodici Apostoli, la Nave Argo diventava l'Arca di Noè, il Cigno (le cui stelle sono disposte a forma di croce) diventava la Santa Croce ritrovata da Sant'Elena, e così via; il suo tentativo però non ebbe successo. Nel 1750 l'abate francese Nicolas Louis de Lacaille (1713-1762) si stabilì sulle falde della Table Mountain presso Città del Capo e studiò per 12 anni il cielo australe, catalogando più di 100.000 stelle. Nel suo atlante, intitolato "Coelum Australe Stelliferum" e pubblicato postumo nel 1763, introdusse 14 nuove costellazioni, tra cui quella della Mensa, che non è una tavola su cui si mangia, ma un omaggio alla Table Mountain (Mons Mensae in latino) su cui Lacaille eseguì le sue osservazioni.
Oggi l'Unione Astronomica Internazionale riconosce 88 costellazioni, che ricoprono tutta quanta la volta celeste, ma in passato sono state molte di più. Onde evitare di ottenere asterismi troppo piccoli, molti di essi sono stati cancellati e accorpati in altri. Così la Costellazione di Antinoo, dedicata da Claudio Tolomeo al favorito dell'imperatore romano Adriano, è stata aggregata all'Aquila; quella dell'Ape, ideata nel 1598 dall'olandese Pieter Platevoet (1552-1622), è oggi ribattezzata Mosca; quella della Mongolfiera e quella del Gatto, introdotte rispettivamente nel 1798 e nel 1805 dal francese Jérôme Lalande (1732-1807) per ricordare una delle più grandi invenzioni del suo tempo ed il suo animale domestico preferito, sono entrate a far parte rispettivamente del Capricorno e dell'Idra; e nemmeno la costellazione delle Glorie di Federico, istituita nel 1787 dal tedesco Johann Elert Bode (1747-1826) in onore del Re di Prussia Federico II il Grande, è giunta sino a noi, smembrata tra le costellazioni di Andromeda e quella di Cassiopea.
Ora esamineremo alcune delle costellazioni citate dall'Alighieri nella sua Commedia. Le immagini che corredano questa pagina sono state tolte dal "Firmamentum Sobiescianum", grande atlante celeste costituito da 56 mappe, realizzato dal grande astronomo polacco Jan Heweliusz, meglio noto come Johannes Hevelius (1611-1687), e pubblicato postumo nel 1690. Il titolo deriva dal fatto che esso è dedicato al grande Re di Polonia e Lituania Jan III Sobieski (1629-1696). Quest'ultimo tra l'altro è uno dei pochi personaggi storici a cui sia stata intitolata una costellazione: lo Scudo di Sobieski, per l'appunto, istituita proprio da Johannes Hevelius in onore della grande vittoria riportata da questo sovrano sui Turchi, quando spezzò l'assedio ottomano di Vienna l'11 settembre 1683 (evento che segnò il definitivo arresto dell'espansione turca in Europa, e che forse Osama Bin Laden intese "vendicare" l'11 settembre 2001).
Quando Dante inizia il suo viaggio nella Selva Oscura, così indica l'ora:
«
Temp'era dal principio del mattino,
e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino
mosse di prima quelle cose belle... » (Inf. I, 37-40)
In altre parole, il Sole sorge nel segno dell'Ariete. Era opinione del tempo che, al momento della Creazione del Mondo, quando Iddio mosse per la prima volta "quelle cose belle", cioè gli astri del cielo, il Sole occupasse proprio quella casa dello Zodiaco. Facile comprendere il perchè: all'equinozio di Primavera, cioè alla fine del lungo inverno, il Sole si leva in cielo proprio con questa costellazione (o almeno così fa secondo i canoni astrologici, come spiegato sopra). Anche all'inizio della sua ascesa al Paradiso, infatti, Dante tirerà in ballo questo asterismo, giudicato il migliore di tutti poiché con esso inizia il rinnovamento della natura:
«
Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella. » (Par. I, 37-42)
I "quattro cerchi" e le tre croci" meritano un discorso a parte, e ne parleremo nella prossima lezione. In sostanza, tuttavia, il significato è questo: il Sole, la "lucerna del mondo", sorge da diversi punti ("foci") ad illuminare gli uomini, a seconda del trascorrere delle stagioni; ma quando sorge dal punto in cui quattro cerchi celesti si congiungono a formare tre croci, esce in corso più favorevole e congiunto a costellazione più benigna. Questo benigno asterismo è proprio l'Ariete. E, congiunta con l'Ariete, plasma "tempera" e imprime la sua impronta ("suggella") la materia del mondo come cera "più a suo modo", attuando la propria virtù fecondatrice in tutta la pienezza della sua efficacia.
Ora, se è vero che all'inizio della Primavera l'Ariete sorge e tramonta con il Sole, e quindi è diurna e invisibile, al contrario diventa visibile di notte, e quindi "notturno", durante l'Autunno, quando il Sole occupa il segno diametralmente opposto, cioè la Bilancia. Vedere perciò l'Ariete in cielo vuol dire trovarsi nel momento dell'anno più lontano dall'equinozio primaverile, ed è logico che esso sia associato al declino e all'avvizzire della natura. In questo senso Dante Alighieri usa quest'immagine per indicare l'eternità della beatitudine del Paradiso:
«
L'altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Ariete non dispoglia... » (Par. XXVIII, 115-117)
Cioè: la seconda delle tre gerarchie delle Intelligenze Angeliche, quella formata da Dominazioni, Virtù e Potestà, germoglia nell'eterna primavera del Paradiso, la quale non conoscerà mai alcun autunno (annunciato dall'Ariete visibile di notte). Secondo il Parodi, si tratta di una delle più belle terzine dell'intera Divina Commedia.
Plinio il Vecchio attribuisce la creazione della costellazione dell'Ariete a Cleostrato di Tenedo (VI sec. a.C.), ma molto probabilmente a porre per primi in cielo questa figura furono gli antichi Egizi: questo asterismo infatti culminava allorché Sirio sorgeva insieme al Sole, annunciando la benefica alluvione del Nilo che veniva a fertilizzare le campagne. Perciò esso fu associato al dio supremo Amon-Ra, che vegliava sulle periodiche inondazioni del Nilo, e questi era raffigurato come una figura umana con corna di ariete. Altri sostengono invece che il migliore tra i segni zodiacali sia di origine sumerica, e che il primo nome ad esso associato fosse quello di "LÚ.HUN.GÁ", cioè "operaio salariato"; in seguito il sumerico "LÚ", "uomo", sarebbe stato confuso con "LU", "ariete", da cui la moderna denominazione. Altri sostengono che l'Ariete fu scelto perchè il suo simbolo, un paio di corna caprine, può suggerire anche un germoglio che spunta, essendo questo segno associato alla Primavera. Qualunque sia la sua origine, la costellazione del Toro appare "dimezzata", cioè se ne vede solo la testa, le corna, il collo e le zampe anteriori, per cui è presumibile che la parte posteriore di essa sia stata "tagliata" per realizzare l'Ariete, che occupa esattamente la porzione di cielo dove dovrebbe trovarsi il "corpo" del Toro. Julius Schiller, nel suo "Coelum Stellatum Christianum", associò invece a questa costellazione l'apostolo San Pietro.
L'Ariete è una costellazione poco brillante: le sue tre stelle più luminose, α, β e γ Arietis, che costituiscono la fronte e un corno dell'animale, sono rispettivamente di magnitudine 2, 2,65 e 3,09; le altre non superano la magnitudine 4,6. α Arietis è detta anche Hamal, dall'arabo Ras al-Hamal, "testa di pecora", mentre in Mesopotamia era chiamata Dil-Kar, "l'annunciatrice dell'alba". β Arietis è nota come Sheratan, dall'arabo al-Sharat, "il Segno", poiché nell'antichità essa indicava l'equinozio di primavera. A causa della precessione degli equinozi, oggi questo punto si è spostato nella costellazione dei Pesci, ma, per ragioni storiche, l'equinozio di primavera viene tuttora chiamato "punto d'Ariete" o "punto gamma". Questo punto viene ancora assunto come origine della coordinata celeste detta ascensione retta. Tra le galassie dell'Ariete, la più appariscente è NGC 772, posta a sudest di β Arietis a circa 104 milioni di anni luce da noi.
Nella mitologia greca l'Ariete appare nella saga degli Argonauti. La vicenda ebbe inizio quando il dio Poseidone rapì Teofane, la bellissima figlia del re di Tracia Bisalte, e la nascose nella remota Colchide (corrispondente all'odierna Georgia). I parenti della fanciulla si misero allora alla sua ricerca, ma Poseidone la trasformò in pecora e, assunto l'aspetto di un montone, si unì a lei e generò un meraviglioso ariete alato dal vello d'oro. Tempo dopo il re di Orcomeno Atamante, figlio di Eolo, per ordine di Era sposò Nefele, figlia di Zeus e dea delle nubi. Nefele generò due figli: Frisso ed Elle. Atamante tuttavia ripudiò Nefele e sposò in seconde nozze Ino, figlia di Cadmo e Armonia. Ino temette che i figli di primo letto di Atamante privassero i suoi dell'eredità, ed architettò un malvagio intrigo: suggerì alle donne tebane di cuocere nel forno le sementi prima di piantarle, con il risultato che esse non germinarono, quindi assoldò un falso indovino, il quale ammonì Atamante che la carestia che si era abbattuta sulla Beozia sarebbe cessata solo se Frisso ed Elle fossero stati sacrificati. Nefele, accortasi dell'inganno, chiese aiuto a Era, che inviò l'ariete alato dal vello d'oro a salvarli: i due bambini stavano per essere assassinati, quando improvvisamente l'ariete li sollevò in volo e li portò lontano. Mentre stavano attraversando lo stretto braccio di mare che separa l'Europa dall'Asia, Elle ebbe un giramento di testa, cadde in mare e morì; da allora quel tratto di mare è chiamato Ellesponto ("mare di Elle"). Frisso invece giunse sano e salvo nella Colchide, dove fu accolto dal re Eete e ne sposò la figlia. L'ariete dal vello d'oro venne sacrificato a Zeus, che lo trasformò nella costellazione dell'Ariete, ed il vello, appeso ad una quercia e custodito da un terribile drago insonne, rimase nella Colchide fino a quando Giasone e gli Argonauti riuscirono a conquistarlo, dietro ordine di re Pelia di Iolco. Così il nostro poeta rievoca l'impresa, quando vede Giasone nella Prima Bolgia, quella dei seduttori:
«
E 'l buon maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: "Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda:
quanto aspetto reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati féne." » (Inf. XVIII, 82-87)
Ma anche al principio del suo viaggio nel Paradiso:
«
Que' glorïosi che passaro al Colco
non s'ammiraron come voi farete,
quando Iasón vider fatto bifolco. » (Par. II, 16-18)
Infatti, per conquistare il vello, Giasone fu costretto da re Eete ad arare un campo sterminato con un aratro di diamante, e a seminarvi dei denti di drago. Medea però aveva rivelato all'eroe greco che si trattava di un inganno: dai denti sarebbero nati dei giganti che lo avrebbero attaccato. Ma Giasone, dietro consiglio di Medea, buttò tra i giganti una pietra preziosa, ed essi si uccisero tutti tra di loro per conquistarla.
Il vello d'oro del mito, di proprietà di re Eete, figlio del dio Sole, rappresentava il rinnovamento solare dell'equinozio di primavera; ed infatti, nel capitolo 21 della Genesi, il patriarca Abramo sacrifica un ariete al posto del figlio, immagine del sacrificio di Cristo, la cui Pasqua è festeggiata prevalentemente nel segno dell'ariete. Il vello d'oro poteva rappresentare anche la distesa delle messi, che i Greci (simboleggiati dagli Argonauti) erano costretti ad acquistare in terre d'oltremare, vista l'avarizia del suolo della loro patria.
L'Ariete è un segno di fuoco come il Leone e il Sagittario, e si credeva influenzasse la testa; il suo pianeta era Marte e le sue pietre preziose sono il rubino e lo spinello. L'essenza astrale dell'Ariete era la lavanda, e si pensava che appartenessero a questo segno i guerrieri, gli esploratori, gli artisti ed i profeti.
Dopo essersi congedato da Forese Donati e dai golosi, Dante Alighieri indica in questo modo l'ora:
«
Ora era onde 'l salir non volea storpio;
chè il Sole avëa il cerchio di merigge
lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio » (Purg. XXV, 1-3)
Cioè: ero nel punto dove non volevo alcun impedimento nella salita, perchè il Sole aveva attraversato il meridiano ("il cerchio di merigge"), cioè il cerchio massimo della sfera celeste, dove il Sole si trova a mezzogiorno, lasciandolo al segno del Toro, mentre la notte, « che opposita a lui cerchia » (Purg. II, 4), oltrepassando la Bilancia, lo aveva lasciato allo Scorpione. Poiché il cielo gira di un segno ogni due ore, con questo il poeta vuol dire che sono circa le due del pomeriggio nel Purgatorio, e le due di notte a Gerusalemme.
Abbiamo dunque a che fare con la costellazione del Toro. Essa fu creata in Mesopotamia nel IV millennio a.C., perchè in quell'epoca (precisamente dal 4380 al 2200 a.C.) il punto equinoziale cadeva in questo asterismo, e dunque fu introdotta per inaugurare l'Anno Zodiacale. La disposizione delle sue stelle ricorda chiaramente un paio di corna, cosicché fu chiamata "GU.AN.NA", "il toro celeste", animale sacro alla divinità lunare. Anche in Egitto il Sole nascente era rappresentato in forma di toro; nella valle del Nilo i tori godevano di una speciale considerazione, visto che a Menfi si adorava il toro Api, con il disco solare tra le corna. Questo deve aver influenzato gli Ebrei durante la loro permanenza in Egitto, dato che, mentre Mosè si trovava sul Sinai, secondo il libro dell'Esodo essi si fabbricarono un idolo a forma di toro. Il Toro Celeste doveva essere la principale divinità in molti pantheon, all'epoca in cui il punto equinoziale era ospitato tra le sue stelle.
