L'Impero Pontico, quinta parte

di Paolo Maltagliati


Salve, mi chiamo Paolo Maltagliati, studio storia medievale all'università di Milano, e sono in particolare appassionato di storia bizantina. Ecco la terza parte della mia ucronia pontica; per leggere la prima parte, cliccate qui; per leggere la seconda parte, cliccate qui; per leggere la terza parte, cliccate qui: per leggere la quarta parte, cliccate qui.

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La guerra

Come spesso accade, la guerra che cambiò il volto dell'Europa nacque da un incidente.

Precisamente il 28 giugno del 1914. Il giovane principe di Sassonia, il ventunenne Giorgio, si era recato in visita ufficiale a Kolozsvar/Cluj, in Transilvania. Si trattava di un normale gesto per riaffermare la presa imperiale sul principato, per quanto ormai fosse di fatto indipendente.

La situazione all'interno della città e della Transilvania tutta era in realtà piuttosto tesa. Il partito filo sassone e quello filo magiaro avevano da tempo ingaggiato una lotta senza esclusione di colpi, nelle aule del senato, come fuori. Coloro che erano effettivamente favorevoli ad una unione con l'Ungheria erano effettivamente un'esigua minoranza, ma che godeva di notevole propaganda in molti ambiti economici, sociali e politici.
Non mancava, tra di essi, chi era propenso all'utilizzo della forza attraverso attentati e colpi di mano, come il gruppo 'La freccia dorata'.

Quel giorno d'estate, uno dei rappresentanti di tale movimento terroristico, un ragazzo magiaro di nome Gabor Herceg, puntò la propria arma contro il principe ereditario dell'impero sassone, uccidendolo, mentre era in parata per le vie dalla città.

E cambiando così la storia.

L'imperatore Federico Augusto III Wettin pose una dura richiesta al governo magiaro, pretendendo che le indagini sull'accaduto in territorio ungherese venissero compiute da ufficiali di polizia sassoni. Budapest denunciò tale pretesa come violazione della sovranità nazionale dello stato, negando recisamente.

Di lì a un mese, il clima non fece che infiammarsi sempre più, fino al fatidico 23 luglio, giorno in cui l'impero inviò un pesantissimo e inaccettabile ultimatum all'Ungheria. Altrimenti, sarebbe stata la guerra.

Nel frattempo, i giochi di alleanze si erano messi in moto. L'Italia aveva con l'Ungheria una convenzione difensiva e minacciò l'intervento in caso di aggressione del paese amico.

I magiari, prevedibilmente, rifiutarono e in un rapido effetto domino tutta l'Europa si trovò in guerra.

L'Italia si schierò con l'Ungheria. Il giorno dopo la Francia dichiarò guerra all'Italia ed ai magiari; a sua volta, i tedeschi fecero altrettanto con i francesi; russi e persiani tennero dietro.

Si crearono quindi, all'alba dell'agosto del 1914 questi schieramenti:

L'intesa: Francia, Impero sassone, impero persiano da una parte e L'alleanza: Italia, Russia, Germania, dall'altra.

In un primo momento, molte nazioni optarono per la neutralità, sebbene propendessero per l'una o per l'altra parte. Entro un anno, comunque, il conflitto si sarebbe allargato a molti altri paesi.

Il primo anno di guerra fu ampiamente sfavorevole per l'alleanza. I sassoni non persero tempo ad attaccare i magiari e prima che il fronte si stabilizzasse, i primi avevano già raggiunto il Danubio. Per sicurezza, il governo lasciò Budapest per stabilirsi a Zala, ritenuta più sicura. Le forze italiane a supporto giunsero in un momento provvidenziali, verso l'autunno, quando i sassoni scagliarono una pesante offensiva volta a guadagnarsi il controllo della città.

L'attacco francese sul versante alpino fu altrettanto veemente. La speranza francese era di impedire che tedeschi e italiani non formassero uno fronte unico lungo tutta la linea del loro confine.

Ma, la linea di fortificazioni tenette.

Meno bene andò in Provenza. Gli italiani vennero sconfitti, in particolare all'altezza di Carpentras e dovettero riorganizzare una linea difensiva all'altezza del fiume Durance.

Nel complesso, però, l'inerzia era destinata a mutare: i tedeschi giunsero presto a dare battaglia nell'Artois e in Lorena, attaccando diverse volte all'altezza di Verdun e del fiume Somme.

Per l'estate del 1915, si era stabilizzata una lunga linea di trincee lungo tutta la ex-Lotaringia, dalla Manica al Mediterraneo.

Nel frattempo, anche i russi, finalmente, mossero le prime forze. Gli esiti, però, al nord li videro perdenti. Le armate polacche che componevano per la maggior parte l'esercito sassone spezzarono le linee più volte, infliggendo una pesante sconfitta alle armate dello zar in Prussia.

Meglio andò sul versante meridionale, dove i persiani faticavano a tenere l'Armenia.

Intanto, ad Andrea V di Trebisonda, che aveva, nonostante le intense pressioni russe, optato per la neutralità cominciavano a giungere inquietanti racconti di torture, stermini e persecuzioni perpetrate dai persiani a danno di assiri e armeni, con l'ausilio dei curdi.

Prese da subito molto sul serio questi resoconti, chiedendo chiarimenti e inoltrando note preoccupate alla corte dello Shah, senza però ricevere adeguata risposta. La corte persiana insisteva che ad affermare che tali false voci erano il risultato della propaganda dell'esercito russo avanzante in Armenia.

L'illusione di una guerra breve durò molto poco. Quando fu abbastanza chiaro che ci si avviava verso una fase di stallo, i due fronti iniziarono a cercarsi nuovi alleati.

I primi a rispondere all'appello, dopo diversi mesi di consultazioni segrete, furono, per l'alleanza, turchi e romei. Avevano appena concluso una pace che li aveva lasciati ampiamente insoddisfatti, Ora era il momento di mettere a posto le cose.

Quando Costantinopoli presentò solenne dichiarazione di guerra, nel febbraio del '15, Andrea V commentò così:

“Giorgio VI non è che un folle! Cosa sogna? Di ricreare l'impero romano d'oriente di Basilio il macedone? E ora anche il senato di Trebisonda bercia contro di me, perché è affascinato dalla sua gloria. Schifano i romei, ritenendoli degli arroganti guerrafondai e poi vengono a lamentarsi da me che il loro re è un prode (naturalmente sottintendendo ch'io sia un codardo).
Konovalov, l'ambasciatore russo, mi ha chiesto perché mai l'aquila comnena non brilla sui campi di battaglia portando onore al Ponto, come in passato. Non mi sono mai sentito così scozzese come in quel momento!”

Anche l'intesa, tuttavia, non rimase con le mani in mano: nell'estate la Scandinavia, dopo aver visto le difficoltà russe entrò nel conflitto per 'riprendersi' la Carelia. Anche se, su insistenza dello stato maggiore sassone, avrebbe dovuto concentrarsi sullo scendere lungo la costa baltica.

Gli illirici, invece, vennero accusati dagli italiani di essere dei 'traditori della famiglia' (va ricordato che i re di Illiria erano Visconti), dopo che riaffermarono la propria volontà di mantenere la propria neutralità sino al termine del conflitto.

Le cose, però sul fronte francese, in fondo, per tutto il 15 e i primi del '16, sebbene non si potesse dire che andassero bene, non andavano neppure male. I francesi resistevano, ma lentamente i tedeschi guadagnavano posizioni e gli italiani riguadagnavano quanto perduto e anche oltre. Dopo incessanti e sanguinose lotte, il 12 febbraio 1916, infatti, gli italiani riuscivano a prendere Grenoble.

Anche sul fronte orientale i tedeschi non se la cavavano male. Dopo le prime difficoltà in Pomerania, avevano recuperato e ora erano all'offensiva contro i sassoni, specialmente sui monti austriaci.

Per alleggerire la pressione sempre molto forte sulla pianura pannonica, tuttavia, il comando alleato (italo-tedesco, di fatto) decise di penetrare in Transilvania, nonostante il principe avesse fatto dichiarazione formale di neutralità.

Il piano, ideato da Von Falkenhayn, riuscì. Il principato fu occupato, permettendo così un collegamento diretto con i russi per l'invio di truppe, viveri e rifornimenti. Di fatto, in questo modo, l'impero sassone sarebbe stato circondato su tre lati, a patto che gli scandinavi non riuscissero a spezzare l'accerchiamento.

Ma questi ultimi avevano i loro grattacapi: il tentativo di invasione tedesco per via terra dello Jutland era fallito, grazie al tempestivo invio di truppe francesi a rinforzo, ma le battaglie per mare tra le tre marine tra mare del nord e Baltico davano un esito incerto.

A seguito dell'invasione transilvana, probabilmente su insistenza di Parigi, infine anche l'Inghilterra si mosse, dichiarando guerra all'alleanza, con il pretesto che era stata violata la sacra pace di un paese neutrale. I francesi speravano che con l'apporto della loro flotta gli equilibri nei mari si sarebbero volti a loro vantaggio.

Intanto, però, sebbene le sorti del conflitto si decidessero in Europa, non si combatteva certo solo lì.

La guerra toccò tutti i continenti, dai Caraibi all'Africa all'Estremo oriente. Particolarmente cruenti furono le battaglie in India. Qui i francesi potevano godere di forze preponderanti, ma non riuscirono a coordinare efficientemente i loro attacchi, perdendo buona parte del loro potenziale.

La guerra nelle colonie era certamente più movimentata, fatta di lunghe avanzate e colpi di mano, forse anche per i numeri più esigui con cui si combatteva.

Le armate francesi erano riuscite a maggio a prendere Delhi, ma un contrattacco italiano da sud aveva costretto una discreta parte delle loro forze a ritirarsi, vanificando l'offensiva.

Peggio ancora andò però ad una colonna italiana avanzante dalla Malesia, volta a recuperare territorio perduto e conquistare il Siam. Imbottigliati al passo delle tre pagode, vennero fatti a pezzi dall'artiglieria nemica. Pegu fu assediata e i francesi poterono avanzare fin quasi a Malacca.

In Africa, buona parte dei conflitti si svolsero, come era prevedibile, nel nevralgico Ouaddai, mentre i sassoni perdevano molto rapidamente la Costa d'Avorio.

Particolarmente importante nell'organizzazione delle truppe in Africa fu il generale tedesco von Lettow-Vorbeck che con scarse truppe condusse efficacissime attività di guerriglia spingendosi coraggiosamente nelle retrovie dei francesi.

Nel frattempo a maggio era entrato in guerra anche il Ponto. Il partito monarchico, messo in minoranza, dovette accettare l'evolversi in questo senso della situazione. Andrea V, a fronte di quello smacco, avrebbe voluto abdicare, ma sua moglie Sofia lo convinse a rimanere in sella.

“Mia amata Sofia,
Questa è un'ora cupa. Non volevo la guerra eppure ho dovuto accettarla. Forse, in fondo, avevano ragione coloro che mi schernivano codardo. Tu mi dici che debbo restare, per il bene di un popolo che va entusiasta a prendere le armi per farsi massacrare. Io grido pace e loro rispondono guerra.”
In un discorso al senato, riaffermò tenacemente la propria posizione, anche se concesse al partito della guerra un motivo per cui era giustificato un conflitto del genere. Naturalmente, i giornali di Trebisonda si affrettarono a riportare a lettere cubitali solo quest'ultimo punto e non il resto del suo discorso:
“Guerra! Voi urlate. Perché? Perché spezzare delle vite innocenti? Per liberare chi e da cosa? Per levare dal loro collo il fardello di una tirannide per sostituirla ad un'altra, la nostra? 
Per un solo motivo accetto di restare alla guida di un popolo sordo e assetato di sangue.
Armeni e Assiri vengono massacrati giorno dopo giorno. E il nostro fardello, forse può alleviare il loro. Ma rimarrà un ben triste fardello, alla fine lo comprenderete anche voi!”

Anche il 1916 passò, portandosi dietro speranze di pace infrante e nuove, vane offensive su questo o quel fronte.
In effetti, l'entrata in guerra del Ponto fu provvidenziale per gli armeni (ma non per gli assiri), perché, l'esercito russo era vicino al collasso, sia nel Caucaso sia nelle pianure. Nonostante gli sforzi italo tedeschi, i sassoni erano arrivati a Minsk/Daumantas e la costa baltica era in mano nemica.

Le armate turche e quelle pontiche si riunirono a Melitene nel marzo del 1917 per lanciare un'offensiva congiunta, mentre a ovest la guerra poteva di fatto dirsi chiusa. Turchi e romei avevano stabilito un'approssimativa linea condivisa di spartizione e con la cattura dell'ultima guarnigione di Afyon non c'erano più eserciti persiani ad ovest del fiume Eufrate.

Quello che vide il Capitano turco Talaat Pasha (nato a Costantinopoli) quando entrò con i suoi uomini nella città di Mardin fu uno spettacolo agghiacciante:

“Pile e pile di corpi corrosi dal vento e dalle intemperie... Chissà da quanto erano lì. Conoscevo Mardin, ci ero stato. Era una fiorente città. Quella che avevo davanti agli occhi non era Mardin. Era morte. Che Allah perdoni coloro che hanno fatto questo, perché la mia misericordia sarebbe troppo piccina. I soldati, verso sera hanno trovato una bambina ancora viva, che vagava, denutrita, con occhi allucinati per le strade, come uno spettro. Il suo sguardo spaventato è un'immagine che non potrò dimenticare mai.”

Molti assiri, di fronte alle persecuzioni, perirono, ma molti altri presero le armi, per combattere una battaglia disperata. Gran parte delle città della piana di Ninive si spopolarono, perché i loro abitanti andarono su nel nord, tra le montagne a resistere all'esercito persiano o alle milizie curde, assieme ad akistani ed armeni.

Nel frattempo, anche a Mosca le cose prendevano una piega irreversibile. Di fronte alle continue sconfitte e ai disastri della guerra, la posizione dello zar Simyon X si fece sempre più precaria. Le rivolte si diffusero come fuoco nella paglia, persino nella capitale e l'esercito, cui venne dato l'ordine di sparare, si rifiutò di eseguire. Mano a mano un numero sempre maggiore di reggimenti decideva per l'ammutinamento.

In marzo, tale disastrosa situazione costrinse lo Zar, infine, ad abdicare. Il governo venne affidato ad un governo provvisorio nelle mani delle principali forze di opposizione alla monarchia. La situazione, tuttavia, al fronte precipitava, con la Lituania che si affrettava a dichiararsi indipendente sotto l'egida sassone, così come la Carelia. Intanto anche l'esercito scandinavo era alle porte di Novgorod.

