Salve, mi chiamo Paolo Maltagliati, studio storia medievale all'università di Milano, e sono in particolare appassionato di storia bizantina. Ecco la terza parte della mia ucronia pontica; per leggere la prima parte, cliccate qui; per leggere la seconda parte, cliccate qui; per leggere la terza parte, cliccate qui.
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La guerra di successione italiana
Non passò molto tempo che ulteriori disgrazie si riversarono sui Visconti, questa volta su quelli di Pavia. Renato Maria, secondogenito ed erede al trono d'Italia morì per una caduta da cavallo nel 1737. A questo punto l'unico maschio della casata oltre al vecchio re Francesco Maria è Luchino Maria, che però già regna in Lotaringia, ed in base ad una prammatica sanzione non può portare la corona italiana senza rinunciare a quella di Aquisgrana. Tutti pensano che colui che si era mostrato così tenace nel rivendicare i propri diritti testamentari tempo prima, sia pronto ad infrangere i patti e scendere in Italia. Oppure, al limite, che rinunci alla Lotaringia per l'Italia. Ma si sbagliano. Il re di Lotaringia si pronunciò infatti in favore della sorella, Violante. Francesco decide allora di cambiare la legge dinastica viscontea concedendo la successione anche alle figlie femmine, per garantire a Violante la successione ed evitare a Luchino una nuova guerra. Sul momento sembrano accettare tutti, in particolare Giorgio II di Hannover, figlio di Caterina, sorella di Francesco Maria, che vanta seri diritti di successione.
Tutto cambia quando Francesco finalmente muore, nel 1740. Violante, sposatasi con Massimiliano III Wittelsbach di Baviera, più giovane di lei (classico matrimonio riconciliatorio, dopo che i Bavaresi erano diventati improvvisamente dei vicini pericolosi), si trova a che fare con l'ostilità di Giorgio II, che senza frapporre indugi, decide di allearsi con gli imperali per reclamare il proprio diritto di successione.
Sembra profilarsi un'altra guerra tra il “patto di famiglia” visconteo ed i sassoni, con la curiosità di sapere se i francesi saranno della partita.
Ma, per lo stupore di tutta l'Europa del tempo, Luchino decide di non intervenire, se non come mediatore per un accomodamento. Bollato in Italia come traditore dei parenti, al contrario, nelle Fiandre verrà salutato come un vero lotaringio, che ha più a cuore gli interessi economici e politici della patria rispetto all'onore. La scoperta della sua corrispondenza segreta di recente ha permesso di gettare luce sul fatto che Luchino temesse, entrando in guerra, di inimicarsi molti poteri forti del regno e contemplasse addirittura la possibilità di perdere il trono, nel caso si fosse schierato nuovamente contro la Francia per un'altra guerra.
Infatti molto presto la povera Violante si trova contro, come da pronostico del resto, anche Parigi, pronta ad approfittare dei problemi italiani.
Va detto che gli imperiali si erano schierati in favore della successione hannoveriana più che altro per eliminare definitivamente il pericolo rappresentato dallo stato di suo marito per la loro aspirazione all'egemonia sulla Germania. Infatti, i bavaresi, per ovvi motivi matrimoniali, erano divenuti stretti alleati, (l'unione delle corone di Italia, e Baviera sarebbe durata, secondo un patto stabilito alle nozze,fino alla morte di Massimiliano III. Dopodiché il dominio della Baviera sarebbe passata ai Wittelsbach del ramo palatino).
Anche la Bulgaria di Maurizio di Sassonia, ligio al “patto di famiglia” Wettin, si schierò a favore degli Hannover. Era il peggior incubo possibile: una guerra contro tutti, unita alla necessità di dover difendere i confini dei propri territori balcanici.
Ciò nonostante, la tenacia di Violante fu invidiabile: decise di non cedere di un passo sulle sue prerogative, si guadagnò la non scontata fiducia dello stato maggiore dell'esercito, delle compagnie di San Giorgio e di San Marco e delle grandi famiglie dello stato. Grande sostegno la regina ricevette anche da Tirolo, Carinzia e Carniola, aree tradizionalmente non esattamente filo-viscontee, che Violante, dopo la guerra, decise di ricompensare (con la concessione di alcuni dei privilegi da sempre richiesti da queste regioni) per la loro fedeltà. Inoltre, verso la fine della guerra (e una delle cause della sua conclusione) riuscì a siglare un'intesa difensiva con i russi in senso
anti-imperiale.
La regina Violante d'Italia
Meno bene si comportarono i provenzali, che pur tradizionalmente fortemente antifrancesi, opposero ben poca della loro leggendaria resistenza, permettendo così alle armate francesi di attestarsi sulle Alpi.
Per la guerra sulle Alpi, la regina si avvalse delle straordinarie doti del generale originario del Baden, Carlo Sigismondo Federico Guglielmo Von Leutrum, poi soprannominato dai piemontesi “Baron Litron”. Mise in scacco eserciti molto più grandi rispetto a quelli di cui poteva disporre. Leggendaria è la sua difesa della città di Cuneo di fronte ad un tentativo di assedio da parte dei francesi.
Dopo la rottura dell'assedio gli fu affidata la difesa del ponente ligure. Da Oneglia riuscì ad aprirsi la via per la Provenza, riconquistando Nizza, Aix e
Arles.
Di fede evangelica, alla sua morte decise di farsi seppellire presso la comunità valdese di Val Luserna, lasciando una forte memoria nel cuore del popolo provenzale e piemontese che deciderà di commemorarlo con una commovente ballata. Ecco la strofa finale:
“Barôn Litrôn l'é spirà adess,
tirô 'l fià lôngh tuti ij Fransèis!
Barôn Litrôn a l'é spirà,
le fomne piôrô, piôrô ij sôldà.”
Molto meno bene andarono le cose in Grecia. Il viceré di Costantinopoli si farà sorprendere dalle armati di un vecchio, ma ancora arzillo, Maurizio di Sassonia. Ma non fu solo il suo genio militare ad avere ragione degli eserciti viscontei. Infatti, dove non poté l'arte bellica, poté la corruzione. I Mancafa, i Sinadeni ed i Cantacuzeni (ma, stranamente, non i Paleologi), tutte famiglie ancora vive e vegete ed influenti, si fecero malamente incantare da “suggestioni bizantine” lautamente finanziate dai francesi. Macedonia, Tracia e Tessaglia passarono sotto la bandiera del nemico, che non disdegnava di farsi passare come liberatore dei greci dal giogo italiano. L'unica regione che non si fece per nulla influenzare da tali suggestioni, anzi, sostenne a spada tratta la causa legittimista di Violante fu la Morea, che poi era anche la regione più ricca dei Balcani italiani, Tessalonica e Costantinopoli a parte.
Nel frattempo però, ottime notizie giungevano dal fronte tedesco. L'esercito bavarese, perfetta macchina da guerra attorno a cui gravitava l'intera organizzazione statale, forgiata dal nonno di Massimiliano, pur in condizioni di inferiorità numerica, conseguì brillanti vittorie contro gli imperiali. L'esercito sassone fu colto di sorpresa e nel 1744 le forze di Massimiliano controllavano Vienna e i versanti meridionali dei Sudeti.
All'alba del 1746 era evidente che i francesi, perso l'abbrivio, non sarebbero riusciti ad oltrepassare nuovamente le Alpi, mentre era chiaro che i bavaresi stavano per conquistare Hannover.
Gli imperiali erano sulla difensiva, con un esercito profondamente demoralizzato, ma anche l'efficiente esercito di Monaco era esausto e decimato, anche se manteneva saldamente le posizioni conquistate.
D'altro canto la situazione italiana in Levante era molto grave, appesantita dal fatto che gli spagnoli stavano per decidersi ad entrare nel conflitto a favore dei francesi. Di scarsa o nulla entità il conflitto extrauropeo, ridotto ad azioni navali di matrice piratesca nei caraibi e nel sud-est asiatico.
Stavolta la soluzione creativa venne da parte di Luchino: perché non cedere il vicereame di Costantinopoli agli Hannover? La perdita economica per l'Italia, in realtà non era così rilevante, anzi, il dominio balcanico, in generale, generava più spese che introiti. Certo rimaneva un fattore di orgoglio e di prestigio, ma gli italiani rimanevano in una posizione precaria e, a meno di non volersi esaurire nella speranza che la mobilitazione russa ribaltasse completamente le cose, questo accordo era la via d'uscita migliore.
Nel 1748, a Vienna, venne dunque siglata la pace tra i contendenti. Pace che devolveva il vicereame di Costantinopoli a Giorgio II, eccetto Cipro. Con molta mestizia a Mistra, come Malvasia/Monemvassia, ma anche a Candia, o Corfù si ammaina, a volte anche dopo cinque secoli, la bandiera del Leone, mentre a Tessalonica e Costantinopoli la gente festeggia, pensando che siano tornati i giorni dell'impero bizantino. Anche gli albanesi non sono esattamente felici, ed anzi, organizzano subito dei moti. I primi moti che si possano definire “nazionalistici” della storia d'Europa.
Giorgio II, come azione propagandistica, si fa incoronare secondo il rito greco come Basileus di Romània nella basilica di Santa Sofia. Ma di greco romeo non sa una parola, al contrario di Violante Visconti.
A mo' di compensazione, gli imperiali sono costretti, su insistenza francese, a cedere ai bavaresi l'Austria e la Stira settentrionale. Violante cede inoltre formalmente allo stato del marito anche la Stiria meridionale, per unire la regione sotto un'unica amministrazione.
La perdita di queste regioni, però, irritò i Wettin più di quanto la perdita della Romània irritasse i Visconti. Restava implicito che, con questi presupposti, un'altra guerra sarebbe scoppiata molto presto.
Bandiera del regno di Romània sotto gli Hannover
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La guerra dei sette anni (o guerra d'Austria o guerra franco-indiana)
Guerra dei sette anni è solo uno dei molti nomi con cui venne ricordato questo conflitto, che ridefinì ulteriormente i già precari equilibri in Europa. Gli storici la chiamano anche la “guerra mondiale zero”, perché fu il primo conflitto che venne combattuto a lungo e aspramente dalle grandi potenze anche fuori dal vecchio continente.
All'indomani della guerra di successione italiana erano emersi chiaramente alcuni fattori:
il primo era che tre erano le potenze che in quel momento dettavano la musica, ossia Francia, Impero e Italia. Ad esse si aggregavano di volta in volta forze emergenti come Baviera e Russia, o declinanti, come Spagna e Ungheria. Anche la Lotaringia si poteva forse far rientrare ormai nel novero delle potenze declinanti, almeno dalla guerra atlantica, nonostante celasse bene le proprie difficoltà. Era ancora forte dal punto di vista economico (anche se anche in questo settore stava lentamente perdendo posizioni), ma a livello militare e diplomatico, era estremamente vulnerabile. I pur lodevoli e tenaci sforzi riformistici di Luchino incontravano tensioni e resistenze da parte del gruppo senatoriale, un'oligarchia chiusa che teneva le chiavi del potere, a dispetto dell'assolutismo monarchico di facciata. Anche Inghilterra, Danimarca e provincie unite di Guascogna, nel complesso potenze medio-grandi, faticavano a tenere il passo veloce di russi e bavaresi, nonostante godessero di salute decisamente migliore rispetto alle già citate Spagna e Ungheria. Nel novero degli stati in declino era da ascriversi anche l'impero persiano. Appena mezzo secolo prima era ancora in grado di costituire un pericolo mortale. Ora, complici anche i continui conflitti di confine con i russi, iniziava ad emergere la sua grande debolezza. Per quanto riguarda i due stati “nuovi”, era ancora presto per pronunciarsi. I bulgari disponevano di un esercito forte ed efficiente, ma pagato con denaro francese; a livello burocratico ed economico Maurizio si era avvalso largamente di personale straniero, mentre l'economia del paese era perlopiù nelle mani dei piccolo-pontici. Dato che anche Maurizio si era accorto che il centro di gravità del suo regno era sulla costa del mar Nero, si fece costruire un sontuoso palazzo a Mesembria e risiedeva più spesso lì che a Tarnovo, la capitale. Del resto, anche la stessa Tarnovo era una città “rinata” in maniera artificiale e anche per questo lì i bulgari non arrivavano nemmeno al 50% della popolazione. La restante metà era composta da greci pontici, greci romei, tatari, valacchi, ungheresi, tedeschi e una vivace comunità ebraica.
Per quanto riguarda la Romània hannoveriana, anche in questo caso era troppo presto per trarre conclusioni. Certo godeva di un sistema burocratico relativamente efficiente, ereditato dagli italiani, e alcune aree erano economicamente floride. Ma vi erano anche regioni depresse, in generale nel nord del paese. A livello diplomatico, gli Hannover capirono relativamente presto, poi, che non avrebbero potuto fare a meno, per governare, della folta comunità italo-greca che era legata politicamente alla “vecchia gestione”. La stessa cosa si riproponeva, forse in modo ancor più marcato, in ambito economico. Per questo Giorgio II capì che non sarebbe stato il caso di mantenere freddi i rapporti con Pavia.
Altro fattore rilevante, era che l'isolamento diplomatico si pagava a carissimo prezzo. Lo dimostravano chiaramente gli italiani. Ma nemmeno i francesi, che disponevano della macchina bellica più forte, potevano permetterselo. Violante aveva ormai chiaro che il “patto di famiglia” non funzionava più. E, anche se avesse funzionato, la Lotaringia non sembrava più una alleato sufficiente.
Doveva perciò a tutti i costi rivedere la mappa delle alleanze dell'Italia. L'alleanza bavarese era, almeno per ora, data per scontata. E non era cosa da poco, visto che la Baviera era divenuta lo stato più forte dell'impero germanico, imperatore escluso. Poi c'erano gli Hannover, con cui valutò che non fosse necessario tenere un contegno ostile. Bastava che capissero che l'Italia aveva ancora parecchia voce in capitolo nel controllo della Romània ed il gioco era fatto.
Il gioco diveniva più complesso gettando uno sguardo agli altri contendenti nell'arena, in particolare francesi e imperiali. Valutando con attenzione e senza ipocrisie i rapporti tra gli stati, specie quelli di natura economica, che di solito erano quelli meno esposti alla luce del sole, ma che forse erano quelli più importanti, Violante osò gettare sconcerto tra i suoi consiglieri e ministri.
L'influenza lotaringia sui principati tedeschi si era ridotta al lumicino. I sassoni sarebbero rimasti padroni incontrastati della Germania, se non fosse stato per l'ascesa della Baviera, l'unico serio ostacolo alla loro influenza fino al Reno. Per questo l'impero desiderava chiudere i conti al più presto con Monaco. L'unica cosa che lo tratteneva era il timore dei russi e la debolezza ungherese, timore tanto forte da aver contribuito alla stipula della pace di Aquisgrana.
Ma l'informale alleanza russo-italiana era legata all'atteggiamento dell'imperatore. Per l'immediato futuro doveva trasformarsi in qualcosa di più solido e vincolante.
Il vero pericolo alla stabilità europea sarebbero diventate le aspirazioni di rivalsa contro la Baviera da parte degli imperatori, e il timore di questi ultimi che l'unione Baviera-Italia diventasse definitiva.
Per creare una solida gabbia alle ambizioni continentali dell'impero e isolarlo dal punto di vista diplomatico, però, mancava un ultimo elemento: il rovesciamento completo del rapporto con la Francia. Dopotutto, a parte ragioni storiche, non c'erano più vitali interessi che dividessero così radicalmente i due stati separati dall'arco alpino. Si poteva addirittura dire che le reti commerciali dei due stati erano quasi complementari, così come gli interessi coloniali.
La perspicacia politica della regina non fu colta immediatamente. Ovviamente l'idea di rivoltare completamente il sistema tradizionale di alleanze non poteva essere accolto con facilità. Soprattutto, quello che riusciva difficile era arrendersi all'idea che non era più un interesse vitale per l'Italia mantenere un'alleanza di ferro con la Lotaringia.
Gli avvenimenti, tuttavia, le davano ragione. Luchino fu il primo, infatti, a sovvertire gli equilibri, alleandosi, ufficialmente in senso anti-danese, con l'imperatore nel 1755.
Quest'asse Lotaringia-impero non faceva certo felici i francesi. I rapporti con i sassoni non erano buoni da tempo, ma certo non prevedevano di essere proprio loro quelli che rischiavano l'isolamento diplomatico.
Poco tempo dopo giunse a Parigi la notizia di un'alleanza difensiva tra Russia e Italia, che diventava triplice se si contava anche la Baviera.
Il balletto diplomatico in seguito architettato con maestria dalla regina viscontea per indurre a miti consigli i francesi fu un successo. Nel 1756 i francesi acconsentivano all'idea proposta a Carlo XV di Francia dal marchese di Soncino, Massimiliano Giovanni Stampa.
A questo punto gli imperiali, in parte pronti per una guerra imminente, in parte spaventati dallo schieramento avversario, attrassero nel loro campo anche gli inglesi, che, desiderosi da moltissimo tempo della rivincita sui francesi e sentitisi traditi dagli italiani, non si fecero pregare. Anche gli ungheresi, pur non avendo un esercito adeguato alle proprie pretese, si fecero irretire da allettanti prospettive. Invece i bulgari, pur continuando ad essere sovvenzionati da francesi e imperiali, rimasero neutrali. Maurizio il bellicoso era morto nel 1750 e gli era succeduto sul trono il ben più mite figlio Simeone (evidentemente chiamato così dal padre in ossequio alla tradizione bulgara), che più che altro si impegnò per costruire un grandioso mausoleo per il genitore.
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Monumento funebre di re Maurizio, Cattedrale di san Biagio, Mesembria
A questo punto la regina italiana era sicura che l'impero non avrebbe osato fare la prima mossa in un conflitto che lo avrebbe visto molto probabilmente perdente. Ma alla coalizione filo-imperiale si aggiunsero anche danesi e svedesi, per una volta uniti nella speranza di vedere i russi estromessi dalle coste baltiche.
A questo punto, l'imperatore Federico Augusto II, imbaldanzito e convinto che gli alleati nordici avrebbero distolto l'esercito russo da un assalto in forze contro la Polonia, si scontrò con il principale alleato, Luchino di Lotaringia. Quest'ultimo non desiderava impegnarsi seriamente in un conflitto contro la sorella. Il senato lotaringio, dal canto suo, voleva evitare a tutti i costi un conflitto con i francesi. Non avevano infatti minimamente considerato la possibilità che francesi e italiani si alleassero, visto che erano sempre trovati in opposti schieramenti.
Per salvare capra e cavoli, ossia mantenere sia la neutralità, sia l'alleanza con l'impero, il sovrano di Lotaringia giocò sulla lettera del trattato. Il patto era infatti visto in chiave difensiva e non era vincolante se fosse stato l'imperatore a muovere il primo passo.
Federico Augusto II, pur adirato, evidentemente non lo diede a vedere, e, imperterrito, proseguiva i suoi preparativi. Anche lui confidava nel fatto che i francesi non si sarebbero impegnati a fondo.
Aveva investito troppo sui suoi piani per poterli abbandonare all'ultimo momento.
Nel 1757 dichiarò quindi guerra contro i bavaresi. Ma anche Massimiliano aveva predisposto le sue forze. Inizialmente la sorte arrise agli imperiali, che evidentemente qualcosa avevano appreso, a livello di tattiche militari, dai loro vicini bavaresi. Anzi, sembrò che l'alleanza imperiale fosse in grande vantaggio, vantaggio tale da costringere contingenti francesi a giungere a rinforzo delle armate italo-bavaresi in Austria e in Carniola.
A questo punto, il senato di Aquisgrana premette su re Luchino per approfittare della situazione favorevole per entrare in guerra a fianco dell'alleanza imperiale. Il sovrano avrebbe voluto mantenere la neutralità fino alla fine del conflitto, ma, alla fine, fu indotto a cedere di fronte alle lusinghe di una facile vittoria. In particolare, i patrizi speravano che l'impegno in Europa permettesse loro di “mangiare” ampie parti dei possedimenti coloniali francesi. Non sapevano quanto si sbagliavano.
In effetti, l'impegno in Austria aveva ridotto le forze a disposizione di Parigi sul confine settentrionale, ma molto meno di quanto i lotaringi sperassero. Dopo alcune poco risolutive scaramucce concluse a loro sfavore, i francesi recuperarono con gli interessi sconfiggendo i lotaringi i n Piccardia ed in Lorena. Ma, per una volta, la partita vera tra i due stati non si giocava sul continente europeo, ma su quello americano e nell'oceano. I fiamminghi, infatti, grazie all'alleanza con gli indiani (in particolare i Cherokee e i Lenape), invasero da sud la nuova Francia, impegnata anche con incursioni fastidiose da parte degli irochesi alleati degli inglesi a nord. La prima sorpresa fu per loro un'inaspettata resistenza da parte delle milizie coloniali, che, in attesa dei rinforzi dalla madrepatria, si erano organizzati per difendersi autonomamente, riscuotendo, in alcuni casi, dei successi contro i meglio organizzati “yankee” (come erano chiamati dai francesi i neofiamminghi).
La Francia era tradizionalmente indecisa: da una parta ambiva ad un'egemonia continentale, dall'altra sognava di essere una grande potenza coloniale. Nonostante il costante impegno verso il primo obiettivo, ormai però, gli interessi economici della grande borghesia erano tutti proiettati sull'Atlantico. Secondo buona parte di questo ceto borghese, gli sforzi profusi negli anni precedenti sul suolo europeo erano stati del tutto sproporzionati rispetto ai vantaggi ottenuti. Quei soldi potevano essere profusi molto più proficuamente per implementare la colonizzazione della nuova Francia. Che già andava avanti a grandi passi. Alla vigilia della guerra le colonie parigine sulla costa occidentale dell'Atlantico raggiungevano i due milioni di persone. Anche i gruppi di dissidenza rispetto all'ortodossia religiosa erano stati spinti, anzi incoraggiati a salpare per il nuovo mondo, dove avevano la garanzia di non subire persecuzioni. In particolare al nord, presso gli insediamenti di La Trinité e Trois Montagnes, i cattolici normanni e bretoni erano particolarmente diffusi (HL: Massachussets e New Hampshire).
Nel 1758 emerse come primo ministro un tenace fautore di questo progetto “imperial-coloniale”, sostenitore dell'idea che il cuore della Francia stesse nel suo oltremare: Joseph François Dupleix, già governatore generale della colonia di Nuova Orleans.
Il nuovo primo ministro, ribaltò la concezione strategica, per lui tradizionale e antiquata, dei generali al servizio del sovrano e impose una politica militare volta allo “stallo” in Europa e all'invio di forti contingenti di truppe per ribaltare la situazione in America. Anzi, se possibile, schiacciare i neofiamminghi.
Ben presto i neofiamminghi furono scacciati oltre il Santee. Ma l'avanzata francese non si arrestò, anzi, continuò fino alla conquista di Nuova Anversa.