Poi però la precessione degli equinozi portò il punto equinoziale al di fuori di essa, tanto che, quando tutte le principali civiltà fiorirono (il Regno Nuovo Egiziano, l'impero Ittita, il Regno di Davide e Salomone, l'impero Assiro, la civiltà Greca classica), il Punto Gamma era già stabilmente nell'Ariete. I popoli antichi interpretarono la "perdita di controllo" da parte del Toro dell'equinozio di primavera come una sconfitta subita in cielo dalla divinità taurina. Nacquero così il mito del Toro Celeste ucciso dal dio Mitra (l'Ariete), in modo che il suo sangue, colando sulla terra, creasse gli uomini; il racconto del vitello d'oro distrutto da Mosè nel deserto; e il mito del Minotauro sconfitto ed eliminato da Teseo. Dante rievoca questo mito quando incontra il mostruoso figlio di Pasifae sulla costa pietrosa che separa il Sesto dal Settimo Cerchio Infernale:
«
'n su la punta de la rotta lacca
l'infamïa di Creti era distesa
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l'ira dentro fiacca.
Lo savio mio inver' lui gridò: "Forse
tu credi che qui sia 'l duca d'Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse?
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene" » (Inf. XII, 11-21)
Il Minotauro è detto "l'infamia di Creti" per via delle circostanze della sua nascita. Per mettere alla prova la devozione di re Minosse, Poseidone gli mandò dal mare un toro bianco bellissimo, chiedendogli di sacrificarlo; il re di Creta lo tenne invece per sé, sacrificandogli un toro qualunque. Furente, il dio del mare fece in modo che sua moglie Pasifae si innamorasse del toro, e così ella convinse l'ingegnere Dedalo a costruire per lei una vacca di legno ("la falsa vacca"), nella quale si nascose per accoppiarsi con l'animale. Quando Minosse si accorse di avere un figlio cornuto, esattamente come lui, ordinò a Dedalo di costruire il famoso Labirinto di Cnosso per tenervelo nascosto. Inoltre, avendo sconfitto in battaglia il re di Atene Egeo, Minosse pretese da lui ogni anno sette giovani ateniesi da dare in pasto al Minotauro. Ciò durò finché Teseo, figlio di Egeo ("il duca d'Atene"), non si recò a Creta confuso tra i sette giovani da sacrificare; ottenuto l'amore di Arianna, sorellastra del Minotauro, si fece insegnare da lei l'inganno del filo (da cui il proverbiale "filo di Arianna") per entrare nel Labirinto, uccidere il mostro ed uscirne sano e salvo.
Del resto, questa non fu l'unica volta che Minosse ebbe a che fare con un toro. Viene infatti alla mente l'episodio del ratto di Europa: secondo il racconto di Ovidio (Metamorfosi II, 832-875) la bellissima figlia di Agenore, re della Fenicia, giocava lungo la spiaggia fenicia di Sidone quando Zeus la vide e desiderò di possederla. Per avvicinarsi a lei, il dio si mutò in uno splendido toro bianco. Europa, incuriosita, ne inghirlandò la testa e poi gli salì in groppa. Fu allora che il toro la prese di sorpresa, si gettò in mare e nuotò fino all'isola di Creta, dove prese aspetto umano e si unì a d Europa. Da lei nacquero così Sarpedonte, Minosse e Radamanto (gli ultimi due sarebbero poi divenuti giudici dell'Oltretomba). Europa fu poi maritata da Zeus al re di Creta, Asterio. Suo fratello Cadmo si mise alla sua ricerca ma, non avendola trovata, si fermò in Beozia e fondò la città di Tebe. Dante ricorda questo episodio nei versi che abbiamo già letto nella lezione precedente:
«
Io vedea di là da Gade il varco
folle d'Ulisse, e di qua presso il lito
nel qual si fece Europa dolce carco. » (Par. XXVII, 82-84)
Julius Schiller, nel suo "Coelum Stellatum Christianum", associò invece a questo asterismo l'apostolo Sant'Andrea, fratello di Simon Pietro e primo degli Apostoli del Signore.
Il Toro si trova in una delle zone più ricche e luminose del firmamento, ed è celebre soprattutto per due particolari gruppi di stelle: le Iadi, poste a forma di V sul suo muso, e le Pleiadi, un ammasso di stelle che brillano sul suo collo. Probabilmente in origine questi due asterismi dovevano costituire due costellazioni distinte, perché Omero, pur conoscendo e menzionando le Iadi e le Pleiadi, non parla mai del Toro Celeste. Secondo il mito le Iadi erano sette Ninfe (Ambrosia, Coronide, Dione, Esile, Eudora, Feo e Poliso) figlie di Atlante e di Etra, che erano state le balie e le nutrici di Dioniso, e che si disperavano inconsolabili per la morte del fratello Iante durante una battuta di caccia; impietosito dal loro pianto, Zeus le tramutò in stelle. La loro apparizione coincideva nell'antichità con la stagione delle piogge primaverili, e ciò giustifica probabilmente sia il loro mito, sia il loro nome (dal verbo yein, "piovere"). Oggi sappiamo che le Iadi sono un ammasso aperto di oltre duecento stelle, di cui la più luminosa è α Tauri, di colore arancione e di magnitudine 0,86, detta Aldebaran, dall'arabo "la successiva" (perchè sorge dopo le Pleiadi); essa costituisce l'occhio destro del Toro. Le due lunghe corna del Toro Celeste sono invece indicate da β Tauri, di magnitudine 1,65, detta anche Al Natih ("quella che incorna") e ζ Tauri, di magnitudine 3.
Quanto alle Pleiadi, esse furono uno degli asterismi più noti fin dall'antichità, nonostante la luminosità modesta in rapporto ad Aldebaran, perchè verso il 2500 a.C. all'epoca della costruzione delle grandi Piramidi di Gizah, la loro levata insieme al Sole coincideva con l'equinozio di Primavera, e in Mesopotamia segnava l'inizio dell'anno. Sono citate anche nella Bibbia: « Puoi tu annodare i legami delle Pleiadi o sciogliere i vincoli di Orione? » (Giobbe 38, 31), e secondo alcuni il Partenone di Atene sarebbe orientato verso il loro sorgere. Nel I millennio a.C. i naviganti attendevano la loro apparizione nel cielo primaverile per salpare dopo la pausa invernale, e rientravano definitivamente nei porti dopo la loro scomparsa in autunno (da cui il loro nome attraverso il greco "plein", "navigare"). Virgilio, la guida di Dante, deve forse il suo nome alle Vergiliae, "gli astri (rivolti) a primavera", cioè alle Pleiadi. Oggi, a causa della precessione degli equinozi, cominciano a vedersi in prima serata solo a metà agosto, e culminano fra dicembre e gennaio. Secondo il mito, le Pleiadi erano sette sorelle, figlie di Atlante e di Pleione, chiamate Alcione, Asterope, Celeno, Elettra, Maia, Merope e Taigete. Maia, la maggiore, fu madre di Hermes/Mercurio, mentre Elettra fu madre di Dardano, che fondò la stirpe troiana. Igino (64 a.C.-17 d.C.) racconta che, mentre le sette sorelle attraversavano la Beozia con la madre Pleione, furono sorprese dal gigante Orione, con intenzioni tutt'altro che amichevoli. Il mitologico cacciatore le rincorse per cinque anni, finché Zeus, dietro richiesta di Pleione, non le mutò in stelle. I nostri contadini chiamavano le Pleiadi anche "la gallina con i suoi pulcini". Le cosiddette "sette sorelle" sono in realtà un ammasso aperto di oltre 900 stelle, anche se ad occhio nudo se ne vedono solo sei, e una settima, Asterope, è ai limiti della visibilità; Charles Messier lo catalogò con la sigla M45. Distano da noi circa 440 anni luce. La più brillante è Alcione, anche nota come η Tauri, di magnitudine 2,86, che prima di essere trasformata in stella sarebbe stata tramutata nell'omonimo volatile del genere Halcyon, simile al martin pescatore. Gabriele d'Annunzio dedicò ai nomi delle Pleiadi i sette libri delle sue "Laudi", anche se ne scrisse solo quattro.
Un altro oggetto tipico della costellazione del Toro, anche se visibile solo con un telescopio, è la Nebulosa del Granchio, catalogata come M1, a nordest di ζ Tauri. Essa fu scoperta nel 1731 da John Bevis (1695-1771) e così battezzata per la sua forma. Si tratta un resto di supernova esplosa il 4 luglio 1054 a circa 6500 anni luce dalla Terra; l'esplosione rese l'astro così brillante, che esso rimase visibile in pieno giorno per molti mesi. L'evento è stato registrato dagli astronomi cinesi e dagli Indiani d'America.
Primo dei segni di terra, il Toro influenzerebbe il collo e la bocca. L'astrologia assegna ai Tori un temperamento ricettivo, paziente, laborioso e perseverante, ma essi potrebbero essere preda di paure incontrollabili. Fra le gemme adatte ai nati nel Toro ci sarebbero lo smeraldo e la giada, mentre la sua assenza astrale sarebbe la rosa.
Quando l'Alighieri, astronauta ante litteram, ascende al Cielo delle Stelle Fisse, non si ritrova in un punto qualunque del firmamento, ma in una costellazione ben precisa: la sua, quella dei Gemelli, essendo egli nato tra il 22 maggio ed il 13 giugno 1265 (alcuni dicono il 29 maggio):
«
Tu non avresti in tanto tratto e messo
nel foco il dito, in quant'io vidi 'l segno
che segue il Tauro e fui dentro da esso » (Par. XXII, 109-111)
Altrettanto velocemente quanto è entrato in essa, Dante la lascerà poi per salire al Primo Mobile:
«
E la virtù che lo sguardo m'indulse,
del bel nido di Leda mi divelse
e nel ciel velocissimo m'impulse » (Par. XXVII, 97-99)
Si noti che qui la stessa costellazione è indicata con la perifrasi "il bel nido di Leda". Infatti i Greci e i Romani in questa costellazione vedevano i Dioscuri ("figli di Zeus"), cioè Castore e Polluce, i mitologici figli di Leda, la bellissima moglie di Tindaro, re di Sparta. Come per possedere Europa Zeus si mutò in toro, e per unirsi a Danae diventò una pioggia d'oro, così per unirsi a Leda il Padre degli Déi ricorse a un analogo stratagemma: mentre Leda era al bagno in una fonte, egli prese l'aspetto di un magnifico cigno, le si avvicinò e si unì a lei. La donna allora depose un uovo, da cui nacquero quattro gemelli: Castore, Polluce, Elena e Clitemnestra. In realtà solo Polluce ed Elena erano figli di Zeus, e quindi immortali; figli di re Tindaro erano invece Castore e Clitemnestra. Quest'ultima andò in sposa al re di Micene Agamennone, ed insieme al suo amante Egisto lo uccise al ritorno dalla guerra di Troia; crimine che poi fu vendicato da suo figlio Oreste. Elena, come si sa, provocò la guerra decennale, come ricorda lo stesso Dante nel cerchio infernale dei Lussuriosi:
«
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse... » (Inf. V, 64-65)
Quanto ai Dioscuri, essi crebbero belli e fortissimi: Castore era domatore di cavalli, e Polluce o Polideuce ("lo splendente") imbattibile pugile. Come narra Apollonio Rodio (295-215 a.C.), i due fratelli dietro richiesta di Giasone presero parte alla spedizione degli Argonauti. Giunti nella terra dei Bebrici, essi vennero sfidati in una gara di pugilato dal loro re Amico, che uccideva sul ring tutti gli stranieri giunti nella sua terra. Naturalmente a raccogliere la sfida fu Polluce, che non usò mezze misure e fece fuori Amico. In Colchide i due gemelli fondarono la città di Dioscuria. Ma Afareo, fratello di re Tindaro, era a sua volta padre di due gemelli, Ida e Linceo. Castore e Polluce rapirono le promesse spose dei cugini, i quali per rappresaglia tesero loro un'imboscata. Castore fu ferito a morte; Polluce uccise Linceo, ma avrebbe avuto la peggio contro Ida, se Zeus, il suo vero padre, non avesse fulminato il suo avversario. Riavutosi sull'Olimpo, Polluce chiese notizie del fratello, e Zeus fu costretto ad informarlo che si trovava nel buio Ade, essendo mortale. Allora Polluce, non volendo essere separato dal fratello, chiese al padre di togliergli l'immortalità, in modo che potesse seguire il destino del fratello nell'Oltretomba. Commosso da tanto amor fraterno, Zeus decise che Castore e Polluce avrebbero vissuto alternativamente un giorno sull'Olimpo e uno nell'Ade, quindi pose la loro immagine in cielo come costellazione.
I Dioscuri erano patroni di Sparta, sulla quale infatti regnavano sempre contemporaneamente due re. A Roma, dove il loro culto era stato introdotto in epoca remota, erano patroni dell'ordine equestre. Tito Livio narra nelle sue Storie che nel 499 a.C. durante la battaglia del lago Regillo tra i Romani e la Lega Latina, apparvero all'improvviso due cavalieri imponenti e luminosi su cavalli bianchi, che guidarono le armate romane alla riscossa. La sera stessa furono visti nel Foro mentre facevano abbeverare i loro cavalli alla fonte Giuturna; dopo aver così annunciato la vittoria, scomparvero. Per questo nel 494 a.C. fu eretto in loro onore un tempio nel Foro Romano. Secondo la tradizione i Dioscuri inventarono le marce di guerra; erano anche patroni dei marinai, e secondo i loro racconti apparivano sui pennoni delle navi durante le tempeste per placare la violenza delle onde.