Dopo mesi convulsi, infine il potere venne preso dai bolscevichi di Lenin, imponendo per la prima volta nella storia un regime comunista. Tale regime sarebbe stato forse destinato ad avere vita breve, se fosse stato affrontato risolutamente dalle forze occidentali dell'epoca. Ma queste stesse forze erano in conflitto le une con le altre e gli sforzi per reprimerlo furono troppo pochi e troppo tardivi.

Nel marzo 1918, con intere aree del paese nel più completo caos, i bolscevichi furono costretti a firmare il trattato di pace imposto loro dai sassoni, che prevedeva la costituzione di una grande Lituania sotto un sovrano sassone (e di fatto sottomessa all'impero), così come numerosi stati cuscinetto (Moldavia, Valacchia, Dobrugia, Volinia, Vareghia, Ucraina e Perateia); oltretutto, riconosceva alla Scandinavia il controllo della Carelia e della Sneghlia.

Un trattato di pace durissimo, ma che, per via delle circostanze della guerra, non durò molto.

Infatti la guerra stava arrivando ad una svolta decisiva.

I tedeschi, riuscirono infatti nell'agosto del 1917 a sorprendere la flotta anglo-scandinava e sconfiggerla pesantemente. Poco dopo la penisola dello Jutland venne conquistata completamente e la Germania si preparò per uno sbarco in grande stile a Malmoe che li avrebbe condotti ad occupare Stoccolma, secondo i loro piani, nel giro di pochi mesi.

L'esercito persiano era vicino al crollo e la 'triplice levantina', ovvero pontici, turchi e romei, era giunta infine, dopo una grande vittoria presso Arbil, ad occupare Tabriz, con l'Arabestan che, sperando di guadagnarci qualcosa, aveva deciso di 'pugnalare alle spalle' l'impero, muovendosi su Avhaz.

La prima cosa che fece Andrea V, dopo la notizia della vittoria, fu di visitare personalmente Ninive, città pesantemente martoriata dalla guerra e dalle persecuzioni. Queste furono le sue impressioni:

“Mia amata Sofia,
Sono entrato oggi a Ninive. Quanta distruzione! Mio padre me l'aveva sempre descritta come una città bellissima. Ora, se non fosse per i volti dei suoi abitanti, parrebbe un luogo di morte, non di vita. Sì, ti dico, i volti dei suoi abitanti sono la sua salvezza. Perché vi sono file e file di carovane di gente che rientra in città, dando non poco daffare ai nostri soldati, che regolano questo flusso. Tornano con la certezza che le ore più cupe sono, a Dio piacendo, finite. 
Post scriptum: sono ancora sorpreso dalla decisione dello stato maggiore romeo di continuare questa guerra con noi, anche quando i loro obiettivi sono già stati raggiunti.”

Ma tutto ciò non era che un granello di polvere di fronte al grande sommovimento in corso dall'altra parte dell'oceano.

Con l'accordo di San Sebastiano, L'Italia comincia in misura sempre più larga ad attingere dal grande serbatoio di uomini e apparato industriale rappresentato da Guiana e, soprattutto, dalla Grimaldea. Per la prima volta nella storia, la bilancia commerciale delle ex-colonie è all'attivo nei confronti della madrepatria.

Il decollo industriale grimaldino dell'inizio del XX secolo, è la chiave di volta per decidere gli esiti della guerra. E, anche per quella che i francesi definirono trahison fatale, il fatale tradimento.

Ovvero, la decisione del presidente degli EUA, l'ormai anziano Auguste Juilliard di schierarsi contro i 'cugini' d'oltremare. Il motivo? Al di là di dichiarazioni di facciata del tutto estemporanee, le ragioni erano essenzialmente economiche. L'America poteva vantare linee di credito con tutti i principali contendenti nel conflitto. Ma la somma del debito italiano e tedesco nei confronti degli EUA è circa una volta e mezza rispetto a quello di Francia e Inghilterra. Come verrebbero pagati tali debiti in caso di sconfitta?

Era poi chiaro che per i francesi sarebbe stata questione di tempo: tempo che avrebbe giocato tutto in favore di un ulteriore accrescimento delle potenzialità belliche e industriali, nonché della popolarità in ambito internazionale della Grimaldea, concorrente decisamente pericoloso per la leadership, morale e politica, del continente americano.

Naturalmente, ridurre la scelta dell'interventismo ad un mero calcolo di questo genere sarebbe, forse, sin troppo riduttivo. Pur tuttavia tali considerazioni ebbero sicuramente il loro notevole peso nella scelta finale.
Nel luglio 1918 avviene l'ultima grande offensiva francese sul fronte occidentale. Gli eserciti di Parigi raggiungono la Mosa, ma vengono fermati ancora una volta. Senza più riserve, quello che avviene dopo è un lento, graduale collasso. La ritirata francese non si arresterà più.

Più a est, invece, l'esaurimento delle forze dei sassoni avviene ancora prima. Nonostante nel novembre del '17 un attacco a tenaglia (complice il richiamo di uomini e mezzi dal fronte orientale) da nord e da sud avesse lacerato come un coltello nel burro il fronte ungherese, con la conquista di Debrecen e Temsvar, pure Budapest non era caduta, con supplementi tedeschi e italiani che puntellavano la linea Danubio-Tibisco.

Nel febbraio dell'anno successivo, Pilsen e Halle, quasi contemporaneamente finivano sotto il controllo tedesco. L'avanzata è lenta ma costante. E infine, con un'ultima spallata autunnale, l'esercito magiaro parte all'offensiva e dilaga in Slovacchia.

Il 1 novembre i persiani firmano l'armistizio; il 4 novembre, tocca a Dresda; Il 6 è la volta di Stoccolma. Infine, l'11, a Nancy, anche i francesi siglano la resa. La guerra è finita.

Andrea V, uno dei plenipotenziari che a Rayy firmò la resa dell'impero persiano, commenta così in una delle sue numerose lettere:

“Mia amata Sofia,
Qui a Rayy il tempo è mite. Non sembra neanche che si stia approssimando l'inverno. Il mio cuore, dopo tanti tormenti, è stranamente leggero.
Stranamente? No, a dire il vero non v'è nulla di strano. La guerra è finalmente finita. Tanto orrore e tanta morte ho visto, per quanto io non sia mai stato in prima linea!
Eppure ho scelto di combatterla fino alla fine, dopo averla avversata tanto. Non so se quello che mi ha animato sia stata una causa giusta. Nessuna causa, penso, sia giusta fino in fondo, dopo tutto. Ho fatto il mio dovere di imperatore, ma come uomo, non so. Spero che Dio abbia misericordia della mia anima, alla fine della mia vita. Ora, l'unico mio auspicio è che da questo orrore l'umanità apprenda e costruisca una pace duratura.”

Nonostante le speranze di una pace equa del sovrano trapezuntino, le condizioni dei vinti furono molto dure. 
Nella splendida cornice del castello di Fussen, in Baviera, i vincitori si riunirono per spartirsi il mondo ed imporre la loro parola sui vinti. Il principio del rispetto delle nazionalità, tanto caro al presidente degli EUA, venne usato come clava per punire gli sconfitti, senza badare a troppe sottigliezze.

I principali punti del trattato furono:

1) La ricostituzione della Lotaringia secondo i confini del 1870
2) L'indipendenza della Catalogna
3) L'indipendenza dell'Irlanda
4) L'indipendenza della Boemia
5) L'indipendenza della Polonia
6) L'indipendenza della Lituania
7) L'indipendenza dell'Assiria
8) L'indipendenza dell'Armenia
9) La spartizione dell'Unione scandinava in Islanda, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Carelia
10) La Sassonia, i Sudeti e la Slesia, la Pomerania orientale (eccettuato il porto di Danzica) e la Prussia vengono annesse alla Germania
11) La Slovacchia e la Transilvania vengono annesse all'Ungheria
12) Mandato temporaneo italiano sui possedimenti caraibici francesi
13) Cessione di Algeria e Africa orientale francese, Senegal e Somalia scandinave, Madagascar e isole dell'oceano indiano francesi all'Italia
14) Cessione della restante parte delle colonie francesi alla Germania, tranne il Sudafrica, che ottiene l'indipendenza
15) Cessione del Camerun spagnolo all'Italia. Come risarcimento la Spagna ottiene il Sarawak francese
16) Cessione della Mesopotamia francese al Paranà
17) Cessione del dominio di Nuova Bretagna francese alla Corsalia
18) Cessione dell'India francese e dei protettorati di Bengala, Assam, Lan Na, domini Shan, Laos, Dai Viet e Annam all'Italia
19) Cessione dei protettorati di Manipur, Arakan, Birmania, Siam, Champa e Cambogia alla Germania
20) Nuovo Galles Meridionale e Canada inglesi ottengono l'indipendenza sotto la tutela degli EUA, unione dell'Africa del sud-ovest inglese al Sudafrica; annessione della Groenlandia e dell'Acadia francese da parte degli EUA
21) Riconoscimento dell'occupazione della Melanesia francese da parte dell'impero coreano
22) Spartizione dell'Anatolia tra Romania, Ponto e Turchia secondo i termini già stabiliti dall'armistizio di Rayy
23) Francia, Inghilterra, Persia, Svezia e Danimarca devono pagare agli stati vincitori riparazioni di guerra per una cifra da stabilirsi
24) Principati Danubiani, Georgia, Alania, Perateia sono sotto la protezione e il mandato della società delle nazioni fino ad una data da stabilirsi.

(cliccare per ingrandire)

Presto divenne molto chiaro che gli ultimi due punti erano senz'altro i più ardui da attuare. Le riparazioni di guerra pretese da tedeschi e italiani nei confronti della Francia ammontarono ad una cifra pesantissima: 226 miliardi di franchi oro. I francesi ribadirono da subito la più completa incapacità di far fronte ad un debito così spaventoso, che avrebbe messo in ginocchio completamente la loro economia. Ma gli alleati europei, in special modo gli italiani, si mostrarono molto poco tolleranti.

Per quanto riguardava l'ultimo punto, invece, le difficoltà derivarono dalla riconquista progressiva di quei territori da parte delle armate rivoluzionarie bolsceviche. La Perateia era diventato l'ultimo caposaldo dei bianchi controrivoluzionari, mentre le repubbliche caucasiche si erano riunite in un effimero (effimero come molti altri, nati in questa o quella regione e man mano sottomessi) soggetto politico di stampo socialista. Entrambe, entro il 1920 vennero sgominate dai bolscevichi. La responsabilità, difatti, di tutelare e 'proteggere' tali repubbliche venne scaricata quasi interamente sulle spalle dell'esercito trapezuntino e quello della neonata repubblica armena. Senza l'ausilio dei turchi e, in modo particolare, dei romei, l'impresa per il Ponto, all'alba del '20 si preannunciava già disperata, davanti alla forza d'urto del nuovo esercito russo la cosiddetta 'armata rossa'. Si poté considerare già una notevole vittoria ed un grande risultato il fatto che la stessa Armenia non non fosse stata invasa. I russi tentarono di rioccupare anche la Lituania, ma vennero faticosamente respinti una volta giunti alle porte di Vilnius.

Unica eccezione, rispetto a questo trend, furono i principati danubiani di Moldavia e Valacchia, rapidamente 'annessi', per quanto ufficiosamente, dalle armate magiare.

L'unico buon proposito, purtroppo dall'efficacia molto limitata per i difetti di fondo del progetto, fu la costituzione di una società delle nazioni: una sorta di associazione tra stati per risolvere con l'arbitrato i conflitti internazionali. Purtroppo, però, la scelta di limitarne l'adesione, almeno in un primo momento, ai soli paesi vincitori e la mancanza di un soggetto coercitivo forte (ossia una forza militare congiunta dei paesi membri) determinarono il suo fallimento.

Fallimento aggravato dal fatto che, alla morte di Juilliard, gli EUA si rintanarono in uno splendido isolamento, rifiutandosi coscientemente di giocare un ruolo politico di primo piano verso i paesi europei.

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Bandiera della repubblica Boema

Bandiera della repubblica Boema

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Bandiera del regno di Polonia (sotto un ramo cadetto dei Wittelsbach)

Bandiera del regno di Polonia (sotto un ramo cadetto dei Wittelsbach)

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Bandiera della repubblica d'Irlanda

Bandiera della repubblica d'Irlanda

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Bandiera della repubblica di Lituania

Bandiera della repubblica di Lituania

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Bandiera della repubblica catalana

Bandiera della repubblica catalana

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Bandiera della repubblica di Assiria

Bandiera della repubblica di Assiria

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Bandiera della repubblica di Armenia

Bandiera della repubblica di Armenia

I ruggenti anni '20 e l'ascesa delle destre

Gli anni del dopoguerra furono anni passati in una sorta di 'ubriacatura collettiva'. Ad un tempo si voleva e non si voleva dimenticare quanto era successo, gli orrori della guerra.

Si voleva, perché la tragedia del conflitto mondiale era una ferita che era ancora fresca e dolorosa. Eppure, come si è detto, non lo si desiderava, perché era allo stesso tempo un evento verso cui puntare il dito per ascrivergli colpe per tutto ciò che non andava.

Fu il periodo in cui, in modo più o meno preponderante a seconda degli stati, i partiti di massa erosero il potere delle vecchie leadership liberali.

Tra questi grande peso e rilevanza avevano i movimenti di matrice comunista. Prospettare al popolo una rivoluzione che abbattesse responsabili di quell'insensato massacro di popoli che era stata la guerra era un argomento che, inevitabilmente, faceva presa.

Al pari, faceva presa anche un altro tipo di discorso, quello portato avanti da partiti di ispirazione nazionalista e xenofoba, che facevano ricadere la colpa della guerra sui borghesi, riaffermando ed esaltando il valore del popolo e additando come inferiori o come 'colpevoli' le minoranze etniche. Tali partiti avevano tanto più seguito nei paesi sconfitti, in particolare in Francia, dove una debole repubblica aveva preso il posto della più antica monarchia europea esistente.

Ma esistevano movimenti analoghi praticamente in ogni paese europeo.

Il primo a cadere vittima del domino di tali partiti, peraltro di vocazione autoritaria e antiparlamentare, fu la Germania.

Può sembrare un paradosso che fu proprio uno dei paesi vincitori del conflitto a vedere per primo l'avvento di una tale  tendenza, ma così fu.

Innanzitutto perché molti partiti tedeschi non videro affatto l'esito della guerra come una vittoria. Oltre a vedersi decurtati dei territori fiamminghi e alto renani per la ricostruzione della Lotaringia, l'Italia aveva posto un rifiuto alla suggerita compensazione, ovvero la cessione di Tirolo, Carniola e Carinzia. Solo l'ultima delle tre regioni, Pavia accettò di cedere, mentre per le altre due giunse un categorico no.