Anche nelle battaglie navali, tradizionalmente un punto forte lotaringio, i francesi ottennero risultati rilevanti. I Francesi costrinsero alla resa Skt. Georgburg, il principale forte delle isole omonime. I capitani del forte di Cozumel e il governatore dell'isola dei pini si dimostrarono però ossi troppo duri da rodere. Parziale consolazione venne dai lotaringi anche dai neo-olandesi del Paranà, che, nonostante l'offensiva italo-francese dalla Grimaldea, non solo difesero efficacemente il proprio territorio, ma entrarono anche in Mesopotamia.
Gli inglesi, nonostante partissero da posizioni molto più sfavorevoli per quanto riguarda le forze in campo, grazie all'alleanza con gli irochesi e grazie al carisma dei propri generali coloniali (come Robert Clive, solo per fare un esempio) fecero vedere i sorci verdi ai francesi in più di un'occasione. Alla fine, però la disparità era troppo evidente per non manifestarsi. Quando venne presa Kinghill, la resistenza inglese poteva dirsi conclusa.
Nel frattempo, in Europa la coalizione imperiale scricchiolava pericolosamente. I lotaringi chiesero la pace separata ai francesi già nel 1760, per timore di non perdere, oltre alle colonie, anche ampie parti del territorio metropolitano.
L'impero, invece, non demordeva. Aveva resistito bene all'impatto con i russi, in Polonia messi in difficoltà dagli svedesi più di quanto non avessero in un primo momento preventivato. A ovest però, i risultati non erano così brillanti: oltre a non essere riusciti a mettere un piede stabile in Austria, combattevano perlopiù in Boemia. Era forse una fortuna che gli Ungheresi, alla fine, avessero deciso di rimanere neutrali.
Era chiaro però che le forze di tutti i contendenti erano prossime all'esaurimento.
A Lubiana nel 1763, venne infine siglata la pace. A parte qualche piccola correzione, si tornava, in Europa, allo Statu Quo Ante. Era chiaro che ormai non era più così semplice modificare una situazione che tendeva alla cristallizzazione. In America, però, la musica era diversa. Inglesi e Lotaringi avevano dovuto digerire un boccone amarissimo: la perdita della quasi totalità dei loro territori ultramarini.
Ed era andata ancora bene. Grazie all'occupazione da parte dei neo-olandesi della Mesopotamia, in cambio della sua restituzione alla Francia avevano potuto mantenere le isole di San Giorgio e la penisola di Nuova Zelanda. Gli inglesi invece mantenevano solo in nuovo Galles del sud, mentre a nord perdevano tutto.
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Le guerre russo-persiane
Seguendo un ritmo del tutto indipendente rispetto ai grandi rivolgimenti europei i russo-lituani e i persiani si scontravano regolarmente.
Ad ogni armistizio i russo-lituani rosicchiavano qualche pezzetto del dominio persiano, sia dal lato caucasico, sia dal lato della Vareghia.
In effetti, poco dopo la guerra dei sette anni, da cui la Russia-Lituania aveva raccolto perlopiù delusioni, non commisurate certo ai propri appetiti.
I pontici della Perateia ormai avevano però capito che la conquista della costa settentrionale del mar Nero da parte di Mosca fosse ormai solo questione di tempo. Le grandi famiglie borghesi e nobili della regione si erano perciò progressivamente spostate su posizioni decisamente filo-russe. Legami matrimoniali con esponenti del ceto analogo dall'altra parte del confine descrivevano una società ormai “pronta a cambiare padrone”.
I persiani sembrava non riuscissero a fare niente per impedirlo. Facile immaginare che, nonostante una lodevole resistenza da parte delle guarnigioni di confine, i persiani non potessero intraprendere molto altro. Era necessario uno svecchiamento della burocrazia, dell'economia e dell'esercito, ma sembrava che gli sforzi in queste direzioni da parte di alcuni governatori di provincia venissero quasi sempre vanificati dalla confusione imperante a livello del governo centrale e che, comunque, non riuscissero a tenere il passo con l'incombente potenza del nemico.
Nel 1768 i russo-lituani decisero di intraprendere una massiccia campagna. La guerra, contrariamente alle aspettative, non fu né rapida, né semplice. Molti reparti persiani erano ancora in grado di battersi discretamente. Tuttavia, alla lunga, gli aggressori ebbero comunque la meglio e la ritirata si trasformò in rotta e terminò in un disastro completo.
Più a est rispetto alla Vareghia, l'avanzata russa, accompagnata dai tatari di Kazan, fu accompagnata dalle sollevazioni anti-turche di Calmucchi e Alani, ansiosi di liberarsi dal giogo persiano. Anche a ovest
La guerra terminò nel 1774 con uno dei più umilianti trattati subiti dai persiani, siglato a Costantinopoli.
Il trattato sanciva che:
1)Jedisan e Perateia passassero sotto il controllo della res publica di Russia-Lituania
2)La regione del delta della Volga passasse al khanato di Kazan
3)Libertà completa di navigazione oltre i Dardanelli di qualsiasi naviglio della res publica
4)L'orda calmucca ed il regno di Alania acquistassero l'indipendenza sotto la protezione della res publica
5)la res publica si assumeva il diritto di difendere la libertà religiosa di tutti i popoli cristiani di rito ortodosso dell'impero persiano, in accordo con i sovrani di Romània e Bulgaria.
I pontici di Perateia, ma anche del Ponto proprio, festeggiarono, ritenendo ormai finiti i giorni bui dell'oppressione. Tuttavia a Panagiopoli rimasero delusi quando la nazione vincitrice dimostrò di non avere alcuna intenzione di elevare i pontici a “terza nazione” della res publica, assieme a russi e slavi. Venne, magra consolazione, varato un governo autonomo che era alle sole dipendenze del sovrano, con un governatore che risiedeva a Kiev e un suo luogotenente a Panagiopoli.
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I coloni si ribellano
La vittoria contro gli yankee aveva galvanizzato i coloni. Avevano dimostrato una grande capacità di autodifesa ed avevano sostenuto validamente l'esercito regolare. Durante la guerra si era distinto in modo particolare il comandante Montcalm, che aveva tenacemente combattuto con la sua “armée continentale” contro i Cherokee.
Il governo della madrepatria, però, aveva le idee molto poco chiare su come governare tutto il territorio conquistato. Innanzitutto avevano garantito il diritto alla proprietà ed alla libertà religiosa a tutti i neofiamminghi. Inoltre, aveva stipulato una pace con irochesi e cherokee che lasciava ai nativi ampie parti di territorio su cui speravano di mettere le mani i coloni francesi. Avevano pagato il prezzo delle guerre della madrepatria e per cosa? Per vedersi defraudato il diritto di mettere le mani su ciò per cui avevano lottato?
Oltre a questo, c'era anche il problema dei costi. Le spese per il mantenimento di un esercito così vasto dovevano essere ammortizzate. I buchi di bilancio per le spese militari di Parigi erano enormi. Logico che il governo della corona pensasse di aumentare la tassazione, non tanto diretta, quanto indiretta, sulle proprie colonie. Tuttavia, si arrivava alla quasi paradossale situazione che gli inglesi e i neofiamminghi finiti sotto il dominio francese godevano di un regime di fiscalità più favorevole che non i coloni francesi stessi.
In più, la tassazione indiretta rispondeva anche al principio del controllo sull'economia coloniale da parte della madrepatria: la nuova Francia avrebbe dovuto limitare la propria espansione manifatturiera, poiché essa avrebbe danneggiato i profitti degli opifici in patria. Inoltre, l'abbassamento della tensione con l'Italia aveva progressivamente limitato i margini, molto proficui, del contrabbando di merci asiatiche sul suolo nordamericano.
La situazione complessiva non fu affatto ben vista dai coloni, che videro queste misure come assurde e repressive. Quanto nel 1773 cominciarono ad essere tassate pesantemente le balle di the indiano, altra, ennesima, tassa indiretta, l'ira della folla esplose. A La Trinité la folla inferocita invase il porto e scaricò le balle di the dalle navi della “regia compagnia del commercio”, che aveva il monopolio del commercio con l'oltremare francofono. La rivolta fu infine repressa, ma il governatore di Trois Montagnes, per calmare le acque, stabilì la convocazione degli stati generali della sua colonia. Presto, l'idea, o, ormai, la minacciosa richiesta, di convocare gli stati generali, si estese anche agli altri governatorati. Il Governatore generale, a Nouvelle Orleans, non poté far altro che prendere atto della situazione, e stabilì che gli stati generali locali avrebbero mandato dei loro rappresentanti a Nouvelle Orleans, per discutere la grave situazione.
I tre stati, nobiltà togata, nobiltà di spada e popolo (intendendo come popolo, ovviamente, la media borghesia), che per primi si riunirono a Trois Montagnes, imposero il passo e diventarono un modello per le altre assemblee. L'elezione dei rappresentanti del popolo fu il primo esperimento di democrazia diretta dopo molti secoli, sebbene si trattasse comunque di un suffragio censitario ristretto. Ad ogni modo, i rappresentanti eletti raccolsero la voce dei propri “elettori” in particolari documenti, i cosiddetti “quaderni delle lamentele”, che divennero una sorta di agenda dei punti da modificare nel rapporto con la madrepatria. Ovviamente il metodo fu imitato. I quaderni man mano confluirono a Nouvelle Orleans. Ma deputati e quaderni non furono i soli che nel '73 arrivarono nella città. Il governatore aveva radunato aveva piazzato i suoi uomini a presidiare la città; inoltre aveva lanciato un grido d'allarme e preoccupazione a Parigi, che non era disposta troppo facilmente a permettere queste “riunioni sediziose” (anche perché, se è vero che gli stati generali erano oramai un organo permanente da dopo la rivoluzione borbonica, era meglio che non prendessero l'idea dei quaderni di doglianza anche in territorio metropolitano. Al contrario della Lotaringia, vi era un re “parlamentare” in teoria, ma assoluto di fatto).
Un quaderno di doglianza
Ma anche i “sediziosi” avevano fatto i loro piani. In effetti si può dire che l'atteggiamento apparentemente conciliante del governatore non aveva convinto fino in fondo. Il più abile oratore dei rappresentanti della nobiltà di spada, di Trois Montagnes, Carlo Maurizio di Talleyrand (ha preferito una carriera laica in questa TL...), era velocemente diventato il referente principale delle rimostranze coloniali al governo della madrepatria. Era diventato presto amico del vecchio Montcalm, considerato alla stregua di un eroe di guerra. Per tutti era “il capitano” ed era un personaggio molto influente nel nuovo mondo che parlava francese. Questi aveva organizzato una compagnia di miliziani, nel sud della Nuova Francia. Queste “Associazioni per la difesa” stavano però prendendo piede in tutto il paese, in barba all'incapacità dei governatori regi di fronteggiare la situazione.
La situazione era destinata a precipitare rapidamente, comunque.
Talleyrand era andato a chiedere udienza al re, a Parigi. Chiedeva una risposta alle loro doglianze e la possibilità di un autogoverno, oppure la possibilità dell'aggiunta di rappresentanti coloniali nel parlamento e negli stati generali in madrepatria. Aveva però ricevuto una ben scarsa considerazione. Persino il suo appello agli stati generali non aveva sortito l'effetto sperato.
Al di là della scarsa voglia di impelagarsi in un conflitto di potere con il sovrano, i rappresentanti degli stati a Parigi erano convintissimi che le colonie americane dovessero essere frutto di introiti per loro che ci commerciavano, più che per la gente che vi viveva.
I francesi inviarono presto nei principali porti del paese dei contingenti armati, con il compito di presidiare le città più “calde”.
Era logico che non ci volle molto tempo prima che alcune bande di miliziani provassero ad attaccarli. Trois Montagnes e Nouvelle Orleans furono le prime vittime di questo stato di cose (ed i rispettivi governatori). Montcalm con i suoi attaccò assieme a moltissimi volontari i contingenti francesi, in nome “degli stati generali della nostra patria americana”.
Era così cominciata la guerra di secessione americana.
La maggior parte degli storici sono concordi nell'affermare che la mancanza di elasticità, sia in materia di accordi con il coloni, sia in materia tattico-strategica sul campo di battaglia, furono le cause dalla sconfitta dell'esercito francese, ovviamente molto più preparato ad affrontare il campo di battaglia rispetto alle milizie volontarie.
Inoltre va detto che molto probabilmente i coloni sarebbero stati destinati a perdere se non ci fosse stato il provvidenziale aiuto, sia come addestramento, sia come corpi di spedizione, da parte di lotaringi ed inglesi, desiderosi di fare un dispetto al grande vincitore della guerra dei sette anni.
Ad ogni modo la guerra appena all'inizio.
Inizialmente i francesi si preoccuparono poco dei ribelli, considerandoli quattro straccioni incapaci di sostenere una battaglia.
Le prime vittorie sembrarono loro dar ragione (battaglie di Loiville e di L'Entente. HL: Lexington e Concord).
Dovettero però ricredersi con la battaglia di Coteau-L'Abri (HL: Bunker Hill), nel 1775, nei pressi di Trois Montagnes, in cui il comandante francese De Rochambeau, per spezzare l'assedio dei coloni alla città decise di andar loro incontro per spazzarli via con un'azione diretta e annegarli tutti nel fiume Mystique.
La vittoria anche stavolta fu dei francesi, tuttavia i continentali inflissero pesanti perdite al nemico e poterono ritirarsi dalle loro posizioni in relativo buon ordine. Avevano resistito ad un esercito meglio equipaggiato ed addestrato e ciò non era cosa da poco.
Man mano Montcalm stava plasmando i miliziani in veri soldati, anche se mancava ancora un ultimo dettaglio per affrontare i francesi in campo aperto, i cannoni. Nel frattempo, De Rochambeau, preoccupato dal fatto che i suoi non erano abituati ad affrontare dei guerriglieri che colpivano per poi nascondersi, ritenne prudente non disperdere le forze per inseguirli nelle campagne e tenere invece il saldo controllo della città di Trois Montagnes. La sua condotta, tuttavia, venne considerata troppo prudente: a Parigi erano ansiosi di liquidare i ribelli, ed allo stesso tempo non volevano che il conflitto si protraesse per troppo tempo, dato che comunque non si volevano creare contrasti insanabili con un territorio in tutto e per tutto “francese”. Venne perciò sostituito al comando da Louis de Saint Germain.
Nel biennio successivo avvennero diversi avvenimenti importanti per il destino del conflitto.
Nel 1776, nascevano gli Stati Uniti d'America (EUA, Etas Unis d'Amerique)
con la stesura, a Beaubourg, da parte dei rappresentanti degli “stati generali continentali” della dichiarazione d'indipendenza.
Talleyrand, in missione in Europa, convinse il ministro inglese, Lord North di addestrare l'esercito continentale. Nel frattempo anche lotaringi, spagnoli e sottobanco anche guasconi, italiani, scozzesi e danesi si impegnarono per sostenere la causa indipendentista americana. Cominciarono ad affluire migliaia di “volontari” da diversi stati europei, tra cui si distinse il polacco Tadesusz Kosciuszko.
Gli italiani promossero la lega dei neutri, che si proponeva di limitare il blocco navale francese sui porti americani “ribelli”; tutte le navi straniere venivano infatti dirottate coercitivamente in porti sotto il controllo britannico.
I francesi iniziarono a costruire un corpo di spedizione per invadere la Lotaringia. Tuttavia, sempre gli italiani consigliarono caldamente a Parigi di evitare la mossa, dato che ne sarebbe nata una coalizione di tutta l'Europa contro la Francia.
Ad ogni modo, la guerra non sembrava andare così male per quest'ultima, con la conquista ai ribelli di Nouvelle Orleans, anche se Trois Montagnes era finita in mano americana.
Il rapporto di forze, però, iniziava lentamente a cambiare.
Montcalm, anche se era sicuro del fatto suo ed aveva contribuito a salvare gran parte dei suoi uomini e dei suoi mezzi nonostante le sconfitte, era pesantemente criticato dagli stati generali. In più era giunta notizia che un nuovo contingente era sbarcato a rinforzo delle posizioni francesi intorno a Nouvelle Orleans.
Si trattava di soldati irlandesi del Desmond, che, in quanto a ferocia negli assalti ed elasticità nelle tecniche di combattimento, erano superiori agli stessi francesi, come avevano già avuto occasione di dimostrare in talune circostanze.
Una vittoria contro di loro avrebbe garantito un netto innalzamento del morale delle truppe e, allo stesso tempo, i dubbi sulla sua condotta strategica sarebbero venuti meno.
Contando sulle usanze di festeggiamento poco morigerate degli irlandesi, decise di attaccare le loro posizioni all'alba del 26 dicembre. Nei pressi del borgo di Trente (HL: Trenton), gli irlandesi vennero colti completamente di sorpresa ed ancora avvolti nel sonno, subendo gravi perdite.
Avvertito del grave rovescio, il generale Grasse si diresse verso nord per porvi subito rimedio. Ma Montcalm riuscì ad ingannarlo ed aggirare le sue posizioni, per porsi al sicuro dal suo attacco nella cittadina di Moreau (HL: Morris Town), dopo aver messo in fuga tre reggimenti di fanteria francese giunti a rinforzo nei pressi di Dauphineaux (HL:Princeton).
La fortuna però non arrise fino in fondo a Montcalm, che vide vanificati i propri risultati dal successo di Grasse poco dopo. Raggiunto dai rinforzi il generale francese conquistò Beaubourg, la sede degli stati generali (che comunque si erano poco prima rifugiati nella più sicura Valois), e riuscì a sconfiggere il generale americano accorso in difesa della città.
A salvare la situazione ci pensò, poco più a nord, il giovanissimo Lafayette, sostenuto dal battaglione inglese di Cornwallis, che sconfisse duramente De Rochambeau mentre tentava di scendere verso sud lungo il fiume Champlain (HL: Hudson), a Saratogue (HL: Saratoga).
La notizia della sconfitta di Saratogue indusse gli alleati europei dei ribelli ad aumentare il proprio contributo in uomini e mezzi (soprattutto gli inglesi). I Lotaringi inoltre iniziarono la loro “guerra sul mare”, con la loro pur sempre molto temibile flotta, che in più, dopo gli inaspettati rovesci di qualche anno prima era stata riorganizzata e ammodernata.
Nonostante ciò, anche gli americani avevano i loro problemi. Il vecchio Montcalm era messo apertamente in discussione anche da molti suoi generali. L'unico che gli era ancora incondizionatamente fedele era il giovane vincitore di Saratogue, Lafayette.
Nel frattempo, anche se con unità ridotte, si era combattuto e si combatteva anche nel sud neofiammingo e nel nord inglese. La causa indipendentista aveva diviso gli animi. Molti erano convinti che la struttura confederale e repubblicana che si stava delineando avrebbe garantito decisi margini di autonomia ai coloni non francofoni. Pur tuttavia, vi era anche chi era apertamente scettico. I franco-americani erano stati i principali nemici durante la guerra dei sette anni, e prima ancora erano sempre stati divisi da anni di dispute territoriali. Anche i nativi si trovavano a propendere per combattere contro gli americani. Il governo francese sembrava la principale garanzia che le loro terre non venissero violate dai coloni, sempre molto maldisposti nei loro confronti. Ad ogni modo, la mobilitazione delle rispettive “ex-madrepatrie” indusse molti a rompere gli indugi e mobilitarsi a favore degli indipendentisti. Al contrario, i Cherokee dichiararono la loro neutralità nel conflitto. Si fecero garanti della loro posizione il governatore francese di Nuova Anversa e il comandante in capo delle “milizie di nuova Fiandra”, che avevano a Mariadorp il loro quartier generale.
Gli irochesi, al contrario si divisero. Alcune tribù parteggiarono per i coloni (in realtà, più che altro, per i loro amici inglesi), altre per i francesi. Quando, con il loro aiuto, il comandante Benjamin Franklin riuscì a sconfiggere la guarnigione francese di Kinghill, nell'estate del '79, Parigi si rese conto di quanto poco aveva valutato il teatro Canadese. Il rischio che gli inglesi del Canada si congiungessero alle forze di Lafayette e li tagliassero fuori, era più che reale.
A sud, però, la situazione era ancora molto favorevole ai francesi, che, sbarcati con un nuovo, fortissimo contingente al comando del generale Barras lentamente avanzavano da sud. Ma Grasse commise l'errore di richiedere a Barras rinforzi per spazzare via Franklin prima e poi La Fayette. Montcalm, invece, si era recato a sud con Cornwallis per frenare l'avanzata di Barras. Quest'ultimo si era fermato a Basville attendendo rinforzi e fortificando la posizione, visto che senza gli uomini che aveva mandato a sostegno di Grasse, riteneva di non poter avanzare ulteriormente.
Fu a questo punto che Montcalm, (siamo nel 1781) grazie ai rinforzi di Montmorency, comandante dei “volontari di Lorena”, marciò a tappe forzate nel sud e attaccò i francesi a Basville (HL: Yorktown), ottenendo finalmente una sonante e decisiva vittoria.
Il sud si apriva improvvisamente alla riconquista americana.
Alla notizia di questa ulteriore e pesante sconfitta, il fronte interno di Parigi crollò. Tatticamente gli eserciti sul campo erano ancora in grado di ribaltare a proprio favore la situazione, ma l'alta borghesia che da sempre era la più fervente sostenitrice della corona non voleva più saperne di continuare a perdere profitti con una guerra che sembrava impossibile da vincere. E poi, anche se si fosse vinto, ormai la situazione si era trascinata a tal punto che le spese per la gestione del territorio e l'eventuale soppressione di ribellioni continue, ormai molti ne erano certi, sarebbero state di sicuro talmente alte da rendere la colonia “non più redditizia”.
Gli stati generali ed il parlamento di Parigi tolsero alla fine l'appoggio al sovrano e invocarono a gran voce la pace con i ribelli.
Nonostante i francesi avessero vinto diverse battaglie, mancò loro il colpo decisivo, anche perché le tecniche di guerriglia degli americani mal si adeguavano alla concezione della guerra dei comandanti dei vari corpi di spedizione.
Alla fine, nel 1783, a Londra venne stipulato il trattato di pace:
Il trattato sanciva l'indipendenza del continente nordamericano, con qualche piccola modifica territoriale. Ai lotaringi veniva “restituito” un pezzo del loro territorio, con il nome di nuova Zelanda occidentale (la nostra west Florida, anche se leggermente più larga e lunga, fino alla nostra Mobile) e le isole dei Pini e di Cozumel.
Gli inglesi si vedevano restituita la colonia del Canada a nord dei grandi laghi (corrispondente ai confini del nostro Quebec, meno il banco meridionale del San Lorenzo).
I francesi, invece, erano rimasti in possesso della sola penisola di Nuova Bretagna e delle isole adiacenti (HL: Nuova Scozia, isola di principe Edoardo e Anticosti), e dell'Acadia
Il processo di completamento della formazione del nuovo stato sarà la nascita di una costituzione per la neonata repubblica, nel 1787, di stampo federalista (formata dai 20 cantoni di Notre Dame, Carolina, La Trinité, isola di Champlain, Piccola Rochelle, Nuovo Poitou, Massachussets, Nuova Orleans, Piccola Normandia, Contea Ugonotta, Lenape, Valois, Piemonte, Borbonia, Nuova Frisia del nord, Nuova Frisia del sud, Orange, Contea Angioina, Nuovo Brabante, Nuova Fiandra) e da una nuova capitale, fuori dalla giurisdizione cantonale, chiamata significativamente con il nome di Montcalm (che peraltro sarà anche il primo presidente degli EUA).