Nell'iconografia sumerica questa costellazione era chiamata "Triade di Stelle", poiché la si rappresentava come una falce di Luna tra due stelle. A quell'epoca, infatti, ogni diciotto anni la prima falce di luna appariva tra le due stelle principali dell'asterismo nella luce del crepuscolo. Nel 5744 a.C. il Sole all'Equinozio di Primavera attraversava proprio tra le due stelle Castore e Polluce; il punto equinoziale si trovava in questa costellazione tra il 6540 e il 4380 a.C., epoca in cui avvenne il passaggio all'agricoltura stanziale nella Mezzaluna Fertile, e ciò spiega l'importanza assegnata a questa costellazione nel remoto passato delle civiltà umane. Secondo lo storico tedesco Hugo Winckler (1863-1913), i Gemelli, che in quelle epoche remotissime erano rappresentati come due capre o due gazzelle, salirono alla ribalta in epoca babilonese, quando il primo mese dell'anno, che iniziava con l'equinozio primaverile, era dedicato a Sin, dio della Luna, rappresentato nella sua duplice immagine gemellare di luna piena e luna nuova. Di questo simbolismo sarebbe rimasta traccia anche nel calendario romano, che iniziava con il mese di Ianuarius (gennaio), dedicato a Giano, il dio bifronte che può aver avuto origine dalle due facce, luminosa e oscura, dell'stro lunare. Del resto, la storia romana cominciava con due gemelli, Romolo e Remo, e persino nella Bibbia la storia dell'umanità comincia con i due fratelli Caino e Abele. Pure nei Veda, i libri sacri indiani, appare una coppia di gemelli, gli Aswin, che, proprio come i Dioscuri, vengono identificati con la costellazione dei Gemelli. Invece Julius Schiller, nel suo "Coelum Stellatum Christianum", associò a questa costellazione l'apostolo San Giacomo il Maggiore.
Le due stelle principali di questa costellazione sono le già citate Castore (α Geminorum), di magnitudine 1,59, un incredibile sistema multiplo formato da ben sei astri, e Polluce (β Geminorum) , di magnitudine 1,12: si noti che in questo caso è stato commesso un errore di valutazione, poiché la stella più luminosa è stata indicata con beta e la meno luminosa con alfa. Come abbiamo già visto nella lezione precedente, Dante cita esplicitamente queste due stelle durante la sua ascesa lungo il crinale del Purgatorio:
«
Se Castore e Polluce
fossero in compagnia di quello specchio
che sù e giù del suo lume conduce... » (Purg. IV, 61-63)
Sotto Castore è possibile individuare Mebsuta (ε Geminorum), di magnitudine 2,98, il cui nome viene dall'arabo "al-mabsutat", "disteso", perchè si trovava sulla zampa del leone rappresentato in un'antica costellazione semitica, mentre per noi è posta sull'orlo inferiore della tunica di Castore; Tejat (μ Geminorum), una binaria variabile posta sulla caviglia di Castore; e Propus (η Geminorum), una stella doppia di magnitudine 3,3. Sotto Polluce invece si trova Wasat (δ Geminorum), una stella doppia di magnitudine 3,51, da "al Wasat", "quella in mezzo", posta sul gomito sinistro di Castore; Mekbuda (ζ Geminorum), di magnitudine 4,8, da "al makbudah", "disegnata sulla zampa", sempre con riferimento all'antico leone semitico; e infine Alhena (γ Geminorum), di magnitudine 1,93, da "al han'ah", "il marchio", posta tradizionalmente sul piede di uno dei due gemelli. L'oggetto del profondo cielo più brillante nei Gemelli è M35, un ammasso aperto di quinta magnitudine, distante 2800 anni luce dalla Terra.
Da notare che i versi di Dante a proposito di questo asterismo ci consentono un'altra interessante considerazione. In una terzina da noi già citata e giustamente famosa, egli dice:
«
L'aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom'io con li etterni Gemelli,
tutta m'apparve da' colli alle foci...» (Par. XXII, 151-153)
Quell'aggettivo, "etterni", è infatti quanto mai fuori luogo. L'Alighieri considerava il cielo delle Stelle Fisse assolutamente immutabile, ma noi sappiamo che non è così, a causa del moto proprio delle stelle. In altre parole, gli astri si muovono lentamente sulla volta celeste, a causa della rotazione della Galassia Via Lattea, e del fatto che ogni stella ha una velocità diversa da quella di tutte le altre. Generalmente, minore è la distanza di una stella da noi, maggiore è il suo moto proprio, ma comunque si tratta di un effetto globalmente piccolo, ed impossibile da rilevare ai tempi di Dante. La stella con il massimo moto proprio è la Stella di Barnard, una nana rossa che con una distanza di 5,96 anni luce è la seconda stella più vicina alla Terra dopo Alpha Centauri, e si muove di appena 10,3 secondi d'arco all'anno. In altri termini, questa stella impiega 180 anni per spostarsi in cielo di una distanza pari al diametro del disco lunare. Anche due stelle apparentemente vicinissime (ma abbiamo visto che si tratta di un gioco prospettico) come Castore e Polluce finiranno dunque per allontanarsi fatalmente l'una dall'altra, e quindi, come tutte le strutture del nostro universo, anche la costellazione dei Gemelli purtroppo non sarà eterna, ma conoscerà una fine.
Secondo gli astrologi, il segno dei Gemelli sarebbero stati eletti patroni dell'ispirazione, del rapido movimento, del ritmo, e dunque dei bardi, dei poeti, dei viaggiatori, dei danzatori. In esso consisterebbero due opposti temperamenti: il "tipo Castore", emotivo ma poco attivo, instabile, in preda alle emozioni, e il "tipo Polluce", poco emotivo ed iperattivo, dotato di grande prontezza di spirito, curioso, pratico, ingegnoso, sarcastico. I Gemelli presiederebbero ai bronchi, ai polmono, alla trachea, alle braccia, alle dita, alle spalle; le sue pietre sarebbero l'agata e la sardonice, e la sua essenza sarebbe l'origano.
Il Cancro ha l'onore di essere citato in quella che è probabilmente una delle più fantastiche ed immaginose citazioni dantesche:
«
Poscia tra esse un lume si schiarì
sì che, se 'l Cancro avesse un tal cristallo,
l'inverno avrebbe un mese d'un sol dì » (Par. XXV, 100-102)
Cioè: tra le corone danzanti dei Beati nel Cielo delle Stelle Fisse un lume si fece tanto fulgido che, se la costellazione del Cancro disponesse si un tale astro ("cristallo), l'inverno avrebbe un giorno della durata di un mese: si trattava dell'apostolo San Giovanni Evangelista, che esaminerà Dante sulla carità. La situazione astronomica cui qui si accenna è del tutto ipotetica: la costellazione del Cancro occupa nello Zodiaco una posizione diametralmente opposta a quella del Capricorno, cosicché quando una costellazione sorge, l'altra tramonta, e viceversa. Il Sole transita tradizionalmente nel Capricorno dal 21 dicembre al 21 gennaio, ed in questo periodo il Cancro è ben visibile nel cielo notturno. Ora, se in quest'ultima costellazione ci fosse una stella così brillante come quella che ora Dante vede, per un mese al calar del sole esso sorgerebbe, e tramonterebbe al sorgere del sole, illuminando tutta la notte di uno splendore simile a quello solare, situazione in base alla quale per quel mese si avrebbe luce continua.
Il Cancro occupa solo dieci gradi della fascia zodiacale, e non è formato da stelle particolarmente brillanti (α Cancris raggiunge appena la magnitudine 3,76), ma nell'astronomia antica godette di grandissima considerazione, poiché in essa cadeva il Solstizio d'Estate, quando il Sole raggiunge il suo punto più alto nel cielo. I punti dell'emisfero boreale in cui il Sole resta allo Zenit per un solo giorno all'anno formano infatti il cosiddetto Tropico del Cancro, a 23° 27' di latitudine Nord (il corrispondente nell'emisfero australe prende il nome di Tropico del Capricorno, a 23° 27' di latitudine Sud). A causa della precessione degli equinozi, oggi questo fenomeno si verifica quando il Sole si trova nella costellazione dei Gemelli, ma il Tropico non ha cambiato nome.
I Babilonesi chiamarono questa costellazione, la meno luminosa fra le dodici zodiacali, con il nome di "AL.LUL" ("granchio"), ma talvolta la rappresentarono come una Tartaruga. In Egitto invece era rappresentato come uno scarabeo, animale totem del dio Khepri, che secondo la leggenda spingerebbe il disco del Sole, così come lo scarabeo sulla Terra fa rotolare una pallina di sterco. Per i Greci il Cancro (che cominciò ad essere menzionato verso il 430 a.C.) era Karkìnos, il granchio, ma anche il gambero o il polpo. Probabilmente l'associazione dell'asterismo con questi animali fu eseguita perchè il Sole in questo periodo dell'anno rallenta il suo corso nei pressi del solstizio, o addirittura comincia a tornare indietro, come fanno il gambero e il granchio. Nella mitologia greca il Cancro era quel granchio che, nella terribile palude di Lerna, attanagliò con le chele il tallone di Ercole, per impedirgli di uccidere l'Idra. Secondo il racconto di Igino, l'eroe lo schiacciò con facilità, ma Giunone, riconoscente, pose il crostaceo fra le costellazioni. Da notare che Julius Schiller, nel suo "Coelum Stellatum Christianum", associò a questa costellazione l'apostolo San Giovanni Evangelista: incredibile coincidenza con la similitudine dantesca!
Al centro della corazza del Granchio Astrale si trovano due stelle, γ Cancris, di magnitudine 4,73 e δ Cancris, di magnitudine 4,17, dette rispettivamente Asellus Borealis ("asinello boreale") ed Asellus Australis ("asinello australe"); infatti, essendo separate da una nebulosa, agli antichi avevano suggerito l'immagine di due asini che mangiano dalla stessa mangiatoia. La nebulosa, indicata con la sigla M44 nel catalogo di Messier, è in realtà un ammasso aperto formato da 75 stelle, cui è rimasto il nome di Nebulosa Presepe. Definito da Tolomeo « la massa nebulosa nel seno del Cancro », essa fu il primo oggetto che Galileo osservò con il suo cannocchiale. La stella 55 Cancri, a soli 40,9 anni luce da noi, possiede inoltre uno dei sistemi planetari più studiati, il secondo più esteso conosciuto dopo quello di Gliese 581, con ben cinque pianeti, il meno massiccio dei quali ha una massa paragonabile a quella di Nettuno, mentre il più massiccio è quasi quattro volte più grande di Giove.
Il Cancro è considerato dagli astrologi un Segno di Acqua; esso sarebbe il segno dell'inconscio, della fetilità, dei sogni, della gestazione materna. Chi è nato sotto questo segno sarebbe tendenzialmente iperemotivo ed introverso, incline alle fantasticherie, ma anche alla preghiera e alla vita contemplativa. Il Cancro presiederebbe ad esofago, stomaco, pancreas, mammelle, utero; le sue gemme sono l'opale e la perla, e la sua essenza il lillà.
È giunto il momento di parlare di una delle maggiori costellazioni del firmamento, quella del Leone, che comprende ben 60 gradi di longitudine. Secondo alcuni questo asterismo fu associato alla figura del Re della Foresta dai Sumeri (i quali lo chiamavano UR.GU.LA) nel V-IV millennio a.C., quando in essa ricadeva il Solstizio d'Estate (che, come abbiamo visto, in epoca classica passò sotto il dominio del Cancro), quando il Sole furoreggia con i suoi raggi come la celebre belva, da cui la celebre metafora del "solleone". Ne c'è da stupirsene, visto che anche Dante ne parla in questi termini, all'arrivo nel Cielo di Saturno:
«
Noi sem levati al settimo splendore,
che sotto 'l petto del Leone ardente
raggia mo misto giù del suo valore. » (Par. XXI, 13-15)
Come si è detto due lezioni fa, Saturno era considerato un pianeta « freddo e secco », mentre la costellazione del Leone è considerata « di natura calda e secca, simile a quella del foco; mescolandosi le qualità attive, l'una tempera l'altra », come commentava Jacopo della Lana. Ciò vuole alludere all'inscindibile legame tra la virtù contemplativa e la sollecitudine apostolica che caratterizza le anime del Cielo di Saturno.
Secondo altri, invece, la costellazione sarebbe di origine egiziana: gli antichi Egizi avrebbero osservato che proprio nel periodo equinoziale, quando il sole era più ardente, i leoni del deserto venivano ad abbeverarsi nelle acque del Nilo, ormai straripate fino al massimo livello. Il leone divenne così il simbolo di Horus, il Sole divino che nutriva il cosmo e faceva straripare le acque benefiche del Nilo. Probabilmente fu richiamandosi a questo simbolismo, che l'erudito gesuita Athanasius Kircher (1602-1680) suggerì a Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) di scolpire nella Fontana dei Quattro Fiumi in Piazza Navona a Roma (1644) un leone che accosta il suo muso all'acqua. Gli Arabi a loro volta disegnarono nei cieli un leone gigantesco chiamato Asad ("leone") che comprendeva i nostri Gemelli, Cancro, Leone, Vergine e Bilancia, giungendo fino all'Orsa Maggiore; probabilmente questa costellazione scomparsa ha ispirato Aslan, il leone ipostasi di Dio nel Ciclo delle Cronache di Narnia di Clive Staples Lewis (1898-1963).
Nell'antica Grecia il Leone fu associata alla prima delle fatiche di Ercole, la lotta contro il Leone di Nemea, animale mostruoso generato come Cerbero da Tifone ed Echidna, la cui pelle era invulnerabile alle frecce ed ai colpi di clava. Per sopraffarlo, Ercole riuscì a spingerlo nella sua stessa tana, di cui aveva chiuso una delle uscite, e quindi lo strangolò con le proprie braccia. Siccome la pelle del leone era praticamente indistruttibile, l'eroe scuoiò la fiera con i suoi stessi artigli, quindi ne fece un mantello del quale si servì per proteggersi durante le successive undici fatiche, che gli sarebbero valse l'immortalità. Così infatti Ercole viene sempre rappresentato, con il cranio del mostro a mo' di elmo. In seguito Zeus pose il Leone fra le costellazioni a perpetuare la memoria dell'impresa del figlio. Invece Julius Schiller, nel suo "Coelum Stellatum Christianum", associò al Leone l'apostolo San Tommaso.