Quando mai si è visto un paese vincitore che perde dei territori dopo una guerra? Eppure, per colpa di quegli infingardi degli italiani, a noi è successo proprio questo. Per restaurare uno stupido stato che ha fatto il suo tempo, come la Lotaringia! E in cambio, come se bastasse ciò a farci contenti, ci hanno 'gentilmente concesso' una buona fetta delle colonie francesi. Ma quante schiave negre potranno mai sostituire una buona domestica fiamminga?

Queste furono le parole del grande generale ed eroe di guerra Erich Ludendorff(NDA: Ludendorff, come Falkenhayn e Vorbeck, precedentemente citati, sono prussiani, perciò, per logica, in questa timeline dovrebbero essere nati sotto il domino dell'impero sassone. Purtroppo, gran parte dei generali 'famosi' della prima guerra vengono dalle stesse regioni e, oltre a questo, non conosco molti militari bavaresi particolarmente illustri. Per questo motivo, immaginate che in questa Timeline siano nati in tutt'altro posto della Germania), all'indomani del suo successo, con il Partito Popolare Nazionalsocialista tedesco (Deutschnationalsozialistiche Volkspartei, DNSVP) Durante la campagna elettorale per le elezioni tedesche del 1920.

Le ondate di scioperi che stavano paralizzando i settori produttivi e l'apparente grande successo dei socialisti dell'SPD e dei comunisti, indussero molti imprenditori a 'gettarsi' tra le braccia dello stimato eroe della grande guerra e del suo fervente anticomunismo. Durante le elezioni, il DNSVP prese la ragguardevole cifra del 20% dei voti, ma l'unione delle sinistre ammontava ad oltre il 42%

Il re, di fronte alla prospettiva di affidare l'incarico di formare il governo a Herman Muller, temporeggiò. Non aveva ancora ricevuto una risposta definitiva da parte di quest'ultimo sulla spinosa questione del movimento spartachista (movimento violento di estrema sinistra che sobillava alla rivoluzione), su cui il leader socialista era restio ad usare la violenza, temendo per questo di rompere la precaria alleanza con i comunisti. Ludendorff ed i suoi approfittarono dell'indecisione del sovrano per effettuare un putsch. Marciarono su Monaco senza essere fermati dai corpi militari della Reichswehr, come aveva chiesto Muller (e cosa di cui comunque si fece forte Ludendorff: Hanno paura di usare la forza della polizia sugli spartachisti, una manica di violenti briganti che distruggono i macchinari delle nostre fabbriche, e poi, guardateli! Non esitano a ordinare di sparare a NOI, lo scudo della Germania, la spada della Baviera che ha fermato le orde francesi. Puah! Sua maestà non merita di essere servita da un tale branco di cani scondinzolanti ai piedi della Russia!)

Giunti nella capitale tedesca, re Ludovico II (figlio di Massimiliano) proclamò lo stato di emergenza e diede l'incarico a Ludendorff di formare un nuovo governo per 'ristabilire l'ordine nella nostra amata Germania'.

Questa fu la frase fatidica che condannerà lo stato tedesco alla dittatura, visto che Ludendorff progressivamente abolirà tutte le libertà parlamentari, metterà al bando le opposizioni e instaurerà un regime personale, affiancato in modo sempre più stretto dal più giovane Hermann Goring, asso dell'aviazione durante il conflitto. Nel 1935, due anni prima della sua morte, Ludendorff nominerà proprio quest'ultimo, con il beneplacito del sovrano, con il titolo di Fuhrer, capo della nazione.

In modo non dissimile a quanto accaduto in Germania, accadde la stessa cosa in Irlanda, con Eoin O'Duffy e le sue camises bleues, in Ungheria, con Miklos Horthy (sebbene questa fosse una dittatura piuttosto sui generis),  in Lituania, con Augustinas Voldemaras, in Romania, con Ioannis Metaxas, in Finlandia con Kurt Martti Wallenius, in Svezia con Sven Lindholm, in Norvegia con Hjort e Quisling, in Danubia (con l'appoggio magiaro, comunque) con Codreanu e le sue guardie di ferro, in Turchia con Mustafa Ismet, in Bulgaria con Kimon Georgiev.

Anche in altri paesi sorsero movimenti simili, ma non ottennero il medesimo successo: in Inghilterra ci fu il partito di Mosley, in Italia il partito fascista di Mussolini, in Lotaringia  Leon Degrelle e Staf de Clerq, Gen Roszevac in Boemia, o Ante Pavelic in Illiria.

La cosa sorprendente è che in  alcuni casi, i movimenti autoritari convissero e, per certi aspetti, condivisero il potere con delle monarchie. Certo, le dinastie di Wittelsbach, Hannover, Zala e Wettin attraversarono fasi di intensa conflittualità (in particolare i bulgari), ma rimasero sempre al loro posto, accettando la situazione che de facto si era venuta a creare nello stato su cui regnavano.

Molto critici nei confronti di tale 'accettazione passiva dell'ascesa dell'autoritarismo', furono invece i Visconti di Illiria, che accettarono all'interno del loro territorio molti esuli antinazisti di Ungheria, Bulgaria e Romania. Gli italiani invece, che non volevano perdere comunque l'alleanza con i tedeschi e l'influenza sull'Ungheria, invece, furono sempre molto più quiescenti nei confronti di tale fenomeno.

E il Ponto?

Anche a Trebisonda sorsero movimenti nazionalsocialisti, pronti a prendere il potere. La fortuna dello stato affacciato sul Mar Nero fu la sistematica capacità, da parte di questi partiti di coalizzarsi in un unico organismo forte, in grado di mettere in pericolo le istituzioni statali, troppo radicate per essere scardinate facilmente.

Anzi, nel 1926 vi fu il tragico 'massacro di Sinope', in cui la lega patriottica del Ponto si scontrò con il fronte nazionale dell'aquila comnena. La violenza della resa dei conti tra i due movimenti allontanò una discreta parte dell'opinione pubblica che li vedeva di buon occhio (in particolare la seconda).

Detto questo, però, occorre comunque sottolineare che la linea politica (platealmente appoggiata da re Alessio VI, figlio di Andrea V) fu improntata ad uno spiccato conservatorismo e un vivo anti-comunismo. Il terrore e la paranoia di una possibile invasione sovietica del territorio pontico, infatti, erano piuttosto diffuse, cosa che peraltro non garantì vita facile, dal punto di vista del rapporto con le forze dell'ordine, ai partiti Socialista e Comunista pontici.

Il governo venne preso spesso in mano dall'Unione Popolare, partito con tendenze conservatrici e populiste ad un tempo, guidato dal carismatico leader Ioannis Karatsadas. Alessio non aveva un buon rapporto con lui, ma per amore della pace sociale chiuse un occhio anche di fronte alle modalità di repressione, non esattamente ortodossa degli scioperi alle miniere di Argiropoli.

La tragica realtà dei fatti, tuttavia, era che il Ponto, dal punto di vista delle relazioni internazionali, si trovava in una posizione quantomai precaria e ciò contribuiva ad aumentare timori ed incertezze in un'epoca in cui tutti erano intenzionati a prendersi rivincite per i torti (veri o presunti) subiti durante le guerra, armandosi nuovamente.

La grande crisi del 1929

Mentre dal punto di vista politico le destre erano entrate in una fase di ascesa apparentemente inarrestabile, dal punto di vista economico lo scettro del potere sembrò essersi spostato definitivamente al di là dell'Atlantico. Gli EUA soprattutto, ma anche la Grimaldia erano divenuti i principali produttori ed esportatori di qualsiasi genere di beni. Si era sviluppata una nuova forma di produzione, la catena di montaggio, che diminuiva la durata dei processi produttivi, aumentava di diverse volte la produzione stessa e garantiva una standardizzazione del prodotto. Il problema di fondo di tale sistema era che  tassi di profitto e ampiezza del mercato, due elementi rilevanti per garantire il successo di un'impresa, erano due fattori destinati inevitabilmente ad entrare in rotta di collisione l'uno con l'altro. La produzione era infatti orientata perlopiù alla costruzione di beni durevoli, i quali, una volta acquistati, toglievano automaticamente l'acquirente dal mercato per molti anni. Continuare a garantirsi profitto significava aumentare la domanda potenziale: garantire l'acquistabilità a fasce sempre più vaste della popolazione. Vale a dire, in parole semplici, la classe lavoratrice. Ma l'aumento dei salari e la diminuzione dei prezzi erano rette dai percorsi ancora troppo distanti per potersi toccare.

Oltre a questo problema di fondo, vi era l'emergere potente della mera speculazione finanziaria. L'emissione di azioni era considerato un mezzo molto comodo per ottenere soldi in maniera relativamente semplice, se si sapevano fare i giusti investimenti. Il problema era che tali compravendite non erano affatto eterodirette o regolamentate: ciò significava che molto rapidamente e sin troppo facilmente, il valore azionario di un'azienda arrivava a non corrispondere affatto al suo effettivo valore commerciale.

Questo sino a quando l'amara realtà di aver comprato qualcosa che in realtà era fallimentare, colpiva gli azionisti con la forza di un maglio.

Questi due problemi sopra descritti si incontrarono tragicamente nell'autunno del 1929. Una serie di fallimenti a catena fece partire una reazione drammatica e di colpo l'intera economia statunitense prima e globale poi si trovò di fronte al tracollo.

I governi liberali e il loro tradizionale non-interventismo non riuscivano a trovare mezzi validi per uscire dalla crisi. La 'mano invisibile' non aiutava affatto il mercato a riprendersi da solo. Non si trattava infatti di una crisi ciclica di sovrapproduzione in questo caso, ma di una crisi generalizzata che toccava tutto e tutti.

Presto o tardi, perciò, in ottemperanza, più o meno approssimativa, alle teorie dell'economista britannico J.M Keynes, gli stati, ciascuno a modo loro, furono costretti ad entrare direttamente nell'economia, anche a costo di portare il proprio bilancio in passivo. Le modalità solitamente utilizzate furono: l'acquisto di aziende sul lastrico per renderle nuovamente competitive e cederle, dopo un periodo più o meno lungo, nuovamente ad investitori private; il finanziamento di grandi opere pubbliche per dare lavoro nel breve termine a molti disoccupati; una nuova impennata dell'aumento dei dazi in entrata e uscita per proteggere le proprie aziende nazionali (il classico strumento del protezionismo, tipico del XIX secolo).

E' scontato dire che gli effetti di quest'ultima manovra resero difficile la ripresa per le numerose aziende improntate alla vendita su mercati esteri e per gli stati che commerciavano essenzialmente solo in materie prime o quasi.

Tale situazione, ad ogni buon conto, andò tragicamente ad intrecciarsi anche con le vicende strettamente politiche dell'Europa del tempo. Il clima di tensione che stava riaffiorando tra i diversi stati ebbe un grave peggioramento.

A pagarne il prezzo più pesante fu la repubblica francese. Il tracollo economico in un paese che ancora doveva pagare i propri debiti di guerra e cercava faticosamente di leccarsi le proprie ferite fu un colpo durissimo. L'inflazione raggiunse livelli record, con il franco che si volatilizzava letteralmente. Oltretutto, c'è da ricordare anche l'occupazione temporanea da parte della Lotaringia (ma sotto comando alleato italo-tedesco), in nome della Società delle Nazioni, di tutto il territorio a nord della Marna, sino ai sobborghi di Parigi. Tecnicamente dovuto all'incapacità di onorare i pagamenti dei debiti di guerra, fu un'ulteriore amara umiliazione da digerire. L'occupazione sarebbe perdurata fino al 1930, ma tutta l'area sarebbe dovuta rimanere demilitarizzata in perpetuo da parte del governo francese.

Gli elettori si rivolsero alle estreme come unica ancora di salvezza per trovare una risposta in quel caos, visto che i partiti tradizionali sembravano incapaci di garantire un ordine e una pace sociale apprezzabili, oltre che una speranza di ripresa.

E di ciò, prontamente, ne approfittò il PSF, Parti Social Français, sotto il comando di François de la Rocque. Partito come 'Lega della croce di fuoco' (nome che poi resterà al braccio armato del partito), la sua organizzazione xenofoba, ultranazionalista, antisemita con vaghi cenni di socialismo populista (nonostante fosse ferocemente anticomunista), unitamente al suo innegabile carisma, attrasse le masse come una calamita.

Mentre le sinistre erano divise e litigavano tra loro, i suoi consensi aumentavano di giorno in giorno, a ritmi vertiginosi.

Stemma della Croix de Feu

Stemma della Croix de Feu

Dal 1930 al 1932 il PSF passò dal 18 al 37% dei consensi, divenendo il primo partito di Francia. Forte di questo successo, De la Rocque divenne sempre più aggressivo, creando un clima intimidatorio, in particolare verso i comunisti. Nel frattempo, ogni tentativo di creare un governo che prescindesse dalla presenza del PSF cadde miseramente nel vuoto. Complice di questo straordinario successo fu anche il fatto che il primo garante della costituzione, con la sua sola presenza ed il suo prestigio, il vecchio generale Ferdinand Foch, era morto nel 1929. Non esisteva più alcun personaggio autorevole cui affidare il compito di fronteggiare l'ascesa del leader del PSF.

Il 30 gennaio del 1933, alla fine, dopo lunghe e straziante consultazioni, a De la Rocque venne affidato il mandato di formare un nuovo governo E assieme ad esso, il titolo di cancelliere della repubblica. Le elezioni del 1932 sarebbero state le ultime libere della prima repubblica francese. Nel giro di pochi mesi vennero silurati tutti i partiti d'opposizione, prendendo a pretesto anche un presunto tentativo di incendio doloso al palazzo delle Tuileries, allora sede del parlamento.

Successivamente, vennero affrontate altre tornate elettorali ma con un'unica lista, una serie di nomi di esponenti del PSF. La Francia si era appena trasformata in una dittatura.

Dittatura che per un certo periodo illuse la popolazione. L'occupazione tornò a livelli record, grazie al pesante impegno in opere pubbliche, nella riconversione progressiva delle industrie pesanti a scopo militare con commesse statali e nell'aperto rifiuto di pagare anche una sola altra rata dei debiti di guerra. Era il primo atto di sfida all'ordine mondiale uscito da Fussen, ma non sarebbe stato certo l'ultimo.

Il leitmotiv della Revanche, il riprendersi ciò che apparteneva di diritto al popolo francese aumentarono sempre più di tono. I temi più caldi all'ordine del giorno erano naturalmente la Catalogna (La Catalogne est française!), la rimilitarizzazione dell'area oltre la Marna e, in eventuale, anche la revisione dei confini con la Lotaringia. Anzi, a dire il vero, quest'ultimo stato, secondo de la Rocque non aveva nemmeno diritto di esistere.