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Prima bandiera degli EUA
Le spartizioni dell'Ungheria
Nel 1774 ci furono nuovi cambiamenti nella cartina dell'Europa. Ancora una volta, al centro dell'attenzione stava il regno d'Ungheria. La decadenza della corona era divenuta inarrestabile: l'assemblea dei baroni, la felsőház, faceva il bello ed il cattivo tempo, rispetto al sovrano. Ma anche i baroni stessi, divisi tra litigiose fazioni gelose delle proprie prerogative erano di fatto bloccati in una serie di veti incrociati che paralizzavano la vita politica del paese.
Durante la guerra dei sette anni l'Ungheria aveva inoltre concesso all'esercito austriaco di stabilire delle basi da cui poter minacciare il confine con la Russia-Lituania, nonostante Buda fosse ufficialmente neutrale. I russi decisero per ritorsione di minare l'economia ungherese immettendo nel paese di contrabbando una grande quantità di fiorini falsi.
La situazione del paese dopo la guerra era quantomai confusa. Vi furono tentativi di riforme per svecchiare il sistema (in particolare con l'abolizione del liberum veto). Ma i sovrani dei paesi confinanti fecero cattiva accoglienza a questi tentativi di riforma, che avrebbero limitato le loro possibilità di ingerirsi nella politica magiara. Inoltre l'esercito imperiale tardava a ritirarsi.
Alcuni nobili, perlopiù transilvani, si riunirono (la cosiddetta confederazione di Nagyszeben) per opporre una rivolta armata contro “l'invasore straniero”.
Questo, e la paura che scoppiasse una nuova guerra per l'Ungheria, cosa giudicata ugualmente deleteria da italiani, imperiali e russi, portò nel 1772 ad un patto tra queste tre potenze per spartirsi parte del regno magiaro in aree di influenza. In Ungheria tale patto fu detto “alleanza della chimera” (per il serpe italiano, l'aquila imperiale ed il leone lituano).
La resistenza della confederazione durò per due anni. Ma le speranze che la Francia si opponesse al progetto, inducendo gli italiani a recedere dall'alleanza, furono vane. La lotta, in ultima analisi, era destinata ad essere impari.
Moldavia e Bessarabia furono annesse direttamente alla confederazione russo-lituana; la slovacchia e la transcarpazia passarono sotto il diretto controllo imperiale. La Valacchia divenne un voivodato autonomo sotto la “protezione” bulgara, che di fatto nascondeva una tutela imperiale. Metodo simile fu usato dall'Italia per la “sua” area di influenza. Il Bano di Croazia, quello di Slavonia e i due conti (herceg, in ungherese) di Bosnia e Serbia, mantennero un legame esclusivamente formale con la corona di Santo Stefano, un'autonomia teorica e di fatto un protettorato italiano. Rimanevano sotto il diretto controllo di Buda solo la pianura pannonica, L'Erzegovina(il nostro Banato: in questa TL non esiste nessun trattato di Passarowitz che denomina così la regione strappata dagli Asburgo ai turchi. Perciò la regione di Temesvar qui è per antonomasia una contea, da cui Erzegovina(herceg in ungherese significa conte, più o meno. Sì mi piace confondervi!)), la Bacsa e la Transilvania. Almeno per il momento. Un'altra spartizione, nel 1792, avrebbe fatto terminare il regno d'Ungheria, con la nascita di principati “protetti”. Russia e Italia non avanzarono ulteriori pretese, lasciando a Baviera e Impero il compito di dividersi gli ultimi pezzi del regno.
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Illuminismo e rivoluzione
La lotta per la libertà dei coloni francesi in America, rappresentò un punto di svolta. Per la prima volta sorgeva uno stato i cui ideali, sanciti da una carta costituzionale molto chiara, erano repubblicani, egualitari, laici. Considerato il fatto che a parte la ragguardevole eccezione guascona, il modello repubblicano non godeva di alcuna popolarità nel vecchio continente, era più che prevedibile che gli intellettuali borghesi dell'epoca non potessero che guardare con favore all'evento. Esso sembrava aprire un'epoca di progresso sociale e politico, slegato dalle briglie del potere feudale e dai dogmi delle chiese. Un'epoca chiamata “secolo dei lumi”. Molti intellettuali, di origine perlopiù borghese, ma anche nobili, in tutto il mondo, credevano fermamente nel potere della ragione per creare un'età di progresso potenzialmente infinito per l'umanità. O così sarebbe potuto essere se la società si fosse liberata dai lacci di tutte quelle idee antiquate che ostacolavano questo famoso progresso, e, per di più, erano la principale fonte delle guerre tra le nazioni.
Il movimento illuminista nasce in Francia, ma presto si diffonde in tutta Europa, facendo germinare molti frutti, pur all'interno delle immense varianti culturali che reinterpretano e modificano il messaggio da paese a paese. Per esempio, l'ambiente francese è sempre stato caratterizzato da una filosofia di tipo empirista, che trae le sue origini fin dal tardo seicento. Denis Diderot diviene famoso per aver declinato le sue speculazioni filosofiche nell'ambito economico, dando una teorizzazione del principio armonicistico nella sua famosa opera, Recherches sur la nature et les causes de la richesse des nations, che diventerà un classico conosciuto ed applicato dagli stati capitalistici almeno fino all'avvento dello stato sociale nel XX secolo. Altro famoso filosofo illuminista francese è Jean-Jacques Rousseau, considerato il vero campione dell'empirismo. E' lui a introdurre la nozione di simpatia, intesa come capacità di condividere i sentimenti degli altri. Predecessore di tutte queste grandi menti si può considerare Pierre Bayle, considerato da molti il padre del liberalismo classico, dell'empirismo moderno ed uno dei più influenti anticipatori dell'illuminismo e del criticismo.
Per contro, l'atteggiamento italiano è più centrato su una critica della morale e della tradizione, che sfocia spesso in un atteggiamento di scetticismo nei confronti della religione. Molto diffusi sono gli atteggiamenti di aperto sensismo e materialismo.
Molto ambizioso è il progetto di sistematizzare le conoscenze in un'unica, grande opera, l'Enciclopedia, messo a punto dagli illuministi milanesi Verri e Beccaria. Il paradigma del filosofo illuminista italiano è però Antonio Genovesi: eclettico, sperimenta ogni genere letterario; ha una vasta corrispondenza epistolare con le più grandi menti e i più grandi sovrani d'Europa. Convinto sostenitore del meccanicismo newtoniano, contrario all'antropocentrismo (uno dei primi a sostenere tale posizione), è però famoso per la sua vena polemica contro il cristianesimo e, soprattutto, per la sua difesa del principio della tolleranza come valore imprescindibile per garantire pace, giustizia e progresso.
La critica al cristianesimo ed un diffuso materialismo si può trovare anche negli illuministi lotaringi. Politicamente in decadenza, la Lotaringia è infatti protagonista di una ricchissima vita culturale, che fa di Aquisgrana la capitale europea della cultura, dove uomini di lettere provenienti da tutto il continente si incontrano e scambiano idee. A differenza del clima italiano, dove prevale il motteggio e l'irrisione beffarda, l'anticristianesimo fiammingo assume a volte tratti violenti. Ma a prevalere nel panorama culturale del paese è soprattutto l'analisi sociale. E' qui che il portato della rivoluzione americana trova i maggiori echi, con autori importanti come Justus Van Effen, autore delle Perzische brieven e soprattutto del De geest van de wetten, cui deve gran parte della sua enorme fama e influenza sugli autori successivi. In esso analizzava sistematicamente tutte le tipologie di governo esistenti e teorizzava una organica divisione dei poteri all'interno dello stato, cosa che sicuramente non poteva essere ben accolta dall'Establishment di corte. A lui si ispirò il connazionale Condorcet, che scrisse il celebre Des délits et des peines, opera in cui viene analizzato il problema della giustizia secondo i principi della tolleranza e dell'eguaglianza.
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La Lotaringia si ribella al suo fato: è la rivoluzione
La Lotaringia, nonostante recuperasse dal punto di vista culturale il terreno perso sul lato strettamente politico, mostrava molti individui che mal si rassegnavano ad un fato, per il loro paese, di nazione di seconda categoria. Era necessaria una spiegazione del motivo per cui, nonostante le Fiandre fossero una delle regioni più ricche nel tardo medioevo, ora il regno cedesse rispetto alla potenza francese e italiana e vedesse avanzare a grandi passi alle sue spalle gli inglesi. La spiegazione, da parte di molti intellettuali dell'epoca, fu presto trovata: la ragione era l'assolutismo monarchico ottuso e retrogrado dei monarchi. Era stata la dinastia viscontea, peraltro straniera, a creare i presupposti della rovina. Dopo un'apparente illusione di grandezza, generata dalla capacità dei sovrani di spremere fino al midollo le risorse del paese, era succeduta, logicamente, la decadenza.
Evidentemente, il ragionamento, che esagerava oltremodo le pur indubbie responsabilità della monarchia, fece breccia, soprattutto nel nord del paese. A peggiorare la situazione ci si misero anche le ribellioni contadine e l'annosa questione del debito dello stato, accumulato in massima parte in forza di un esagerato sforzo militare nel secolo appena trascorso, a fronte di risultati minimi.
Luchino II e l'intera dinastia pativano un'allarmante crisi di popolarità.
A questo si aggiungeva il risentimento, con basi proto-nazionalistiche, nei confronti della grande nobiltà di corte, in massima parte francofona.
L'esplosivo cocktail mancava solo di una miccia. Questa fu rappresentata dalla visita ufficiale del re d'Italia Renato Maria III, figlio di Violante, ad Aquisgrana. Ufficialmente, lo scopo era di appianare le divergenze tra i due cugini.
La Lotaringia aveva un bisogno vitale di riavvicinarsi all'Italia e questo venne giustamente intuito dal ministro del re, Guglielmo d'Orange-Nassau.
Ma i parlamenti di Nancy e Anversa posero il proprio veto a tale visita. Il motivo è presto detto: molti, in verità dubitarono che il reale scopo fosse qualcosa del genere. I relativamente buoni rapporti tra Francia e Italia, esistenti sin dagli anni '50 del secolo, avevano indotto molta parte del patriziato, urbano e non, a sentire il peso dell'isolamento diplomatico di Aquisgrana e, conseguentemente, ad uno stato prossimo alla paranoia.
Ma questa volta la monarchia non voleva cedere di fronte alle pretese dei parlamenti. Anzi, l'evento sarebbe stato un'occasione buona per riaffermare il potere regio. Il sovrano decise infatti(siamo nel maggio del 1789) di inviare l'esercito nel palazzo del parlamento ed arrestare d'un colpo tutto il patriziato del “consiglio regio”.
Ma Luchino II aveva fatto male i conti, anzi, malissimo: per tutta risposta i consigli di Nancy e Anversa, proclamano la “ribellione alla tirannide”.
Approfittando del clima teso nelle campagne, dopo due anni di cattivi raccolti consecutivi, il patriziato urbano delle città lotaringie ha buon gioco ad aizzare anche una sollevazione del popolo. Le rivolte si diffondono a macchia d'olio, senza che il sovrano riesca a provi freno. Anzi, i soldati inviati a domare i fermenti iniziano a fraternizzare con i rivoltosi.
Stordito dalla rapida piega degli eventi, il re decide, a questo punto, di liberare i patrizi del consiglio regio. Cerca malamente di far ricadere le colpe per gli insuccessi economici e militari sulla grande nobiltà latifondista francofona. Tuttavia, è una mossa disperata: oltre ad inimicarsi una discreta parte dei suoi sostenitori, non ottiene il risultato di placare alcunché. I consigli di Anversa e Nancy, infatti, (in particolare il primo), decidono di farsi “assemblea costituente”, per dare un ordinamento federale al regno, e, soprattutto, una costituzione, sul modello americano. Messo alle strette, il sovrano desidera ad ogni costo impedire tale deriva ed allo stesso tempo, anche per il timore di un intervento francese. Parigi, dal canto suo, guarda con interesse alla vicenda. La borghesia della monarchia borbonica, infatti, non può certo dirsi completamente soddisfatta del potere decisionale che si trova ad avere. Ma nel corso del XVIII secolo i re di Francia erano stati tanto abili, in particolare dopo il disastro americano, da creare un complesso sistema rappresentativo sulla base degli storici stati generali. Complesso e, per molti aspetti garante di una rappresentatività solo apparente. Ma per quanto a Parigi il sovrano godesse di poteri concreti più ampi del suo omologo lotaringio, si poteva fregiare del fatto che le sue attività non fossero al di sopra delle leggi e del sistema, ma al suo interno, cosa che ad Aquisgrana non si poteva dire.
A questo punto, i centri di potere in Lotaringia si moltiplicano: da una parte vi è la corte, sempre più confusa e paralizzata, dall'altra abbiamo le “assemblee costituenti” di Anversa, Aquisgrana e Nancy, con la prima che molto rapidamente prende il sopravvento sulle altre due. Infine vi è la piazza. Variabile impazzita, viene inizialmente strumentalizzata dai gruppi di interesse e di potere. Ma questi stessi gruppi dimostreranno ben presto di aver svegliato una bestia molto difficile da domare.
All'alba del 1790, Anversa diviene la capitale informale del regno. L'assemblea nazionale, come è stata ribattezzata, pone la sua sede definitiva nella città sulla Schelda. Ciò significa che gran parte dell'aristocrazia francofona “illuminata”, che in un primo momento aveva sostenuto il movimento costituzionale, ha perso irrimediabilmente terreno nei confronti della componente borghese e fiamminga (e più violentemente anticlericale). Non è un caso che molti nobili inizino a migrare alla volta di Parigi o Milano.
Dopo una serie di provvedimenti atti ad un deciso smantellamento del sistema feudale ed i primi provvedimenti antireligiosi (come la costituzione civile del clero), nell'estate del '91 il sovrano decide di fuggire verso la Germania. Dopo un rocambolesco viaggio, Luchino II raggiunge Pavia e decide di allearsi con gli italiani per spazzare via la rivoluzione. I francesi, però, sono più lesti. Con la scusa di dover difendere la patria dal contagio rivoluzionario (non del tutto falsa, dal momento che anche a Parigi vi erano stati non pochi problemi in fatto di sollevazioni di piazza), muovono il proprio esercito contro la Lotaringia. L'assemblea costituente, che nel frattempo aveva dichiarato la repubblica e garantito il suffragio universale maschile, presa dal panico, cede alle urla della piazza e elegge un comitato esecutivo provvisorio, chiamato Convenzione, che, subito, proclama la “patria in pericolo”. Pertanto, viene presa la decisione di imporre la leva obbligatoria di massa, effettuata sulla base dei registri parrocchiali. Sia che sia stata tale manovra, sia una grave epidemia di dissenteria nel campo francese, dopo una serie di vittorie, l'esercito di Parigi viene sconfitto decisamente a Fleurus il 20 settembre 1792.
Tra questa data ed il 1794, la rivoluzione prende una piega decisamente violenta, che passa alla storia con il nome di “terrore”. Nel 1793 prende il potere all'interno della convenzione una frangia estremista, detta dei “montagnardi”. Il quale, dopo aver fatto approvare nuove misure, tra cui una nuova costituzione, assume il controllo assoluto attraverso un nuovo organo politico, il “comitato di salute pubblica”, un'assemblea di 12 membri. Ufficialmente, il suo compito è arginare la guerra civile (nel frattempo erano infatti scoppiate diverse rivolte nelle provincie, di stampo realista o federalista) e la “disgregazione pubblica”. Di fatto si tratta dell'eliminazione sistematica di tutti gli avversari politici, veri o presunti, in un clima di soffocante sospetto. Nel frattempo gli eserciti “di massa” lotaringi, dopo un inizio difficile, sembrano di colpo imbattibili, passando di vittoria in vittoria contro i più quotati francesi, mentre gli italiani faticano a coordinarsi con questi ultimi, in un clima di sospetto internazionale. Con la vittoria di Valmy del giugno 1794, la stessa Parigi sembra raggiungibile dagli eserciti lotaringi, cosa che non era mai accaduta nella storia precedente. Forte di questa vittoria, la parte della convenzione sopravvissuta, stanca degli eccidi e delle violenze del comitato di salute pubblica, aizza un'ultima volta la folla contro i 12 e tra il 26 e 27 luglio, quest'ultimo viene sciolto ed i suoi membri condannati a morte per tradimento.
Allo scopo di sottrarre l'attività legislativa a gruppi d'avanguardia sostenuti dalle masse popolari, la convenzione vara una nuova, ennesima costituzione, il 22 agosto 1795, di orientamento molto moderato. Viene reintrodotto il suffragio ristretto in base al censo e viene creato un parlamento bicamerale, che detiene il potere legislativo, mentre l'esecutivo, è nelle mani di un direttorio di 5 membri.
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Napoleone
Ma se fino ad adesso il principale corto circuito per lo svolgimento dell'attività politica era stata la pressione violenta delle masse opportunamente manovrate, ora sale alla ribalta un nuovo attore: i militari.
In particolare un giovane e promettente comandante di nome Napoleone Bonaparte. La famiglia Bonaparte, di origini lucchesi, aveva fatto parte del seguito di Luchino nella sua conquista del trono lotaringio. Invece di tornare in patria, erano rimasti perlopiù ad Aquisgrana. Napoleone aveva aderito entusiasticamente alla rivoluzione e all'alba del 1795 era un promettente giovane ufficiale dell'esercito della nuova repubblica.
Con il senno di poi, la preponderanza dell'elemento militare all'interno degli organi repubblicani era un risultato largamente prevedibile: la sopravvivenza della repubblica, circondata da nemici che volevano distruggerla, era completamente rimessa nelle loro mani.
Fortunatamente per la Lotaringia, l'impero sassone manteneva una posizione ambigua, dettata dalla speranza che le difficoltà di italiani e francesi si sarebbero tramutate in occasioni per riaffermare la propria egemonia sul continente.
Il direttorio approntò quindi quattro grandi armate. La prima si sarebbe rivolta contro la Normandia, la seconda contro la Champagne, la terza contro il ducato di Borgogna. L'ultima, la più piccola, avrebbe dovuto svolgere un'azione di disturbo lungo l'asse Rodano Saona, per rendere difficile agli italiani inviare rinforzi dalla Provenza. Comandata dal generale Bonaparte, questa forza oltrepassò le più rosee aspettative, mentre le altre segnavano il passo. Napoleone conquistò a sorpresa la ben difesa Lione, per poi dirigersi a sud. Dopo aver sconfitto duramente il generale italiano Massena nei pressi di Carpentras, conquistava rapidamente anche la città di Arles, mentre Massena ritenne prudente ritirarsi verso le montagne, a est. Napoleone ottenne anche il miracolo di sconfiggere le truppe francesi giunte a supporto a Roccamauro. Grazie all'appoggio dei rivoluzionari locali proclamò la “repubblica narbonese” come repubblica sorella di quella lotaringia. Gli italiani provarono a sfidare nuovamente la sorte, ma vennero battuti a Digne e preferirono lasciare, almeno per ora, la sfida con una tregua. Ma la grande impresa di Napoleone fu la sua marcia vittoriosa verso nord, per giungere in aiuto alle truppe lotaringie nel Barrois. Sconfisse infatti, in netta inferiorità numerica, per ben tre volte l'esercito francese a Tournus, Is sur Tille e Vendeuvre, a due passi da Troyes. Dopo questa triplice batosta il re di Francia, nel 1797 chiese una tregua, in cui si vide costretto a cedere ai lotaringi il ducato di Borgogna con Digione e alcune città di confine nel Barrois.
Il suo ritorno trionfante ad Aquisgrana è seguito, poco tempo dopo, alla fine del 1799 da un colpo di stato, che assicura a Napoleone il predominio politico in qualità di “primo console della repubblica”.
Ma la pace conseguita non durò molto. Già all'inizio del 1800 francesi e italiani sono pronti al contrattacco. E questa volta anche gli imperatori sassoni sono della partita, dato che la diffusione degli ideali repubblicani si sta diffondendo a macchia d'olio in tutta la Germania. Napoleone, che vuole evitare assolutamente la guerra su due fronti, investe per primo il fronte francese, convinto, a ragione, che la Francia non si fosse ancora completamente ripresa dalle molteplici batoste degli anni precedenti. A Compiègne, i francesi subiscono una clamorosa disfatta ed a Parigi i repubblicani sollevano la città. I sovrani fuggono in fretta e furia a Bordeaux. La Francia è umiliata: tutta la riva sinistra della Senna è annessa a quella che ancora per poco sarà chiamata la repubblica di Lotaringia secondo i termini del trattato di pace di Amiens. Con una campagna fulminea, Napoleone si lancia verso la Germania. A Bayreuth sconfigge le forze italo-bavaro-sassoni.
Gli italiani, spaventati, si ritirano, mentre il Bonaparte annette al dominio diretto della Lotaringia tutta la riva destra del Reno e rende molti stati tedeschi suoi satelliti. Con i suoi nemici umiliati, sembra inaugurarsi una nuova era per l'Europa. Nel 1802 Napoleone si fa proclamare primo console a vita e nel 1804 si fa proclamare imperatore. Nel 1806 gli stati tedeschi sotto il suo controllo si uniscono nella Confederazione del Reno. L'imperatore sassone, a questo punto, decide di sciogliere dopo più di mille anni il sacro romano impero.
A questo punto, però, Napoleone non riesce più a fermarsi. I sassoni e gli italiani provano a sconfiggerlo, facendosi aiutare anche dagli inglesi, la cui posizione strategica è ottima per impensierire Napoleone. I successi per terra, inoltre, non vengono ripetuti dai lotaringi sul mare (è quasi un paradosso, ma è così). La marina italiana non permette alla marina lotaringia di entrare nel Mediterraneo e la vitale via di collegamento con l'Asia attraverso il canale di Suez è mantenuta attiva. Le maggiori difficoltà gli italiani le hanno nell'oceano Atlantico, invece. In questo caso i lotaringi riescono ad interrompere i collegamenti con le colonie americane, con gravissime ripercussioni. Inoltre gli italiani, rinunciando a tattiche offensive, si trincerano dietro alle formidabili fortificazioni alpine, che si rivelano un osso veramente duro. Quel che però si rivela alla fine decisivo per la sconfitta di Napoleone è la partecipazione alla coalizione anti-lotaringia della Russia-Lituania. Quest'ultima, infatti, preoccupata per la sconfitta dell'impero e per la proclamazione napoleonica dei granducati di Polonia e Ungheria (retti da suoi parenti), si allea all'Italia, cui garantisce, attraverso il Mar Nero, tutti i rifornimenti cerealicoli di cui ha bisogno, a discapito del tentativo napoleonico di prendere la penisola per fame con un blocco commerciale.