La stella più luminosa di questa costellazione, di magnitudine 1,35, è Regolo (α Leonis), che splende sul suo cuore. Il nome di questo astro è presumibilmente di origine mesopotamica, dato che i Magi la chiamavano "lugal", "il re" in lingua sumerica, termine che gli astronomi greci tradussero in "basilìskos". I Latini usavano l'espressione "stella regia" mentre il nome attuale di "Regulus" è stato introdotto da Copernico. A partire da essa e fino ad η Leonis (di magnitudine 3,52) è possibile tracciare un asterismo a forma di falce, che rappresenta la criniera del Leone. La stella Algieba (γ Leonis), una doppia costituita da due stelle giganti di magnitudine 2,28 e 3.53, deve il suo nome all'arabo "al Jahbah", "la fronte", anche se in realtà la stella si trova sulla nuca, facendo riferimento al Leone gigante di cui si è detto sopra. Aldhafera (ζ Leonis), di magnitudine 3,44, significa invece correttamente "ricciolo della criniera". La falce è completata da ε e μ Leonis, rispettivamente di magnitudine 2,98 e 3,3, dette anche Al Ashfar, "le sopracciglia"; quando quest'asterismo compariva in cielo, gli agricoltori iniziavano a tagliare il grano. Invece β Leonis, di magnitudine 2,14, è posta sulla coda del leone, ed infatti è chiamata anche Denebola ("coda leonina"). Entro i confini del Leone sono note alcune piccole galassie nane appartenenti al nostro Gruppo Locale, come Leo I (visibile presso Regolo) e Leo II. Verso il 17 novembre, da γ Leonis si irradiano le Leonidi, una delle piogge di meteore meglio conosciute.
Astrologicamente parlando, il Leone è un segno di fuoco, che controllerebbe l'affermazione dell'individualità e della volontà, con un'espansione vitale che sconfina nell'orgoglio e nella superbia. Il Leone reggerebbe il cuore, l'aorta, la circolazione sanguigna, i nervi (che un tempo si credeva provenissero dal cuore), il midollo spinale e la milza. Le sue pietre preziose sarebbero il topazio e l'ambra, mentre la sua essenza sarebbe l'incenso.
Nell'ordine delle Costellazioni Zodiacali al Leone segue la Vergine, che però non è mai citata direttamente da Dante. Forse però il nostro Autore cita varie volte il personaggio che è rappresentato in questa costellazione. La sua origine è antichissima, visto che fra il 6540 e il 4380 a.C. il solstizio d'estate coincideva con la sua levata eliaca, e quindi essa deve avere un chiaro significato agricolo, dato che quell'epoca coincise con la "rivoluzione neolitica", durante la quale nella Mezzaluna Fertile si cominciò a coltivare regolarmente il frumento e l'orzo. Non a caso i Sumeri la chiamavano AB.SIN, "il solco"; in Egitto la Vergine era Iside, patrona della Natura; ed ancor oggi essa è rappresentata con in mano una spiga di grano matura. I mitografi greci tuttavia si sono discostati da questa interpretazione, e non hanno saputo mettersi d'accordo su chi sia la Vergine Celeste. Secondo alcuni era Dike, la Giustizia, figlia di Zeus e di Temi; ed infatti si trova accanto alla costellazione della Bilancia, che della Giustizia è il simbolo supremo. Secondo Arato di Soli invece la Vergine era Astrea, figlia di Astreo e di Eos, l'Aurora, un'altra personificazione della Giustizia. Secondo alcuni commentatori, la "Vergine" di cui parla Virgilio all'inizio della Quarta Egloga (vedi più sotto, a proposito dei Pesci) sarebbe proprio Astrea che, finita l'Era dell'Ariete, tornerebbe per riportare il mondo alla pace e alla giustizia dell'Età dell'Oro. A Roma invece si ritornò all'originaria simbologia agricola, nonostante il solstizio d'estate avesse già cambiato costellazione da un pezzo, e si identificò la Vergine con la dea Cerere, cioè la Demetra dei Greci, sorella di Zeus e personificazione della Natura vivificatrice.
Ma c'è chi, invece che con Demetra, vuole identificare la Vergine del Cielo con sua figlia Persefone (Proserpina nell'antica Roma), in greco "colei che distrugge". Secondo la leggenda Ade, fratello di Zeus e di Demetra nonché signore dei morti, visto vano ogni tentativo di prendere moglie poiché nessuna intendeva andare a vivere con lui nell'oscurità degli Inferi, decise di rapire la prima bella ragazza che gli capitava a tiro, e questa fu Persefone. Demetra, addolorata per la scomparsa della figlia, si mise inconsolabile a cercarla in ogni dove, e intanto la natura moriva in un inverno perenne. A questo punto intervenne Zeus, che impose al fratello Ade di restituire la fanciulla a sua madre. Ma Persefone intanto si era innamorata del suo rapitore, e così Zeus, per salvare capra e cavoli, decise che ella avrebbe trascorso sei mesi sulla Terra con la madre e sei mesi sotto terra con lo sposo. Ebbe così origine il ciclo delle stagioni: nei primi sei mesi Demetra e Persefone fecondavano la Terra, dando vita alla primavera e all'estate; negli altri la natura languiva, originando autunno ed inverno. Siccome il ciclo stagionale è un fenomeno astronomico, sembra logico pensare che Persefone fosse rappresentata in Cielo da una costellazione. La sua identificazione con la Vergine del Cielo è incoraggiata anche dal fatto che, in età classica come oggi, la costellazione in esame era visibile principalmente nei mesi primaverili, quando si pensava che ella lasciasse il mondo delle ombre per tornare con la madre.
A Roma, Proserpina (la corrispondente della greca Persefone) fu chiamata Trivia e venerata sotto un triplice aspetto: Luna in Cielo, Diana sulla Terra e appunto Proserpina negli Inferi (invece nella mitologia ellenica si tratta di tre divinità distinte: Selene, Artemide e Persefone). Dante Alighieri, che ha abbondantemente innestato la mitologia grecoromana sul ceppo cristiano del suo poema, nomina questa deità in almeno due passi importanti del suo Inferno. Per primo la cita Virgilio, dopo che i Demoni hanno sbattuto in faccia a Virgilio la porta della Città di Dite, e i due poeti sono costretti ad aspettare fuori dalle mura l'arrivo del Messo Celeste. Improvvisamente, mentre "quei" (cioè Virgilio) parla, su una "alta torre a la cima rovente", Dante vede comparire "tre furïe infernal di sangue tinte" (cioè coperte di sangue), con serpenti al posto dei capelli attorno alle "fiere tempie". Ed ecco cosa esclama l'autore dell'Eneide;
«
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l'etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine. » (Inf. IV, 43-45)
"Erine" qui sta per "Erinni" (latino "Erines"), ed esse sono definite "le meschine", cioè le servitrici (dall'arabo miskin, "povero") della "regina de l'etterno pianto", cioè appunto di Proserpina. Per secondo poi la cita Farinata degli Uberti:
«
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell'arte pesa. » (Inf. X, 79-81)
In altre parole, la "faccia" della sovrana dell'Inferno, cioè la Luna, non diverrà piena 50 volte prima che Dante conosca l'amarezza dell'esilio (di questo riparleremo nel prossimo capitolo). Nell'Inferno di Dante i personaggi del mito pagano (Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, Flegias...) sono trasformati in demoni, per cui potremmo aspettarci che anche la "regina de l'etterno pianto" sia stata trasformata in diavolessa; di fatto, però, ella non compare mai nella concreta rappresentazione dell'Inferno dantesco, ed è ricordata sempre in maniera indiretta.
Naturalmente, in un poema cristiano come quello di Dante viene naturale identificare la Vergine con Maria, che infatti così viene venerata dal suo fedele San Bernardo:
«
Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio,
tu se' colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che 'l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura. » (Par. XXXIII, 1-6)
E infatti, prima di disporsi alla visione di Dio Uno e Trino, Dante viene invitato da San Bernardo a fissare il volto di Maria, « la faccia che a Cristo / più si somiglia » (Pd. XXXII, 85-86). Meno felicemente Julius Schiller, nel suo barocco "Coelum Stellatum Christianum", ha associato a questa costellazione l'apostolo San Giacomo il Minore, quando secondo me sarebbe stato più adatto San Giovanni Evangelista, visto che dopo la morte di Gesù prese la Madonna in casa propria.
La Vergine è la seconda costellazione del cielo per ampiezza (occupa ben 1294 gradi quadrati), superata solo dall'Idra, che però è meno luminosa. La stella più luminosa della costellazione è α Virginis, nota anche come Spica, una doppia di magnitudine 1,0 (la sedicesima del cielo per luminosità), che indica la Spiga di Grano tenuta in mano dalla Vergine, se la si identifica con Persefone, per l'appunto dea della fertilità agricola (da cui il nome di Spica). Essendo vicina all'eclittica, era usata un tempo dai marinai per tracciare le loro rotte. Fu proprio tramite lo studio di Spica e di Regolo, che Ipparco scoprì il fenomeno millenario della Precessione degli Equinozi. Invece β Virginis, di magnitudine 3,8, è detta Zavijava (dall'arabo "zavijah", "l'angolo"); γ Virginis, di magnitudine 2,7, è detta anche Porrima, dal nome della dea romana protettrice dei parti, ed è generalmente posta sul petto della Vergine. ε Virginis, di magnitudine 2,8, è chiamata anche Vendemmiatrice, perchè anticamente, appena la si vedeva sorgere poco prima del Sole nel mese di agosto, si cominciava la vendemmia. 70 Virginis, di magnitudine 4,98, possiede un sistema planetario, uno dei primi ad essere stati scoperti: le ruota intorno un gigante gassoso sei volte più massiccio di Giove, lungo un'orbita piuttosto eccentrica. W Virginis è assai debole (oscilla tra le magnitudini 9,51 e 10,71), ma è importante in quanto è stata assunta come prototipo di una classe di variabili pulsanti, note appunto come variabili W Virginis.
Questa costellazione contiene uno dei più ricchi ammassi di galassie conosciuti, non a caso battezzato Ammasso della Vergine, la cui osservazione è favorita dalla distanza dalla scia luminosa della Via Lattea. L'ammasso occupa un'area compresa tra 5° e 10° ad ovest di Vendemmiatrice, presso il confine con la Chioma di Berenice. Tra le altre galassie dell'ammasso c'è M87, chiamata anche Virgo A, una delle galassie più grandi conosciute, dal cui nucleo parte un potente getto di materia, probabilmente generato da un buco nero supermassiccio. Un'altra galassia assai famosa è M104, a circa 10° a est-sudest di Spica, nota anche come Galassia Sombrero per la sua tipica forma: è una delle galassie più fotografate del cielo, anche a livello amatoriale.
Dal punto di vista astrologico, la Vergine è un segno di terra e simboleggia il calcolo e la logica, sicché presiederebbe anche alle trattative commerciali (chissà se il pianeta Vulcano del logicissimo signor Spock ruotava attorno a una stella di questa costellazione!). La Vergine inoltre controllerebbe gli intestini e il processo di digestione e di assimilazione; le sue pietre preziose sarebbero la cornalina e il sardonice, mentre la sua essenza sarebbe il giacinto.
È ora il turno della Bilancia, che a differenza della Vergine è nominata più volte nella Commedia. Anzitutto, il Ghibellin Fuggiasco la usa per indicare l'ora in cui inizia l'ascesa alla Montagna del Purgatorio:
«
Già era 'l sole a l'orizzonte giunto
lo cui meridïan cerchio coverchia
Ierusalèm col suo più alto punto;
e la notte, che opposita a lui cerchia,
uscia di Gange fuor con le Bilance,
che le caggion di man quando soverchia » (Purg. II, 4-6)
La complessa immagine astronomica va così interpretata, tenendo conto che, come si è detto nel capitolo precedente, Dante credeva che tutte le terre abitate fossero comprese in uno spazio di 180° di longitudine tra il Meridiano di Gade (Cadice) e quello del delta del Gange: nell'emisfero, il cui cerchio meridiano sovrasta Gerusalemme con il suo punto più alto, il sole era giunto all'orizzonte dalla parte occidentale, cioè stava tramontando, mentre la notte spuntava dal Gange, cioè si affacciava all'orizzonte di Gerusalemme dall'opposta parte orientale (cioè in Spagna era mezzogiorno, a Gerusalemme il tramonto e in India la mezzanotte. Ora, all'equinozio di primavera, la notte si trova nella costellazione della Bilancia, diametralmente opposta a quella dell'Ariete, dove si trova il Sole; quindi, dopo l'equinozio d'autunno, la notte "soverchia", cioè supera la durata del dì, essa non è più nella costellazione della Bilancia, da cui l'immagine delle bilance che le cadono di mano.
Sempre nella medesima Cantica, Dante fa ricorso di nuovo a questo zodiacale per indicare l'ora in cui sta per accedere finalmente al Paradiso Terrestre:
« Sì come quando i primi
raggi vibra
là dove il suo Fattor lo sangue sparse,
cadendo Ibero sotto l'alta Libra,
e l'onde in Gange da nona rïarse,
si stava il Sole; onde il giorno sen giva,
quando l'angel di Dio lieto ci apparse. » (Purg.
XXVII, 1-6)
Natalino Sapegno così legge: il Sole stava in quella posizione in cui si trova quando manda i suoi primi raggi sopra Gerusalemme, là dove Dio Figlio ("il suo Fattor") morì, mentre in Spagna il fiume Ebro ("Ibero") si trova sotto la costellazione della Bilancia, e in India le acque del Gange sono riscaldate ("rïarse") dall'ora Nona, qui da intendersi come il mezzodì; all'orizzonte del Purgatorio, dunque, il Sole sta tramontando ("sen giva"). Insomma, nel Purgatorio è sera; agli antipodi di esso, cioè a Gerusalemme, è l'alba; e nei due punti estremi della terra abitata, in Spagna è in India, è rispettivamente mezzanotte e mezzogiorno. La Bilancia è la costellazione zodiacale opposta all'Ariete, e in quella stagione appare sul meridiano della Spagna a mezzanotte. Del medesimo asterismo Dante si serve anche nel Paradiso:
« Quando ambedue li figli di
Latona,
coperti del Montone e de la Libra,
fanno de l'orizzonte insieme zona... » (Par. XXIX, 1-3)
Allorché il Sole e la Luna ("i figli di Latona"), l'uno nel segno dell'Ariete, l'altra in quello della Bilancia, vengono a trovarsi contemporaneamente sulla linea dell'orizzonte in due punti opposti del cielo, eccetera. La Bilancia è l'unica, fra le costellazioni dello Zodiaco, ad essere rappresentata da un essere inanimato. L'idea della Bilancia Celeste risale probabilmente ai Sumeri, che la chiamavano GIS.EREN. Alcuni hanno invece supposto un'origine egizia di questo segno, in considerazione della credenza secondo cui le anime erano pesate dopo la morte e, se risultavano più pesanti di una piuma per colpa dei loro peccati, erano perdute per sempre.