Goring, il fuhrer della Germania, inizialmente fu seriamente preoccupato del progressivo riarmo di Parigi. Nell'aprile del 1935 si incontrò assieme al primo ministro italiano, allora il conservatore Gian Galeazzo Ciano, a Vienna. Ad essi si unì anche il preoccupatissimo primo ministro britannico, Neville Chamberlain, conservatore a capo di un governo di unità nazionale.

A conti fatti, si trattò di un sonoro fiasco. Goring era sicuramente per la linea dura contro de la Rocque, ma né gli inglesi, né, soprattutto, gli italiani erano in vena di esserlo altrettanto. Opinione di Pavia era, infatti, di assecondare il leader francese, fors'anche per liberarsi del latente senso di colpa per l'eccessivo peso imposto alla Francia nei trattati di pace.

I tedeschi, inoltre si sentirono a conti fatti traditi dall'accordo navale che francesi e italiani siglarono pochi mesi dopo. L'Italia acconsentiva a che la flotta francese arrivasse al 35% di quella italiana pur limitando, almeno teoricamente, il suo utilizzo al Mediterraneo. Ad esacerbare ulteriormente gli animi tra gli ex alleati furono le prese di posizioni italiane contro le pretese tedesche su Danzica e il rifiuto della stessa Pavia di concedere lo scambio tra Igboland tedesco e Shan, Lanna e Tonchino italiane. L'idea di Goring era di prepararsi delle basi per penetrare nella Cina meridionale. Fortemente frustrato dall'atteggiamento di Ciano, Goring attuò un brusco voltafaccia nelle alleanze, volgendosi verso Parigi.

Vista la situazione, per De la Rocque venne l'ora della verità: la rimilitarizzazione del Valois, di Reims e del Soissonnais. Varcare la Marna con il suo esercito poteva essere considerabile, in potenza, un vero e proprio atto di guerra.

Ma la sua interpretazione del clima internazionale gli diede ampiamente ragione. Salvo delle deboli lamentele pubbliche, gli tedeschi e italiani rimasero quiescenti di fronte al fatto compiuto, mentre lotaringi e inglesi nulla potevano fare se non assecondare.

Bandiera della Francia Socialnazionalista

Bandiera della Francia Socialnazionalista

Unica consolazione per la gente, in quel mondo teso, fu la nascita ed il progredire delle attività sportive a livello internazionale. Su tutte, il 'dio pallone'.

Il calcio, nato in Inghilterra sul finire del XIX secolo si era diffuso in ogni parte d'Europa e anche dell'America. Nel Ponto, la prima federazione calcistica nazionale sorge nel 1923, nel medesimo anno di quella turca. In realtà i primi campionati locali erano sorti prima: particolare rilevanza aveva la lega trapezuntina di calcio, in cui si scontravano le varie squadre della città. Altre forti compagini si formarono nelle città di Sinope e di Amiso. Il primo vero campionato nazionale, a dieci squadre sorse nel 1925, vinto, manco a dirlo, da una squadra di Trebisonda, il Lemana.

Nel 1927 venne organizzato un torneo triangolare tra il Galata di Costantinopoli, il Lemana di Trebisonda e l'Aydinspor di Aydin. La 'coppa dell'amicizia' come venne chiamata, venne vinta dal Galata. Il successo di questo torneo sarà talmente grande che l'esperienza verrà ripetuta negli anni successivi. Una competizione tra pontici, romei e turchi, in effetti, era qualcosa che faceva presa sulle masse. In futuro verrà ampliata con la partecipazione delle squadre assire e armene, diventando un classico appuntamento calcistico estivo.

Invece la nazionale pontica non parteciperà al primo mondiale, del 1930. Parteciperà invece alle qualificazioni del 1934, venendo sonoramente sconfitta con un 4-0 ed un 5-1 dall'Egitto (il Ponto era considerato Asia ed era finito nel girone con egiziani e arabi), poi a sua volta sconfitto dai magiari agli ottavi. Sarà l'Italia ad alzare la coppa, dopo l'Uruguay vincitore della prima edizione.

Maglia della nazionale pontica

Maglia della nazionale pontica

Nel 1938 non andrà molto meglio, con il Ponto vincitore sull'Assiria, ma poi sconfitto 5-2 dall'Ungheria. L'edizione francese sarà vinta proprio dai padroni di casa, che mieterono vittime illustri nel loro percorso, anche da un punto di vista politico. Agli ottavi  piegarono 3-1 i lotaringi e in semifinale gli italiani campioni in carica per 3-2, in un clima particolarmente pesante.

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Verso la seconda guerra mondiale

Le sfide francesi allo statu quo, come del resto era preventivabile, continuarono. Mentre l'Italia rinsaldava i propri legami con l'Inghilterra, che deteneva pur sempre il controllo della terza flotta d'Europa (almeno per il momento, visto che la Francia aveva un grandioso programma di riarmo), e cercava disperatamente di ricucire i propri rapporti con la Germania, ma invano, nel settembre del '38 De la Rocque cominciava a sollevare il problema transpirenaico.

Il Rossiglione e, invero, tutto il versante settentrionale dei Pirenei, è ormai abitato in stragrande maggioranza da popolazione che parla in francese, è di cultura francese e anela a ricongiungersi all'abbraccio della sua madrepatria, cui è ingiustamente stata strappata vent'anni fa!

Dopo le parole, si passò ai fatti: De la Rocque infatti impose una brusca accelerazione al completamento delle navi da battaglia Bourbon e Couvin.

A quel punto, l'ambasciatore catalano a Pavia riceve dal ministro degli esteri italiano la ferale notizia: l'Italia non sarebbe stata disposta, da sola, ad andare contro i vicini francesi per la questione del Rossiglione. Il conservatore Gian Galeazzo Ciano, costretto suo malgrado ad approvare la linea morbida qualche anno prima, furente, tuona nel parlamento, ma il governo, composto da un'insolita alleanza di liberali e cattolici, è deciso ad evitare ad ogni costo la guerra. Dopo un intenso scambio di comunicazioni urgenti tra l'Italia e la Germania (cui viene chiesto di mediare presso Parigi), a Bordeaux i grandi si riuniscono per discutere della questione.

Joachim von Ribbentrop (ministro degli esteri tedesco), il padrone di casa  De la Rocque, Winston Churchill (ministro della difesa inglese), Marcello Soleri (primo ministro italiano, liberale), Paul Emile Janson (primo ministro lotaringio).

In realtà, si discusse molto poco, dato che, più che altro, fu passivamente accettato di smembrare il neonato stato di Catalogna (peraltro, nessun rappresentante catalano venne invitato alla conferenza di Bordeaux; a Barcellona venne visto come un tradimento ed un diktat), concedendo il Roussillon ai francesi.

Ciano, mentre Soleri tornava in Italia accolto da festeggiamenti 'per aver garantito la pace', commentò così: Dovevate scegliere tra il disonore e la guerra. Avete scelto il disonore e avrete la guerra!

Del resto, le sue paure si rivelarono più che fondate. Neanche un anno dopo, nel marzo, truppe francesi marciarono su Barcellona, creando il Protettorato catalano.

L'opinione pubblica continentale si trovò sgomenta, ed i governi del mondo incapaci di una reazione univoca.

A quel punto, sembrava che per le potenze opposte al regime francese, non restasse altro da fare che prepararsi all'inevitabile mossa successiva.

L'Italia siglò un patto di alleanza difensiva con Inghilterra, Lotaringia, Romania, poi estesa a Boemia e Polonia. Venne invitata anche l'Illiria, ma, ligia alla sua linea di neutralità, non partecipò.

Il grande assente era l'Ungheria. Infatti, il primo e più grande alleato mitteleuropeo degli italiani, aveva durante l'ultimo decennio 'volto le spalle' a Pavia, stringendo alleanza con i tedeschi. Dopotutto, il sogno del ritorno del grande regno sei-settecentesco, con spinte revanscistiche verso i Balcani, sembrava poter essere garantito solo dall'alleanza con gli stati autoritari. Al principio di settembre anche i magiari, infatti, decretarono la Danubia proprio protettorato, nonostante a contrastare le forze d'occupazione di Budapest sorgessero subito dei movimenti partigiani.

Un grande errore della conferenza di Bordeaux e, in generale, del fronte democratico, fu quello di non coinvolgere in alcun modo la Russia comunista nell'alleanza contro Francia e Germania. L'Unione Sovietica, retta allora con pugno di ferro dal georgiano d'origine Iosif Dzugashvili, in arte Stalin, attendeva con pazienza che le democrazie e gli stati autoritari di destra si saltassero alla gola, per poi passeggiare sulle macerie. Ma per fare ciò ci voleva tempo. Era stato epurato gran parte dello stato maggiore dell'esercito e quest'ultimo, in generale, doveva essere pesantemente riorganizzato per approntare una grande guerra europea. Per tale motivo, il mondo fu scioccato ulteriormente quando Vjaceslav Molotov, ministro degli esteri sovietico, si accordò con Ribbentrop, ministro tedesco, per un patto di non aggressione, benedetto naturalmente anche dalla Francia.

Dopo tale accordo era chiaro quale sarebbe stato il prossimo obiettivo: la riconquista della Lotaringia.

Nel frattempo, dall'altra parte del mondo, in Asia, un altro conflitto era in atto. Dal 1931 i coreani avevano attaccato la Cina. Il grande impero che più impero non era, incapace di riorganizzarsi e modernizzarsi aveva passato la fine del XIX e i primi 40 anni di XX secolo tra singulti rivoluzionari e caos. La dinastia imperiale era stata esautorata nel 1911, ed era stata proclamata la repubblica, ma essa non controllava realmente che una parte del territorio. Molte regioni, in particolar modo al nord, erano dominate da signori della guerra. Ulteriore disastro fu lo scoppio della guerra civile tra comunisti e nazionalisti. Di tale situazione approfittò l'impero di Corea che dopo aver occupato la Mongolia, facendone uno stato fantoccio, mosse il proprio esercito, giustificando il proprio intervento con un presunto incidente, contro Pechino, nel 1937 (il cosiddetto 'incidente del ponte di Marco Polo').

All'alba del 1939 i coreani controllavano una buona parte delle città costiere ed il nord. Tuttavia, le azioni di guerriglia rendevano loro estremamente difficoltosa la penetrazione verso l'interno.

Va pur detto che gli stessi coreani, inizialmente erano piuttosto riluttanti alla conquista dell'intero territorio cinese, che avrebbe impiegato un numero troppo elevato di uomini a fronte del pericolo di un attacco sovietico verso il Saeolun Jibang, come venivano definite le province costiere della Siberia. In funzione anticomunista, il governo di Hangseong aveva stretto un patto con francesi e tedeschi, anche se salutò con estremo favore il patto Molotov-Ribbentrop.

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La seconda guerra mondiale

Il piano d'azione definitivo successivo iniziò il primo settembre 1939. Con il pretesto di un falso incidente, per la seconda volta in meno di un secolo, le truppe francesi invasero la Lotaringia. Le truppe di Aquisgrana si batterono con un coraggio e una ferocia insospettabili, aiutate anche dalle fortificazioni, pur costruite a metà, erette sulla linea di confine occidentale. Ma decisiva fu la superiorità di mezzi dei francesi e la 'pugnalata alla schiena' da parte dei tedeschi, che piombarono da ovest, prendendo tra due fuochi lo stato adagiato tra Mosa e Reno. Per una serie di errori tattici, il contributo italiano giunse in tempo solo per causare diversi scontri nel bernese. De la Rocque, che in fondo era restio a muovere una volta per tutte una guerra totale con i vicini transalpini (cosa di cui lo si incolperà, più tardi), propose a Pavia di recedere dai propri intenti di guerra in cambio, appunto, del friburghese, del bernese e della Svizzera (NDA: in questa TL la definizione di Svizzera come regione è ristretta ai cantoni di Uri, Svitto, Ovaldo, Nidvaldo e Zug).

L'Italia, tuttavia, si rifiutò di scendere a patti con De la Rocque, dichiarando invece guerra. Nessuna azione, in verità, fu compiuta sulle Alpi fino a novembre inoltrato, quando, il 20, il comandante francese Maurice Gamelin diede ordine di muovere le sue truppe verso i valichi del Moncenisio, del Monginevro e del Gran San Bernardo.

Pochi giorni dopo anche le forze armate tedesche vennero mobilitate al confine, nonostante l'evidente riluttanza della Germania nell'assecondare la guerra con l'Italia.

E in effetti, i fatti diedero ragione al generale Erwin Rommel, che asseriva che le forze armate del Reich non fossero affatto pronte ad affrontare gli Italiani in una guerra sulle montagne. I corpi degli Alpini e dei Gebirsschutzen (nonostante la loro etnia prevalentemente tedesca avrebbe dovuto far dubitare della loro fedeltà) di Tirolo, Stiria e Carinzia, su cui successivamente si costruirà un vero e proprio panorama letterario quasi agiografico e mitologico, costruirono la loro fama proprio con la difesa dei passi montani nell'inverno 1939-1940. I reparti meccanizzati, di cui la Francia si faceva vanto e che avevano reso facile la conquista della Lotaringia, avevano un uso limitato tra i monti. L'unico luogo che venne conquistato con relativa facilità fu la Provenza. Brutta notizia fu invece per gli italiani il rifiuto da parte del governo della Grimaldea di inviare nuovamente le proprie truppe in sostegno della madrepatria. Il governo che si era instaurato in sud America non faceva mistero di voler allentare i legami con l'Italia e di essere simpatizzante non poco con il regime francese e la sua ideologia.

Ma tale situazione di stallo non era destinata a durare all'infinito. I numeri, sul lungo termine, erano ampiamente sfavorevoli agli italiani. Inoltre, a differenza di questi ultimi e degli stessi tedeschi, i francesi potevano permettersi di concentrare gran parte del loro esercito su un fronte relativamente ristretto. Da febbraio-marzo, dopo un inverno particolarmente rigido, le forze di Pavia cominciarono lentamente, ma inesorabilmente, a ritirarsi. Quando, il 2 aprile, le forze francesi entrarono a Bardonecchia, si capì che le speranze di invertire la marea erano ridotte ad un lumicino.

Nel frattempo, però, la guerra non aveva smesso di mietere altre vittime in altri luoghi. Elementi fondamentali della scacchiera, per abbattere definitivamente le resistenze italiane erano l'alfiere inglese e il pedone spagnolo. Fin tanto che l'isola di San Giorgio rimaneva indipendente, era una spina nel fianco, attraverso la quale gli alleati potevano rifornirsi di beni e mezzi, concessi con prodigalità dagli EUA che, nuovamente, stavano assumendo un atteggiamento ostile verso la deriva autoritaria della loro ex-madrepatria.