L'imperatore dei lotaringi e Paolo Alessandro I Stroganov non riuscirono mai a trovare un'intesa per dividersi l'egemonia europea e lo scontro, alla fine, si rivelò inevitabile. Napoleone si mise alla testa di un'enorme armata, reclutata da tutti i paesi sotto la sua influenza per marciare verso Mosca. Ma la tattica della terra bruciata messa in atto dai russo-lituani (tra l'altro, Napoleone si era bruciato ogni eventuale sostegno lituano contro i russi manifestando l'intenzione di allargare il granducato polacco su terre lituane) e il crudele inverno del 1812 ebbero ragione delle sue forze. La tremenda sconfitta non passò inosservata e tutti i suoi nemici rialzarono contemporaneamente la testa per sconfiggerlo alle porte di Lipsia nel 1813. A questo punto, gli stessi realisti in Lotaringia, con l'appoggio italiano, proclamano la restaurazione della monarchia lotaringia con Luchino III (Luchino II era morto nel 1803). Napoleone viene condannato all'esilio nell'isola di Helgoland, mentre il trattato di Aquisgrana sancisce il ritorno della Lotaringia ai confini del 1792. Ma Napoleone riesce rocambolescamente a fuggire, nel febbraio del 1815, e sbarcare ad Anversa. Il suo secondo periodo al potere dura però solamente 100 giorni, in quanto i suoi nemici si mobilitano subito per abbatterlo. A Couvin, il 18 giugno 1815, Napoleone verrà sconfitto da una forza congiunta franco-italiana e verrà definitivamente esiliato a Kawaratti, sperduta isoletta nell'oceano indiano, per morirvi il 5 maggio 1821.
Resta da capire come uno stato così apparentemente debole abbia potuto sconvolgere il mondo. In realtà, il declino lotaringio nella seconda metà del XVIII secolo da una parte non aveva intaccato la base manifatturiera del paese. Certo, il declino commerciale c'era stato, ma più per un'incapacità gestionale e politica (interna quanto esterna) che però ancora non aveva compromesso definitivamente l'oggettiva ricchezza del paese. L'indipendenza degli EUA, inoltre, aveva donato ad Anversa un partner commerciale molto importante che garantiva ancora grandi opportunità di profitto agli operatori economici fiamminghi. Paradossalmente, se la rivoluzione dimostrò che la Lotaringia poteva risorgere al rango di grande potenza, fu essa stessa la causa del suo ridimensionamento nel secolo successivo. Risorse umane ed economiche del paese vennero drenate all'inverosimile durante l'epopea napoleonica. Nel corso del XIX secolo, il lento recupero non fu sufficiente ed il divario con le altre potenze divenne, a poco a poco, incolmabile.
L'Europa
nel 1815
(clic per ingrandire)
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Il congresso di Parigi
Dopo tanto sconvolgimento, era inevitabile un tentativo di “risistemazione” dell'assetto europeo che fosse quanto meno condivisa dalle grandi potenze. Il “grande architetto” del congresso di Parigi fu il primo ministro francese Charles Maurice de Talleyrand. A rappresentare il grande sconfitto, la Lotaringia, vi era Klemens von Metternich, che riuscì a “salvare” i confini della Lotaringia, presentando il paese come vittima prima di personaggi ambigui e senza scrupoli, e poi delle folli ambizioni di Napoleone. Era comunque vero che la guerra era iniziata per rimettere un sovrano al suo posto, non per conquistare qualcosa, almeno in teoria, per cui nessuno voleva punire più di tanto la Lotaringia. Nemmeno Talleyrand, che più aveva interesse, in quanto francese, ad un suo smembramento, desiderava questo. Un'annessione diretta alla Francia sarebbe stata fuori discussione, in quanto avrebbe attirato contro Parigi tutte le potenze; una riproposizione dell'unione dinastica con l'Italia sarebbe stata parimenti fonte di instabilità. Viceversa, il suo smembramento in molti piccoli staterelli, come Talleyrand stesso scriverà nelle sue memorie, avrebbe potuto attrarre l'ambizione della Baviera. Era per lui necessario che la Germania non si unisse sotto la bandiera di un unico stato, come paventato da Napoleone, per non destabilizzare l'equilibrio europeo di poteri. La Lotaringia, al confine tra due mondi, sarebbe stata, ormai, sufficientemente debole da non impensierire più la Francia, ma sufficientemente forte da impedire che bavaresi e sassoni (questi ultimi però, ormai, sembravano più proiettati verso l'Europa centro-orientale) unificassero la Germania. Particolarmente famosa la sua frase: “Germania è una mera espressione geografica”.
Il problema era che l'invasione di Napoleone aveva portato in Europa concetti come “patria”, “nazione”, “costituzione”. E tali concetti difficilmente potevano essere eliminati. Il dispotismo riformatore non bastava più ad una gran parte del ceto borghese. Forzare all'indietro le lancette del tempo sarebbe stato un compito molto arduo.
In questo senso, Francia, Italia, Baviera, Impero e Russia-Lituania, formarono la “lega dei cinque”, atta a garantire un equilibrio di potere inalterabile in Europa: in pratica, nelle intenzioni, gli alleati dovevano essere dei gendarmi pronti a reprimere qualsiasi tipo di rivoluzione sorgesse sul continente. Anche Inghilterra, Lotaringia, e Romania furono invitate a partecipare, pur mantenendo un ruolo subalterno.
Ad ogni buon conto, i problemi, a Parigi, si crearono principalmente per decidere la futura sistemazione dei Balcani. La restaurazione del regno ungherese sebbene in confini più ristretti rispetto all'inizio delle spartizioni, proposta dall'Italia (che non voleva né l'impero alle porte di casa, né doversi sobbarcare il peso di presidiare militarmente regioni che non la interessavano affatto) trovò la netta opposizione dell'imperatore sassone Carlo Augusto, colui che più aveva guadagnato dall'operazione. Il sassone trova l'appoggio fondamentale di Paolo Alessandro. Che però propone una modalità particolare: una suddivisione dell'ex territorio magiaro in una serie di principati sostanzialmente autonomi ma sotto l'alta sovranità dell'imperatore di Sassonia, il re d'Italia e l'imperatore russo-lituano. All'Italia vengono accordati Croazia, Slavonia, Bosnia e Serbia. Alla Baviera, Zala (Dunantul) e Baconia (Ma non Buda). Ai russi Moldavia, Dobrugia e Valacchia. Ai Sassoni tutto il resto, diviso nei principati di Siebenburgen (Transilvania e Maramures), Erzegovina (il nostro Banato di Temsvar, Vojvodina compresa), Tibischia (L'Ungheria orientale e la regione di Oradea), Slovacchia. La parte di Galizia che era sotto la corona di Santo Stefano viene invece integrata dai sassoni nella contea di Galizia orientale(la nostra Rutenia subcarpatica), mentre Buda e il suo circondario, da Estzegrom a Erd, diventano possedimento diretto dell'imperatore.
Il re d'Italia, però, decide, come già era in progetto prima della buriana napoleonica, di affidare Croazia, Slavonia, Serbia e Bosnia, cui aggiunge anche Zeta e Narentania, al suo figlio secondogenito, Filippo Maria (di tendenze liberali), che diventa “I re d'Illiria” (nome decisamente inappropriato ma tratto dall'antichità classica, la cui riproposizione in ambito artistico era molto in voga nel periodo).
Il secondo problema da “sistemare” era l'Irlanda. L'isola di smeraldo era ancora un elemento di disordine nel contesto europeo. La parte settentrionale era formalmente sotto obbedienza inglese, ma Londra alternava tentativi di imporsi con la forza a momenti in cui si evitava di forzare la mano, per evitare sollevazioni. Al sud, invece, il Desmond era animato da uno stato di rivolta perenne, contro i maldestri tentativi francesi di introdurre coloni e gallicanesimo. In questo caso il problema rimase insoluto: sia francesi, sia inglesi, chiedevano all'altro di sloggiare dall'isola come condizione preventiva per poterla riorganizzare. L'unica cosa che si ottenne fu la definizione di confini precisi tra le due sovranità.
Ciò che a Parigi non venne previsto era che il “germe” patriottico si era diffuso anche al di fuori della Germania, e che lentamente avrebbe generato rivolte, insorgenze, ribellioni, all'inseguimento del mito dell'indipendenza del non ben definito concetto di nazione. E spesso, opposti nazionalismi rivendicavano lo stesso territorio.
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Il XIX secolo
Il problema americano
Mentre l'Europa era sconvolta dalla buriana napoleonica, l'America del sud cercava di prendere la strada di quella settentrionale nel cammino verso l'indipendenza. L'esito, tuttavia non si può certo considerare identico. La guerra nell'Atlantico aveva reso difficoltose le comunicazioni tra madrepatria e colonie. I lotaringi avevano avuto buon gioco ad isolare le colonie italiche, ispaniche e francesi. La loro speranza era quella di isolarle e, nel caso, approfittare delle loro risorse a proprio vantaggio. A ciò si doveva aggiungere che gli EUA conservavano una politica di benevolenza nei confronti del governo rivoluzionario prima e napoleonico poi. Il gioco non si risolse esattamente secondo le migliori intenzioni di Napoleone, ma contribuì a creare un clima di agitazione nella popolazione creola, che rappresentava il ceto medio-alto e che voleva maggior partecipazione delle elites locali al governo delle colonie. In particolare, fu nelle colonie spagnole che tale situazione esplose. La Spagna era divenuta un pupazzo nelle mani di Napoleone, che pur non tentando di conquistare il paese, aveva installato alcune guarnigioni a Lisbona e in altri centri costieri, costringendo il governo a mettere a disposizione del grande conquistatore di origini italiane la propria flotta. E' chiaro che la legittimità del governo ne uscì gravemente danneggiata. A questo punto, praticamente tutte le capitanerie generali videro delle sollevazioni a favore dell'indipendenza. Particolarmente famoso fu Francisco Domingos Todosossantos Abertura. Stranamente, non si trattava di un creolo ma di un nero, ex-schiavo. Di fronte al tentativo di occupazione dell'isola di Portugheisa da parte della marina lotaringia, sollevò l'isola, ma non in nome del re, ma per l'indipendenza. I suoi successi prima contro i lotaringi, poi contro i francesi e gli spagnoli, dopo il 1814 alleati, gli valsero il titolo di “libertador”. La sua sollevazione fu una miccia che fece divampare l'incendio anche nelle isole limitrofe. Cuba, Portugheisa, Portorico, riuscirono a sconfiggere le forze realiste. Nel frattempo, una situazione simile si svolgeva in Magaglia, Tristania e Messico.
Francisco Domingo Abertura
E nelle colonie italiane? Anch'esse avevano i loro problemi. In questo caso il protagonista assoluto fu Simone Bolivari, nativo di Caracca, in Colombia. Al contrario però di quanto accadeva nelle colonie spagnole, le insorgenze provocarono una reazione diversa. Di fronte a colonie profondamente divise tra realisti ed indipendentisti, il re non trovò niente di meglio da fare che inviare suo figlio primogenito ed erede al trono, Carlo Maria. Giunto nel porto di Caienna nel gennaio del 1820, pronuncia un solenne discorso, noto come pronunciamento di Caienna, in cui proclama il diritto delle colonie all'autogoverno. Nel suo discorso recupera elementi presi chiaramente dalla retorica della rivoluzione e chiaramente costituzionalista. A questo punto, però, il problema sta proprio nella madrepatria: l'Italia è disposta a concedere davvero tutto questo?
Come capofila delle potenze del congresso di Parigi, infatti, deve garantire, anche in campo internazionale, di non cedere ad alcuna tentazione costituzionalista, nonostante vi siano in ogni parte d'Europa circoli segreti di chiaro orientamento liberale. Carlo, ad ogni modo, prende molto sul serio il suo (neo-istituito) ruolo di viceré e governatore generale. Inizialmente si avvale della collaborazione di Simone Bolivari. Ma Carlo è un furbo ed astuto calcolatore: a poco a poco Bolivari si trova ad essere un personaggio privo di qualsiasi potere reale. Il vulcanico liberale sudamericano viene presto utilizzato come strumento per il progetto imperialistico del suo sovrano, che lo manda come ambasciatore nell'impero Inca e in Magaglia, in realtà con lo scopo di liberarsi di un personaggio scomodo e, di fatto, destabilizzare quelle regioni per farne, a lungo termine un suo informale protettorato. Carlo è molto attento a mantenere, secondo un approssimativo sistema di divide et impera, i consigli di Guiana, Colombia e Grimaldea assolutamente divisi. Inoltre, non tiene mai le scarpe in un solo posto: riesce nella non facile impresa di attrarre dalla propria parte sia il ceto borghese delle città portuali, in particolare della Colombia, sia i potenti latifondisti della Grimaldea, con le loro piantagioni. Senato e Corte di Pavia fanno pressioni sul vecchio re Renato Maria III dal 1825, perché si decida ad inviare truppe contro il proprio figlio per riportarlo alla ragione. Il quale, per tutta risposta, decide di dichiarare l'indipendenza delle colonie americane, sotto il suo controllo. Si sarebbe veramente arrivati ad una guerra civile? Quali possibilità avrebbe avuto Carlo Maria I. Mai lo sapremo, perché Renato morì in quello stesso anno. Il vecchio sovrano si rifiutò in punto di morte di cedere alle pressioni per cambiare il testamento ed escludere Carlo, lo scapestrato figlio liberale, dalla successione. Carlo Maria ereditò così il trono nel 1827 e si mise subito a riorganizzare il suo composito impero, concedendo una costituzione (che comunque garantiva poteri molto ampi al sovrano) e riorganizzando l'assetto del suo impero. Le colonie sudamericane di Grimaldea, Colombia e Guiana ottennero lo status di “domini della corona”, vale a dire una forma di autogoverno, che man mano si ampliò, fino a che, nel corso dei primi anni del XX secolo, divennero indipendenti, uniti all'Italia dalla sola figura del sovrano. Molto meno generoso, però, il sovrano italiano si dimostrò nei confronti delle colonie nell'oceano Indiano. Invece di concedere loro ampi margini di autonomia, cercò al contrario, di rafforzare il controllo regio su di esse, togliendolo allo storico banco di San Marco.
Ma quello che avvenne in Italia fu insieme causa e conseguenza dei moti che avvennero sul finire degli anni '20 dell'ottocento in Europa.
I problemi essenziali erano le insoddisfacenti sistemazioni di Germania e Ungheria e l'inarrestabile declino dell'impero persiano, che alimentava sogni di indipendenza da parte di molte delle popolazioni soggette ad esso e ben più di un appetito da parte delle potenze confinanti. Pur di importanza minore non sono da dimenticare nemmeno le insorgenze di irlandesi, catalani e bretoni, all'interno dell'impero francese. Ad ogni modo, l'incoronazione di Carlo Maria, si può dire che fu l'inizio della fine per lega dei cinque come gendarme unico d'Europa.
Carlo Maria I d'Italia
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La crisi pontica
Mentre le attenzioni del mondo erano rivolte ad altro, nel corso del XVIII secolo, l'impero persiano entrava in una fase di crisi irreversibile. Mentre subiva un rovescio dietro l'altro ad opera della Russia-Lituania, la corruzione dilagante provocava la completa paralisi della macchina statale, incapace di rinnovarsi e di trovare una guida carismatica per provare a recuperare il terreno perduto nei confronti delle potenze europee. A peggiorare la situazione, tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, i popoli del variegato impero iniziarono ad alzare la testa. In primo luogo gli arabi: a partire dalle città sul golfo persico, quelle della Siria e quelle sulla costa del Mar Rosso, per passare ai centri dell'interno, l'altro lato della mezzaluna, forse influenzato anche da idee provenienti dall'Europa, non poteva più sopportare di giocare un ruolo completamente subalterno nella gestione dell'impero. I malumori acquistavano, inoltre, una forte coloritura religiosa. I persiani erano infatti sciiti e, per quanto usassero grande tatto nel trattare le questioni di fede, il fatto che un eretico fosse il califfo dell'islam non aveva mai smesso di rendere piuttosto nervosi gli arabi sunniti.
La debolezza si palesò durante le guerre napoleoniche, in cui gli italiani, con il pretesto di controllare i porti dell'impero persiano per evitare infiltrazioni lotaringie, di fatto occuparono una larga fetta di Libano, Siria e Palestina, oltre a far sentire la propria presenza in molti porti del mar Rosso. Quando l'occupazione temporanea finì, lo Shah volle attuare una specie di resa dei conti nei confronti di tutte quelle forze che avevano collaborato con gli italiani. Ma gli risultò impossibile farlo, per via dello scoppio di numerose sollevazioni, che faticava a domare. Giocando la carta della disperazione, lo Shah Ismail III inviò a Damasco Muhammad Qajar, vizir turco e personaggio molto ricco e influente. Con un esercito turco, praticamente levato a spese proprie, si insediò a Damasco e riportò l'ordine in Siria, Palestina e Iraq. Progressivamente eliminò tutti i vizir locali, sostituendoli con uomini a lui fedeli, per organizzare un'amministrazione di tipo moderno. Naturalmente a corte ci si accorse piuttosto rapidamente della pericolosità del soggetto. Ma tutti i tentativi di eliminazione non andarono a buon fine e venne infine riconosciuto come Wali di Siria e Arabestan. Ma per sé prese il titolo ben più cospicuo di Khidiw d'Arabia, ossia viceré. Nel corso degli anni riorganizzò l'amministrazione, l'economia e l'organizzazione scolastica della regione. Anche la minoranza cristiana vide con favore il dominio di Muhammad (ma in turco si diceva Mehmet). Quest'ultimo, poi, a partire dai primi anni '20 si lanciò in una campagna di conquista di tutti i potentati dell'Arabia peninsulare che erano rimasti fuori dall'impero fino a quel momento.
Muhammad Qajar
Ma gli arabi non sono i soli a guadagnarsi spazi di manovra o a muoversi per ottenerli.
Altri popoli che si fanno turbolenti sono i turchi. Per molto tempo questi ultimi hanno rappresentato la componente etnica più rilevante delle forze armate persiane. Per questo motivo, molti turchi sono stati in grado di scalare i vertici militari e politici. Tuttavia, dopo l'esperimento sanguinoso dei Koprulu al potere, l'amministrazione persiana prova, maldestramente, a rafforzare il controllo sulle provincie turche, per timore che divengano la base di potere di un generale troppo ambizioso. Tale situazione non può far altro che generare malumori. All'alba del XIX sono diverse le associazioni segrete turche che guardano all'occidente per svincolarsi dalla sudditanza ai persiani. In generale, è l'Anatolia intera ad essere un pericoloso calderone ribollente. Le sette nazionalistiche di romei, alani, armeni, pontici, turchi e cilici sono sovente in combutta tra loro per creare un'organizzazione comune per la destabilizzazione dell'impero. Va detto, però, che in numerose circostanze, le diverse aspirazioni nazionalistiche entrano in contrasto tra loro. Anche perché, sotto la coperta persiana, i confini etnici si sono fatti sfumati e diverse regioni sono abitate contemporaneamente da diverse etnie, nessuna delle quali riesce a raggiungere la maggioranza assoluta della popolazione.
Andando nel dettaglio della situazione pontica, il principale focolaio delle organizzazioni segrete era...Costantinopoli. Gli Hannover di Romania avevano, in effetti, avevano fatto ben più di un pensiero all'idea di (ri-)creare un nuovo impero bizantino approfittando dei chiari di luna persiani. I veri dominatori del Mediterraneo, però, nicchiavano. Gli italiani, infatti, iniziavano a pensare che lo smembramento dell'impero persiano avrebbe portato un'arrembante confederazione russo-lituana alle porte di casa, per quanto concerneva gli interessi vitali di Pavia. Timore che man mano, nel corso del XIX secolo diventerà sempre più forte. Ad ogni modo, negli anni '10, il movimento più vasto e attivo era la cosiddetta “società degli amici”. Tale organizzazione di ispirazione laica e vagamente massonica, non trovò però inizialmente grande favore da parte della popolazione urbana del Ponto: il loro estremismo politico li spaventava, anche perché qualsiasi ribellione che avesse avuto come corollario la completa sovversione della classe dirigente locale non era ben accetta. La loro propaganda, comunque, servì per rendere fortemente sentito e attuale il problema dell'indipendenza. In particolare, il loro tentativo di creare agganci con lo Zar, con il regno di Bulgaria (la cui élite amministrativa ed economica era costituita da piccolo-pontici) e con l'imperatore Hannover pose l'indipendenza del Ponto come ordine del giorno sul tavolo delle potenze straniere.
Man mano però, la “società degli amici”, perdendo parte dell'afflato rivoluzionario che l'aveva contraddistinta inizialmente, si diffuse sempre più, tanto da attirare anche diversi esponenti del clero, sia basso, sia alto. I veri leaders della comunità pontica sotto il dominio persiano erano, in effetti, proprio vescovi e primati. In particolare, venne guadagnato alla causa patriottica il vescovo di Amiso. Assicurato dai capi della società degli amici di un certo intervento russo a favore degli insorti, il vescovo Crisostomo benedì nel 1821 la crociata contro i persiani e la sollevazione ebbe inizio. Presto, la rivolta divampò come un incendio in tutto il Ponto, nella Paflagonia e persino in Bitinia e in Armenia. Molto più freddi di fronte all'andamento degli eventi si mostrarono le folte comunità pontiche che abitavano nelle isole del golfo persico e nel delta mesopotamico, e in generale nel resto dell'impero. I persiani si trovarono subito in difficoltà a domare le rivolte: i partigiani avevano le loro basi tra i monti e i tentativi di stanarli si trasformavano spesso in débacles clamorose.
Lo smacco più clamoroso fu la conquista, da parte degli insorti, delle due città di Coloneia e di Argiropoli (e delle sue miniere d'argento).
Umiliato dall'incapacità di domare la rivolta, con altri popoli che nel frattempo mostravano segni di agitazione e i russi che sembravano intenzionati ad approfittarne per muovere una nuova guerra per il Caucaso, lo Shah si rassegnò a chiedere l'aiuto del viceré siriano, in cambio del riconoscimento della sovranità legale di quest'ultimo anche sulle provincie del basso Iraq.
L'esercito Arabo, riorganizzato a spese proprie all'occidentale da Muhammad Qajar, riprese il controllo della situazione tra il 1825 ed il 1827.
In particolare, l'opinione pubblica europea venne scossa dagli eccidi compiuti dalle truppe del viceré nei pressi di Neocesarea e Oinoe.
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Il massacro di Oinoe
Ma al termine del tumultuoso '27, in Europa vi era stata la rilevante novità dell'ascesa al trono di Carlo Maria in Italia. L'ardimentoso neo-sovrano decise di scavalcare d'un colpo i russi e dichiararsi a favore dell'autonomia del Ponto. Mascherata da slancio irrazionale, il suo gesto aveva (forse) una ragione valida: far entrare il Ponto nell'orbita italiana avrebbe forse reso più complicato il percorso russo di avvicinamento al Mediterraneo, e avrebbe ottenuto questo risultato giocando allo stesso gioco di Mosca.