Certo è che all'epoca della Grecia classica la Bilancia scomparve dal cielo, e le sue stelle vennero considerate facenti parte delle pinze dello Scorpione: Arato ed Eudosso ignorano del tutto la Bilancia, chiamando le sue stelle con il nome di "Chele". Siccome però lo Scorpione apparve alla fine un asterismo troppo grande, le sue pinze furono di nuovo scorporate in età romana, e la Bilancia del cielo ritrovò il suo posto tra le costellazioni: essa è attestata già da Varrone (116-27 a.C.) e da Nigidio Figulo (98-45 a.C.), e Virgilio nelle "Georgiche" immaginò che lo Scorpione si fosse ritirato per lasciar posto al nuovo segno, sotto il quale (guarda caso) era nato Ottaviano Augusto. Gli astrologi romani, evidentemente inclini all'adulazione nei confronti del primo imperatore, stabilirono che Roma era stata fondata in un momento in cui la luna si trovava in Bilancia.
La Bilancia non ha un corrispettivo mitologico nella tradizione greca, e fu scelta da Ottaviano Augusto per simboleggiare l'equità con cui sotto il suo impero si sarebbe dovuta amministrare la giustizia. Tuttavia può essere collegata alla dea Temi, che incarnava proprio la Giustizia, figlia di Urano e di Gea e seconda consorte di Zeus. Tuttora davanti a molti dei nostri tribunali vi è una statua raffigurante la Giustizia con una bilancia in mano. Invece Julius Schiller, nel suo "Coelum Stellatum Christianum", associò a questa costellazione l'apostolo San Filippo.
La stella α Librae ha magnitudine 2,57, è situata su un piatto della Bilancia ed è conosciuta anche con il complicato nome di Zubenelgenubi, dall'arabo "al zuban al janubiyyah", cioè "chela meridionale", mentre β Librae, di magnitudine 2,61, che costituisce l'ago della bilancia, è detta Zubeneschamali, dall'arabo "al zuban al shamaliyya", cioè "chela settentrionale"; γ Librae, di magnitudine 3,9 e posta sull'altro piatto, è infine detta Zubenelakrab, dall'arabo "chela dello Scorpione. Il riferimento è ovviamente allo Scorpione "allargato" di cui si è detto sopra. La Bilancia contiene il sistema planetario extrasolare di Gliese 581, una nana rossa posta ad appena 20,3 anni luce da noi, che ha ben sei pianeti conosciuti, fra cui Gliese 581 c, una "Super Terra", cioè un pianeta roccioso significativamente più grande del nostro, scoperto nell'aprile 2007; è però improbabile che esso possieda un'atmosfera, essendo troppo vicino alla sua stella madre. Gli altri pianeti del sistema sono giganti gassosi, uno dei quali, Gliese 581 g, si trova nella fascia di abitabilità, e potrebbe avere lune in grado di ospitare la vita.
Astrologicamente parlando, la Bilancia è un segno d'aria, e i nati in questo segno sarebbero inclini all'equità, alla tolleranza, alle mezze misure (non però se la Bilancia fosse rimasta a rappresentare le pericolose chele dello Scorpione celeste!) Essa influenzerebbe i reni, la cute, gli organi genitali e le natiche. Le sue pietre preziose sarebbero la giada e il crisoprasio, mentre la sua essenza astrale sarebbe la verbena.
Di solito il termine italiano "scorpione", dal greco "Skorpios", è legato alla radice indoeuropea "skar" ("tagliare", "ferire"), con riferimento alla sua velenosissima coda: da essa deriva per esempio il tedesco Scheren, "forbici". Altri fanno invece risalire l'etimologia del nome di questo aracnide al semitico "akarab" ("ferire"). In ogni caso, il nostro poeta usa l'immagine della coda di scorpione nel ritratto di Gerione, la « sozza imagine di froda » (Inf. XVII, 7), per indicare la doppiezza dei frodatori, che ci si presentano con la « faccia d'uom giusto » ma sono pronti a colpirci dietro le spalle:
«
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch'a guisa di scorpion la punta armava. » (Inf. XVII, 25-27)
Passando specificatamente alla costellazione dello Scorpione, l'Alighieri la nomina nella stessa citazione a cui abbiamo già fatto riferimento parlando del Toro, nella quale tra l'altro si esibisce in una delle sue difficilissime rime:
«
Ora era onde 'l salir non volea storpio;
chè il Sole avëa il cerchio di merigge
lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio » (Purg. XXV, 1-3)
Questo asterismo assai splendente, posto in parte sulla Via Lattea, è uno dei più somiglianti alla sua controparte mitologica, grazie soprattutto all'arco di stelle che ne costituisce la coda appuntita, la "venenosa forca" di Dante. L'origine dello scorpione è probabilmente sumerica, e quegli antichi astronomi lo chiamavano GIR.TAB. Secondo il mito greco, un enorme scorpione uscì dalle viscere della terra per proteggere la dea Artemide dal gigante Orione, che voleva possederla. Lo scorpione inseguì il terribile cacciatore, che tentava inutilmente di ucciderlo scagliandogli contro un nugolo di frecce, ma la sua corazza era invulnerabile. Alla fine lo scorpione punse Orione, che lo schiacciò prima di morire a causa del veleno. Allora Artemide fece porre in cielo sia Orione che lo Scorpione, uno di fronte all'altro; il primo è eternamente inseguito dal secondo e, quando Orione tramonta, lo Scorpione sorge. Non è escluso che lo Scorpione rappresenti anche le tenebre invernali, destinate ad essere vinte dal Sole dopo il solstizio d'inverno.
Lo Scorpione era però a volte identificato piuttosto con un'Aquila. Nel Medioevo si stabilì infatti un parallelo fra quattro segni zodiacali e gli Evangelisti: Matteo era associato al segno dell'Acquario, Marco a quello del Leone, Luca a quello del Toro e Giovanni all'Aquila (cioè allo Scorpione). Invece Julius Schiller, nel suo "Coelum Stellatum Christianum", ignorò tale associazione, trasformando questa costellazione nell'apostolo San Bartolomeo, evangelizzatore dell'Armenia (che nel 301 d.C. sarebbe diventata la prima nazione cristiana del mondo).
La stella più luminosa della costellazione è α Scorpii, meglio nota come "Antares", cioè "anti-Ares", "avversario di Marte", perchè i due astri splendono ambedue di un colore rossastro. Gli arabi la chiamavano invece Calbalacrab, da "kalb al Akrab", "il cuore dello Scorpione". La sua magnitudine varia fra 0,92 e 1,06, il che fa di essa la quindicesima stella del firmamento, ed è posta là dove la Via Lattea interseca l'Eclittica. Gli egizi la identificavano con Selkis o Serket, la dea scorpione, e gli indios Sumo del Nicaragua credevano che la Madre Scorpione (identificata con Antares) dimorasse in fondo alla Via Lattea, dove accoglieva le anime dei morti, in un incredibile parallelo con il "Somnium Scipionis" da noi visto nel capitolo precedente. Se Antares rappresenta il cuore dello Scorpione, invece λ Scorpii, di magnitudine 1,62 (la ventiquattresima stella del cielo per luminosità), per la sua posizione sulla coda è chiamata Shaula, dall'arabo "al shaulah", "il pungiglione"! Essendo sovrapposto alla Via Lattea, lo Scorpione comprende molti oggetti del profondo cielo, tra cui l'ammasso aperto M7, ben visibile anche ad occhio nudo, l'Ammasso Farfalla (M6) e l'ammasso NGC 6231, posto nel cuore del Braccio del Sagittario, il braccio galattico immediatamente più interno al nostro.
Dal punto di vista astrologico, lo Scorpione è un segno d'acqua, e rappresenta il passaggio dalla morte alla rinascita; non a caso nel suo periodo, che va dal 23 ottobre al 22 novembre, cadono sia la festa cristiana dei Defunti che il Capodanno Celtico o Samhain (più noto oggi come Hallowe'en). Quale animale potrebbe essere associato al ricordo dei morti meglio di questo piccolo killer che fugge la luce e ama vivere nascosto, pronto a ferire con la sua "venenosa forca"? Lo Scorpione controllerebbe gli apparati escretori e genitali, le sue pietre preziose sarebbero il diaspro rosso e il corallo, e la sua essenza sarebbe l'erica.
Ofiuco e Sagittario non sono espressamente nominati da Dante, anche se questi ci mostra i Centauri nel XII Canto dell'Inferno, nel quale fungono da custodi dei Violenti contro il Prossimo, andando in cerca di dannati contro cui scagliare le loro infallibili frecce, in sintonia con la loro immagine mitologica, fatta di violente risse, ferocia belluina ed intelligenza a servizio della crudeltà:
«
E tra 'l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia. » (Inf. XII, 55-57)
Non la costellazione del Sagittario, ma quella del Centauro, probabilmente rappresenta Chirone, il più saggio dei Centauri, aio di Ercole, di Giasone e di Achille, che anche nell'Inferno dantesco è posto a capo dei suoi simili, con la testa chinata sul petto in atto di riflettere:
«
E quel di mezzo, ch'al petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille... » (Inf. XII, 70-71)
Tuttavia, per quanto nascosto, un accenno alla Costellazione del Sagittario nella Divina Commedia forse c'è. Leggiamo insieme questo passo del Purgatorio, in cui Dante è preso dalla sonnolenza mentre si trova nella Cornice degli Accidiosi, né c'è da stupirsene, vista l'indicazione oraria che il nostro Autore ci dà:
«
La luna, quasi a mezza notte tarda,
facea le stelle a noi parer più rade,
fatta com'un secchion che tuttor arda;
e correa contro 'l ciel per quelle strade
che 'l sole infiamma allor che quel da Roma
tra Sardi e ' Corsi il vede quando cade. » (Purg. XVIII, 76-81)
A questo proposito, vale la pena di ricorrere al commento di Ettore Zolesi:
« La notte è molto avanzata, ci indica l'autore; così noi possiamo immaginare il personaggio ormai sopraffatto dalla stanchezza, fisica e mentale insieme (...) Dante resta silenzioso e, alzando gli occhi al cielo, vede la Luna ormai vicina all'ultimo quarto: è la mezzanotte del quinto giorno di viaggio. » Ecco la parafrasi dei versi: « "La Luna, levatasi tardi, quasi a mezzanotte, ci faceva apparire le stelle più rade (oscurando cioè le più piccole), e somigliava a un paiolo (di rame) ancora ardente: e avanzava (in direzione) contraria (al moto apparente) dal cielo, per quelle strade che il sole infiamma, quando quelli dl Roma la vedono al tramonto, (posta) tra la Sardegna e la Corsica." I versi, così elaborati e preziosi, come quando l'autore indica i movimenti degli astri o il trascorrere dal tempo, vogliono dire che la Luna si trova, in quel momento, nella costellazione del Sagittario, proprio dove viene a tramontare il Sole quando, verso la fine di novembre, dall'Italia centrale sembra toccare le Bocche di Bonifacio. « E correa... cade »: poiché il sole adesso è net Sagittario, la Luna viene a trovarsi in questa medesima costellazione durante il corso mensile, contrario a quello del giorno. Poiché durante il plenilunio, la Luna, essendo in opposizione al sole (che si trova in Ariete), si trova nella Bilancia, e dato che, al momento attuale, sono passati cinque giorni dal plenilunio (essa si allontana di 13° al giorno), ora si trova di 65° più a est, cioè nella costellazione del Sagittario. »
Il Sagittario occupa la parte inferiore dell'eclittica ed è poco appariscente, perché nell'emisfero boreale è sempre basso sull'orizzonte meridionale, e può essere osservato senza difficoltà solo nel periodo compreso fra giugno e settembre. Nell'emisfero australe è invece una figura caratteristica e dominante nei cieli invernali, e si presenta allo zenit nelle regioni temperate medie. La mitologia greca lo identifica con Croto, figlio di Pan e di Eufemia (la nutrice delle nove Muse), mitologico inventore di arco e frecce, inizialmente rappresentato a forma di satiro come il padre, ma in seguito trasformato in un centauro per la sua abilità nell'equitazione. In realtà questo personaggio ha origini assai più antiche, provenendo dal mondo sumerico. I Sumeri lo chiamavano PA.BIL.SAG, e molto probabilmente va identificato con Enkidu, l'inseparabile amico di re Gilgamesh, a sua vota trasformato nella costellazione di Orione. Julius Schiller, nel suo "Coelum Stellatum Christianum", associò a questa costellazione l'apostolo ed evangelista San Matteo, che intingeva la penna in un calamaio retto da un angioletto.
La stella più luminosa della costellazione è ε Sagittarii, di magnitudine 1,81, chiamata Kaus Australis, dall'arabo al-qaus, "l'arco", perchè posta all'estremità inferiore dell'arma retta in mano dal centauro. Invece δ Sagittarii, di magnitudine 2,71, è detta Kaus Media, essendo situata al centro dell'arco, e λ Sagittarii, di magnitudine 2,94, è nota come Kaus Borealis, poiché si trova invece all'estremità superiore. La punta della freccia incoccata da Croto/Enkidu è invece γ Sagittarii, di magnitudine 3, chiamata in arabo Al Nasl ("la punta"). Si trovano invece sulle zampe equine α Sagittarii, di magnitudine 4,11, che per questo è definita Rukbat Alrami ("ginocchio dell'arciere"), e β Sagittarii, di magnitudine 4,2, chiamata anche Arkab, da "al'Urkub", "il tendine d'Achille"; quest'ultima è in realtà una binaria ottica. Infine ζ Sagittarii, di magnitudine 2,75, è detta anche Ascella, per la sua posizione. Tra le zampe anteriori del Sagittario è presente la costellazione della Corona Australe.