Per bloccare il commercio tra Atlantico e Mediterraneo, però, era altrettanto necessario sottomettere la Spagna: gli iberici, da paese neutrale, erano una naturale piattaforma di contrabbando tra i due mari. Ciò venne messo in pratica  tra Gennaio e Aprile 1941; nel frattempo, venne occupata anche la Guascogna, imponendo un regime fantoccio.

Come prima cosa, i francesi occuparono la Norvegia, instaurando un governatorato fantoccio, così da avere basi con cui minacciare anche la Scozia. Per logica conseguenza, i tedeschi li imitarono, occupando la Danimarca. Nel frattempo, Svezia e Finlandia si univano nuovamente in una confederazione scandinava di stampo fascista che dichiarava la propria alleanza ai franco-tedeschi.

Invidiosi dei successi altrui, gli Ungheresi, che già si trovavano a dover fronteggiare la fastidiosa gatta da pelare dei movimenti partigiani della Danubia, decisero di attuare una loro 'guerra parallela' per perseguire in autonomia i propri obiettivi, mettendo in atto piani per una eventuale guerra contro illirici e bulgari.

Nessuno, quindi era al sicuro. Anche i turchi, retti da un regime autoritario, facevano mostra di voler approfittare di questa guerra europea per salire sul carro del vincitore.

Nel settembre 1940, le forze francesi, dopo aver battuto le le logore forze italiane, conquistarono Torino. Alla brigata Trilegina, dopo l'annientamento della Sionese, rimasta isolata, fu dato ordine di unirsi ai battaglioni San Gottardo e Ossola e convergere verso sud, su Varese, per impedire ai francesi di varcare il Ticino ad ogni costo. La resistenza avrebbe permesso alle restanti brigate più a est di sganciarsi con relativo ordine,  preparandosi ad una ritirata verso gli Appennini. Nel frattempo, il governo riparava a sud, a Napoli. Tuttavia, la manovra francese fu più rapida e intrappolò la Ossola in una sacca prima che potesse unirsi agli altri. La San Gottardo e i resti della Sionese che si erano riuniti a Bellinzona furono più fortunati, unendosi con la Trilegina presso Mendrisio.

La Trilegina contese il fiume Ticino, assieme alle compagnie Ariete e Von Leutrum, per 20 giorni, fino al quasi totale annientamento tra Cameri e Cerano, il 6 novembre 1940.

La resistenza dei 'rumansch' come venivano chiamati gli uomini della Trilegina, viene commemorata ancora oggi. Tradizionalmente, ogni 6 novembre, il capo dello stato si reca a Coira, per depositare una corona di fiori sul grande sacrario dei caduti della seconda guerra mondiale.

Ad ogni modo, ciò permise a diversi reggimenti di riparare a sud della catena appenninica.

La storiografia tedesca e francese, più che la resistenza sul Ticino, attribuiscono la mancata distruzione dell'esercito italiano in pianura padana al disastro delle armate magiare in Croazia. La 'Guerra parallela' di Budapest, a loro dire, avrebbe distolto una consistente forza, tale da impedire un inseguimento celere ed efficace.

Dopo l'occupazione della Val Padana, i franco-tedeschi reputarono saggio rallentare le operazioni per l'inverno, per evitare un numero di perdite paragonabile a quello fronteggiato sulle Alpi.

Nel mentre, l'alleanza occupava con le sue forze l'Illiria, annessa quasi completamente al regno Ungherese. Nel frattempo, anche i boemi e i polacchi, 'traditi' da lituani e russi, subivano l'occupazione da parte della Germania.

In realtà queste mosse rappresentavano il preludio alla grande impresa preparata da De la Rocque: la resa dei conti con la Russia sovietica. Poteva martellare con la sua aviazione e la sua marina gli inglesi, certo, ma la loro isola, in fondo, era una minaccia di poco conto, che poteva essere risolta in un secondo momento.

In preparazione di questo, finalmente i turchi cedettero alle lusinghe degli alleati, entrando nella coalizione.

Il Ponto temette fortemente per la propria neutralità e integrità territoriale, ma il primo obiettivo dei turchi furono le provincie anatoliche della Romània, attaccata anche da nord, 'pugnalata alle spalle' dagli ungheresi (sostenuti pesantemente da diverse brigate francesi. Prima che arrivassero queste ultime, difatti, i magiari subirono diverse cocenti sconfitte in Macedonia).

Per la fine del 1941, in sostanza, praticamente tutta l'Europa era nelle mani di De la Rocque e dei suoi sodali e alleati.

Sì, perché nel marzo, una nuova spallata sugli appennini produsse l'effetto sperato, inducendo ad un'ulteriore ritirata verso sud l'esercito italiano. Da lì fino all'autunno, come se la resistenza sulle Alpi avesse esaurito tutta la volontà di combattere, fu il susseguirsi di una ritirata dietro l'altra, fino all'evacuazione finale in Sicilia.

Fortunatamente, la grave mancanza francese fu l'incapacità di riportare una vittoria sulla flotta italiana nel Mediterraneo, che, unica, riusciva ad avere ragione dell'alleanza, soprattutto grazie al grande impiego di sommergibili.

E nel resto del mondo?

In Asia orientale, l'inarrestabile avanzata coreana travolse le colonie italiane, spagnole e guasconi.

Unico bastione per l'avanzata verso occidente rimaneva la ben munita India.

In Africa, al contrario, le cose andavano bene per gli italiani. I tedeschi non avevano ancora avuto modo di implementare difese efficaci per difendere l'impero coloniale acquisito da poco. L'avanzata verso i maggiori centri da parte degli ascari italiani (dei quali la maggior parte erano egiziani, nubiani, etiopi e fulani) fu lenta (più per le condizioni climatiche e logistiche) ma costante.

Un unico dubbio, o speranza, a seconda dei contendenti, rimaneva: gli EUA avrebbero preso parte al conflitto? La Grimaldea avrebbe rivisto la propria politica estera?

Nel primo caso, a togliere ogni dubbio ci pensarono i coreani. Dopo l'occupazione della Coriaghia (HL: Kamchatka), delegati statunitensi e dell'impero Joseon firmarono un memorandum, detto L'America agli americani che decretava qualsiasi tentativo di invasione coreana della Nuova Dalmazia Boreale, come un atto di guerra contro gli EUA stessi.

Pur tuttavia, la protezione concessa dal governo di Lafayette alla VII flotta italiana, trincerata nelle Hawaii, così come la sua alleanza difensiva con la Corsalia (peraltro gli EUA avevano già impiantato in Nuova Bretagna una loro base, dal 1938) era motivo di grande tensione con Hangseong. Del resto, i coreani vedevano la presenza stessa degli americani nel Pacifico come una sottrazione del loro spazio sovrano.

Fino a che non fossero stati gli unici a solcare l'oceano con la loro flotta, non ci sarebbe stata pace, come viene fatto dire dal ministro della marina imperiale nel noto film Orange, Orange, Orange (“Tigre, Tigre, Tigre”, il codice per la vittoria nel famoso assalto delle Hawaii). In realtà tigre, in coreano, si traslittera correttamente in Holang-i, ma l'assonanza era troppo irresistibile per dei francofoni).

Il 1 dicembre 1941, la flotta statunitense del Pacifico si riunì alla VII squadra italiana nel 'porto delle perle' nelle Hawaii, per studiare i piani in vista di una possibile dichiarazione di guerra da parte dell'impero Coreano. Approfittando di tale manovra, il 7 dicembre, quest'ultimo lanciò un violento attacco con le aerosiluranti contro la rada, cogliendo completamente di sorpresa lo stato maggiore americano.

Quello che passerà nell'immaginario della storia EUA come le Jour de l'infamie, secondo l'espressione del presidente statunitense François Roosevelt De Lannoy.

Da quel giorno, gli americani dichiareranno guerra alla Corea e a tutte le potenze alleate.

Dopo questa notizia, il sentimento popolare voltò le spalle alla politica subdolamente filofrancese di Giulio Varga, il leader populista di destra della Grimaldia, che venne sonoramente battuto nelle elezioni che si tennero il 12 dicembre. La coalizione di governo formatasi, guidata da Giuseppe Alinari, come prima azione votò i crediti e la dichiarazione di guerra alle potenze dell'alleanza. Una frase del suo discorso rimase particolarmente celebre:

Non è l'obbligo di una nazione asservita alla propria madrepatria, ma l'obbligo di ogni nazione libera, quello che noi adempiamo ora. L'obbligo di opporci alla tirannide e alla dittatura dell'ideologia nazionalsocialista nel mondo!

I primi reparti grimaldei sbarcarono in Marocco nel febbraio 1942, guidati dal general maggiore Giovan Battista de Mora, cui fu dato dopo poco il comando supremo delle forze interalleate riunite nel quartier generale di Fez. Voluta fortemente dai politici, la cosa in realtà piacque poco ai comandanti italiani, agli inglesi e agli statunitensi, che per diverso tempo frustrarono il suo progetto di una condotta militare aggressiva, in cui si ipotizzavano grandi sbarchi sulle coste europee per aprire una breccia nella 'fortezza Europa'.

Al contrario, i franco-tedeschi non si perdevano affatto in chiacchiere. Dalla tarda estate del 1941,  dopo aver dichiarato guerra a Mosca, gli alleati avevano macinato chilometri su chilometri in territorio russo, tanto da giungere a pochissima distanza dalla capitale sovietica. Anche le truppe scandinave, scendendo dalla Finlandia verso sud, sembravano vicinissime al ricongiungimento con la massa di manovra principale.

Al contrario, i turchi avevano enormi difficoltà: il loro principale ruolo, all'interno della strategia alleata, era quello di assicurarsi la via verso i pozzi petroliferi dell'Azerbaijan, controllati dalla neutrale (ma filo-nazista) Persia. Sulla loro strada stava però la repubblica Armena, il cui esercito, nonostante fosse numericamente molto inferiore, aveva adottato una strategia partigiana di ritirata sui monti, che i turchi faticavano molto a fronteggiare.

La tentazione del quartier generale di Konya era di aggirare il problema con l'invasione del Ponto. Ma l'esercito di Trebisonda e la conformazione stessa del territorio incutevano un consistente timore.

Dal canto suo, il vecchio Alessio VI, non esitava affatto a garantire il proprio sostegno ai soldati armeni, fornendo loro armi e cibo, oltre che temporaneo riparo su suolo pontico. Era una politica estremamente rischiosa, su cui molte volte ebbe a scontrarsi con il primo ministro Basiliadas.

In realtà, non era il solo motivo di scontro, tra le due personalità. Dopo un lungo governo della destra populista, infatti, la guerra aveva favorito l'ascesa di un'intesa (per la prima volta nella storia del Ponto) di partiti della sinistra moderata, che il re vedeva con una certa malcelata ostilità. Basiliadas, sostenuto dal parlamento, aveva caldeggiato, allo scoppio delle ostilità tra turchi e sovietici, di schierarsi con i secondi. Tuttavia, la proposta venne bocciata dal re, con tali secche parole:

“Far entrare dei soldati comunisti a Trebisonda? Se volete tanto una repubblica, allora chiedete prima le mie dimissioni da sovrano di questo paese.”

E, in effetti, l'idea di indire un referendum per trasformare il Ponto da monarchia a repubblica, secondo alcuni documenti recentemente emersi dagli archivi, ci fu, ma fu bollata come 'impraticabile, almeno durante il conflitto mondiale' da parte di alcuni fedelissimi del primo ministro.

Ma, mentre Trebisonda non fu più coinvolta di così dagli eventi bellici, ai pontici di Perateia andò molto peggio. Frustrata la speranza di creare uno stato indipendente al termine della prima guerra mondiale, la  loro sovra-rappresentazione negli strati della media e alta borghesia in ampie zone del paese ne aveva fatto un bersaglio durante la rivoluzione comunista. Proprio per questo motivo, quando le armate ungheresi giunsero nella regione per occuparle, furono visti quasi alla stregua di liberatori. Ben presto, però, in concomitanza con l'arrivo a supporto dei magiari di forze fresche francesi, la prepotenza dei nuovi dominatori si fece intollerabile. Iniziarono a sorgere organizzazioni partigiane spontanee, che effettuavano piccole azioni di sabotaggio o rapidi agguati a guarnigioni isolate. Ciò innescò una spirale di progressiva violenza da ambo le parti, di cui ne fecero però le spese in maggior parte civili innocenti.

Nel 1942 le operazioni offensive dell'alleanza giunsero ad una fase di stallo, che corrispose alla riorganizzazione dell'apparato bellico sovietico e la preparazione di di un contrattacco da parte dell'armata rossa.

Nell'autunno, De la Rocque, ansioso di ricevere buone notizie, fece pressioni sull'alto comando per una nuova, sfolgorante avanzata. A quel punto, il generale De Gaulle propose l'ambizioso piano di aggiramento di Mosca da nord, forzando le posizioni fortificate sovietiche sul canale Volga-Baltico e sul lago di Rybinsk. Rivestiva particolare importanza, per il successo di questa operazione, la conquista della città di Stalingrado, l'antica Jaroslavl, situata in un punto strategico del fiume.

Fu così che iniziò la battaglia più lunga e sanguinosa di tutta la seconda guerra mondiale: Stalin, non disposto a mollare un millimetro della città che portava il suo nome e che era la via d'accesso per Mosca, iniziò a gettare rinforzi per contrastare l'avanzata dei franco-tedeschi, affidandone il comando al generale Zukov. Lo scontro si protrasse fino al febbraio del 1943, causando oltre due milioni di morti da ambo le parti, e si concluse con la disfatta delle armate di De Gaulle. Molti definiscono questo scontro la chiave di volta dell'intero conflitto mondiale, un colpo mortale inferto all'alleanza, che non sarà più in grado di riprendersi.

All'inizio, però, naturalmente non fu vista in questo modo: le confortanti voci che giungevano dall'estremo oriente dei successi coreani in Cina e il tergiversare in Africa degli Italo-Grimaldei non potevano lasciar intravedere per nulla qualcosa del genere.

Eppure, la resistenza di Stalingrado qualcosa smosse anche a Fez. Con una notevole lungimiranza, De Mora fece notare che urgeva un'azione non solo perché era giunto finalmente il momento propizio, ma anche per evitare che i sovietici potessero prendersi il merito della vittoria contro i regimi nazionalsocialisti, oltre che un eventuale guida politica dell'Europa in un prossimo futuro.

Vennero così ideati tre ambiziosi progetti di sbarco, uno in Spagna, uno in Calabria ed uno  nelle Fiandre, dall'Inghilterra.