Nel 1828, con il trattato di Verona, si creò dunque la “quadruplice intesa” (Italia, confederazione russo-lituana, Romania, Bulgaria) per l'autonomia pontica, cui si aggiunsero poco dopo anche i francesi, interessati dalle prospettive che si potevano aprire nel Levante.
I negoziati tra i cinque e lo Shah, però, non ebbero risultati. A questo punto, Carlo Maria, di comune accordo con gli altri, decise di mandare una flotta nelle acque pontiche, dove si sarebbe unita a quella russa, come forza di interposizione, per evitare altri eccidi ingiustificati della popolazione. Al passaggio del Bosforo vi furono alcuni piccoli incidenti, che però rientrarono al di sotto del livello di guardia. Nelle acque di Oinoe gli italiani si riunirono ai russi, ponendosi a breve distanza dalla flotta persiana parcheggiata nella rada in appoggio agli uomini di Nasser Al-Din (figlio di Muhammad) Qajar.
La flotta alleata non avrebbe dovuto fare fuoco, ma limitarsi a sorvegliare la situazione. Un colpo sparato da un brigantino della flotta, scatenò tuttavia la reazione della flotta russa, cui il resto delle navi si adeguò. Alla fine della giornata l'intera flotta persiana nella rada, orgoglio dell'impero, perché appena riammodernata, era stata fatta a pezzi.
A questo punto, di fatto, gli occidentali si schierarono con gli insorti, almeno per quanto riguardava il Ponto proprio. Gli italiani ed i francesi sbarcarono un corpo di spedizione a Cerasunte con lo scopo ufficiale di evacuare la provincia dalle truppe Qajarite. Dopo una serie di schermaglie, Muhammad trattò con le potenze straniere per abbandonare a sé stesso lo Shah. Mentre i pontici iniziavano ad essere addestrati ed armati dagli occidentali.
Johannis Sarasitas, uno dei capi degli insorti, entrò a Trebisonda con i suoi uomini alla fine del 1828, mentre le truppe persiane si arrendevano in cambio di un salvacondotto verso Tabriz.
La battaglia navale di Oinoe
Ma la sorte del Ponto non dipendeva ancora dalla volontà dei suoi abitanti. Tra il 1828 e il 1829 i cinque si riunirono, sempre a Verona, per stendere un protocollo d'intesa per l'autonomia del paese. I Russi premettero perché il territorio rimanesse sotto la formale alta autorità dello Shah. Gli italiani ed i romei, però, si opposero, preferendo l'indipendenza, sicuri che questa seconda opzione avrebbe limitato di molto l'influenza russa su Trebisonda. Alla fine, il 3 febbraio 1830, sorse ufficialmente il secondo impero pontico. Gli alleati imposero agli insorti un re che fosse di loro scelta. Il metropolita di Trebisonda, assieme con diversi prelati ed i capi dei movimenti armati e della società degli amici accettarono, chi più chi meno volentieri, visto anche che nel frattempo si erano consumati anche diversi conflitti tra le diverse anime della secessione, cosa che non lasciava presagire un futuro sereno, se tutto fosse rimasto in mani pontiche.
Alla fine fu trovato un sovrano per il nuovo stato nella persona di Andrew Stuart, figlio del re di Scozia, che divenne, ufficialmente dal 1833, Andrea III di Trebisonda.
Il nuovo stato, a livello di estensione territoriale, non era che la pallida ombra dell'impero scomparso alla fine del XVI secolo: i nuovi sovrani sbandierarono subito l'intenzione di recuperare progressivamente le “terre irredente”. Inoltre l'intero sistema scolastico, economico, amministrativo, giudiziario, militare, era praticamente da rifondare. Compiti ardui, cui il nuovo sovrano si dovette cimentare sin da subito.
Il secondo impero pontico
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Bandiera del secondo impero pontico (1833 – 1947)
Se per il Ponto la crisi poteva dirsi finita, ciò non era per il resto dell'impero persiano.
Muhammad Qajar ambiva ancora al riconoscimento formale dei suoi domini, oltre che una chiara definizione dei confini a nord e a est. Voleva inoltre che il suo potere divenisse ereditario. Lo Shah, tuttavia, non era affatto intenzionato, pur nel momento di crisi, a rassegnarsi a perdere per sempre il controllo sui territori arabofoni. Per questo, nel 1832, i persiani levarono un nuovo esercito, composto, al solito, da molti turchi, per fronteggiare gli arabi. Ma le armate qajarite ancora una volta ebbero decisamente la meglio. La crisi era nera e i persiani, si rivolsero in cerca d'aiuto ai russi, massimo dell'umiliazione possibile. I quali, pensarono bene di chiedere in cambio il permesso di passare Bosforo e Dardanelli con le loro flotte da guerra ed entrare liberamente nel Mediterraneo, oltre che un deciso avanzamento del confine russo nel Caucaso. Lo Shah rifiutò, anche perché temeva che di fronte a tali clausole potesse indurre gli italiani a schierarsi con gli arabi. A questo punto i russi cambiarono le carte in tavola e si schierarono con Damasco. Il pericolo corso dall'impero persiano fu gravissimo: rischiava di essere spezzato in due tronconi dalla manovra dei nemici, abbandonando a sé stessa l'Anatolia. A questo punto, mentre gli arabi avevano nel frattempo occupato anche la Cilicia e l'Assiria, e i russi stavano oltrepassando il Caucaso, tocco all'Italia fare la voce grossa. Assieme alla Francia, si accordò per l'invio di uomini e mezzi ai persiani, per rintuzzare l'offensiva nemica. Nel frattempo, Parigi e Pavia proposero un piano di pace che riconosceva l'indipendenza araba entro precisi confini, stabiliva una linea di confine caucasica tra Russia e impero persiano con alcune annessioni da parte della prima ma che negava decisamente a qualsivoglia flotta da guerra di attraversare il Bosforo, nell'uno e nell'altro senso.
I russi cedettero e ratificarono il piano nel 1834, a Costantinopoli.
Nemmeno gli arabi furono particolarmente entusiasti, ma il bombardamento dei porti di Kuwait e Beirut da parte della flotta italiana li portarono a più miti consigli.
Vicino oriente nel XIX secolo, in arancio il dominio qajarita
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La crisi magiara
A questo punto, è necessario, per capire gli avvenimenti successivi, fare un passo indietro.
Animati dal nascente clima nazionalistico, molti ungheresi delle classi medio-alte iniziarono, come in altre parti del mondo, ad organizzare società segrete per il ripristino dell'indipendenza del proprio stato. Ma, al contrario dei pontici, sottomessi ad un impero isolato ed in declino, i magiari erano sottoposti in gran parte all'impero sassone, una delle grandi potenze europee. I primi moti di Budapest, tra il 1819 e 1821, si conclusero in un sostanziale fallimento, visto che furono brutalmente repressi. Come potevano gli ungheresi affrancarsi dal dominatore?
Pal Esterhazy di Galantha, uno dei grandi nobili magiari, organizzò l'associazione della “giovane Ungheria”, che si proponeva di organizzare un'insurrezione generale in tutti i territori ungheresi. Il popolo si sarebbe unito agli insorti ed avrebbe cacciato l'invasore. Di idee liberali, nonostante fosse nobile di nascita, era un ardente repubblicano, e tale doveva essere l'assetto di un nuovo stato ungherese unificato.
Via del tutto diversa fu quella perseguita da Istvan Szecheny, principe di Zala e vicino ai Wittelsbach. Col senno di poi non si è affatto certi degli obiettivi a lungo termine della sua politica. Certo è che, senza la sua opera, molto probabilmente l'Ungheria moderna non sarebbe mai nata. Dopo i moti degli anni '20, anche i bavaresi e gli italiani (via Carniola, rimasta italiana, e via Illiria) parteciparono alle repressioni. I primi, in particolare, vedevano con malcelato fastidio l'idea di dover controllare territori turbolenti, verso cui avevano scarso interesse. La direttrice di espansione primaria della Baviera, era verso nord-ovest, nella Germania. Forte di questo il principe Szecheny si fece nominare governatore generale del principato di Zala; poco dopo, a metà degli anni '20, quello che a Monaco era ormai chiamato principe di Zala, revisionò, assieme al re Ludovico I i “patti di sudditanza”, dei due principati magiari. In pratica, garantì loro un'autonomia completa. La costituzione bavarese, varata nel 1818, non comprendeva alcun deputato delle due regioni. Esse avevano un loro proprio parlamento e persino un piccolo corpo di forze armate. Szecheny riuscì a farsi nominare “principe elettivo” di Zala. Fu da questa base di potere che egli riuscì a ricostruire, pezzo dopo pezzo, l'Ungheria. Nel 1827 l'Italia tolse i suoi presidi sul fiume Mura, come gesto di buona volontà e re Carlo Maria riconobbe Szecheny come “legittimo principe”(di cosa, non si sapeva). Quest'ultimo, comunque, al di là della voglia di prendere il potere sulla regione, non scoprì le carte prima del tempo, visto che non mostrò alcun tipo di aggressività o pretese territoriali nei confronti dell'impero. Si può dire che, più che altro, si premurò di riorganizzare secondo i dettami della “modernità” l'organizzazione e le infrastrutture del proprio stato e proporre Zala come stato credibile nel contesto internazionale.
Nel 1830, un protocollo di intesa segreto firmato da Szecheny, Carlo Maria d'Italia, Filippo Maria di Illiria e Ludovico I di Baviera, garantiva al principato di Zala la completa indipendenza. Sulla Baconia, si garantiva in modo piuttosto astratto una benevola disposizione alla sua eventuale cessione a Zala in futuro.
Il grande assente a questo tavolo era l'impero sassone. Quando l'imperatore lo venne a sapere, infatti, non prese molto bene l'idea di uno stato ungherese indipendente, ancorché piccolo, alle sue porte. Ma quel che più lo preoccupava era l'ambiguo atteggiamento bavarese. Perché i Wittelsbach si erano comportati così? Il motivo era piuttosto semplice: i bavaresi avevano iniziato a pensare di sostituirsi ai sassoni nella lotta per l'egemonia sugli stati tedeschi. E alimentare l'indipendentismo ungherese era una manovra diversiva ideale per mettere in difficoltà l'impero e distrarlo.
Bandiera del principato di Zala
Giunti a questo punto, sembra superfluo evidenziare come, ormai, le grandi potenze europee non formassero ormai più un gruppo compatto atto a garantire l'equilibrio.
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Il 1848
L'Annus mirabilis delle rivoluzioni inizia in Lotaringia. L'assolutismo reazionario dei Visconti di Borgogna aveva fatto il suo tempo. Francia e Italia si stavano aprendo, con maggior o minor decisione, al liberalismo e ad un governo “borghese”. Quel che era peggio era che le tensioni etniche iniziavano a destarsi anche nel regno aquisgranese. La politica ondivaga dei sovrani destava irritazione sia sul fronte francofono, sia su quello germanofono. Una coscienza nazionale scevra di riferimenti etnici come quella lotaringia non poteva che essere messa a dura prova al sorgere dei nazionalismi. E poiché sembrava che il governo fosse incapace ed inadeguato, molte élites guardavano con interesse oltreconfine. In particolare nei Paesi Bassi, le teorie di una unificazione “germanica”, facevano una certa presa. Stava sorgendo il mito della grandezza e dell'operosità fiamminga rovinata dai governi “latini”. I francofoni, a dire il vero, si sentivano molto poco francesi, in realtà: la monarchia di Parigi era stato il nemico sin dai tempi della guerra dei cent'anni. Ma al tempo stesso era per loro inevitabile prendere a riferimento e modello le costituzioni borghesi vigenti presso la monarchia borbonica (che in realtà, in Francia, si consideravano obsolete e bisognose di urgenti riforme presso l'opinione pubblica liberale, come la cosiddetta questione dei “bourgs pourris”).
La situazione alla fine esplose, come era prevedibile. Le rivolte di piazza, alimentate da mesi di campagne (banchetti, ateliers) portarono al secondo e definitivo rovesciamento dei Visconti. Ci vollero mesi prima che la situazione si stabilizzasse, periodo in cui i nascenti movimenti operai videro svanire il sogno di un governo “popolare”, mentre prendeva corpo una repubblica borghese, sì, ma dominata da un'insolita commistione di liberismo e conservatorismo. Una repubblica che però, al pari dei sovrani, non sapeva come affrontare le spaccature nazionalistiche. La nascita della repubblica lotaringia fu possibile anche per via del rifiuto ad intervenire in favore dei sovrani da parte dell'Italia, mentre i francesi avevano le loro proprie gatte da pelare. Infatti, grandi sollevazioni scoppiarono in Bretagna, Irlanda e, soprattutto, in Catalogna, dove Barcellona insorta resistette per 5 giorni all'esercito inviato da Parigi. Ma ancora più grandi furono i moti in altre parti d'Europa. Particolare rilievo ebbero le vicende di tedeschi, polacchi, ungheresi e lituani.
Per quanto riguarda i primi, era essenzialmente una questione di pangermanesimo. L'idea di una sola nazione tedesca infiammava cuori e menti. Ovviamente, le guide a cui necessariamente si guardava per tale opera erano Baviera ed Impero. La soluzione sassone (Großdeutsche lösung), quella tradizionale, puntava ad una Germania a guida Wettin. Tale stato avrebbe ricalcato i confini del Sacro Romano Impero, quindi con Boemia e Moravia, ma senza Polonia. La soluzione bavarese, invece (Kleindeutsche lösung), che nel corso dell'ottocento aveva guadagnato punti, voleva escludere dal processo di unificazione l'impero, che aveva un territorio ormai abitato in maggioranza da popolazioni non tedesche. Ulteriore argomento di dibattito era nei confronti delle popolazioni germanofone della Lotaringia. Erano popoli “irredenti”, schiavi dei latini? Oppure con i tedeschi non avevano più nulla a che fare? In gran parte si propendeva per l'esclusione delle Fiandre dai progetti. Ma per quanto riguardava Bernese Brisgovia, Alsazia, Eifel e Renania occidentale, non c'erano dubbi: tedesche erano e nell'alveo di uno stato guidato da tedeschi dovevano tornare.
I Wittelsbach, da Monaco, non facevano necessariamente cattiva accoglienza a tali ipotesi. Estromettere i sassoni dalle vicende tedesche rientrava certo nei loro piani, per quanto parlare a voce troppo forte di unificazione tedesca avrebbe rischiato di inimicarsi non solamente l'impero, ma anche le tradizionali alleate, Francia ed Italia. Nel 1848 sollevazioni esplosero in tutti i paesi tedeschi. Le organizzazioni liberali di tutta la Germania si riunirono a Colonia per varare una costituzione di una Germania unita. I delegati dell'assemblea offrirono poi la corona dell'ipotetico nuovo stato a Ludovico I. Il sovrano di Monaco per lungo tempo fu incerto. Alla fine, però, rifiutò: era dai principi tedeschi stessi che doveva provenire la decisione di abdicare il proprio potere e darlo a lui. Il Wittelsbach si adoperò in tale senso, senza però incontrare riscontri positivi, se non da parte dei principi minori. Ciò nonostante, si era ormai esposto come potenziale guida di una futura unificazione. Per questo varò una nuova costituzione, non certo un esempio di liberalismo spinto, in cui però si riaffermava la volontà di promuovere una confederazione degli “stati tedeschi occidentali”. I sassoni, però, a questo punto si mossero, liberatisi di alcune delle spine che li tormentavano, questi ultimi minacciarono i bavaresi: dovevano tornare sui propri passi e abrogare la nuova costituzione, non facendo più riferimento a qualsivoglia nuova confederazione germanica. Se non l'avessero fatto sarebbe stata la guerra, non solo con Dresda, ma anche con Mosca. A questo punto Ludovico firmò a Pilsen una convenzione che accettava, in buona sostanza, le condizioni imposte dall'impero. Soprannominata come “l'umiliazione di Pilsen”, diede ai bavaresi un forte sentimento di rivalsa nei confronti dell'impero, che condizionerà gli eventi successivi della Germania.
Le noie che avevano ritardato un impegno decisivo in Germania da parte della Sassonia furono le ribellioni in Polonia. Dotata di larga autonomia, Varsavia voleva però di più. A Cracovia, un enorme sollevazione richiese a gran voce i “dodici punti”. Una grande dieta di polacchi autonomisti aveva infatti steso dodici richieste al governo centrale, tra cui libertà di stampa, autogoverno, la formazione di una piccola forza armata autonoma, liberazione dei prigionieri politici e fine della censura dei testi politici in polacco. Inizialmente il governo imperiale sembrò ben disposto a scendere a patti. In realtà, stava solo attendendo il momento opportuno per agire. Dopo aver domato le rivolte liberali nella capitale e a Lipsia, che avevano messo non poco in difficoltà il governo, Federico Augusto IV lanciò la sua offensiva, facendo inoltre promesse a ruteni e slovacchi, popoli che temevano la nascita di uno stato indipendente polacco, per ottenere il loro aiuto. Nonostante la grande disparità di forze, i polacchi si batterono comunque molto bene resistendo per più di un anno. Ludwik Mieroslawski, capo militare dei rivoltosi, dovette alla fine cedere nel novembre del 1849. Decisivo per la vittoria finale fu l'intervento dei russi, che, risolte le loro beghe con i lituani, intervennero a fianco dei sassoni come “Gendarme d'Europa” per reprimere la rivolta con inaudita brutalità.
Il terzo problema era la sempre ambigua situazione ungherese. All'alba del 1848 il principato di Zala si era garantito un certo spazio d'autonomia. Inoltre i bavaresi sembravano volersi liberare anche dalla Baconia in modo simile. I sassoni, tuttavia, vedevano la cosa, e non a torto, con un certo qual sospetto. Nel nel fatidico anno, al solito, la situazione esplose. Buda-Pest insorse, guidata da Lajos Kossuth. Quest'ultimo, però, non voleva che l'Ungheria finisse nelle mani di un sovrano, ma aspirava alla creazione di una libera repubblica. La città resistette per cinque giorni, cantati come “le cinque giornate di Buda e Pest”, prima di subire il ritorno delle forze sassoni. Nel frattempo, la rivolta scoppiava in altre città dell'ex-regno come Seghedino, Varadino, Debrecen. Anche nell'Erzegovina vi furono sollevazioni, mentre gli ungheresi di Narentania manifestarono la loro solidarietà nei confronti della madrepatria. Vi furono movimenti anche nei paesi della Siculia, la Transilvania ungherese. In realtà, Zala non vedeva volentieri quel che stava accadendo: i tempi non erano maturi per poter sfidare, quantomeno politicamente, l'impero. L'unica nota positiva erano i tesissimi rapporti tra bavaresi e sassoni, che potevano tornare a vantaggio della causa ungherese. Inoltre, Szecheny odiava cordialmente (ricambiato) l'idealista repubblicano Kossuth ed i suoi sodali, che peraltro godevano di buona fama in molti circoli e salotti all'estero. L'elemento di imponderabilità che nessuno aveva previsto era che, dopo iniziali tentennamenti, gli ispàn (baroni) fantoccio di Tibischia ed Erzegovina, non si sa se per paura della piazza o per vero ardore patriottico, si erano schierati con la causa “ungherese”. Il motto “tutti a Buda!” risuonava in ogni città. Sezecheny, a questo punto, non poteva fare altro che mobilitare il proprio esercito: non poteva permettere, infatti, che si guardasse ad altri che non a lui come punto di riferimento per la ricostruzione di un regno ungherese. Nonostante l'entusiasmo iniziale, il 1849 portò la fine dei moti in Polonia e con essa una maggior disponibilità di forze da parte dell'impero. Ovviamente, appena fu chiaro che il vento stava girando, i vari principi di Tibischia ed Erzegovina che avevano aderito alla mobilitazione generale, si ritirarono di gran carriera, lasciando Zala sola ad affrontare l'ira imperiale. L'indipendenza del principato fu preservata esclusivamente per via delle pressioni italiane e bavaresi (che la intendevano come un lieve compenso per mitigare i patti di Pilsen), ma Istvan Szechenyi dovette abdicare in favore del dodicenne figlio Béla, sotto la reggenza di Laszlo Csany, che si preoccupò di rafforzare economicamente il principato. Nel frattempo anche in Transilvania il principe Imre Mikó cercava di migliorare la situazione del suo principato, ma da una posizione di stretta alleanza con i sassoni. Il nazionalismo montante, infatti, non aumentava le aspirazioni solo dei magiari, ma anche dei valacchi, che, al contrario dei primi, avevano subito per gran parte della loro storia il dominio di qualche popolo straniero (in primis proprio gli ungheresi). La Transilvania, per questo motivo, doveva essere un modello di convivenza pacifica tra le diverse etnie che la componevano, sotto l'egida dell'imperatore. Ovviamente, migliorare le condizioni sociali dei valacchi e, in misura minore, di ebrei e altre minoranze, creava ovvi malcontenti in magiari e svevi, le etnie che da sempre avevano detenuto il potere in Transilvania. Ciò nonostante, gran parte dei tedeschi e una discreta percentuale della nobiltà Szekely si schierò con il principe ed i suoi tentativi riformistici contro i nazionalisti “pro Zala”. Gli svevi preferivano rimanere sotto l'alta autorità dell'imperatore e temevano che non sarebbero stati molto ben accetti in un futuro stato magiaro guidato da Zala. C'entrava anche il fatto che gli Szecheny guidavano una regione a maggioranza cattolica ed avevano più volte espresso un certo favoritismo confessionale (sebbene non fossero arrivati a fare del cattolicesimo la religione di stato, poiché avrebbe pregiudicato la possibilità di annettere il resto dell'Ungheria oltre il Tibisco). Per quanto riguarda gli Szekely, sebbene molti vedessero nella politica del principe la fine dei loro privilegi secolari, ve ne erano altrettanti che temevano che la sottomissione alle aspirazioni degli Szechenyi avrebbe causato loro più danni che benefici (specie nei rapporti con i sassoni e soprattutto i valacchi).
Meno noti furono i moti in Valacchia, Dobrugia e Moldavia, presto stroncati dai russi e in Romània, dove si ribellarono ai romei in nome dell'autodeterminazione albanesi e traci, che si sollevarono anche nella vicina Bulgaria. In quest'ultimo stato vi fu, invece, una breve “rivolta al contrario”: i bulgari, infatti, protestarono contro lo strapotere in ambito politico ed economico dei piccolo-pontici, senza tuttavia ottenere nulla di concreto.
Anche nella Perateia gli animi si erano scaldati: la speranza di diventare “terza nazione” della federazione russo-lituana non si era mai del tutto sopito. Quando, però, nel corso del XIX secolo, fu evidente che la condizione dei soci di minoranza (i lituani) si era fatta sempre più precaria, tanto da essere quasi indistinguibile da quella di una provincia soggetta, anche a Panagiopoli emersero movimenti estremisti assertori dell'indipendenza.