La costellazione contiene al suo interno il centro galattico, e la scia della Via Lattea è qui particolarmente luminosa. In mezzo al suo biancore è possibile distinguere due regioni più scure, la Grande Nube del Sagittario, che occupa gran parte del settore più occidentale della costellazione al confine con l'Ofiuco e lo Scorpione, e la Piccola Nube del Sagittario, detta anche M24, una delle regioni di cielo in cui è visibile la maggior densità di stelle con un binocolo. Tra gli ammassi globulari spicca M22, uno dei più vicini e luminosi della volta celeste, individuabile con facilità anche con un binocolo. Altri ammassi visibili in questo asterismo sono M28, M54, M69 e M70. Tra le nebulose spicca la vasta Nebulosa Laguna (M8), visibile vicino a λ Sagittarii, un'estesa regione di formazione stellare; un grado più a nord è ben visibile la Nebulosa Trifida (M20), contenente stelle molto calde e giovani. Il Sagittario comprende anche la grande radiosorgente Sagittarius A, che coincide assai probabilmente con il centro galattico; si pensa che essa contenga un buco nero supermassiccio.
Dal punto di vista astrologico, il Sagittario è considerato il segno che precede il solstizio d'inverno, anche se oggi, per via della precessione degli equinozi,la levata eliaca della costellazione cade da metà dicembre a metà gennaio. Essendo un segno di fuoco, i nati in esso sarebbero sempre tesi a superare i propri limiti, partecipando ad ogni iniziativa della vita sociale. Il Sagittario controllerebbe il sistema circolatorio, l'osso sacro, il bacino, le cosce e il femore. Le sue pietre preziose sarebbero lo zaffiro e il lapislazzuli, e la sua essenza sarebbe la violetta.
Passiamo ora al Capricorno, citato all'inizio dell'ascesa all'Antipurgatorio:
« Da tutte parti saettava il giorno
lo sol, ch'avea con le saette conte
di mezzo 'l ciel cacciato Capricorno » (Purg. II, 55-57)
Cioè: il sole saettava ormai la luce del giorno in tutte le direzioni, essendo salito di alcuni gradi sopra l'orizzonte. La costellazione del Capricorno, che dista in cielo novanta gradi da quella dell'Ariete, al momento in cui il sole era sorto si trovava sul meridiano, cioè circa allo zenit del Purgatorio; ora, il movimento del cielo l'ha portata oltre il meridiano, come se fosse inseguita e messa in fuga dalle frecce esperte ("conte") dell'astro diurno. Secondo il calendario astrologico, il Sole sorge al solstizio d'inverno nel segno del Capricorno, anche se in realtà la precessione degli equinozi ha intanto portato il solstizio nel Sagittario, e tra un secolo circa passerà nello Scorpione.
Altra citazione di questa costellazione la troviamo verso la fine del Paradiso:
« Sì come di vapor gelati fiocca
in giuso l'aere nostro, quando 'l corno
de la capra del ciel col sol si tocca » (Par. XXVII, 67-69)
Cioè: come l'atmosfera terrestre ("l'aere nostro") fa cadere sotto forma di fiocchi di neve i vapori gelati dal freddo, quando il corno della Capra del Cielo, cioè del Capricorno, tocca il Sole, cioè quando il Sole è in congiunzione con la Costellazione del Capricorno, e quindi in pieno inverno, dal 21 dicembre al 21 gennaio; così, eccetera. In questo caso la "capra del ciel" non serve per darci un'informazione oraria, bensì stagionale.
Il Capricorno è un animale immaginario, che dalle spalle in su ha la forma di capra, e dalle spalle in giù una coda di pesce. Infatti è posto in una porzione di cielo che gli antichi chiamavano "il Mare", essendo pieno di figure acquatiche come l'Acquario, i Pesci, la Balena, il Serpente di Mare (l'Idra) e la Nave Argo. Pare che i Greci volessero raffigurarvi il dio Pan. Quando infatti Tifone, il mostro colossale che la Madre Terra aveva partorito per vendicarsi dell'eccidio dei Titani da parte di Zeus, si lanciò contro l'Olimpo, tutti gli déi fuggirono terrorizzati in Egitto, prendendo l'aspetto di animali: Hermes si trasformò in Ibis e divenne il dio Toth, Era divenne una vacca e fu adorata come Hator; e così si spiegano gli déi zoomorfi dell'antico Egitto. Ebbene, Pan avrebbe assunto proprio la forma di un capricorno. Zeus intanto, dopo essere stato imprigionato in un primo momento da Tifone, riuscì a fuggire proprio grazie a Pan, che terrorizzò la sua guardiana Echidna con urla altissime e terrificanti; affrontato Tifone, lo vinse e lo schiacciò sotto l'Etna, da dove la sua rabbia impotente erutta ancora fiamme e lapilli. Riconoscente verso Pan, Zeus pose in cielo il Capricorno, che in epoca classica era chiamato appunto anche "Pan". Chiaro il significato astronomico del mito: Zeus è il Sole che, giunto al solstizio d'inverno, è stato imprigionato dalle tenebre, ma proprio Pan/Capricorno lo libera ed egli può riprendere il suo cammino verso la Primavera.
In realtà la figura del Capricorno è di origine mesopotamica: l'animale mezzo capra e mezzo pesce, chiamato SUHUR.MAS dai sumeri, era immagine dei dio Ea, divinità suprema della mitologia sumerica, considerato sapientissimo e creatore del mondo, che era in grado di vivere sia sopra che sotto le acque, come mostra l'ambivalenza capra-pesce. Fu lui a salvare Ut-Napishtim dal grande diluvio, insegnandogli come costruire l'Arca, e fu lui ad insegnare agli uomini tutte le arti e tutte le scienze. I Sumeri lo chiamavano anche Eaganna ("Ea il Pesce"), nome poi grecizzato in Oannes, ma anche "il Padre della Luce"; ed in effetti da esso il sole ricominciava ad alzarsi verso la primavera. Julius Schiller, nel suo "Coelum Stellatum Christianum", associò invece a questa costellazione l'apostolo Simone lo Zelota, che secondo alcuni sarebbe morto martire in Armenia, secondo altri nel Lincolnshire, in Britannia.
Il Capricorno non è una costellazione particolarmente luminosa. La sua stella principale, δ Capricorni, è una binaria ad eclisse che raggiunge la magnitudine 2,98, ed è detta anche Deneb Algedi, da "al dhanab al jady", "la coda della capra". Sulla testa della costellazione invece brillano α Capricorni, detta anche Giedi, "il capro", formata da due componenti di magnitudine 3,77 e 4,53, e β Capricorni, conosciuta come Dabih (dall'arabo "al sad al dhabih", "la fortuna dei sacrificanti"), un sistema multiplo di magnitudine 3,25. Quando la Luna si trova in questo asterismo, nei giorni intorno al nostro Natale, nelle famiglie musulmane si celebra la festa di Id-al-Adha, durante la quale si sacrificano capre per propiziare la guarigione dalle malattie. Il Capricorno contiene inoltre l'ammasso globulare M30, a 26000 anni luce da noi: con un telescopio da 200 mm di apertura è possibile risolverlo in stelle.
Dal punto di vista astrologico, il Capricorno è un segno di terra, e i nati in esso sarebbero pensierosi, pazienti, perseveranti, meditativi, inclini all'isolamento e alla melanconia. Esso controllerebbe le ginocchia, le ossa e le articolazioni. Le sue pietre preziose sarebbero l'opale nera e l'ossidiana, e la sua essenza sarebbe il caprifoglio.
Dell'Acquario, la penultima delle costellazioni zodiacali, Dante parla en passant in una delle sue immaginose similitudini:
«
In quella parte del giovanetto anno
che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno,
quando la brina in su la terra assempra
l'imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra... » (Inf. XXIV, 1-21)
Di questi versi abbiamo già discusso a proposito dei passaggi di stato. Qui ci basti dire che la similitudine dantesca gira attorno al contadinello che, levatosi al mattino per condurre le sue bestie al pascolo, vede la campagna tutta bianca di brina e si dispera, scambiandola per neve, ma in breve tempo si consola, vedendo la presunta neve sciogliersi al calore del sole. In quale periodo dell'anno ciò può avvenire? Quando l'anno è "giovanetto", cioè quando è cominciato da poco, e il Sole "tempra" i suoi capelli ("crini"), cioè i suoi raggi, rendendoli via via più caldi man mano che ci si allontana dal solstizio d'inverno e ci si avvicina al momento in cui le notti dureranno quanto i dì. A quell'epoca il Sole si trova nell'Acquario, quindi siamo tra il 21 gennaio e il 21 febbraio.
Nel segno dell'Acquario cadono perciò i cosiddetti "giorni della merla" (il 29, 30, 31 gennaio), tradizionalmente ritenuti i più freddi dell'anno, cui Dante accenna nel Purgatorio, mettendo in bocca a Sapia di Siena le seguenti parole:
«
Tanto ch'io volsi in sù l'ardita faccia,
gridando a Dio: "Omai più non ti temo!",
come fé 'l merlo per poca bonaccia. » (Purg. XIII, 121-123)
Franco Sacchetti (1332-1400) nella 149esima delle sue 300 Novelle, iniziate nel 1392 e lasciate incompiute alla sua morte, racconta che la merla un tempo non era nera ma bianca di penne. Finito il mese di gennaio con il suo gelo, essa uscì dalla tana con i suoi merlotti schernendo il mese di gennaio perché non poteva ormai più farle del male. Ma il mese di gennaio, permaloso, chiese a prestito tre giorni al mese di febbraio (che da allora ne conta solo 28) e scatenò la furia delle sue tempeste di neve. Per sopravvivere al gelo, la merla dovette rifugiarsi con i suoi merlotti dentro un camino, il cui fumo fece sì che le sue penne diventassero nere (evidentemente gli autori di questa favola eziologica credevano nella teoria evoluzionistica di Lamarck!)
Vi sono però altre spiegazioni per questa locuzione. Il letterato settecentesco Sebastiano Paoli, autore dei "Modi di dire toscani", parla di una nobile Signora di Caravaggio, di nome De Merli, che doveva attraversare il fiume Po per andare a prendere marito, ma riuscì a farlo solo negli ultimi giorni di gennaio, in cui il fiume era ghiacciato. Questo invece è il parere del mio amico Guido Borghi:
« Nelle
questioni etimologiche neolatine, accanto all’interpretazione sincronologica
(dalla lingua stessa) o ereditaria (dal latino), è buon metodo sondare anche le
possibilità del sostrato e del superstrato. Per la Lombardia (in senso lato),
donde l’espressione è originaria, il sostrato è celtico e il superstrato
germanico. In questa occasione mi permetto di proporre un’etimologia celtica.
In una glossa anticoirlandese è attestata una glossa, merlach, dal significato
di ‘cardine’. Merlach (in protoceltico *mĕrlākŏ-) è un aggettivo sostantivato,
formato per mezzo del suffisso -ach (‘relativo a’) su una base *merl (non
attestata) < protoceltico *mĕrlā, il cui significato – ricavabile da ‘cardine’ =
‘relativo a mĕrlā’ – dovrebbe essere ± ‘cerniera’ (il cardine è relativo alla
cerniera); la radice indoeuropea dovrebbe quindi essere √*mĕr- ‘intrecciare,
legare’ (di cui *mĕr-lăhₐ sarebbe una formazione primaria, col significato
appunto di ‘intreccio, legamento, cerniera’).
I giorni della merla sarebbero dunque i giorni della ‘cerniera’ (fra la stagione
più fredda e il riscaldamento) »
L'Acquario è una delle costellazioni più antiche del firmamento. Di solito viene rappresentato come un uomo che con una mano regge un'asticella (o il lembo del suo mantello), e con l'altra, quasi a contatto con la costellazione di Pegaso, regge un'anfora da cui sgorga un vero e proprio fiume, il quale arriva fino al Pesce Australe. I mitografi greci discordano molto nell'interpretare questa figura. Secondo Igino si tratterebbe di Cecrope, mitico primo re dell'Attica, che regnò quando il vino non era stato ancora inventato, e per i sacrifici si usava l'acqua di fonti sacre. Per altri sarebbe Deucalione, il figlio di Prometeo che insieme a Pirra scampò al diluvio mandato dagli déi, come racconta Ovidio (Metamorfosi I, 253-415). Altri ancora parlano di Ganimede, il bellissimo figlio di Troo e di Calliroe e zio di Priamo, il quale, mentre si trovava a caccia con gli amici sul monte Ida nella Troade, fu rapito da Zeus trasformatosi in aquila e portato sull'Olimpo per fungere da coppiere degli déi, dopo che Ebe ebbe rassegnato le sue dimissioni da quell'incarico per sposare Ercole, come lo stesso Alighieri ricorda:
«
Ed esser mi parea là dove fuoro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro. » (Purg. IX, 22-24)
In realtà la costellazione è probabilmente di origine indiana. Nel 3000 a.C. circa, quando fiorirono le civiltà di Moenjo-Daro e Harappa sul fiume Indo, il plenilunio solstiziale cadeva in questa costellazione, e i Veda narrano che Chandra, dio della Luna, una volta raggiunto il suo massimo splendore, era bevuto trionfalmente da Indra, il Sole, il quale aveva riconquistato il trono del solstizio vincendo l'annuale battaglia contro Vrtra, il demone della siccità. E siccome in India il solstizio coincide con l'arrivo dei monsoni, che apportano benefiche piogge, il dio prevedico Trita Aptya, identificato con l'asterismo in cui si trovava la Luna, rovesciava nel cielo la sua brocca, liberando simbolicamente il fiume celeste delle piogge apportatrici di vita. È possibile che, passato nel Mediterraneo, Trita Aptya si sia trasformando nella divinità greca Tritone, che secondo alcuni era il dio mediterraneo del Mare, prima di venire soppiantato da Poseidone, portato con sé dagli Elleni nella loro migrazione verso l'attuale Grecia. Invece Julius Schiller, nel suo "Coelum Stellatum Christianum", associò a questa costellazione l'apostolo San Giuda Taddeo, autore di una delle Lettere del Nuovo Testamento, da non confondersi con Giuda Iscariota, il traditore di Gesù che viene masticato e scorticato da una delle bocche di Lucifero.