Alla fine, dopo lunghi ed aspri confronti, sebbene molto meno ambiziosa, si decise per la seconda alternativa, giudicata la più semplice da realizzare. Il 10 luglio, l'operazione di riconquista della penisola ebbe inizio. I francesi vennero colti completamente di sorpresa, incassando rapidamente colpi, perdendo rapidamente il controllo del meridione, prima di potersi stabilizzare su una linea di resistenza tra Termoli e Formia. Nonostante i rapidi successi, De Mora era però insoddisfatto. Voleva qualcosa di ancor più incisivo, che portasse al crollo il regime di De la Rocque in poco tempo.

Nel frattempo, nell'autunno del '43, i sovietici, dopo aver ricacciato indietro dalle pianure di Ucraina i franco-tedeschi, trovavano anche il tempo ed il modo per occuparsi di scandinavi e turchi, con una serie di spallate in Carelia e oltre il Caucaso.

Alessio VI Stuart visse con sgomento l'entrata dell'armata rossa a Van e la loro lunga marcia verso ovest seguendo il corso dell'Eufrate, che provocava il repentino crollo del regime di Konya e la sua resa (12 ottobre 1943), e con sgomento ancora maggiore le grandi manifestazioni di gioia di piazza a Trebisonda per l'evento. Talmente turbato che revocò il proprio veto all'entrata in guerra del proprio paese, a patto che il  solo scopo fosse il 'liberare' le aree della Romània occupate dai turchi. Restava implicito il fatto che voleva evitare a tutti i costi che Costantinopoli, la seconda Roma, finisse nelle mani di 'Quei dannati senza Dio e senza misericordia dei comunisti'.

Al principio del 1944 un altro contendente si preparava alla resa. Nel freddissimo dicembre  del 1943, nonostante un numero sconcertante di perdite, i russi avevano fatto il loro ingresso a Helsinki, Turku e Tampere, e si preparavano ad un'ambiziosa e rischiosissima operazione anfibia che li avrebbe portati ad occupare la stessa Stoccolma. Ma prima che ciò avvenisse, gli scandinavi, con l'esercito ormai affogato nei laghi di Finlandia, si arresero senza condizioni (7 febbraio 1944). Col senno di poi, ciò fu, forse, un errore.

Al contrario delle loro speranze, infatti, la resa non impedì agli svedesi di subire l'occupazione russa. Anzi, questi ultimi pensarono di utilizzare la Svezia meridionale come trampolino di lancio per penetrare in Danimarca e da lì in Germania, per cui, pur con molta lentezza, iniziarono ad ammassare un sempre maggior numero di forze nel Gotaland.

Dall'altra parte del mondo, anche la lotta a morte tra EUA e coreani prendeva una piega favorevole ai primi. Grazie all'efficacia delle proprie portaerei e al fatto che l'impero Joseon era costretto a controllare un numero spropositatamente alto di isole, gli americani ormai avevano erano all'offensiva, e stavano lentamente conquistando tutti i territori del pacifico occupati dall'impero coreano. Particolarmente decisiva, in questo senso, fu la battaglia delle isole di La Perouse, il 4 giugno 1942, che conferì agli EUA la superiorità navale. La guerra però era ancora ben lungi dall'essere conclusa, visto che l'impero, nonostante fosse destinato, per ragioni essenzialmente economiche e strategiche ad essere sconfitto, era disposto a combattere sino all'ultimo uomo.

Per gli americani un ruolo cruciale rivestiva la liberazione delle isole giapponesi, occupate e governate dai coreani con pugno di ferro. Feroci rappresaglie sulla popolazione erano all'ordine del giorno, in particolare nel Kyushu, in cui vi era una percentuale molto elevata di popolazione di religione cristiana (per cui non solo inferiore in quanto nipponica, ma 'traditrice e filo-occidentale', secondo la propaganda imperiale).

Nel giugno del 1944, con l'occupazione della strategica Saipan, per la prima volta gli EUA guadagnavano una piattaforma stabile da cui poter bombardare, con bombardieri pesanti, il suolo giapponese. Era, sostanzialmente, l'inizio della fine.

Nel mentre, Chiang-Kai-Shek, leader delle armate nazionaliste cinesi, mieteva successi nella Cina meridionale, rendendo di fatto impossibile ai coreani un collegamento regolare tra la Manciuria ed il sud-est asiatico. Anche i partigiani comunisti, nel nord, davano il loro contributo, arrivando persino a minacciare, con le loro azioni, la stessa Pechino.

Dall'altra parte del mondo, in Europa, la piega che stavano prendendo gli eventi era inesorabilmente improntata alla sconfitta, per Francia e Germania, pur tuttavia, De la Rocque continuava a resistere. I tedeschi, con l'approssimarsi dell'armata rossa, desideravano sempre più sganciarsi dalla stretta mortale con Parigi. Ma qualsiasi tentativo, in tal senso, pareva vano. I francesi, come per rendere chiare le cose, avevano inviato un numero spropositato di uomini oltre il Reno, mettendo in atto, di fatto, un'occupazione. Ma fu proprio di questo che approfittarono i suoi nemici d'occidente, per mettere in atto il piano più ambizioso della storia della guerra: uno sbarco in forze sulle coste della Normandia, partendo dall'Inghilterra.

I francesi sapevano di aver commesso un errore a non tentare una conquista dell'isola di San Giorgio nelle battute iniziali del conflitto, ma ora, difesa com'era anche dalla potente flotta grimaldea, non potevano porre rimedio al madornale errore di valutazione. Nonostante ciò, erano abbastanza sicuri che le maggiori minacce sarebbero arrivate dal Mediterraneo e non da oltre Manica. Questo fino all'estate del 1944, quando un intenso traffico spionistico informò il governo di Parigi che il progetto alleato era di uno sbarco in forze su suolo francese.

Il successo dell'operazione giaceva sulle spalle delle agenzie di intelligence, che dovevano impedire che i francesi capissero il luogo esatto dove gli italo-grimaldei avessero intenzione di sbarcare.

L'impresa riuscì: un intenso traffico radio sviò la Grande Armée, inducendola a concentrarsi nei pressi di Calais.

Mentre, il 6 giugno del 1944, al comando del generale inglese Bernard Montgomery e dell'italiano Luigi Reverberi, riuscivano a conquistare cinque teste di ponte sulle coste della Normandia.

Per il regime francese fu la disfatta. De la Rocque fu vittima di un tentativo di assassinio, sventato. Ma se la sua vita non era ancora finita, mancava veramente poco. Nonostante le richieste degli uomini a lui vicini, rifiutò di riparare lontano da Parigi, preferendo togliersi la vita nel suo bunker all'alba del 25 agosto 1944, quando le truppe nemiche entrarono nella capitale, ridotta dai bombardamenti ad un cumulo di rovine.

Per i russi, il successo dell'operazione fu uno smacco: con il fronte settentrionale ancora attestato sulla Vistola, e quello meridionale all'altezza del Mures, magiari e tedeschi si affrettarono a dichiarare la resa, ma senza alcuna bandiera rossa sventolante sulla propria capitale. Le trattative di pace non sarebbero state certo benevole, ma almeno avrebbero evitato l'onta di un'occupazione.

Dall'altra parte del mondo, il conflitto durerà ancora diversi mesi. Dopo il sanguinoso sbarco americano a Kagoshima, nel novembre del 1944, preceduto da un'insurrezione generale del Kyushu, repressa a fatica dai coreani, le voci di resa alla corte imperiale divennero sempre più insistenti, per quanto la linea prevalente dell'alto comando militare fosse di resistenza sino all'ultimo uomo.

Fu così che venne deciso che era ora di utilizzare l'arma più terribile mai inventata dagli esseri umani: la bomba atomica.

Sviluppata in parallelo da tutte le parti in guerra, i primi a raggiungere il completamento furono gli EUA, seguiti poco dopo dagli italiani. Nella giornata del 6 gennaio 1945 venne sganciata una bomba sulla città di Mokpo; tre giorni dopo, il 9 gennaio, ne venne sganciata una seconda, sulla città di Yosu. Il 15, l'imperatore dichiarò la resa senza condizioni dell'impero coreano.

Con strascichi ancora tutti da verificare, la seconda guerra mondiale era ufficialmente terminata.

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Il nuovo ordine mondiale

Il 2 ottobre 1944, a Reims, i plenipotenziari delle potenze vincitrici iniziarono una lunga ed estenuante conferenza di pace per stabilire i nuovi confini dell'Europa. Ben presto, i rappresentanti di Italia e Grimaldea si trovarono in contrasto con quelli (strano ma vero uniti) di Unione Sovietica e Stati Uniti. I primi, infatti, optavano per una soluzione di tipo conservativo, mentre i secondi insistevano per il contrario, ossia punire con decisione gli stati aggressori.

Tali litigi erano aggravati da una situazione di vuoto di potere in Germania e Polonia che, di fatto, stava già rendendo incandescenti gli attriti tra i Sovietici e gli occidentali.

Nel frattempo, infatti, le armate sovietiche avevano attraversato lo Jutland ed erano entrate all'interno del territorio tedesco, facendo di Kiel il quartier generale avanzato delle proprie forze. Il governo legittimista polacco di Cracovia, in accordo con il re Massimiliano I Wittelsbach che si accingeva a tornare in patria da Londra, denunciava allarmato la discreta infiltrazione di forze di occupazione russe nel nord della Germania e a ovest della Vistola. Viceversa, il governo polacco filorusso insediato a Bialystok accusava gli italo-grimaldeo-statunitensi di sodalizio con i resti delle forze ungheresi per occupare il più rapidamente possibile i capi saldi della Polonia sud-occidentale con le proprie forze.

Gli accordi presi tra i quattro grandi furono i seguenti:

-Divisione della Germania in zone di occupazione temporanea: Schleswig, Holstein, Sassonia, Brandeburgo, Meclemburgo, Pomerania e Slesia sarebbero state sotto il controllo dell'armata rossa. L'Italia avrebbe riguadagnato come suo proprio il territorio della Carinzia e avrebbe occupato temporaneamente Stiria, Svizzera, Alta e Bassa Austria. L'esercito Grimaldeo avrebbe occupato Baviera, Svevia, Baden e Wurttemberg. Gli Stati Uniti la Renania ed il resto della Germania.

-L'Unione sovietica rinuncia alla pretesa di ottenere una zona di occupazione temporanea anche in Francia e Lotaringia.

-L'Unione Sovietica avrebbe mantenuto il controllo fiduciario temporaneo sul territorio polacco ad est della linea Vistola-San, oltre che la Rutenia sub-carpatica ungherese.

-Annessione da parte dell'URSS della Prussia. Scioglimento della terza unione di Kalmar e annessione della Carelia e della penisola di Kola norvegese all'Unione Sovietica.

Per quanto riguarda, invece, l'Ungheria, sia il governo italiano, sia il governo illirico(per voce del suo ambasciatore a Pavia), rinunciano esplicitamente a qualsiasi rivalsa territoriale nei confronti del nemico sconfitto, in cambio dell'indipendenza dei distretti a maggioranza slovacca. Esplicitamente, per lode al valore della resistenza partigiana ungherese. In realtà, il motivo principale è il timore che condizioni troppo gravose facciano pendere pericolosamente l'ago della bilancia del potere politico in terra magiara a favore dei comunisti. Del resto, la Danubia richiedeva già esplicitamente l'annessione della Transilvania, che la Russia era più che disposta ad appoggiare. L'unica pretesa che il governo di Budapest poteva opporre in merito era il rispetto dell'etnia magiara al pari di quello sino a quel momento garantito alle altre minoranze del paese.

Allo stesso modo, nonostante fosse stato preso in considerazione un progetto di smembramento, i tre alleati occidentali optarono per non imporre alcuna rivalsa territoriale rilevante (l'Italia richiederà Modane, Lanslebourg e Val d'Isère), oltre che, naturalmente, la restaurazione dell'indipendenza della Catalogna (con annesso il Rossiglione) e della Lotaringia.

Per quanto riguarda i contendenti nel resto del mondo, i sovietici decideranno di tenersi, mettendo di fronte al fatto compiuto il mondo, l'Azerbaijan, sottratto ai persiani, oltre che a pretendere le cosiddette “Nuove provincie” dell'impero coreano, ovvero la costa nord-orientale del continente asiatico.

Anche la Turchia, anch'essa parzialmente occupata dalle armate sovietiche, si vedrà sottoposta ad un trattamento leggero, per quanto simbolicamente pesante. Infatti sarà costretta a cedere alla Romania la valle del Meandro, con Aydin (ribattezzata nuovamente dai greci Tralles), oltre che la penisola di Cnido.

Restavano molti nodi da sciogliere, però, nell'ambito del sud-est-asiatico e dell'estremo oriente. Se il nodo della Melanesia ex-francese era rapidamente risolvibile cedendolo alla Corsalia, e il dominio del Kyushu veniva spontaneamente ceduto dagli italiani alla neonata repubblica giapponese, meno semplice era immaginare il futuro di tante altre isole e territori coloniali, travolti dall'uragano coreano. Molti moti autonomistici ed indipendentistici erano sorti ed avevano collaborato, in alcuni casi, con i dominatori, in virtù di un anti-colonialismo ed un anti-occidentalismo. Far tornare indietro le lancette dell'orologio della storia era ormai impossibile. Necessitava, in particolare all'Italia, pensare rapidamente ad una exit-strategy.

Il tutto senza dimenticare la minacciosa presenza sovietica che ormai faceva comprendere molto chiaramente che il continente europeo sarebbe stato diviso molto presto in due blocchi contrapposti: da un lato i paesi occupati dall'armata rossa e con governi filo-russi(Norvegia, Svezia, Danimarca, Finlandia, Lituania, Danubia, Armenia, Turchia, con parti di Germania e Polonia); Dall'altra le potenze occidentali e i paesi che da esse dipendevano.

In tutto questo, uno sforzo genuinamente positivo per evitare che il mondo venisse colto dalla calamità di altri conflitti di portata mondiale vi fu: nacque infatti, il 12 marzo 1945 nacque infatti l'Organizzazione delle Nazioni Unite, l'erede della Società delle Nazioni. Questa volta, però, vi furono delle sostanziali modifiche rispetto alla precedente istituzione: la prima fu il desiderio di estendere la partecipazione a tale congresso di stati a tutti i paesi del mondo, compresi i paesi sconfitti. La seconda fu il supporre la creazione di una forza armata che si ponesse come forza di interposizione nei conflitti e che, anzi, garantisse la pace anche con la coercizione armata.

Sette stati con il potere di deliberare per la preservazione della sicurezza internazionale (poi estesi a 15). I cinque membri iniziali, detti 'permanenti', disporranno del diritto di veto contro qualsiasi mozione del consiglio, anche approvata dalla maggioranza degli altri componenti. Inutile dire che il diritto di veto verrà usato come clava politica per far naufragare qualsiasi decisione attiva nell'ottica dello scontro tra le potenze capitaliste e quelle comuniste.