La politica imperialistica russa, tuttavia, non si proiettava solo sul lato europeo e caucasico. Verso oriente, Kazan e i centri tatari della Siberia meridionale erano diventati delle fiorenti città commerciali, strategicamente importanti. I rapporti di buon vicinato con i russi si erano incrinati da due secoli, ovvero da quando gli Stroganov avevano preso il potere. Tuttavia, gli screzi di confine non si erano mai tramutati in qualcosa di più serio. I russi erano troppo occupati a consolidare il proprio potere ad ovest per pensare di impegnarsi contro i tatari. Ma nell'ultima parte del XVIII secolo e gli inizi del XIX, l'idea di una grande espansione in Asia aveva preso piede. Nell'indifferenza quasi totale dell'Europa, Mosca aveva prima imposto un “protettorato” per poi procedere infine, negli anni '20, all'annessione diretta. Non si rivelò difficile per Mosca prendere il controllo della parte occidentale della Tataria. Ben più complessa fu la sottomissione della Siberia orientale, un coacervo di forti sparsi che tenevano malamente a bada incursioni di popolazioni nomadi altaiche e non. Inoltre, il sogno russo di arrivare all'oceano Pacifico si trasformò in una cocente delusione: la costa era già occupata da un altro cliente, l'impero di Corea e Manciuria (con la penisola di Coriaga (HL: Kamchatka) colonizzata dai guasconi), che stava attraversando una prima fase di industrializzazione e occidentalizzazione in campo economico e militare. Affrontare un simile avversario poteva essere molto impegnativo e rischioso. Le due potenze si accordarono nel 1850 per un confine stabile lungo il fiume Lena e il lago Bajkal.
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La guerra di Jedisan e l'indipendenza ungherese
Il temporale che doveva distruggere per sempre l'illusione della pace tra le grandi potenze del continente fu l'ennesima guerra russo-persiana del 1855, combattuta ancora una volta tra le montagne del Caucaso. Andrea III fu informato in segreto dall'ambasciatore russo, che desiderava l'appoggio trapezuntino. Ai russi avrebbe infatti fatto comodo una testa di ponte dall'altra parte delle montagne. Ma lo Stuart esitò: sebbene fosse l'occasione buona per poter riprendere parti del dominio dei Comneni, temeva seriamente di divenire una marionetta nelle mani dei russi, come erano già gli alani, indipendenti solo de jure. Inoltre sospettava che francesi ed italiani non avrebbero gradito affatto i progetti di Mosca di espandersi ulteriormente ai danni della Persia. Preferivano tenere unito il “grande malato”, e controllarlo politicamente ed economicamente, piuttosto che vederlo frammentato in un coacervo di stati bellicosi ed ingestibili, cosa che sarebbe senz'altro accaduta se i russi avrebbero raggiunto le porte della Cilicia, tagliando così in due i domini persiani. Anche negli arabi prevale il timore di ripercussioni sulla possibilità di vantaggi e, come Trebisonda, anche Damasco rimanda al mittente le profferte Russe. Questo avviene anche perché nel frattempo i ripetuti i tentativi di porre sotto controllo i territori della penisola araba andavano incontro a frustranti delusioni. Molti grattacapi creavano in particolare gli sceriffi della Mecca, che potevano vantare ambigui rapporti con gli italiani dall'altro lato del Mar Rosso (e che a Jeddah avevano una ufficiosa sede di rappresentanza. Gli italiani erano visti con sospetto dagli arabi anche per i loro possedimenti nel golfo Persico, ossia le ex colonie dell'impero di Trebisonda, che dopo diversi tira e molla erano passate stabilmente sotto il controllo di Pavia già dalla fine del seicento, da cui sembrava passassero armi ai clan della costa).
Non che i russi non fossero a conoscenza dell'ostilità franco-italiana nei confronti dei loro piani di espansione nel levante, ma non credevano che i due stati avrebbero osato muovere loro guerra; inoltre, dopo gli eventi del '48, erano assolutamente convinti che l'impero sassone si sarebbe schierato decisamente dalla loro parte, in caso Parigi e Pavia avessero avuto in mente di passare dalle parole ai fatti. Per Mosca lo sbocco sul Mediterraneo era un obiettivo strategico di primaria importanza e poteva ben valere il rischio. Come vent'anni prima, i persiani cercarono di trattenere l'avanzata nelle piane della Georgia, con molto accanimento, ma con scarso successo. A questo punto, però, Francia ed Italia decisero di intervenire per proteggere i persiani. Come era previsto, inviarono subito delle squadre navali nel Mar Nero, per minacciare un intervento. I sassoni, pressati da entrambi gli schieramenti, decisero di rimanere fuori dalla questione. Il loro fu un madornale errore diplomatico. Mosca si sentì tradita da quello che considerava un alleato di ferro; la Francia e l'Italia, invece, non ritennero più Lipsia un interlocutore particolarmente affidabile. Non fosse stato per gli interessi alla lunga convergenti degli altri protagonisti, i sassoni sarebbero stati condannati definitivamente all'isolamento internazionale. Un colpo di genio fu invece di Laszlo Csàny, primo ministro di Zala, che offrì ai due paesi la propria collaborazione se l'Italia avesse acconsentito ad imbarcare a Trieste i “volontari” magiari, il corpo dell'Honvédseg. L'esercito alleato non voleva una guerra in grande scala, ma solo un'azione dimostrativa che inducesse i russi a cedere. Per tali operazioni venne scelta la, ben munita e di recente costruzione, fortezza di Novy Olbia, sull'estuario del Bug Meridionale, regione tradizionalmente abitata da numerosi pontici di Perateia e vareghi. La guerra fu lunga e spossante, senza grandi azioni militari. La maggior parte dei morti vennero mietuti dalle malattie. Alla fine, vista l'incapacità dei russi di risolvere a proprio favore una situazione dannosa, sia a livello politico (interno ed esterno), sia a livello di immagine del proprio esercito e della propria potenza, si vide costretta a cedere. Unico risultato concreto di tutta la vicenda fu l'indipendenza di un altro stato caucasico, la Georgia, che andava quasi a confinare con il Ponto. Durante la guerra Trebisonda aveva mantenuto una politica di rigida neutralità, nonostante da molte parti arrivassero a re Andrea pressioni per l'intervento, perlopiù a favore dei franco-italiani. L'indipendenza del regno caucasico fu accolta con particolare freddezza. I più la intesero, correttamente, del resto, come l'avvicinamento alle porte di casa del gigante russo. L'indipendenza georgiana, inoltre, rendeva instabile la regione, dando ulteriore occasione, in un prossimo futuro, di intervento da parte di Mosca. L'unica cosa che Trebisonda poteva cercare di fare era (improba impresa) legare a sé i gruppi di autonomisti moderati dei dintorni, trovando un modo per reprimere indirettamente i più oltranzisti. Ulteriore motivo per agire in questo modo era una malcelata ambizione, da parte del Ponto, di agire come potenza regionale, coordinando intorno a sé tutta la galassia di stati e di aspiranti nazioni che gravitavano intorno al mondo caucasico ed anatolico. Allo stesso tempo, Trebisonda non amava l'idea che potessero sorgere delle velleità nazionalistiche in regioni su cui pretendeva un'ipoteca esclusiva. E' il caso, per esempio, dei Lazi e degli Adzari: l'idea di un Lazistan e di un Adjaristan indipendenti a sud-est di Trebisonda era un incubo che non si doveva assolutamente realizzare.
Tornando alle vicende internazionali, il conte Csany aveva visto giusto: Se non la Francia, che non ne voleva sapere, almeno l'Italia era assolutamente favorevole alla ricostruzione di un regno ungherese, a patto che non raggiungesse, come era accaduto in epoca medievale, lo sbocco sul Mar Nero. Un'Ungheria siffatta, strettamente dipendente dall'Italia, sarebbe stata il bastione avanzato (in funzione anti-germanica) di un sistema egemonico incentrato sul Mediterraneo.
Nel 1858 vennero siglati gli accordi segreti di Marburgo (Maribor), in cui si sanciva che, in caso di attacco imperiale, gli italiani sarebbero intervenuti a difesa di Zala. La leggenda narra che sulla decisione finale influì l'opera di “convincimento” della nobildonna e cortigiana Ida Ferenczy (noi la conosciamo solo come vecchia dama di compagnia di Sissi) sul re d'Italia. Nel frattempo anche la Baviera, che stava premeditando di sferrare il colpo contro l'impero sassone per compromettere fatalmente la sua posizione all'interno del panorama germanico, ratificò il passaggio, entro l'anno successivo, della piena sovranità anche della Baconia a Zala (situazione che, de facto, c'era già, ma non de jure).
Ora, per il principato occorreva solamente un casus belli per scatenare le ire sassoni. Un ben orchestrato piano di esercitazioni militari fece scattare l'ultimatum imperiale e l'invasione. Ma quando gli eserciti imperiali attraversarono il Danubio, anche gli italiani varcarono il Mura; grande impressione fecero negli ungheresi i temibili “Rashaida”, fanteria leggera reclutata soprattutto in Eritrea, con i loro tipici calzoni e copricapi. L'avanzata imperiale in territorio nemico è inizialmente rapida. All'altezza di Szekesfehervar, il piano era di dividere le forze in due grandi tronconi: il primo avrebbe costeggiato il Balaton a nord, per raggiungere Zala(egerszeg), la capitale del principato; l'altro si sarebbe diretto a sud, verso Pecs, la città principale, così da schiacciare per sempre il fastidioso sfidante. Ma presso i colli di Veszprem avviene il primo rovescio dei sassoni, alla fine di maggio del 1859; pochi giorni dopo, il 4 giugno, dopo che i sassoni si erano ritirati di nuovo a Szekesfehervar, venne combattuta una battaglia decisiva presso Ercsi. La strada verso Buda era aperta. Il comandate in capo delle forze di Zala, il comandante, originario di Pest, Ferenc Gyulay marciò nella capitale tra due ali di folla acclamante. A questo punto, il piano di Csany era quello di trascinare la guerra fino al conseguimento del controllo anche di Tibischia, Erzegovina e Transilvania; l'esercito sassone nel frattempo aveva deciso di trincerarsi tra Eger, Gyongor, Heves e Mezokovest, il cosiddetto “quadrilatero”, per riorganizzarsi e contrattaccare. L'obiettivo primario dell'esercito italo-zala era, a questo punto, di neutralizzare la concentrazione di forze nemiche in quella regione prima che potessero contrattaccare contro Buda. Alla fine di giugno, nella doppia battaglia di Bercel e Szirak (gli italiani impegnarono le forze nemiche nella prima, gli ungheresi nella seconda località) gli alleati riportarono un'altra vittoria, ma con un costo di vite umane impressionante. Lo scontro fu una vera e propria carneficina, che indusse l'Italia a rivedere il proprio sostegno contro i sassoni. In realtà, oltre a questo, era evidente anche il timore che Baviera e Francia potessero risentirsi delle manovre italiane in Mitteleuropa (in particolare i francesi, che iniziavano a non gradire la troppo manifesta egemonia italiana nel Mediterraneo centro-orientale).
Senza il sostegno italiano, la guerra per Zala era finita. Era giunto il momento per accordi di pace. Il risultato di tanto sangue fu l'annessione del distretto di Budapest a Zala. In più “Il diritto all'autodeterminazione e all'indipendenza di tutti gli stati magiari”. In sostanza, Tibischia, Erzegovina e Transilvania sarebbero divenute pienamente indipendenti e avrebbero “scelto in piena libertà da influenze straniere il proprio destino”. Il risultato fu che l'anno successivo Gyula Andrassy, avventuriero e ardente sostenitore della causa unitaria, tenne la sua famosa “Crociera sul Tibisco”. Partito da Mohacs, attraversò il Danubio fino alla confluenza con il Tibisco, iniziò a percorrerlo, assieme a mille (cosiddetti) volontari, controcorrente, a piedi, a cavallo o su barconi “occupando” con i suoi miliziani tutte le città che incontrava per via. L'Erzegovina si trovò completamente impreparata e subì l'occupazione di Zenta e Kanisza, da cui vennero inviati battaglioni di “giovani patrioti” ad occupare le città dei dintorni Nagybecskerek(HL: Zrenjanin) e Szabadka (Subotica). Ci furono alcune sollevazioni contro da parte di gruppi non organizzate della minoranza serba e in particolare tedesca, ma nel complesso, le città finirono abbastanza agevolmente sotto il controllo di Andrassy e dei suoi sodali. La marcia, però continuò nel territorio della Tibischia. A Seghedino le forze del principe di Szolnok (la capitale) si radunarono per fermare la crociera, ma subirono una cocente sconfitta poco lontano dalla città. A Csongrad, si ripeté la scena ed anche l'epilogo fu il medesimo, nonostante le forze dei gendarmi di Tibischia fossero di molto superiore. L'ipotesi della corruzione resta quella più probabile per spiegare tale inaspettato successo. Disperata, la Tibischia chiese aiuto a Zala, che non aspettava altro per “riportare l'ordine”. Di fatto si trattò, come era logico presupporre, di una vera e propria occupazione militare, almeno di tutti i territori compresi tra il Tibisco ed il Danubio. A questo punto Zala propose un plebiscito per “L'unione di tutti i principati in una sola grande Ungheria”, che, sottotraccia, non significava altro se non una annessione a Zala. Con l'Honvedseg in casa, Erzegovina e Tibischia furono costrette ad accettare. Come era prevedibile vinsero i sì con una percentuale schiacciante, mentre molte truppe venivano inviate a est, oltre il Tibisco, a presidiare le principali città “per preservare l'ordine”, oppure, più verosimilmente a creare un clima intimidatorio. Questo anche in preparazione di un eventuale raid contro la Transilvania, che denunciò la questione del plebiscito come una “farsa in aperta violazione di qualsiasi diritto di sovranità”. Particolarmente scalpore fece l'opuscolo anonimo, che ebbe grande diffusione in Transilvania, A Székely nem Magyar! Inoltre, per la prima volta, il principe Imre Miko (italianizzato in Emerico I) , nominò come primo ministro un rumeno, Alexandru Ioan Cuza, originario della Moldavia. Le famose affermazioni del principe “Il solo regno d'Ungheria che riconosco è scomparso nel 1792” e “Se nazione vuol dire avere un'unica lingua, un'unica cultura, un unico credo, allora la Transilvania non farà mai parte dell'Ungheria come la desidera il principe di Zala”, fecero comprendere a tutti molto bene il suo tentativo, di creare una “transilvanità”, che rispondesse a tono all'aggressivo nazionalismo magiaro.
Nonostante il sogno fosse quello di un regno “Dal Mar Nero all'Adriatico”, Zala aveva riunito sotto il proprio scettro la stragrande maggioranza della popolazione ungherese. Per questo, era giunto il momento della solenne proclamazione del regno d'Ungheria, con l'incoronazione a re di Béla VIII (ce ne sono stati tre in più rispetto alla nostra TL), che avvenne il 17 marzo 1861.
Bandiera del secondo regno ungherese
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Bandiera della Transilvania
Mentre nasceva il nuovo regno di Ungheria, anche altri stati sembravano in via di formazione.
Il primo elemento catalizzatore fu la cosiddetta “Questione carelo-finnica”. Nonostante Russia e Svezia fossero in pace da moltissimo tempo il confine tra i due stati, passante tra Carelia e Finlandia, non era mai stato definito con precisione. Molte aree erano, in effetti, una zona grigia, complice anche la relativa scarsità di popolazione. Era chiaro che la costa del Mar Bianco fosse di pertinenza Russa; il confine russo-norvegese sulla costa settentrionale di Kola era delimitato con precisione. Ma a quanti chilometri dalla costa del mar Bianco si estendesse il controllo svedese sulla Carelia non era esattamente definito. Da Stoccolma si riteneva che la propria pertinenza fosse estesa a a non meno di 50 chilometri dalla costa del mare, partendo verso nord dalle rispettive posizioni (quelle sì, definite) tra il lago Ladoga e l'Onega. Ad aggravare la situazione vi era, relitto di un tempo che fu, il paradosso di alcuni proprietari terrieri, poco meno che signori feudali, che avevano territori vastissimi, che, almeno in teoria, dovevano per forza oltrepassare i confini tra i due stati. Si trattava di un modo conveniente per evadere le tasse, ma che, nella seconda metà del XIX secolo non poteva più essere tollerato. Venne così stabilita tra i due stati nel 1859 la creazione di una spedizione, internazionale, come garanzia di imparzialità, per tracciare il confine. Ma quello che ne venne fuori era che i russi rivendicavano la quasi totalità della Carelia. L'arbitrato internazionale, a guida inglese, cercò di optare per una “via di mezzo” tra le pretese delle due parti. Mosca, però, non accettò l'arbitrato. Armò un esercito e lo inviò ad occupare i principali borghi della Carelia che riteneva fossero di sua pertinenza. La Svezia, in questo frangente, toccò con mano come la simpatia internazionale nei suoi confronti non fosse nient'altro che una sfilza di buone parole e nulla più. La soluzione proposta dai sassoni fu questa: gli svedesi avrebbero pagato ai russi una somma per l'acquisto del territorio conteso; in compenso, i russi avrebbero provveduto, con le proprie truppe, al “mantenimento dell'ordine pubblico in comune accordo con Stoccolma”. Di fatto, si trattava di una resa umiliante alla politica di potenza di Mosca nei confronti di un debole vicino.
In rosso, il confine secondo gli svedesi, in viola quello stabilito dall'arbitrato inglese e in blu secondo i russi. In verde il “governatorato di Carelia e Lapponia” occupato militarmente da guarnigioni russe.
Dopo tale evento si comprende molto chiaramente come lo scandinavismo potesse prendere piede nel regno di Svezia. Il problema principale era che, come ai tempi dell'unione di Kalmar, il socio di maggioranza sarebbe stato ancora una volta la Danimarca, che controllava ancora la Norvegia, seppur col tempo essa avesse guadagnato ampi margini di autonomia. Inoltre essa era molto più forte economicamente, potendo godere di un florido commercio nell'atlantico, unitamente all'apparente amicizia con tutte le grandi potenze dell'Europa. L'amara scoperta che le cose non erano esattamente come sembravano avvenne tra il 1863 e 1864: in questi anni parve finalmente evidente che il progetto della Großdeutschland che si faceva lentamente strada in quel di Monaco non escludesse aprioristicamente nemmeno i danesi. Se non un'annessione diretta, alla lunga essi sarebbero senz'altro entrati nell'ecumene germanico a guida bavarese. In quegli anni infatti ci fu la guerra per i ducati di Schleswig ed Holstein, che erano legati al trono di Copenaghen, pur essendo tedeschi. Malumori dinastici causarono il pretesto che la Baviera stava cercando per scatenare un conflitto armato. Alla fine, i bavaresi issando la bandiera della libertà per i tedeschi e garantendosi l'ingenuo appoggio sassone, occupò militarmente i ducati, dopo una scontata vittoria contro i danesi. I ducati vennero spartiti tra Baviera ed impero.
Nel mondo scandinavo non fu tanto la sconfitta ad essere considerata in modo grave, quanto, piuttosto, il disinteresse alla sua difesa da parte delle grandi potenze. In particolare il disinteresse francese di fronte al pericolo bavarese. In realtà, la Francia si era più che altro preoccupata di un possibile intervento italiano. Era l'eccessiva potenza italiana, perlomeno nell'oceano Indiano, a rappresentare il vero cruccio francese. Francesi che stavano lentamente aumentando la penetrazione nelle coste occidentali dell'Africa. Inizialmente forti erano stati costruiti in queste regioni per controllare il lucroso mercato degli schiavi. Ora che il traffico di uomini attraverso l'Atlantico era sulla via della completa abolizione, erano le velleità imperialistiche a fungere da motore per le ulteriori conquiste. Del resto, anche in Asia, la Francia si stava dimostrando sempre più attiva, in particolare nella sostituzione progressiva degli spagnoli. L'India era praticamente divisa in due, tra domini diretti e protettorati: l'occidente ed il sud era in mano agli italiani, che ormai avevano il controllo di Vijayanagar e Rajasthan; Marathi e Bengala erano invece sotto protettorato francese, mentre la Birmania, l'Assam e gli stati Shan erano in procinto di essere conquistati definitivamente; conseguenza logica era che gli italiani, che avevano il protettorato di Pegu, avevano imposto la loro presenza anche nella penisola di Tenasserim e l'istmo di Kra, riducendo a colonia l'isola di Phuket, importantissimo snodo commerciale e rinomata soprattutto per le sue miniere di stagno. Si trattava di una lotta contro il tempo. Prima o poi, infatti, secondo le previsioni italiane, anche il Siam sarebbe finito sotto protettorato francese, visto che l'avanzata verso il regno Thai non era solo da ovest, ma anche e soprattutto da est, dove Parigi aveva posto sotto il proprio controllo la Cocincina e la Cambogia, e la stessa fine stavano per fare Annam e Tonchino. Inoltre, i francesi si erano espansi molto nella cosiddetta “nuova frontiera” oceanica, reclamando la Nuova Guinea, le isole Salomone e le isole della Nuova Bretagna (HL: Nuova Zelanda), dove però trovarono la feroce resistenza delle locali popolazioni Maori. Nel frattempo, le colonie lotaringie della Corsalia, pur rimanendo dipendenti dalla madrepatria, lo erano in modo piuttosto blando, ormai. Alla stessa stregua degli stati sudamericani italofoni, non si trattava di altro che di una “unione personale” nella persona di Napoleone III, e presto non ci sarebbe stata più neppure quella. Già durante le guerre napoleoniche, sia agli italiani, sia ai francesi era venuto in mente di prendere possesso dell'isola. Alla fine però, lo statuto era rimasto quello dopo un accordo di “neutralità perpetua” dell'isola tra le due potenze. Ambedue si impegnavano a tenere l'isola fuori dalle rispettive sfere di influenza in Asia.
Bandiera della Corsalia
Nel frattempo, in America, tra il 1860 ed il 1865 si era svolta la guerra una spaventosa guerra civile, che aveva lasciato il paese lacerato. Il sud fiammingo, schiavista, agricolo, filo-cattolico, si era ribellato al nord francofono, abolizionista, industriale e tendenzialmente gallicano. Il paradosso fu che gli abitanti del sud, gli amerikaners, o più comunemente “yankees” (viva i paradossi...), trovarono la simpatia ed il velato appoggio degli stati europei. Nonostante al nord potessero vantare una macchina bellica più potente gli stati del sud poterono avvalersi della maggior abilità dei propri generali, della neutralità dei territori occidentali, la cosiddetta “frontiera”, di qualche aiuto da parte indiana.
Quello che però fu determinante, fu la scarsa aggressività con cui vennero condotte le campagne. Dopotutto, sebbene il nord non fu in grado di ricucire completamente lo strappo, recuperò comunque gli stati schiavisti a maggioranza francofona. Una volta concluso questo risultato, si pensò comunque che fosse il caso di lasciar perdere a sprecare tempo e risorse per ridurre all'ordine queste provincie recalcitranti: meglio perderle che trovarle, insomma. Il calcolo, peraltro, non si rivelò così sbagliato: all'alba del secolo XX i rapporti tra i due stati erano distesi e il sud dipendeva in larga parte dal nord dal punto di vista economico, mentre gli yankees instauravano, una volta conclusa comunque l'esperienza della schiavitù, un regime segregazionista che tuttavia causava diversi problemi di ordine pubblico, in paesi dove la popolazione nera superava il 60%.