La parte meglio visibile dell'Acquario è formata da quattro stelle a forma di Y, nelle quali si può identificare l'anfora da cui fuoriesce l'acqua. Al centro della Y è posta la stella Sadachbia (ζ Aquarii), di magnitudine 3,66, dall'arabo "Al Sa'd al Alibiyah" ("la fortunata tra le nascoste"). α Aquarii (di magnitudine 2,93) è nota anche come Sadalmelik, da "Al Sa''dal Malik" ("la fortunata del re"). Il 5 maggio da questa costellazione si irradia lo sciame meteorico delle Aquaridi. Nell'Acquario sono comprese due grandi nebulose planetarie: NGC 7009, distante 2500 anni luce e chiamata Nebulosa Saturno a causa della sua somiglianza con il pianeta omonimo, a sudest di η Aquarii, e NGC 7293, la famosa Nebulosa Elica, situata a sudovest di δ Aquarii, una delle più brillanti ed estese della volta celeste, distante 650 anni luce.
Astrologicamente parlando, nonostante le apparenze l'Acquario è un segno d'aria. I nati in questo segno sarebbero sempre propensi ad aiutare chi è in difficoltà, a dare ospitalità ai bisognosi, a vedere al di là della realtà fenomenica. Le sue pietre preziose sarebbero l'occhio di falco e l'occhio di tigre (particolari ossidi di silice fluorescenti), e la sua essenza sarebbe la felce.
La dodicesima costellazione dello Zodiaco è composta da due pesci che nuotano nel Mare Astrale, uno rivolto a nord, che quasi lambisce le spalle di Andromeda, e uno rivolto a ovest, sotto la criniera di Pegaso. Le rispettive code sono tradizionalmente legate tra di loro con due nastri che si collegano presso la stella α Piscium, chiamata anche Rischa ("la corda"), una binaria di magnitudine 3,96. La stella più luminosa della costellazione è invece η Piscium, di magnitudine 3,6. Nei Pesci è compresa anche M74, una galassia a spirale di facile osservazione, posta a 35 milioni di anni luce da noi. Dante cita questo asterismo in almeno due passi rilevanti. Il primo è quello in cui Virgilio, dopo essersi fermato presso la tomba di Papa Anastasio II per far riposare il suo discepolo ed illustrargli la distribuzione dei dannati nell'Inferno, lo invita a riprendere il cammino con queste parole:
« Ma seguimi oramai che 'l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta,
e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace,
e 'l balzo via là oltra si dismonta» (Inf. XI, 112-115)
La costellazione dei Pesci si è dunque già alzata sull'orizzonte; precedendo immediatamente quella dell'Ariete, in cui allora si trovava il Sole, i Pesci astrali cominciavano ad apparire all'orizzonte tre ore prima dell'alba, mentre l'Orsa Maggiore (il Carro) è volta nella direzione del Coro, il vento di nordovest, e poco più in là il burrone è agevole da discendere. In questo caso i due Pesci hanno aiutato Dante a specificarci che mancano due o tre ore all'alba. Il medesimo asterismo riappare all'uscita del cammino sotterraneo che ha condotto i due poeti dall'Inferno alla spiaggia del Purgatorio:
«
Lo bel pianeto che d'amar conforta
faceva tutto rider l'orïente,
velando i Pesci ch'erano in sua scorta » (Purg. I, 19-21)
Venere appare qui congiunta proprio con i Pesci, le cui stelle essa vela con il suo splendore; « così accenna che questa costellazione si compone di stelle di piccola parvenza », fa notare in proposito Niccolò Tommaseo nel suo commento del 1865. Sempre il Tommaseo fa notare entusiasticamente a questo proposito:
« Nell'XI dell'Inferno, co' Pesci a Levante, Dante ha il Carro tutto sul Coro, cioè tra Ponente e Maestro; senonché ivi "i pesci guizzan su per l'orizzonte", cioè sorgono; qui nel Purgatorio sono già alzati: e il Carro là non tramonta, perchè alle nostre latitudini è circumpolare, ma "tutto sovra 'l Coro giace". Quanta perfezione di lavoro! Quanta ricchezza di modi a indicare luoghi, tempi, gradazioni! »
Sicuramente il Tommaseo ha ragione, e la Commedia è un capolavoro anche di dottrina astronomica; tuttavia è doveroso far notare un particolare. Per lo stesso motivo indicato a proposito delle terzine precedenti, manca poco all'alba, e quindi la salita dal centro della Terra alla spiaggia del Purgatorio ha richiesto un giorno e una notte di cammino. Nella lezione precedente si è detto che secondo Dante il raggio terrestre era inferiore ai 3000 Km, ma per percorrere tale distanza in così poco tempo i due poeti avrebbero dovuto procedere ad almeno 150 Km all'ora!
Ma sorvoliamo su questa incongruenza, che va catalogata fra le tante "licenze poetiche" prese da Dante, e torniamo alla nostra costellazione. In Mesopotamia essa era chiamata KUN.MES, che in sumerico significa "le code", ed era composta non da due pesci, ma da un pesce e da una rondine, le cui code si toccavano. Forse anche l'origine di questo segno zodiacale è da ricercarsi in India e da connettersi a Matsya, il pesce che fu la prima avatar del dio Visnù, al quale si attribuisce la salvezza di Manu, il Noè indiano, dalle acque del diluvio, e la consegna dei sacri Veda agli uomini. Quando di questo asterismo si impossessarono i Greci, cercarono una leggenda ad hoc sulle loro origini, e stabilirono che, quando gli déi fuggirono dall'Olimpo per paura di Tifone, come spiegato a proposito del Capricorno, Afrodite e suo figlio Eros giunsero fino al fiume Eufrate e si mutarono proprio in pesci, come narra Ovidio (Fasti II, 458-471). In seguito Julius Schiller, nel suo "Coelum Stellatum Christianum", associò a questa costellazione l'evangelista San Matteo.
Oggi noi viviamo nell'Era dei Pesci, cominciata verso il 60 a.C. e destinata a concludersi alla fine del XXII secolo, perchè è in essa che si trova il punto equinoziale. La convinzione che l'Era dell'Ariete stesse finendo e che quindi fosse vicino un grande rinnovamento cosmico portò gli uomini del I secolo a.C. ad abbandonare progressivamente la loro fiducia nella religione tradizionale olimpica e a darsi a nuovi culti, come quello di Iside, i riti Orfici e, naturalmente, il Giudeo-Cristianesimo. La predicazione di San Paolo nell'Impero Romano fu senz'altro agevolata dall'inizio di una nuova era astronomica. E lo stesso Virgilio, guida di Dante, allude probabilmente a tale rivolgimento cosmico nella sua celeberrima IV Egloga:
« Ultima Cumaei venit iam carminis
aetas;
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum
desinet ac toto surget gens aurea mundo,
casta fave Lucina; tuus iam regnat Apollo. » (Egl. IV, 4-10)
[Già arriva l'ultima era delle predizioni cumane, rinasce per intero una grande
successione di secoli; e già fa ritorno la Vergine, ritornano i regni di Saturno,
già una nuova progenie è mandata giù dall'alto cielo. Tu dunque proteggi, o casta Lucina, il
bambino che sta nascendo, per il quale per la prima volta avrà fine la generazione del ferro e sorgerà in tutto il mondo quella dell'oro; ora governa il tuo Apollo.]
Lo stesso Dante traduce parte di questi versi nel Purgatorio, quando Stazio spiega che proprio la lettura di essi lo aveva convinto ad abbandonare la religione tradizionale per aderire al cristianesimo:
«
Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte,
quando dicesti: "Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenïe scende da ciel nova". (Purg. XXII, 67-72)
Virgilio infatti era considerato da tutto il Medioevo, e da Dante in particolare, una sorta di "profeta pagano" che aveva intuito in anticipo l'avvento del Cristo. Egli in realtà non aveva fatto altro che dare voce all'ansia di rinnovamento spirituale connessa alla fine dell'Era dell'Ariete; e già da ora si preannunciano le profezie circa l'incipiente Era dell'Acquario, legate alla complessa mitologia della New Age.
I Pesci sono ovviamente un segno d'acqua, e i nati in questo segno sarebbero propensi alla ricerca della perfezione oscillando fra l'attrazione della terra e lo slancio verso il cielo. I Pesci, per chi ci crede, governerebbero i piedi umani; le loro pietre preziose sarebbero l'acquamarina e la perla, e la loro essenza sarebbe il glicine.
Terminate le dieci costellazioni dello Zodiaco nominate da Dante, non possiamo certo fare a meno di parlare anche dell'Orsa Maggiore, sicuramente la più popolare costellazione del cielo, oltre ad essere la terza in ordine di grandezza. Anche chi è affatto digiuno di astronomia sa riconoscere questo asterismo, utile anche per individuare il Polo Nord celeste; e le sue sette stelle principali (Benetnasch, Mizar, Alioth, Megrez, Dubhe, Merak e Phekda), chiamate anche "i sette buoi" (in latino "septem triones") hanno dato origine al nostro termine "settentrione". Dal greco "arktos" ("orso") deriva anche il nostro aggettivo "artico". Ad essa abbiamo già dedicato una sezione della lezione introduttiva all'astronomia dantesca, in cui si è vista la sua origine mitologica, così come Dante conoscesse bene il fatto che si tratta di una costellazione circumpolare; di una costellazione, cioè, che nell'emisfero boreale non tramonta mai. Un'altra importante citazione dantesca di questo grande asterismo, che come si è detto è noto anche come "Elice", dal nome della città natale della ninfa Callisto, in Arcadia, è rintracciabile nell'ammonimento rivolto da Dante ai lettori prima di seguirlo nella sua ascesa al Paradiso:
«
L'acqua ch'io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran l'Orse. » (Par. II, 7-9)
Il Sommo Poeta vuole dirci che nessuno, prima di lui, osò innalzare a tal punto la sua poesia da descrivere i Cieli del Paradso (in realtà lo avevano già fatto Giacomino da Verona nel "De Ierusalem Coelesti" e Bonvesin da la Riva nella "Scrittura dorata"); la dea della sapienza gonfia con il suo fiato le vele della barca di Dante; Apollo, cioè la fantasia poetica, cui già Dante si era appellato in Par. I, 13, regge il timone; e le nove Muse indicano il cammino. Infatti tutti i naviganti dell'epoca impostavano le loro rotte sulla base dell'Orsa Maggiore e dell'Orsa Minore. Entrambe le Orse vengono poi nuovamente tirate in ballo quando il nostro autore vuole farci capire come avviene la danza dei Beati nel Cielo del Sole:
« ...Imagini quel carro a cu' il seno
basta del nostro cielo e notte e giorno,
sì ch'al volger del temo non vien meno;
imagini la bocca di quel corno
che si comincia in punta de lo stelo
a cui la prima rota va dintorno,
aver fatto di sé due segni in cielo » (Par. XIII, 7-13)
Il lettore è qui invitato ad immaginare il Grande Carro, al cui moto è sufficiente lo spazio ("seno") del cielo a noi visibile, cosicché ruotando il timone (cioè girando) non viene mai meno alla nostra vista (qui si ritorna sulla circumpolarità dell'Orsa). Si deve quindi immaginare le due stelle dell'Orsa Minore, pensata con la forma di corno, la cui estremità più larga, cioè la "bocca", è costituita da esse, mentre la punta coincide all'estremità opposta con la Stella Polarre, collocata pressappoco nel punto più alto dell'asse celeste ("stelo"), attorno a cui gira il Primo Mobile ("la prima rota"), e con esso gli altri cieli. Qui è condotta una precisa descrizione delle due Orse, che come si è detto sono tra le più antiche costellazioni mai individuate dall'uomo, assai prima che Arato e gli altri mitografi greci associassero a questi asterismi la seduzione da parte di Zeus della ninfa Callisto, poi trasformata in orsa dalla gelosa Era, e condannata a girare per sempre intorno al Polo Nord senza mai tuffarsi nelle acque, perchè Teti, istigata da Era, le era fiera nemica.
Già i Sumeri chiamavano le stelle dell'Orsa Maggiore con il nome di MAR.GID.DA ("il Carro"), e così facevano gli Irlandesi, per i quali essa era "il carro di Re Davide", mitologico primo re dell'isola. Invece i contadini del continente euroasiatico lo chiamarono "l'Aratro Celeste", trainato da sette buoi, da cui (come detto) il termine "settentrione". Il mondo arabo preislamico vi vedeva invece (chissà perchè) una processione funebre. In Cina essa era "la Corte Celeste", e la Stella Polare era "l'Imperatore", mentre in Provenza vi si scorgeva una chioccia seguita dai suoi pulcini. Gli Indiani d'America descrivevano poi l'asterismo come un'orsa inseguita dai cacciatori. Invece Julius Schiller, nel suo "Coelum Stellatum Christianum", associò a questa costellazione la Barca di San Pietro, ignorando una tradizione millenaria. Di questi astri parla anche Leopardi:
« Vaghe
stelle dell'Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti... »
Tra le stelle dell'Orsa Maggiore, α Ursae Maioris è Dubhe (dall'arabo "al tharr al dubb al akbar", "il dorso della grande Orsa"), di magnitudine 1,81. β Ursae Maioris è Merak (da "al marakk", "il lombo"), di magnitudine 2,37. Prolungando la linea formata da queste due stelle dalla parte di Dubhe per un tratto pari a cinque volte la loro distanza, si arriva ad individuare la Stella Polare; per questo esse sono dette Stelle Puntatrici. γ Ursae Maioris è Phekda (da "al fahdh", "coscia"), di magnitudine 2,4. δ Ursae Maioris è Megrez (da "al maghrez", "radice della coda"), di magnitudine 3,3. Queste quattro formano il trapezio del Grande Carro. Sul suo timone vi sono ε Ursae Maioris, detta Alioth (da "alyat", "la larga coda"), di magnitudine variabile fra 1,70 e 1,79; ζ Ursae Maioris, detta Mizar (da "mi'zar", "cintura pelvica"), una multipla di magnitudine 2,3; ed η Ursae Maioris, nota anche come Benetnasch (da "al ka'id al na'ash", "la prima prefica", con riferimento all'identificazione con un corteo funebre), di magnitudine 1,87. Tra le altre stelle, significative sono quelle che indicano i piedi dell'animale, i cui nomi derivano dal fatto che gli arabi vi vedevano le impronte di una gazzella saltellante nel cielo. Le stelle ν e ξ, di magnitudine rispettiva 3,5 e 3,74, formano il piede anteriore destro e sono dette Alula Borealis e Alula Australis (dall'arabo "al kafzah al ula", "il primo salto"); le stelle λ e μ, di magnitudine rispettiva 3,7 e 3,05, formano il piede anteriore sinistro e sono dette Tania Borealis e Tania Australis (dall'arabo "al kafzah al thaniyah", "il secondo salto"); infine le stelle ι e κ, di magnitudine rispettiva 3,2 e 3,68, formano il piede posteriore destro e sono dette Talita Boreale e Talita Australe (da "al phrika al thalita", "il terzo salto").