Infatti, i membri permanenti del consiglio saranno:

-Unione Sovietica
-Stati Uniti
-Grimaldea
-Italia
-Cina

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I due blocchi (e mezzo)

L'evento che sancì definitivamente la divisione europea tra est sovietico e occidente fu il rifiuto dei sovietici di abbandonare le proprie posizioni, di fronte alla proposta di ritiro unilaterale delle proprie truppe da Francia, Lotaringia, Ungheria e Germania da parte degli alleati occidentali.
La guerra fu sul punto di scoppiare di nuovo quando i russi crearono (nota: all'opposto della nostra TL) la “Repubblica democratica di Sassonia”, riprendendo il nome dai territori dell'ex impero Wettin, con capitale Dresda. Il governo polacco di Cracovia, sentendosi vittima di una sindrome da accerchiamento, chiese ai governi occidentali la possibilità di mobilitare le truppe nell'eventualità di un attraversamento dell'Oder a Ovest e della Vistola a Est. Il permesso venne decisamente negato da parte dell'alto comando interalleato e i russi non attraversarono(ufficialmente) nessuno dei due fiumi.

Bandiera della Sassonia

A quel punto, però, gli occidentali proclamarono la “Repubblica federale tedesca”, con capitale a Monaco, togliendo di fatto qualsiasi base per l'ulteriore negoziazione del ritiro delle truppe sovietiche da Dresda, Lipsia e Berlino. Come ovvia e scontata reazione, il governo polacco di Bialystok decise di richiedere l'annessione all'unione delle repubbliche socialiste sovietiche come repubblica di Polonia.

Bandiera della R.S.S. polacca

Molti, nel mondo occidentale si dissero contrari al laissez-faire mostrato dalle autorità politiche e militari di fronte a queste prove di forza da parte russa, invocando una resa dei conti rapida ed efficace contro l'arroganza di Mosca. Del resto, nemmeno nella capitale sovietica, il pensiero che EUA e Grimaldei (anche loro l'avevano sviluppata, nel frattempo) potessero scegliere di sganciare l'atomica faceva dormire sonni tranquilli.

Si arrivò ad un passo dal terzo conflitto mondiale quando ancora il mondo non si era ancora ripreso dalle ferite del secondo, ma il tutto si fermò lì e si cristallizzò. Pochi mesi dopo, il partito comunista ungherese venne dichiarato fuori legge per 'attività sovversive' e molti dei suoi leader imprigionati con l'accusa di preparare una rivolta armata. A molti sembrò che la repressione anticomunista nel paese magiaro (con, di fatto, la consegna dell'Ungheria nelle mani del blocco occidentale) fosse stato il prezzo richiesto dagli occidentali per aver permesso l'annessione della Polonia orientale.

In quel lasso di tempo si fecero i primi passi per delle alleanze e dei trattati di collaborazione particolari tra stati che andassero al di là dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.

Il primo di tali passi fu, il 9 aprile 1947, la firma, ad Anversa del “Trattato di cooperazione e pace” tra Francia, Germania e Lotaringia. Il presidente lotaringio Robert Schumann lo definirà come il “primo passo verso un'unione di nazioni, un tempo divise dall'orrore della guerra, che sia duratura e prospera, la creazione di un sogno che per dieci secoli ha occupato le menti dei popoli d'Europa: la creazione di un'organizzazione che metta fine a i conflitti e che garantisca una pace eterna.”

L'anno seguente, il 12 febbraio 1948, contestualmente alla firma di un accordo circa il futuro dell'Africa del nord, a Roma, Italia, Romania(il cui sovrano, Giorgio VI di Hannover, era reduce dalla vittoria risicata al referendum sul mantenimento della monarchia) e Illiria avevano firmato il “Patto mediterraneo”. Il ministro degli esteri italiano Alcide de Gasperi lo definì in questo modo:“ Il momento in cui il mare che bagna i nostri paesi smetterà di essere visto come un confine che ci divide, ma uno spazio che ci unisce. E finalmente potremo tornare a definirlo, al pari degli antichi romani 'Nostrum'.”

A fronte di questi sviluppi, mancava tuttavia una coordinazione a livello militare contro un'eventuale aggressione da parte sovietica. Il problema era molto sentito, tanto che nel 26 settembre 1949 Grimaldea ed EUA firmarono il “Patto Atlantico di difesa”, esteso al 12 novembre a Inghilterra, Scozia, Francia, Lotaringia, Spagna e Italia.

Rimaneva il nodo da sciogliere circa la convenienza o meno di inserire nel patto anche i paesi confinanti con l'Unione Sovietica. La loro adesione avrebbe potuto significare un nuovo picco di conflittualità, potenzialmente rischioso, in particolare quella della Germania.

A levare gli indugi ci pensò la stessa URSS, che parallelamente creò il cosiddetto “Patto di Stoccolma”, il 17 marzo 1950, con Sassonia, Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Lituania, Danubia, Armenia e Turchia.

A quel punto, per un processo a catena, entro la fine del 1950, anche Germania, Boemia, Polonia, Slovacchia, Ungheria, Bulgaria, Romania e Ponto fecero il loro ingresso nel patto atlantico. L'Illiria, invece, trattandosi di un'organizzazione a scopo bellico e militare, rifiuterà di entrarvi.

Nonostante tale percorso paia raccontare un processo di progressivo consolidamento dell'alleanza, nella realtà dei fatti, le cose furono molto più tormentate. Infatti, sin dall'inizio, emerse una certa rivalità tra le posizioni statunitensi, più improntate ad un atteggiamento militarmente aggressivo nei confronti dell'altro blocco, rispetto a quelle grimaldee, miranti invece ad un rafforzamento innanzitutto economico dell'alleanza, oltre che un consolidamento politico interno.

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Il Ponto nel dopoguerra

Alessio VI, ancor oggi uno dei sovrani più ricordati della storia recente del Ponto, morì all'età di 83 anni nel 1951. Alcune malelingue dissero che, per quanto cagionevole di salute, avesse ritardato la sua dipartita per avere la certezza che il suo regno non sarebbe caduto nel prossimo futuro in mani comuniste. Amato e allo stesso tempo odiato per le sue prese di posizione nette e per il suo interventismo in ambito politico, la sua morte segna la fine di un'era. Innanzitutto per le stesse istituzioni del paese affacciato sul mar Nero: infatti nel quinquennio 1950-1955 verranno varate tutta una serie di riforme istituzionali che trasformeranno di molto lo stato, come il varo di una nuova costituzione(che tra le altre cose riduceva il ruolo del sovrano a compiti di rappresentanza prevalentemente formali); la riforma della giustizia; la riorganizzazione delle competenze territoriali, con il sorgere di vere e proprie autonomie amministrative; la riforma del sistema scolastico ed un piano statale per la costruzione di vie di comunicazione adeguate alla domanda dell'industrializzazione.

Da ultimo, verrà cambiata persino la bandiera, sostituendo la croce di Sant'Andrea con il vessillo già operante nell'ambito delle “forze di liberazione” che collaborarono con i romei contro i turchi.

Bandiera del Ponto dopo il secondo conflitto mondiale

Questa grande opera di riforma sociale, peraltro appoggiata dal nuovo sovrano, Davide VI, fu promossa dal governo centrista di Mihalis Kourselas, di origini armene. Nonostante il suo ambiente di origine fosse quello militare (venne educato all'accademia navale di Cerasunte), godette di un immenso prestigio dal punto di vista politico, tanto da essere nominato (da indipendente) sin dal 1950 come ministro degli esteri dal partito cristiano-democratico. Fu il principale negoziatore dell'ingresso del Ponto nel patto atlantico, ma non rinnegò mai la politica di “buon vicinato” con Turchia e Armenia come punto cardine delle relazioni estere di Trebisonda. La sua popolarità schizzò alle stelle quando sventò un colpo di stato militare ai danni del governo (che secondo alcuni fanatici del complotto, aveva l'avvallo del re). Il suo carisma tra le forze armate indusse infatti i congiurati a deporre le armi. Una volta nominato primo ministro, sfruttò al massimo la sua popolarità per promuovere il suo piano di riforme.

Mihalis Kourselas

L'aeroporto internazionale di Sinope porta il suo nome. Nel frattempo Da un punto di vista sportivo, il Ponto non fa progressi di rilievo in ambito calcistico, ma trova in un altro sport di squadra il suo punto di forza, la pallanuoto, per quanto non riesca ad aggiudicarsi mai titoli di rilievo in ambito internazionale, puntualmente superata da avversari più quotati, come Ungheria, Unione Sovietica, Italia o Illiria.

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Tra decolonizzazione e parcellizzazione: l'indipendenza dei paesi asiatici e africani

Al termine del secondo conflitto mondiale, il continente africano e buona parte di quello asiatico si trovavano sotto la gestione, temporanea o di lunga data che fosse, di una sola potenza continentale, l'Italia. Dopo il primo conflitto mondiale aveva ricevuto in amministrazione fiduciaria le colonie francesi e ora si trovava a dover gestire anche il futuro di quelle tedesche. Ma si trattava di un compito che il governo di Pavia si sobbarcava mal volentieri. Già negli anni tra le due guerre, le spese infrastrutturali per la gestione di territori così vasti ed eterogenei si erano rivelate più che ingenti. Inoltre, in molti dei domini, le elites culturali non erano più “arretrate” rispetto a quelle della madrepatria da tempo, educate com'erano nelle università occidentali, italofone, francofone o germanofone che fossero. Questo indusse movimenti di opinione, già dagli anni '30 in favore dell'indipendenza (con il riconoscimento formale del sovrano come capo dello stato, così come era nei paesi italo-americani, oppure no), o quantomeno, di una forma spinta di autonomia.

Paradossalmente, i paesi in cui le dimensioni di tali movimenti raggiungevano le cifre più ragguardevoli erano le colonie di lunga e lunghissima data, come l'Egitto, l'Etiopia, la Tingitania o l'India. In altre regioni, in cui invece la componente di origine bianca rappresentava la componente maggioritaria della popolazione, i movimenti indipendentistici erano visti con sospetto, per timore che il potere politico ed economico che possedevano potesse essere loro sottratto dai 'locali'.

Infine, ulteriori problemi andavano a complicare il quadro. Da un lato, vi era l'appartenenza politica dei movimenti indipendentistici: se i paesi occidentali non erano in sé contrari alla progressiva concessione dell'indipendenza, non era certo nella loro lista di desiderata promuovere governi locali con evidenti simpatie socialiste. Dall'altro, per come erano stati tracciati i confini delle colonie, spesso i medesimi territori erano l'obiettivo di diversi movimenti autonomistici, creando il seme di possibili futuri conflittualità.

Asia

In tale difficile contesto, il primo sforzo fu compiuto nel 1947, con l'intesa italo-franco-guascone, in dialogo con i principali esponenti dell'autogoverno per la creazione di uno stato indiano unito. Infatti, fino a quel momento, il subcontinente era diviso in diverse amministrazioni non comunicanti tra loro: Gujarat e Lancava erano territori d'oltre mare; Rajput e Vijayanagar (o, italianizzati, Ragiastan e Viggiaiana) erano domini, in cui, peraltro, sopravvivevano le dinastie regnanti, pur con un ruolo esclusivamente cerimoniale; Delhi ed il Sind erano vicereami, mentre l'India centrale e il Bengala (ovvero l'ex India francese) erano governatorati. Oltre a tutto ciò si andavano ad aggiungere Goa e l'Orissa, ovvero l'India guascone, il cui status era ancora da definire.

La stesura di una road map verso l'unione di tali eterogenei territori fu lunga ed ardua. Non solo per una questione di differenze amministrative, ma anche linguistiche, culturali e, in particolare, religiose. Nonostante gli indù rappresentassero la maggioranza della popolazione, le minoranze islamica e cristiana temevano che ci si avviasse verso la creazione di uno stato a forte connotazione confessionale, tale da minacciare le loro libertà religiose. Come mediatore tra le parti, venne persino invitato lo stesso primo ministro musulmano del Punjab, Muhammad Ali Jinnah, inviato dal suo sovrano (il Punjab era ancora una monarchia, per quanto anomala, visto che il re era eletto da un consiglio ristretto. La strada verso la democratizzazione del paese era stata aperta solo di recente), Nanak Chand (che aveva in precedenza rifiutato la possibilità di far entrare il proprio paese all'interno dell'unione in costruzione). Si giunse però, dopo molti collettivi sforzi alla proclamazione, il primo gennaio del 1948, della confederazione indiana.

Bandiera della confederazione indiana

Lo stesso re del Punjab salutò con favore la nascita dello stato indiano, con cui si auspicava “buoni e proficui rapporti di vicinato, come dovrebbe essere normale tra due paesi che hanno condiviso molto della propria storia.”

Bandiera del regno del Punjab

Per una regione in cui un il processo di unificazione andò a buon fine, un'altra zona del mondo, il sud-est-asiatico, andò inesorabilmente incontro ad un processo di parcellizzazione.

Il motivi di tale fallimento sono molteplici: innanzitutto, al contrario del sub-continente indiano, mancavano i presupposti storici per un senso, anche solo blando, di appartenenza ad una base culturale comune; in secondo luogo, era differente l'atteggiamento stesso delle potenze occidentali, che ritenevano ancora strategicamente possibile e anzi auspicabile mantenere il controllo su alcuni territori dell'area; last but not least, vi era la concreta paura delle milizie di stampo socialista e comunista che avevano preso il sopravvento all'interno di alcuni dei movimenti indipendentistici della regione.

All'alba del 1948, la situazione dell'area era ancora in alto mare. Un incontro l'anno precedente con i rappresentanti dei principali movimenti politici di shan, burmesi, siamesi e mon distrusse decisamente qualsiasi possibilità di creare una confederazione come in India. Vennero così create piuttosto facilmente quattro repubbliche indipendenti, che seguivano i confini dei precedenti domini coloniali. Inoltre, i mon (probabilmente sia in virtù degli antichi legami con l'Italia, sia in virtù della potenziale condizione di inferiorità territoriale rispetto a vicini più ampi e popolati) accettarono di riconoscere come capo supremo dello stato re Carlo Maria IV. Del resto, la sua figura godeva di grande prestigio internazionale, per come si era in generale comportata la famiglia reale italiana durante il conflitto (il figlio terzogenito, Giovanni, era stato ucciso durante un bombardamento, quindi tutto si poteva dire meno che i Visconti di Pavia si fossero comportati da codardi).

Allo stesso modo, a est, una proposta unione tra Dai Viet, Champa, Cambogia e Laos venne rifiutata recisamente (in particolare da Champa, Cambogia e Laos, che temevano di rimanere schiacciati in uno stato dominato dai Viet). Oltre a ciò, la guerriglia comunista nella giungla (finanziata da Russia e Sumatra) rimarrà un problema annoso in particolare in Cambogia, che non verrà mai totalmente debellato sino all'inizio degli anni '90.