Bandiera degli degli Stati Confederati d'America (GSA/ECA)
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Situazione del nord America dopo la secessione
È da notare, come si evince dalla cartina, che alla conclusione della secessione viene formalizzato definitivamente il passaggio della nuova Zelanda ai GSA.
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La nascita della Germania
Nel 1864, con l'umiliazione della Danimarca per la questione dei ducati di Schleswig e Holstein, il piano bavarese era alle sue battute finali. Nei due anni che seguirono, infatti, gran parte degli stati tedeschi si accodarono alla Baviera in quella che doveva essere non solo un'unione economica, ma anche politica, ossia la “Confederazione tedesca occidentale”. Tutto questo, naturalmente, in aperta violazione ai patti di Pilsen. Chi ancora resisteva erano pochi stati della Germania orientale. Su tutti il Brandeburgo e l'Hannover, alleati di ferro dell'impero sassone (mentre Assia e Meclemburgo insistevano nella propria politica di neutralità). Ovviamente, tutto ciò generò un'irreversibile escalation di tensione con i sassoni, ma era esattamente ciò che l'establishment bavarese desiderava.
In particolare il geniale primo ministro, Otto von Bray-Steinburg, cui viene dato il merito di aver contribuito con le sue politiche all'unificazione della Germania prima ed averla plasmata in una grande potenza dopo (tanto è vero che la seconda metà dell'ottocento tedesco è anche detta “età brayana”)
La resa dei conti avvenne infine nel 1866. I bavaresi ebbero la trovata di coinvolgere nel conflitto anche la neonata Ungheria, garantendogli il passaggio, non solo de facto, ma de jure della Baconia e di Sopron sotto la sovranità magiara, e, in caso di vittoria, l'annessione della Slovacchia e della Transilvania. Gli italiani, venuti a sapere dell'accordo, ne rimasero decisamente piccati, poiché non amavano l'idea che l'Ungheria si sottraesse alla loro influenza e nemmeno desideravano troppo una Germania unita e forte nascere ai propri confini. Ma del resto, Pavia nemmeno aiutò la causa sassone, rimanendo neutrale, anche per via del recente avvicinamento con i russi. Forse, vedendo le vicende che funesteranno l'Europa al principio del XX secolo, questo si rivelò un errore.
Alla fine, si giunse alla guerra: la confederazione tedesca occidentale contro Austria, Brandeburgo, Hannover. L'Assia, dopo molti tentennamenti, unì anch'essa le forze con i sassoni, mentre il Meclemburgo rimase neutrale. Nonostante alcune episodiche vittorie hannoveriane, la superiorità militare dei bavaresi fu schiacciante. Le due decisive battaglie di Schuttenhofen (Susice, in ceco) e Plauen determinarono l'esito della contesa, nonostante l'alleato ungherese venisse sconfitto in più di un'occasione nei pressi di Nitra e Besztercebánya (o Neusohl in tedesco, o Banska Bystrica in slovacco). Il principato di Transilvania, invece, non rese grande servigio all'imperatore sassone, poiché mantenne la propria neutralità(de facto un gesto del genere rappresentava una dichiarazione di completa indipendenza).
Tutto si svolse nel giro di un'estate e a Praga, il 23 Agosto 1866, la Baviera impose la propria pace all'impero.
La confederazione tedesca occidentale veniva riconosciuta ufficialmente;
L'annessione degli stati di Hannover e Assia al regno di Baviera;
L'estromissione perpetua dell'impero dagli affari tedeschi;
La cessione di Baconia, Sopron e i distretti (sì, solo quelli. L'Ungheria ottenne molto di meno di quanto aveva desiderato, ma d'altronde era stata umiliata militarmente) di Nytria, Besztercebanya e Kassa(Kosice o Kaschau, in slovacco e tedesco)
Brandeburgo e Meclemburgo rimasero isolati e presto anch'essi si rassegnarono a entrare nell'orbita bavarese.
Alla dichiarazione del regno di Germania mancava solo il tocco finale.
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Partitio Lotharingica
Tra il 1866 ed il 1870, Bray-Steinburg fu alacremente impegnato a gestire e plasmare il nuovo soggetto politico che andava nascendo e, nel contempo, guadagnarsi margini di manovra nei confronti di Italia e Francia, che seguivano con una certa attenzione l'evolversi dei contorni politici tedeschi. Il cancelliere bavarese si affrettò a stipulare un accordo segreto con cui la Baviera rinunciava alla rivendicazione delle terre asburgiche in mano al regno d'Italia, ovvero Tirolo, Carinzia e Carniola. Ma l'accordo segreto più importante fu ai danni di Napoleone III, il presidente di Lotaringia. Questi aveva preso il potere come un dittatore di fatto solo pochi anni dopo il 1848. Il suo motto era “far tornare grande la Lotaringia”. Anche se oggettivamente in campo economico e infrastrutturale il paese aveva giovato della sua guida, lo stesso non si poteva dire in campo diplomatico. La Lotaringia continuava ad essere una paese isolato, stretto tra una Francia che si comportava da ingombrante sorella maggiore ed una Baviera in ascesa, che lanciava più di una sirena ai fiamminghi. Dopo gli eventi del 1866 si poteva dire che la situazione di Aquisgrana era divenuta critica. L'unico tiepido alleato restava l'Italia, anche se più che altro per questioni di tipo strategico tattico nei confronti di Francia e Baviera che non per reale amicizia. La “campagna fiamminga” di Bray per condurre le parti settentrionali e orientali del paese nell'orbita tedesca non raggiunse l'effetto sperato, ma ottenne il non risibile risultato di attirare l'attenzione della Francia, che fino a quel momento non si sentiva realmente minacciata dal nuovo stato tedesco che stava sorgendo. Ma anche questo era stato in larga misura preventivato da Bray. Dopo un breve scambio di dispacci, Bray-Steinburg si incontrò con il duca Agènor di Granmont, ministro degli esteri di Francia, per siglare un accordo “difensivo” in caso di guerra con la Lotaringia. In realtà, si trattava di una vera e propria spartizione del regno di Aquisgrana, in generale rispettando le linee tracciate dai movimenti nazionalistici francesi e germanici. Ora mancava solamente il pretesto in cui far cadere Napoleone III. Ma almeno in quella circostanza, i francesi si mostrarono maldestri e frettolosi, aggredendo per primi la Lotaringia, sulla semplice base di un acceso scambio di lettere tra ambasciatori e alcune esercitazioni dell'esercito di Aquisgrana in Piccardia. In realtà, a muovere i francesi furono più che altro voci serpeggianti nell'ambiente diplomatico di un possibile accordo Bavaro-Lotaringio, che avrebbe capovolto quanto era stato stabilito a Sedan. Preoccupati da questo repentino cambio di umore dei tedeschi, Parigi pensò bene di forzare loro la mano per costringerli ad uscire allo scoperto. Il tutto, per quanto Bray fosse rimasto irritato dalla piega che aveva preso la questione, andò però secondo copione: I francesi attaccarono verso tre direttrici, Besançon, Nancy e Lilla. L'esercito Lotaringio fece quanto era nelle sue possibilità per opporsi , fermando addirittura il nemico presso Dunkirk, ma Aquisgrana venne prontamente “pugnalata alla schiena” dai tedeschi, che marciarono sulla stessa capitale lotaringia, su Berna e su Utrecht. Nell'antica capitale carolingia, venne incoronato re di Germania Massimiliano I (V di Baviera) Wittelsbach (Nota: nella nostra Tl è morto nel 1864, ma volevo dargli la soddisfazione di tirare qualche anno in più per dargli questo momento di gloria)
Nel giro di tre mesi, Napoleone terzo dichiarava la resa, la Francia incamerava, Piccardia, Artois, Fiandre sud-occidentali, Lussembrugo, Lorena, Contea di Borgogna e Romandia, mentre i tedeschi occupavano Frisia, Olanda, la restante parte delle Fiandre, Alsazia, Renania, Brisgovia e Svizzera. Corsalia e Paranà, che da tempo avevano allentato i legami con la madrepatria, si dichiararono formalmente indipendenti (sebbene corpi di milizie francesi fossero pronte in Mesopotamia per un'eventuale occupazione), mentre Cozumel el l'isola dei pini vennero occupate celermente dal governo di Parigi.
Inevitabile dire che l'Italia la prese malissimo. Già il rapporto tra le due potenze “latine” non era dei migliori, visto che almeno da una ventina d'anni era in costante deterioramento. Questa fu la classica goccia che portò al punto di non ritorno. Per quanto sia abbastanza paradossale pensare che la reazione non fu così pesantemente negativa nei confronti della Germania “complice” del misfatto, verso cui il rapporto venne progressivamente recuperato. Non si poteva comunque dire che le potenze europee fossero, in generale, in buoni rapporti tra di loro. Se per altri vent'anni si perseverò sulla strada della pace, si deve sostanzialmente all'abilità di Von Bray-Steinburg e alla sua politica dell'equilibrio. Cercò infatti di non rompere né con l'impero sassone, né con l'Italia, pur mantenendo la sua amicizia con la Francia. Era un gioco rischioso, però, messo a dura prova dalle crisi che investivano il corpo in disfacimento dell'impero persiano, su cui molti volevano mettere le mani.
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La crisi anatolica
Non era un mistero per nessuno, nella seconda metà dell'ottocento, che l'impero persiano versava in condizioni quantomai precarie. Si trovava in una condizione di evidente e preoccupante inferiorità nei confronti delle potenze europee, sia dal punto di vista economico, sia da quello politico e militare. La perdita delle regioni arabofone aveva accentuato, all'interno, un senso di allarme e frustrazione, pagato soprattutto dalle etnie di religione cristiana, spesso viste come una quinta colonna collusa con un consorzio di stati che stavano preparandosi alla distruzione e alla spartizione dell'impero. E in effetti, i persiani non sbagliavano quando ritenevano che diverse potenze stessero contemplando l'ipotesi di dividersi i domini di Tabriz, in particolare la Russia, che non perdeva occasione per mostrarsi come il difensore dei diritti dei cristiani presenti nell'impero ogni volta che tale giustificazione faceva comodo per una campagna offensiva a partire dalle proprie basi nel Caucaso. Per quanto tali proposte fossero controbilanciate dalla considerazione che forse la divisione della Persia avrebbe causato più danni che benefici (questa in particolare, era la posizione italiana, anche in virtù del fatto che gli Arabi di Damasco erano sotto una sempre più pesante e preoccupante influenza francese). In tutto questo si inseriva anche il fermento autonomista dei popoli che abitavano il multiforme impero, in particolar modo i turchi. Inutile dire che era l'Anatolia, la finestra dell'impero sul Mediterraneo e sull'occidente che destava i maggiori problemi, per quanto ve ne fossero anche ai confini orientali e nord-orientali (con sindhi, balochi e
turkmeni).
La crisi vera e propria scoppiò all'indomani della grande siccità del 1873, che mise in ginocchio l'agricoltura anatolica. Per far fronte all'ondata di proteste e movimenti violenti, il governo prese la via della risposta militare, di fatto non facendo che peggiorare la situazione. Tra il 1874 ed il 1875 i turchi organizzarono una vera e propria sollevazione, in particolare nelle città della costa Egea e Mediterranea; a catena, si ribellarono anche greci, alani, cilici armeni e pontici occidentali. Gli assiri, invece, si mostrarono piuttosto freddi di fronte alla prospettiva di una rivolta armata contro l'impero. I russi non si fecero sfuggire l'occasione ed ancora una volta oltrepassarono il Caucaso per lanciarsi contro i persiani. Probabilmente i francesi, dalla Siria, aiutarono gli insorti in fatto di armi ed addestramento. I russi, oltrepassato l'Arasse, divisero il loro esercito in due tronconi: da una parte marciarono verso Tabriz e dall'altra verso il fiume Eufrate. Qui, nei pressi di Manzikert sconfiggono, con la collaborazione degli insorti turchi, l'esercito persiano in maniera decisiva. A questo punto, dilagano, raggiungendo Malatya, Germanicea, le città cilicie e Karaman. La sommossa si fa generale ed inarrestabile. Ma di importanza fondamentale è l'arrivo del secondo esercito russo alla periferia di Tabriz. Le potenze europee interessate a fermare l'avanzata russa e la stessa Francia, che teme di vedersi sfuggire l'eventuale influenza sui nuovi stati anatolici che aveva messo in conto di contendere ai russi, impongono a Mosca una conferenza di pace generale per discutere dell'assetto dell'Anatolia. I piani russi sono di creare tre stati: una grande Armenia, una grande Turchia e uno stato assiro. Questo, inoltre, permetterebbe all'impero degli zar di avere, finalmente, uno stato sotto la sua protezione con un porto sul Mediterraneo, elemento decisamente non disprezzabile.
Ma a Monaco le pressioni degli stati europei ridimensionano fortemente le aspirazioni moscovite, così come gli aneliti di indipendenza delle popolazioni.
Qui sopra: cartina dell'Anatolia secondo il trattato di pace russo-persiano di Tabriz e, in sovrapposizione, secondo gli accordi della conferenza di Monaco (cliccate per ingrandirla).
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Bandiera del sultanato di Karaman
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Bandiera del Beilikato di Aydin
La grande Turchia venne ridotta in due stati che occupavano solo una piccola parte dei territori pretesi dalla pace russo-persiana. Il primo, il sultanato di Karaman, con un sovrano proprio sotto l'autorità nominale dello Shah. Il secondo, il beilikato di Aydin, come provincia autonoma dell'impero persiano sotto governatori turchi. Infine, per togliere qualsiasi speranza mediterranea a Mosca, la Cilicia divenne un condominio franco-italo-persiano (sempre sotto l'autorità ufficiale dello Shah). Assiri e armeni, invece, poiché la creazione di stati loro avrebbe minato irrimediabilmente la continuità territoriale persiana, non ottennero governi propri, e se ne andarono da Monaco con delle clausole che facevano della Russia il garante della loro “protezione”. Quello che fece più scandalo fu il cosiddetto “corridoio anatolico” ossia una striscia di terra chiaramente turca ma rimasta in mano persiana per il solo fatto di permettere all'impero di continuare ad avere dei porti sull'Egeo.
La cosa paradossale fu che tale “accomodamento”, non quietò affatto gli animi delle potenze europee. Anzi, semmai, le gettò verso una nuova fase di diffidenza reciproca e di ricerca di nuovi equilibri. Era divenuto palese, per esempio, che Italia e Francia non costituivano più un asse liberale con interessi comuni. Erano ormai due rivali, come nei peggiori tempi del XVIII secolo. La Germania tentava una politica d'equilibrio tra le due, nel frattempo prodigandosi ad aumentare la propria sfera di influenza verso la mitteleuropa e il nord scandinavo. Chi era messo peggio era però l'impero sassone, che castrato nelle sue aspirazioni territoriali ed egemoniche in qualsiasi direzione guardasse, scontava in più un amaro isolamento internazionale, e un odio rancoroso nei confronti dei bavaresi, su cui Dresda meditava vendetta. Infine l'impero Russo, guardato con timore ed allo stesso tempo con sospetto da tutti i contendenti del proscenio, soprattutto in virtù della sua rapida espansione nel corso di tutto il XIX secolo.
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Waka Waka (It's time for Africa)
Con una guerra di posizione diplomatica che stava prendendo corpo tra le maggiori potenze europee, era inevitabile che il terreno dello scontro si spostasse nella corsa alle colonie africane.
Inizialmente, sebbene non come dominio diretto, lo stato europeo che controllava più terre del continente era l'Italia. Il centro nevralgico era, ovviamente l'Egitto. Formalmente era ancora un sultanato indipendente, ma da tempo ormai il reale potere decisionale era in mani italiane. La capitania generale del mar Rosso, con sede a Loredania, era il potere, nemmeno tanto occulto, dietro al sultano del Cairo. La stessa cosa si poteva dire degli altri “protettorati”, Il regno di Nubia(Definizione obsoleta per indicare il regno fungi di Sennar) ed il regno d'Etiopia. La capitania generale aveva le sue sedi anche a Dongola, Sennar e Adafa, oltre che nelle città costiere di San Marco di Nubia, San Sabba d'Eritrea e città del Capo (Capo Hafun, per intenderci). In modo piuttosto simile, attraverso le proprie antiche colonie alla foce del fiume Gambia, aveva esteso la propria influenza lungo gran parte del corso del fiume Niger, ponendosi come “arbitra” delle diatribe politiche tra i regni che si trovavano nella regione. In particolare, si trovò, di fatto, a controllare la politica dell'impero Songhai e, persino, ad aiutarne l'espansione verso sud, contro i regni Mossi e a est, contro quelli Hausa. Tuttavia, sia per gli uni, che per i secondi, l'Italia aveva elaborato una sorta di “condominio” italo-songhai negli anni '70 dell'ottocento.
Non meno importante da menzionare era Tunisi, che, nonostante subisse l'influenza italiana già da prima, venne controllata in pianta stabile da Pavia a partire già dagli anni '40 dell'ottocento. Infine, aveva diversi empori lungo la costa detta “dell'oro”, a contatto con alcuni regni Akan, di cui il più importante era quello
Asante.
Sul golfo di Guinea, anche altri stati avevano posto delle basi, da cui iniziavano a penetrare nell'interno. I francesi nonostante avessero un discreto interesse, poi si concentrarono su altre aree e persero l'occasione a discapito di soprattutto di tedeschi e sassoni. Questi ultimi vedevano nell'Africa l'unico possibile sbocco espansionistico, dal momento che in Europa la loro sfera di influenza si era ridotta considerevolmente. Occuparono tutte le coste comprese e non ancora rivendicate tra le basi italiane e la Guinea portoghese. A est, invece, della costa d'oro, si stanziarono soprattutto i tedeschi, ma rivendicarono dei possedimenti anche inglesi e danesi. Danesi che, d'altro canto, si erano accaparrati anche la foce del fiume Senegal e le coste somale. Il resto? I francesi avevano il controllo di Algeri e, sulla costa atlantica, di Trarza; inoltre, una base, St. Louis, in quella che chiamavano Guinea Equatoriale, davanti all'isola spagnola di Fernando Poo. Ma era in particolare nel sud-est del continente che avevano la presenza più importante. In particolare, avevano posto una pesante ipoteca sul controllo del sultanato di Zanzibar, anche con il fine di meglio coordinare il proprio traffico nell'oceano indiano. Ulteriore mossa, sempre a questo fine, era stata la progressiva colonizzazione delle coste dell'isola di San Lorenzo, detta Madagascar. Il regno nativo dei Merina, che aveva unificato gli altipiani centrali, non vedeva però di buon occhio tale “intrusione”: ci sarebbe voluto molto tempo a Parigi per aver ragione su di loro. Infine, fondamentale e storica colonia francese era il capo di buona speranza, progressivamente sottratto ai coloni guasconi, che avevano dovuto, impotenti ad affrontare gli intrusi, spostarsi verso l'interno.
Si può però dire che l'evento che spinse verso una rapida velocizzazione della penetrazione europea verso l'interno fu la rivendicazione sassone, per mezzo delle esplorazioni dell'inglese Morton Stanley e del polacco Pawel Strzelecki dello sfruttamento e controllo dell'intero bacino del fiume Kongo e, poco dopo, del fiume Zambesi, verso cui si stavano avvicinando anche gli esploratori guasconi e i francesi dalla loro base del capo di Buona Speranza. Sentendosi minacciata da questa invasione di campo, Parigi, fece udire la propria voce grossa. Bray Steinburg, che non vedeva l'ora di trovare l'ennesima occasione per dimostrarsi arbitro della pace in Europa e non aveva alcun interesse che sassoni e francesi arrivassero ai ferri corti, costringendo la Germania ad una decisione univoca nella propria politica di alleanze, promosse a Monaco una conferenza per decidere il destino del continente nero. Vennero invitati i rappresentati delle principali potenze interessate, Francia, Italia, Impero sassone, Danimarca e Inghilterra. Erano presenti, anche se solamente nel ruolo di “osservatori” anche esponenti diplomatici di Ungheria e Romània.
Dopo lunghe ed estenuanti trattative, non solo venne siglato un accordo per regolare e conciliare con le pretese altrui la presenza sassone lungo i due fiumi (con la creazione dell'artificio giuridico dello “stato libero di Kongo e Zambezi”), ma vennero poste le basi per la definizioni delle cosiddette “aree di influenza” e la penetrazione e la spartizione dell'intero territorio del continente da parte delle diverse potenze europee secondo linee prefissate. Gli unici grossi “imprevisti” che rimodellarono queste linee da qui in avanti furono l'annessione francese delle colonie guasconi del sud-Africa e il conflitto italo-francese per il controllo del “deserto”, che ebbe per conseguenza la creazione di un protettorato cuscinetto affidato alla Romània all'inizio del XX secolo.
Qui sopra: situazione dell'Africa al 1914 (cliccate sulla cartina per ingrandirla). In rosso i possedimenti italiani, in azzurro quelli francesi, in blu quelli tedeschi, in rosa quelli spagnoli, in giallo quelli inglesi, in marrone quelli sassoni, in viola quelli danesi, in verde quelli guasconi (rimanenti), in grigio quelli romei. Da notare che Marocco e Kanem sono rimasti indipendenti.
Verso la prima guerra mondiale
Germania
Quello che Bray – Steinburg considerava il più grande dei propri successi, per quanto riguardava la politica estera, era la capacità del regno tedesco di essere vicino ad entrambe le potenze latine, Francia e Italia e, nel contempo, tenere il più possibile isolato diplomaticamente l'impero sassone. Anche la conferenza di Monaco del 1884 per la spartizione, di fatto, dell'Africa si era svolta con bene in mente l'obiettivo di smorzare il più possibile gli attriti che stavano infiammando l'Europa. Il trattato di amicizia con la Russia, con cui l'Italia era ai ferri corti per la situazione medio-orientale e in Asia centrale, del 1885, era stato il tocco finale di questo quadro. I trattati di contrassicurazione impedivano che i conflitti degenerassero in qualcosa di più che guerre per procura in territori lontani dall'Europa.
l problema fondamentale che, tuttavia, Steinburg non aveva messo in conto, era l'intemperanza del nuovo sovrano di Germania, Ludovico I. Istrionico e amatissimo dalle masse, era in palese contrasto con la politica 'accomodante' del proprio cancelliere. Il loro difficile rapporto si protrasse fino al 1886, anno in cui il sovrano morì in circostanze misteriose. L'indagine di polizia si orientò verso il suicidio, forte delle ambigue parole vergate dal sovrano sul suo testamento. Il figlio, Massimiliano II (Ludovico nella nostra TL non si è sposato, ma qui sì), gettò benzina sul fuoco, accusando del subitaneo gesto del padre, proprio il vecchio cancelliere. Logica conseguenza furono, a distanza di poche settimane dall'incoronazione, le sue dimissioni.
Alcuni sostennero che il gesto di re Ludovico fosse stato pensato apposta per screditare fatalmente Steinburg. Molti critici letterari russi, inoltre, suppongono che Dostoevskji abbia preso a prestito proprio da queste teorie per tratteggiare il suicidio di Smerdjakov ne 'I fratelli Karamazov'.