Quanto all'Orsa Minore, nonostante la sua debole luminosità, negli ultimi 3000 anni ha assunto una grande importanza perchè la sua stella α Ursae Minoris, di magnitudine 1,99 e posta sulla punta della coda, dista soli 50 primi d'arco dal Polo Nord. La Precessione degli Equinozi porterà la Stella Polare alla minima distanza dal Polo Nord Celeste (27' 31") nell'anno 2102, poi si allontanerà progressivamente da esso. Nel 4000 d.C. sarà sostituita da γ Cephei; tra il 7000 e l'8000 d.C. la Polare sarà α Cephei o Alderamin ("la spalla destra" di Cefeo), nel 9000 d.C. da α Cigni, la brillantissima Deneb, ed infine nel 14000 d.C. da α Lirae, l'altrettanto celebre Vega, che è una delle stelle meglio conosciute. Nel 3000 a.C. invece la Polare era α Draconis o Thuban ("il drago"), ed infatti la Grande Piramide di Cheope fu orientata verso Thuban, e non verso α Ursae Minoris. Nessuna di queste stelle però si è avvicinata o si avvicinerà al Polo Nord Celeste quanto l'attuale Polare. Dante comunque conosceva benissimo il fenomeno ora descritto della Precessione degli Equinozi, la lenta rotazione dell'asse terrestre che, a causa dell'attrazione solare, in 25.776 anni ("Anno Platonico") descrive un doppio cono con vertice al centro della terra, un lentissimo moto che ricorda quello di una trottola in rotazione. Nel Purgatorio leggiamo infatti:
« Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il 'pappo' e 'l 'dindi',
pria che passin mill'anni? ch'è più corto
spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto. (Purg. XI, 103-108)
Cioè: prima che siano trascorsi mille anni, che pure sono un batter d'occhi rispetto al lentissimo moto di precessione delle stelle fisse, quale fama avrai maggiore per essere morto anziano, di quella che avresti se fossi morto bambino, quando ancora usavi il linguaggio infantile? ("pappo" sta per la pappa e "dindi" per i sonagli) Ed anche nel Convivio Dante scriveva: « Per lo movimento quasi insensibile che fa da occidente in oriente per uno grado in cento anni... » (Convivio II, XIV, 11) Da qui si deduce che il nostro poeta attribuiva all'anno platonico una durata di 36.000 anni (100 anni per 360 gradi), contro i circa 26.000 effettivi, ma che tale moto, scoperto da Ipparco di Nicea, gli era ben noto.
In Egitto l'Orsa Minore era conosciuta come "il Cane di Seth". In Mesopotamia era invece "An-ta-su-ra", "l'alta sfera"; ma un errore di lettura portò alla dizione "An-nas-su-ra", "l'alta sorgente", da cui derivano il fenicio Kunosura e il greco Cynosura, "la coda del cane", nome che presso gli antichi designava l'attuale Polare: i primi grandi navigatori del Mediterraneo furono infatti i Fenici e i Greci, che ovviamente si orientavano sulla Polare. Per gli Arabi invece l'Orsa Minore era "la macina del mulino", visto che ruotava in continuazione attorno al Polo Nord. In Russia si credeva che essa rappresentasse un cane incatenato al Polo Nord, il quale tenta in continuazione di spezzare la catena; quando vi riuscirà, verrà la fine del mondo. Per i Kirghisi dell'Asia Centrale invece i Sette Buoi dell'Orsa Maggiore sono sette lupi che inseguono i cavalli rappresentati dalle stelle dell'Orsa Minore; quando li raggiungeranno e li divoreranno, anche in questo caso l'universo finirà. Julius Schiller, nel suo "Coelum Stellatum Christianum", associò a questa costellazione l'Arcangelo San Michele, protettore della Chiesa. Quanto alle altre stelle di questo asterismo, β Ursae Minoris ha magnitudine 2,1 ed è detta anche Kochab ("il piolo del mulino", con riferimento all'interpretazione araba di questa costellazione), mentre γ Ursae Minoris è una stella doppia di magnitudine 3,08, detta Pherkad (da "alifa al farkadain", "il più debole dei vitelli"). Nei pressi della stella Merak si trova la nebulosa planetaria M97, nota come Nebulosa Civetta a causa delle due macchie scure sul suo disco, che somigliano agli occhi sgranati di una civetta. Moltissime sono le galassie osservabili entro il nostro asterismo, molte delle quali fanno parte del cosiddetto Gruppo di Galassie dell'Orsa Maggiore, uno dei più vicini al nostro Gruppo Locale. Tra di esse spicca la coppia formata da M81 (una delle più brillanti del cielo), detta anche Galassia di Bode, e M82, detta anche Galassia Sigaro, entrambe distanti 12 milioni di anni luce da noi. Infine l'Orsa Maggiore comprende anche due galassie nane satelliti della nostra, note come Ursa Maior I e Ursa Maior II.
Di questa costellazione, nota anche come il "figlio dell'Orsa" e compresa fra le 48 elencate da Tolomeo, Dante parla nella citazione da noi già analizzata, in cui fa riferimento ai popoli germanici che abitavano il settentrione d'Europa:
Se i barbari, venendo da tal plaga
che ciascun giorno d'Elice si cuopra,
rotante col suo figlio ond' ella è vaga (Par. XXXI, 31-33)
Boote in greco significa "bifolco" o "carrettiere", e questo nome indica che in origine era identificato con il mitico conduttore del Grande Carro. Infatti era rappresentato come un uomo che tiene in mano un bastone, e con l'altra sembra invitare i buoi ad avanzare. Per questo motivo i Greci lo chiamarono "Arctophylax", cioè "guardiano dell'Orsa"; da ciò deriva il latino Arcturus, termine che poi passò ad indicare la stella α Bootis, di colore marcatamente arancione e di magnitudine - 0,06: Arturo è infatti la stella più luminosa di tutto l'emisfero boreale, e la quarta del firmamento dopo Sirio, Canopo e Rigel. Tra le stelle è una di quelle dotate di moto proprio maggiore: 2",28 all'anno, quindi in 800 anni percorre una distanza pari al diametro apparente della Luna piena, e tra mezzo milione d'anni si sposterà nella costellazione della Vergine, anche se sarà ormai così lontana da sparire alla nostra vista.
Il "guardiano dell'Orsa" è citato già nell'Odissea, ma la costellazione è di probabile origine mesopotamica: i Sumeri la chiamavano "RIV.BUT.SAN", cioè "quello che guida il carro". Ma chi è veramente il Bifolco che guida l'Orsa Maggiore? Se analizziamo la configurazione del firmamento intorno al 5700 a.C., scopriamo che Boote era allora una costellazione circumpolare (oggi invece sorge in aprile e tramonta in settembre) e il Polo Nord Celeste era vicinissimo alla testa del Carrettiere. Anzi, nell'anno 5744 a.C. la sua figura risultava perfettamente allineata al meridiano del solstizio d'estate a mezzanotte, e sembrava quasi reggere l'intera volta del cielo; poi la precessione degli equinozi a poco a poco gli fece perdere questo privilegio. Sempre a quell'epoca, Arturo si trovava nella testa di Boote (oggi invece è nella fibbia della tunica). Appare perciò probabile che in origine Boote fosse da identificarsi con il titano Atlante, reggitore della volta celeste, e che la sua figura fosse pensata inginocchiata, con ambe le braccia sopra la testa nello sforzo sovrumano di reggere il firmamento. Atlante apparteneva alla generazione divina precedente a quella degli déi dell'Olimpo, e presso le popolazioni pelasgiche doveva essere una delle divinità supreme; dopo l'arrivo dei Greci nella penisola balcanica, il suo ruolo di colonna dell'universo fu spiegato come una condanna dopo la sconfitta nella guerra dei Titani contro Zeus. Julius Schiller dovette intuire qualcosa di tutto ciò, poiché nel suo "Coelum Stellatum Christianum", associò a questa costellazione San Silvestro Papa, una delle colonne della storia della Chiesa, essendo colui che assistette all'Editto di Milano (313 d.C.) ed alla fine delle grandi persecuzioni anticristiane. Da notare che anche la fervida fantasia umoristica del grande Gianni Rodari (1920-1980) è stata influenzata dal nome di questa costellazione:
« Ultimissime da Sirio:
la vittoria nel campionato
manda la folla in delirio.
Rapina: casse vuote
nella banca di Boote » (da "Filastrocche in Cielo e in Terra")
Tra le altre stelle della costellazione, β Bootis di magnitudine 3,6 è chiamata anche Nekkar, nome che gli arabi danno all'intero asterismo, mentre Arturo forma la base di una grande Y al cui centro vi è ε Bootis, di magnitudine 2.46 nota come Izar ("cintura dei lombi"); a sinistra vi è α Coronae Borealis, di cui diremo tra poco, e a destra γ Bootis o Seginus (deformazione del nome arabo di Arturo), di magnitudine 3,05. La costellazione contiene anche l'ammasso globulare NGC 5466, che può essere individuato già con un telescopio di medie dimensioni. Lo sciame meteorico più abbondante di tutto l'anno, quello delle Quadrantidi, si sprigiona il 3-4 gennaio dalla testa di Boote, area del cielo un tempo occupata dal Quadrante Murale, costellazione poi abolita.
Nella complessa metafora da noi descritta sopra a proposito delle due Orse, Dante chiede al lettore di immaginare che tutte le ventiquattro stelle enumerate in precedenza (le quindici stelle più luminose del cielo, le sette dell'Orsa Maggiore e le ultime due sulla "bocca del corno" dell'Orsa Minore) formino due immaginarie costellazioni, ciascuna di dodici stelle, simili nella forma a quella in cui Dioniso tramutò la sua sposa Arianna, allorché essa morì:
«
[imagini] aver fatto di sé due segni in cielo,
qual fece la figliuola di Minoi
allora che sentì di morte il gelo... » (Par. XIII, 13-15)
In questo caso la fonte di Dante è Ovidio (Metamorfosi VIII, 177-181), che si rifà a sua volta ad Arato:
« Dietro le
spalle dell'esausta immagine [la costellazione di Ercole]
si rivolge anche quella corona
che Dioniso là pose, affinché fosse
glorioso emblema dell'assente Arianna » (Fenomeni, 107-110)
Virgilio (Georgiche I, 222) definisce tale asterismo « Gnosiaque ardentis stella Coronae », cioè la "cnosia stella della fulgida corona", dove "cnosia" significa "del re di Cnosso", cioè di Minosse (il "Minoi" di Dante è un genitivo alla latina). Come si sa, Arianna aiutò Teseo ad uccidere il Minotauro, essendosi innamorata dell'eroe ateniese, quindi lo seguì sulla via del ritorno in patria. Ma Teseo, che amava già un'altra donna, la abbandonò mentre dormiva sull'isola di Nasso, fatto da cui deriva la locuzione "piantare in asso" qualcuno. Questo paradossalmente fu la fortuna di Arianna, perché qui la vide il dio Dioniso e se ne innamorò. Come dono di nozze le diede una corona di oro e rubini fabbricata da Efesto, corona che fu trasferita in cielo alla morte di Arianna, che era pur sempre una donna mortale. Secondo altri invece fu la stessa Arianna ad essere tramutata in corona e posta in cielo dopo il suo trapasso, tra le costellazioni di Boote, di Ercole e del Serpente.
Questo asterismo è uno dei pochi le cui stelle disegnano effettivamente la figura loro attribuita. Per gli arabi però essa era "Al Fakkan", cioè "la ciotola", mentre gli aborigeni australiani vi vedevano uno dei loro boomerang. Julius Schiller, nel suo "Coelum Stellatum Christianum", associò giustamente a questa corona pagana un'altra corona di ben altra fatta: la Corona di Spine di Gesù Cristo, che secondo la tradizione è conservata a Parigi nella Sainte Chapelle, portatavi da San Luigi IX di Francia.
La Corona è disegnata in cielo da sette stelle, di cui le uniche di una certa luminosità sono α Coronae Borealis, detta anche Gemma, una binaria a eclisse di magnitudine 2,23, e β Coronae Borealis, di magnitudine 3,68, detta anche Nusakan, deformazione dell'arabo "Kas at Masakin" ("la ciotola del poverello"). Gemma, così chiamata perchè idealmente rappresenta il diamante posto al centro del diadema, è nota anche come Alphecca, deformazione del suddetto nome arabo "Al Fakkan" ("la ciotola"). Oggi sappiamo anche che nell'estremità sudoccidentale della costellazione è presente un celebre ammasso galattico, noto come Abell 2065, che conta decine di galassie lontane da noi più di un miliardo di anni luce.
Vi sono probabilmente altri due asterismi di cui Dante parla, attribuendo loro grandissima importanza, all'inizio della sua ascesa al Purgatorio. Ma di essi parleremo nella lezione seguente, dedicata più specificamente a quella che noi chiamiamo Geografia Astronomica.