Quale sia stato il reale svolgersi degli eventi, il risultato certo fu il progressivo allontanamento dalla politica di equilibrio, con il coinvolgimento della Germania in un sistema di alleanze contrapposte, con un rapido allontanamento dal regno francese, cui si imputavano pretese egemoniche sulla restante parte della Lotaringia, il desiderio di portare il confine al Reno ed il dominio sulla mitteleuropa.
Il 1887 vede un nuovo importante trattato di mutua amicizia economica tra Germania e Italia.
Francia
Che i francesi ambissero, almeno in parte, ad imporre la propria egemonia in Europa centrale, in effetti era vero. Il regno considerato il più 'liberale' del continente, ambiva a contrastare l'influenza italiana sui Balcani assicurandosi che la Germania diventasse una sua succursale. E, dall'accordo di spartizione della Lotaringia alle dimissioni di Steinburg, era anche convinta di esserci riuscita. Parigi valutava che, cavalcando a dovere le spinte revansciste dei tedeschi su Tirolo e Carinzia, ne avrebbe fatta una sicura alleata. Gli anni novanta dell'ottocento presero alla sprovvista la diplomazia francese, che non aveva ben compreso il madornale errore di valutazione della propria presa su Monaco. A quel punto, per 'far tornare la Germania all'ovile', la Francia mise in atto una serie di prove di forza per spaventarla e, ultimamente, ridurla a miti consigli. A ciò si deve l'avvicinamento diplomatico con l'impero sassone e, soprattutto, il ruolo non marginale di mediatore internazionale per creazione dell'unione scandinava, siglata dai sovrani svedese e danese il 17 giugno 1897, cinquecentesimo anniversario della nascita dell'unione di Kalmar, cui subito seguì la 'triplice alleanza atlantica' tra Francia, Inghilterra e, appunto, Scandinavia.
Effetto collaterale non valutato da Parigi, fu che, oltre a generare l'effetto opposto rispetto a quello sperato sui tedeschi (che si accordano con gli italiani per perfezionare l'accordo di dieci anni prima, trasformandolo in una vera e propria alleanza militare difensiva), anche la Russia percepì la manovra in modo molto negativo, anzi, ostile. Nella 'Rus novgorodiana erano appena stati arrestati dei lituani che diffondevano clandestinamente poesie di poeti nazionalisti sneghliani. Non certo il momento migliore per la formazione di un grosso stato strettamente debitore di una potenza straniera ai confini di una terra che ospitava gruppi autonomistici, per quanto deboli.
Italia
Il principale artefice delle manovre italiane per legare sempre più strettamente a sé la Germania e, in generale, il consolidamento della rete di alleanze di Pavia si dovette, oltre che agli errori francesi, anche al genio del ministro per gli affari esteri e le colonie, il piemontese Giovanni Giolitti. Uno dei primi gesti che lo rendono noto al mondo è la stipula, nel 1890 del 'trattato di devoluzione', con il pontefice Leone XIII. La situazione dello stato pontificio era, da moltissimo tempo, quantomai ambigua. Di fatto, l'organizzazione territoriale, così come l'assetto burocratico, era modellato praticamente sul contiguo stato italiano. Non solo: l'amministrazione civile era sovente affidata a magistrati del regno. Le correnti liberali lo consideravano uno 'scandalo'. Meglio per loro sarebbe stato cancellare quell'abominio, retaggio del passato, che era il potere temporale del pontefice romano. D'altro canto, nonostante i confini del Patrimonio di San Pietro fossero fissati con maniacale precisione, i conflitti d'autorità erano frequenti. La linea di principio papale era di non rinunciare alla sovranità di Roma. Mai. Sul Lazio, invece, si poteva invece discutere. L'ala liberale del parlamento di Pavia era invece decisa sulla linea dura del tutto o niente. Del resto, la retorica che faceva di Roma, antica capitale dell'impero romano la 'dimora naturale' del parlamento italiano, aveva presa.
Giolitti, invece, molto più avvezzo alla realpolitik, impose invece la sua linea di pensiero, appoggiato dal sovrano.
Il trattato che concluse con il pontefice sanciva il passaggio del Lazio allo stato italiano, in cambio della garanzia di sovranità 'perpetua e incontestabile' del papa all'interno della città di Roma.
L'anno seguente, Giolitti mise mano ad un'altra faccenda spinosa, ovvero la formalizzazione dei rapporti di dipendenza dei 'Domini del re d'Italia', ovvero gli stati sudamericani, con la madrepatria. Molti, in Pavia, non desideravano formalizzare la realtà di fatto, ovvero rendere, anche da un punto di vista formale, quei paesi del tutto indipendenti. L'intraprendente ministro, riuscì a garantirsi margini di manovra tali da portare avanti la propria linea.
Secondo il trattato da lui stipulato con Colombia, Guiana e Grimaldea, retoricamente fatto passare alla storia come il 'secondo pronunciamento di Caienna', il parlamento di Pavia non avrebbe avuto alcuna voce in capitolo al governo di quegli stati. In cambio, l'Italia avrebbe conservato nei rapporti economici lo status di favorita. In più, avrebbero conservato l'alleanza militare perpetua con la madrepatria e avrebbero considerato il re d'Italia come proprio sovrano.
Ma l'epopea giolittiana non trovò il suo compimento in una adeguata politica dell'equilibrio in ambito internazionale. I governi successivi non fecero nulla per distendere i rapporti con i francesi, moltiplicando i motivi di contenzioso. Erano in particolare i domini coloniali ad essere proficuo terreno di scontri di frontiera. In particolare la lotta per il controllo del lago Chad e del regno di Ouaddai che rappresentavano sia per Parigi, sia per Pavia, l'anello di congiunzione dei propri domini (per l'Italia in direzione est-ovest, per la Francia nord-sud).
Al contrario, si distesero progressivamente i rapporti con i russi, la cui penetrazione verso il medio oriente aveva sempre inquietato gli animi dell'Italia. Ma questo accadeva quando entrambe le potenze latine caldeggiavano la sopravvivenza dell'impero persiano unito. Ora però, tale obiettivo non era più una priorità: l'Arabestan era in stretti rapporti con i francesi, così come la stessa Persia. L'idea di spartizione propinata dai russi poteva essere un buon deterrente per limitare la grande presenza francese nel levante, che rappresentava un pericoloso cuneo tra l'Egitto e l'India. Nel 1905 venne firmato, a Trebisonda, un solenne trattato di amicizia e alleanza tra le due potenze.
Impero persiano
I tentativi disperati di sopravvivenza del grande malato erano sempre più difficili. Il senso di minaccia derivante dall'accerchiamento di potenze occidentali ostili era forte e dette il via a tutta una serie di ideologie nazionaliste fortemente anti-occidentali e in diversi casi, tali movimenti si fusero con sentimenti religiosi anti-cristiani. Ad accrescere tale astio nei confronti delle popolazioni cristiane era anche il fatto che c'era una sovrarappresentazione degli stessi nelle classi borghesi. Molti mercanti e banchieri, infatti, erano armeni, assiri, pontici o cilici.
Il circolo vizioso di sospetti era alimentato anche dal fatto che stavano sorgendo come funghi movimenti autonomistici in seno a queste popolazioni.
Oltre a questi problemi di natura etnica, vi erano anche problemi più strettamente legati allo svecchiamento delle istituzioni politiche. Nel 1880 era stato finalmente concesso, sull'onda della tragica sconfitta contro i russi, un parlamento, con poteri però molto limitati. Allo Shah era concesso il potere di scioglierlo a proprio piacimento. Cosa che fece in diverse occasioni, scatenando però l'ira delle piazze. La camera, peraltro, non era comunque espressione che di una ampiamente esigua fetta della popolazione dell'impero.
In tali contesti, un'inaspettata ancora di salvezza venne dal cambiamento di politica di Parigi. I francesi erano giustamente guardati con profondo sospetto, anche per i legami molto stretti con Damasco, ma di fronte alla prospettiva di guadagnare un solido alleato per 'riprendersi' ciò che all'impero era stato tolto negli ultimi decenni era troppo allettante. Addestratori militari ammodernarono l'esercito, mentre ingenti capitali vennero diretti alla costruzione di strade e ferrovie, specialmente nella parte occidentale (La Costantinopoli-Ninive).
Impero russo
Se Esfahan piangeva, Mosca non rideva. I problemi dell'impero degli Stroganov erano altrettanto gravi di quelli dei persiani. In primis venivano gli squilibri economici, dovuti alla concentrazione dell'apparato produttivo e industriale proprie nelle regioni a più alto tasso di 'secessionismo', ovvero Lituania, Ucraina e Vareghia. Secondariamente venivano i problemi delle campagne: la liberazione dalla servitù della gleba era stata attuata in modo incompleto, senza la reale ridistribuzione di terra. L'unità produttiva fondamentale della campagna rimaneva il villaggio rurale con le sue terre collettive, che mortificava qualsiasi tipo di produzione volta all'esportazione.
A tutto questo si intrecciavano le difficoltà politiche. Le richieste di monarchia costituzionale avevano prodotto tutti esperimenti volti al fallimento, sia per la scarsa durata dei parlamenti, sciolti d'autorità appena proponevano soluzioni non in conformità al pensiero del sovrano ai problemi, sia per la scarsa rappresentatività degli stessi.
Come già detto, però, a tutto ciò si aggiungevano le fortissime spinte secessioniste della 'fratellanza jagellonica' come veniva denominata. Scritti clandestini in lituano che glorificavano l'era jagellone venivano regolarmente sequestrati dalla polizia segreta a Vilnius, Riga e Daumantas/Minsk. D'altronde però, all'interno di tali movimenti vi erano anche conflitti interni. Se tutti erano convinti sostenitori dell'indipendenza, secondo ideali più o meno romantici, era anche vero che i rispettivi nazionalismi rivendicavano, in molte aree, stessi territori. Un chiaro esempio era Minsk, ritenuta dagli ucraini loro 'capitale morale', quando la città stessa per i lituani, che la abitavano per il 40% circa, si chiamava Daumantas ed era loro di diritto.
Anche tra vareghi e perateici i confini erano veramente ambigui. Anche perché i pontici del nord erano una consistente parte in un vasto numero di città. A Kiev si aggiravano tra un quinto ed un sesto della popolazione.
Le autorità cercavano malamente di giocare sulle reciproche rivalità per tenere sotto controllo la situazione, ma senza molto successo.
Per contro, in politica estera l'impero degli zar si mostrò molto aggressivo. Di fatto, il grande Turkestan cadde progressivamente sotto il controllo russo durante l'ultimo quarto del XIX secolo. L'obiettivo finale però era il raggiungimento della sponda pacifica e la sottomissione della Cina. Venne pesantemente frustrata nelle sue ambizioni però dall'impero coreano.
Appena prima del trattato con l'Italia, peccando di troppa sicumera, la Russia approfittò di un incidente di frontiera per dichiarare guerra alla Corea. Le potenze occidentali declinarono tutte il loro supporto, per quanto l'Italia, qualsiasi fosse l'esito, seguiva molto attentamente la questione, per via dei possedimenti coloniali nell'area.
coreani inflissero diverse umilianti sconfitte, per terra e per mare, all'esercito degli zar. Particolarmente nota fu la battaglia navale di Tsushima-do, in cui la flotta baltica russa, dopo aver compiuto un giro degno delle avventure di Verne, venne annientata dalla flotta coreana, recentemente costruita secondo criteri moderni. A vegliare sullo scontro, minacciosa, vi era una squadra navale italiana, partita da Jeju, che si preoccupò, poi di recuperare i superstiti degli affondamenti.
Il sogno coreano di sconfiggere una potenza occidentale in uno scontro frontale. era infine giunto, anche se il loro vero obiettivo, l'Italia, era ancora troppo distante.
Fu questa umiliazione ad indurre Mosca a siglare un trattato di amicizia, mediato dai tedeschi, con l'Italia. Nel frattempo, la situazione interna precipitava. La sconfitta, vista come disastro nazionale, indusse una vastissima rivolta, di molte differenti anime, liberali e socialiste, che fu repressa a fatica dal regime.
Ma forse era già troppo tardi per delle riforme che consentissero al sistema imperiale di sopravvivere alle prossime bufere.
Impero Sassone
Altro grande malato, sebbene in forma meno evidente dei due precedenti, era l'impero sassone. Frustrato in ogni sua ambizione in ambito continentale, stretto tra una Russia ostile a est, una Germania con ambizioni predatorie a ovest e una riottosa Ungheria a sud, pagava un pesante isolamento diplomatico. Forse per tale motivo riversò nella colonizzazione e nello sfruttamento delle proprie colonie africane grande energia, unica valvola di sfogo delle proprie pulsioni imperialistiche.
Anche in questo caso, sotto la superficie ardevano le braci nazionalistiche delle diverse etnie sottomesse all'establishment germanofono. Al primo posto vi erano i polacchi, i quali non perdevano occasione di ribadire la propria autonomia. Dopo aver perso l'Ungheria, la capitale aveva dovuto riconoscere la creazione di un parlamento a Varsavia, per timore che anche la Polonia trovasse un modo per staccarsi dalla stretta imperiale, ma i fermenti erano sempre dietro l'angolo. A ciò si aggiungevano i malumori di Praga, che, per quanto da sempre fedele ai Wettin sentiva di essere stata posta in subordine. Anche perché, e dopo tutto era vero, i cechi non perdevano occasione di ribadire come fosse proprio la Boemia la parte più produttiva e industrializzata dell'impero.
A seguito dell'alleanza Russo-Italica del 1905, il timore di essere schiacciata da un'alleanza di potenti vicini divenne vera e propria fobia. Quando due anni dopo Parigi intavolò trattative per stringere gli ultimi nodi di un'alleanza militare formale (al mero scopo di impensierire i tedeschi), tale patto venne visto come una vera e propria ancora di salvezza e, oltre tutto, una possibilità di riscatto, in particolare contro la pulce ungherese, che godeva della protezione italiana.
Trebisonda
Mentre il mondo si rinserrava dietro alleanze sempre più strette, il Ponto, come sempre, cercava di sopravvivere nel migliore dei modi possibili, cercando di mettere il piede nel numero maggiore di scarpe. Ad Andrea III, deceduto nel 1858, erano succeduti, nell'ordine, Davide V, suo figlio Andrea IV e Andrea V, figlio di un fratello minore di Davide.
Sotto il suo predecessore la striscia costiera della Paflagonia, da Amastri a Sinope era stata data, a mo' di tardivo contentino dopo la conferenza di Monaco.
Era un sovrano capace, ma si rendeva conto che poteva ben poco per resistere alle maree del mondo. A lui vengono ascritti notevoli sforzi per aumentare l'apparato industriale del piccolo stato e, soprattutto, le vie di comunicazione. Costruire ferrovie sull'impervio territorio pontico era un affare molto complesso. La prima ferrovia costruita, seguendo la linea costiera fu infatti la Sinope-Trebisonda. Per la Trebisonda-Argiropoli e la Trebisonda-Batis, fortemente voluta dai russi, si dovette invece aspettare al principio del XX secolo. Sotto di lui, la marina militare e mercantile pontica vennero aumentate molto, nella misura che le limitate finanze del regno lo consentivano.
Le attività portuali e cantieristiche era l'industria cardine del regno, ma ciò che di gran lunga era più redditizio per lo stato erano le attività creditizie e le rimesse dei pontici residenti in diversi angoli dell'impero russo e persiano. Alcuni affermavano addirittura che vi fossero più pontici fuori dai confini dell'impero trapezuntino, che dentro.
Per tale motivo, oltre che per un più generale senso di giustizia, quando all'interno dell'impero persiano scoppiarono i primi pogrom anti-cristiani, Andrea V alzò la voce presso la corte dello Shah. Il primo vero massacro avvenne intorno al 1896, quando Arbil fu teatro di violenze e massacri ai danni della popolazione cristiana. Da lì, gli eventi si propagarono in altre città, in particolare nel Kurdistan, a Zanjan e Kermanshah. Eventi simili si ripeterono nel 1902 e nel 1905 in Cilicia, in Armenia e sulle rive del Mar Caspio. Diverse centinaia di persone cercarono scampo all'interno dei confini dell'Arabestan o proprio del Ponto. A Trebisonda si crearono diversi 'Gruppi di sostegno', associazioni che avevano lo scopo di far avere viveri e beni di prima necessità ai profughi.
Il governo persiano, nel porsi ufficialmente in contrasto con tali violenze, di fatto le guardava con una certa tolleranza. In più, pur lodando l'iniziativa, accusò (a ragione, a dire il vero) i 'gruppi di sostegno' di fornire ad armeni ed assiri armi e munizioni, con cui, potenzialmente, avrebbero potuto sollevare rivolte contro il potere centrale.
Tutto questo accadeva in concomitanza, peraltro, delle nuove sollevazioni turche che culminarono in una nuova conferenza di pace nel 1904, quando Aydin e Karaman si unirono formalmente per dare vita al nuovo 'regno di Turchia'. La capitale rimase Konya e la bandiera restò quella di Karaman, ma fu molto chiaro a tutti che il perno del nuovo regno era proprio la regione occidentale, che poteva contare sulle città più grandi e ricche. Anche il dialetto aydinide si impose molto presto come 'turco ufficiale', soppiantando in molti contesti il suo vicino karamanide. Andrea V fu il primo sovrano a stabilire regolari relazioni diplomatiche con il nuovo soggetto politico, proponendogli anche una alleanza difensiva segreta in caso di mosse ostili da parte della Persia, nel 1908.
A questo proposito, Andrea dovette usare la mano ferma anche contro gruppi terroristici estremistici, come 'L'aquila comnena', che accusavano la famiglia reale Stuart di aver rinunciato ai propositi irredentistici e al ritorno dell'impero agli antichi confini che aveva al tempo dell'ultimo imperatore Gabras. Nel contempo, con il nazionalismo e la voglia romantica di indipendenza, sorgevano anche nello stesso Ponto diversi gruppi autonomistici, perlopiù Laz, che rivendicavano maggiore considerazione da parte del governo centrale.
Andrea, vista la situazione tesa con il proprio principale vicino compì una scelta quasi obbligata, nel valzer delle alleanze, legandosi sempre più strettamente con russi e italiani. Ma nel compiere questi passi era estremamente riluttante.
In una lettera segreta del 5 ottobre 1905, scrive a sua moglie Sofia:
“Mia amata, russi e italiani hanno compiuto qui le loro promesse matrimoniali. E io, a fargli da prete. Ben misero sacerdote in verità, se non sono riuscito ad indurre gli sposi novelli ad osservare la continenza! E invece si ubriacano di sogni e progetti. Bramano di tagliare a fette il dominio dello Shah con il loro coltello, assicurandomi che ne lasceranno una particina anche per me. Ma io non la desidero. Preferirei che il coltello passasse ben lontano da casa nostra, così da non sentire l'odore del sangue. Perché non sono loro la spada di Cristo che porterà la pace ai nostri fratelli in difficoltà a Ninive, Coloneia e Mardin.
Ma così sarà, credo, ed io non potrò far nulla per evitarlo.”
Quanto fossero profetiche le sue parole, Andrea lo scoprì meno di dieci anni più tardi.
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La crisi anatolica
Nel 1913, una nuova crisi politica, con conseguenti razzie e violenze nei confronti dei cristiani scoppiò nell'impero persiano. Questa volta, però, l'epidemia di violenze dialgò anche nell'ovest anatolico, dove, per ritorsione, molti romei attaccarono e bruciarono le case dei persiani, esigua minoranza in gran parte delle città della regione. Le comunità turche cercarono di mettere pace e impedire le violenze, per quanto le azioni di violenza non fossero rivolte contro di loro.
La situazione però, questa volta, degenerò molto rapidamente in ambito diplomatico. La Romània, con il segreto appoggio italiano decise di dichiarare formalmente guerra all'impero. I turchi, che non volevano essere lasciati indietro nella spartizione delle spoglie, subito si schierarono con loro. Andrea dichiarò la sua personale volontà di rimanere neutrale, ma i senatori del regno non erano d'accordo. Seguì un lungo braccio di ferro, in cui, alla fine, Andrea, anche per accontentare le voci della piazza, cedette, dichiarando anch'egli guerra allo Shah.
La marcia dell'esercito di Costantinopoli, partente da Gallipoli, fu pressoché trionfale, in un primo momento. A ovest del Sangario vi erano pochissime truppe persiane, cosa che gli permise di invadere la Troade con minime perdite. Frattanto, la sua flotta riusciva a prendere il controllo del porto di Smirne, anche per lanciare un chiaro avvertimento ai turchi di non oltrepassare troppo allegramente il Meandro. L'esercito turco era troppo debole per affrontare contemporaneamente i persiani a est e i romei a nord-ovest e concentrò i propri sforzi alla Galazia e alla Frigia. L'esercito Trapezuntino, più piccolo di quello romeo, ma molto ben organizzato, invece, lanciò una limitata offensiva verso la Catoncria. Dopo diversi scontri sanguinosi, la linea dei monti del Ponto venne raggiunta, e Andrea V decise di fare il suo ingresso personalmente nella 'piccola Trebisonda dei monti', ovvero Coloneia, accolto da ali festanti di folla. L'entusiasmo alle stelle, con persone che recitavano per strada brani de 'i cento giorni di Coloneia', durò poco. Il re stesso, una volta raggiunti questi obiettivi decise di fermarsi e non scendere lungo la valle dell'Eufrate, limitandosi ad azioni di appoggio all'avanzata dei turchi oltre l'Acampsis.
Appena vide le armate di Giorgio VI Hannover, re di Romània attraversare il Sangario, tuttavia, si affrettò a porsi come mediatore per una pace di compromesso.
Preferiva di gran lunga che la Bitinia restasse ai persiani, invece di andare ai romei.
In secondo luogo, gli screzi tra turchi e romei per eventuali spartizioni del territorio a nord del Meandro stavano cominciando a farsi pericolosi.
Ultimo ma non meno importante elemento era che le grandi potenze stavano cominciando a muoversi, specialmente la Francia. Andrea V era abbastanza intelligente da capire che se il conflitto per spartirsi l'Anatolia fosse proseguito, le grandi potenze l'avrebbero trasformato in una grande guerra dalle proporzioni catastrofiche.
Costantinopoli si sentì pugnalata alla schiena da tanta fretta, ma alla fine si rassegnò ad accettare. Per converso, i turchi, sui quali si era concentrato l'urto delle forze persiane, ringraziarono sentitamente, temendo che un nuovo contrattacco avrebbe spezzato le loro difese sul Tauro.
Si giunse così alla pace di Dorileo:
I Romei ottennero l'Alania minore; Il Ponto ottenne l'arrotondamento dei confini sul versante settentrionale della catena del Ponto, con Mersifonte, Neocesarea e Coloneia, assieme alla Catoncria e la Paflagonia orientale. I Turchi ottennero alcuni territori in Frigia e Galazia (e avanzando oltre l'Acampsis sino a Sebastea/Sivas).
Ma la resa dei conti era solo rimandata...
Fine della Quarta Parte; per leggere la Quinta Parte, cliccare qui
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