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Bandiera della Birmania

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Bandiera della Federazione Shan

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Bandiera di Pegu

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Bandiera del Siam

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Bandiera del Laos

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Bandiera del Dai Viet

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Bandiera della Cambogia

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Bandiera di Champa

I problemi, però, sorsero nelle isole. Il Fronte democratico del Popolo Malese, così come le guardie repubblicane di Sumatra, l'esercito di liberazione del Sarawak o il fronte indipendentista di Giava, guidato da Sukarno. Movimenti di questo genere si erano propagati a seguito dell'invasione giapponese, che aveva fatto del suo per ingraziarsi i leader dei movimenti anti-occidentali delle zone da loro occupate. Quella che ebbe luogo dal 1946 al 1949 fu una vera e propria guerra di (ri-)conquista che ebbe a segnalare anche diversi episodi particolarmente sanguinosi. A questo proposito, Grimaldea e EUA ebbero atteggiamenti contrapposti ed ambigui. Da un lato gli statunitensi non erano particolarmente favorevoli all'invio di truppe di supporto agli italiani, per quanto proclamassero a gran voce la lotta contro il comunismo(speravano infatti di sostituire l'influenza europea con la propria). D'altra parte, i sudamericani condannarono sin da subito gli eccessi delle violenze e si promossero come mediatori per un dialogo tra le parti, per quanto fossero paradossalmente più prodighi di aiuti militari rispetto al governo nordamericano. A ciò si dovette aggiungere il rifiuto della Guascogna nel permettere l'accesso militare italiano nelle Molucche ed in nuova Guinea. I guasconi effettivamente avevano digerito piuttosto male la cessione dell'Orissa e di Goa al neonato stato indiano e non volevano neppure sentir parlare della possibilità di creare uno stato federativo unitario che abbracciasse tutte le isole indonesiane.

Una carta a favore degli italiani fu la brutalità del nomuja (NDA: nella nostra TL, in giapponese, romusha) ossia dell'impiego ai lavori forzati di una larga parte della popolazione giavanese, balinese e makassarese, che contribuì anche ad una grave carestia che fece morire di fame milioni di persone nel 1942. Sukarno, che vedeva nei coreani il modo per liberarsi degli italiani, lo definì come il prezzo da pagare per l'indipendenza della sua isola, ma in questo modo si giocò buona parte della sua credibilità. Fu anche grazie a ciò che gli italiani riuscirono a riprendere il possesso di Giava, Madura, Bali e Sulawesi(grazie anche al contributo determinante delle forze lealiste del capitano Abdul Aziz in stanza a Makassar). Ben diverso il discorso riguardante la Malesia e Sumatra. Lì le forze occidentali si scontrarono con una fiera resistenza, rimanendo impantanati in una lotta senza sbocchi in mezzo alla fitta giungla dell'isola e della penisola. Peggio ancora, il Borneo era nella medesima situazione, e gli spagnoli erano parimenti incapaci di giungere ad una conclusione.
Un cessate il fuoco venne infine concluso il 12 marzo 1949 a Lampung, con la concessione dell'indipendenza all'isola (con capitale Banda Aceh). Mohammad Hatta, il leader del movimento di liberazione venne proclamato presidente della neonata repubblica e ancora oggi è considerato il “grande eroe della patria”.

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Mohammad Hatta

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Bandiera di Sumatra

Nello stesso intervallo di tempo, anche il movimento a ispirazione nazionalista ed islamista dell'autoproclamato “Sultano di Kalimantan”, Muhammad Ibrahim Shafi Ud-Din, ebbe ragione delle forze spagnole nel Borneo, costringendole a riconoscere l'indipendenza dell'isola nello stesso anno (ma gli spagnoli riuscirono a mantenere il controllo su Palawan).

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Bandiera del Borneo

In Malesia, invece, con il sopraggiungere di frizioni politiche ed etniche all'interno del campo anti-occidentale, la situazione si concluse con un cessate il fuoco temporaneo. Tra le clausole, veniva garantito un autogoverno, ma in cambio si richiedeva alla popolazione malese di garantire pari diritti ai mon, ai siamesi e agli hakka (i cinesi degli stretti), oltre che la libertà religiosa. La totale cessazione della guerriglia armata di ispirazione comunista e la proclamazione finale dell'indipendenza avvenne soltanto nel 1957.

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Bandiera della Malesia

Ad ogni buon conto, anche per quanto riguarda Giava, Sulawesi e le isole della Sonda tornate sotto il controllo italiano, la strada verso l'autogoverno e, in prospettiva, l'indipendenza, era segnata. Nel 1955, venne proposta un'unione federativa tra le tre unità amministrative indonesiane sotto il controllo italiano (Isole della Sonda, Giava e Makassar, ma senza contare i domini diretti, ossia l'arcipelago di Riau e l'isola di Phuket), ma i balinesi opposero una fiera resistenza al progetto, seguiti anche dagli abitanti di Sulawesi.

Nel 1957, con l'indipendenza della Malesia venne quindi concessa l'indipendenza anche a Giava, alla Federazione delle isole della Sonda e a Makassar.

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Bandiera della Federazione delle isole della Sonda

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Bandiera di Giava

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Bandiera di Makassar

Un paio di anni dopo, nel 1959, anche la Guascogna sarà, sua malgrado, spinta a concedere l'indipendenza alle isole Molucche e alla Nuova Guinea. Nel 1961 un referendum per l'unione tra le Molucche e la Federazione della Sonda vedrà la netta vittoria dei no in entrambi gli stati.

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Bandiera delle Molucche

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Bandiera della Nuova Guinea

L'indipendenza delle Visaglie, invece, seguì binari più tranquilli, per quanto non mancassero elementi di turbolenza anche in questo caso.
Gli EUA, dopo il termine del conflitto mondiale, non avevano ancora lasciato l'arcipelago e mantenevano forti presidi militari in molte delle isole principali, rendendo piuttosto complessa la transizione verso una normale amministrazione. Dal 1947, le isole erano divise in quattro zone: la zona A, la zona B, la zona C, (corrispondenti approssimativamente a Luzon, le isole centrali e Mindanao) e il sultanato di Sulu, sotto la protezione congiunta italo-statunitense.
Gli italiani cedettero senza troppe storie il controllo della zona A, il governatorato di Tondo, all'amministrazione fiduciaria americana, “con lo scopo di garantire un graduale passaggio all'autodeterminazione”. In realtà, il governo di Pavia barattò l'aiuto militare americano contro le forze ribelli in Indonesia con la cessione della sovranità sulla propria ex-colonia. Gli spagnoli, per quanto sicuramente poco entusiasti della piega che stavano prendendo gli eventi, cedettero parimenti il controllo di Cebu e dell'arcipelago centrale in cambio di un informale appoggio per il mantenimento del controllo su Palawan, visto che ormai la situazione nel Borneo sembrava compromessa(e l'opinione pubblica in patria non avrebbe consentito una guerra totale). I guasconi, invece, ribadirono la propria sovranità sulla zona C, come era loro diritto, e la mantennero sino al 1960, quando l'onda lunga della decolonizzazione si fece sentire anche a Baiona.
Gli stessi americani, però, essendo per costituzione contrari ad ogni forma di colonialismo, si limitarono ad un controllo de facto concedendo entro il 1950 l'indipendenza alla zona A e alla zona B con il nome di Repubblica di Tondo e Federazione delle Visaglie. Erano comunque stati pensati per avere un'autorità politica debole e controllata dagli interessi americani, non di rado retti da presidenti (provenienti dalle destre) a vita o esponenti del mondo militare. Diverso il discorso per il sultanato di Sulu, su cui l'Italia non aveva alcuna intenzione di cedere sovranità (e per cui dovette affrontare militarmente anche un tentativo di aggressione delle isole del mar di Sulu nel 1963-1964 da parte del Borneo. Ancora adesso ci sono degli scontri per la frontiera marittima tra i due stati...Visto e considerato che al largo della punta nord-orientale del Borneo vi sono ricchi giacimenti sottomarini). Rimase protettorato italiano fino al 1975, anno in cui gli venne concessa l'indipendenza.

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Bandiera di Sulu

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Bandiera della repubblica di Tondo

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Bandiera della federazione delle Visaglie

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Bandiera della repubblica di Mindanao

Diverso, invece, fu il discorso per quanto riguardava altri tre possedimenti italiani nel mar cinese: l'isola di Formosa, l'arcipelago delle Ryukyu e le isole di Jeju e Tsushima. Nonostante anche in questi territori la presenza di soldati statunitensi fosse ingente, gli italiani non avevano alcuna intenzione di abbandonare quei territori o, quantomeno, smettere di esercitare una concreta influenza su di loro anche in caso di indipendenza. I due governi, unitamente a delegati della Corea e della repubblica Giapponese(che velatamente sperava di ottenere l'annessione delle isole Ryukyu, di Jeju e di Tsushima) si accordarono per garantire un'autonomia governativa alle tre regioni come “zone in amministrazione co-controllata alleata”. A Naha, città in prossimità della capitale delle Ryukyu, Shuri venne stabilità una grande base degli EUA, così come a Gangjeong sull'isola di Jeju. La convivenza degli isolani con i nuovi venuti non sarà semplicissima: non solo i ryukyuani puri, ma anche i konketsu, ovvero la popolazione di sangue misto(mezza italica, mezza isolana, presente in percentuali più che discrete, soprattutto nella capitale), vedranno i nordamericani con una certa ostilità. 
La goccia che fece traboccare il vaso( o, meglio, il caso che il governo di Pavia cavalcherà per neutralizzare per diminuire drasticamente il peso politico statunitense nelle isole), sarà il cosiddetto incidente di Yumiko-chan, nel 1955, quando una bambina di soli sei anni venne rapita, stuprata, uccisa ed infine abbandonata in una discarica da Jacques Froissé(poi scagionato per mancanza di prove decisive a suo carico), un soldato di stanza alla base di Naha. Non era il primo caso di violenza da parte dei militari ai danni di ragazze locali, ma questo fece scalpore per la sua brutalità, oltre che per la tenera età della vittima. 
La notizia fece il giro del mondo, collegandosi direttamente ai malumori contro la presunta 'arroganza' degli EUA presso gli alleati europei ed in Grimaldea. A distanza di pochi mesi, nel 1956, l'Italia propose alle isole Ryukyu un referendum (che il governo di Montcalm fu costretto ad accettare) per l'alterazione dello statu-quo, secondo le seguenti opzioni:

La popolazione si espresse in maggioranza per la quarta opzione (risultato ampiamente favorevole al governo di Pavia). Altro lato della medaglia fu però che, a seguito di un intenso movimento di opinione, anche a Formosa e Jeju si dovette tenere il medesimo referendum, l'anno successivo (naturalmente con l'aggiunta, nel caso di Formosa, della proposta di unificazione alla Cina,). Nel primo caso vinse l'opzione di indipendenza sotto forma di repubblica, mentre nel secondo, il responso fu il medesimo delle isole Ryukyu.
Tutte e tre saranno poi denominate a partire dagli anni '60 le “tigri asiatiche del nord”, per il loro straordinario boom economico (assieme a Sulu, Bali e Batam, le “tigri del sud”).

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Bandiera delle isole Ryukyu

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Bandiera di Jeju

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Bandiera di Formosa

Ma perché gli americani ritenevano così strategicamente importante il dominio, almeno de facto, delle isole del mar cinese?

Il motivo molto semplice, è riconducibile agli avvenimenti che stavano accadendo in Cina ed in Corea nel frattempo. La repubblica cinese, a stampo nazionalista, dovette combattere una lotta a morte, sino al 1949 per liberarsi della guerriglia comunista. Il partito del popolo cinese, tuttavia, non venne definitivamente sconfitto, ma riparò in un paese conteso e allo spando dopo la sconfitta: l'impero coreano.

Lo status di Manciuria e Mongolia, che non erano state direttamente annesse, come il Saeolung Jibang, all'Unione Sovietica, era ancora tutto da definire. Mentre truppe americane iniziavano a sbarcare a Busan e stanziarsi ad Hangseong, i russi attraversavano il confine mongolo e mancese per fare la stessa cosa. In una situazione così caotica, in cui lo stesso imperatore rischiava di essere condannato a morte dagli alleati, che la situazione degenerasse era solo una questione di tempo. Il partito comunista coreano, assieme ai partigiani mancesi, guidarono la ribellione armata all'impero, occupando, con la connivenza russa e con l'aiuto dei comunisti cinesi, le principali città della Manciuria settentrionale. Naturalmente, il governo provvisorio coreano chiese aiuto agli EUA ed all'Italia(che però si trovava suo malgrado un tutt'altre faccende affaccendata, come si è visto).
All'alba del 1949, la richiesta di aiuto militare internazionale finì tra i banchi dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. La leggenda narra che il motivo per cui l'appoggio non finì arenato dal veto sovietico fu lo stato di ubriachezza del delegato russo. Sia come sia, l'errore di Mosca fece in modo che l'intervento militare americano e grimaldeo(questi ultimi desideravano intervenire per ribadire il loro ruolo come protagonisti del proscenio internazionale e creare un margine di influenza in una regione del mondo in cui erano poco presenti) ricevesse la benedizione della 'giusta causa', pertanto costringendo i russi ad agire solamente in modo indiretto a favore degli insorti. Nonostante ciò il conflitto fu lungo ed aspro e si risolse solo tre anni dopo con una pace di compromesso che ai coreani lasciò l'amaro in bocca.
Tutta la regione mancese a nord del fiume Yalu (peraltro una regione ad alto tasso di industrializzazione), infatti, ottenne l'indipendenza come “Repubblica popolare democratica di Manciuria”; stessa sorte toccava nel frattempo alla (pur molto meno importante dal punto di vista economico) Mongolia (un velleitario tentativo cinese di combattere gli indipendentisti comunisti era stato frustrato da una convincente moral suasion russa).

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Bandiera della Manciuria

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Bandiera della Mongolia

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Africa

Il percorso verso l'indipendenza dei paesi africani sarà più lungo e non meno accidentato. La cosa che differenzierà maggiormente l'evoluzione dei paesi del continente nero da quelli dell'estremo oriente asiatico sarà la sostanziale instabilità politica e povertà economica di buona parte dei paesi subsahariani. In più, non sempre indipendenza politica corrisponderà ad indipendenza economica, poiché le grandi risorse minerarie e petrolifere di questi paesi verranno sfruttate da multi-nazionali occidentali.

I primi ad ottenere l'indipendenza saranno gli stati affacciati al mar Mediterraneo. Nel 1950, infatti, pur con una certa dose di dissenso interno, l'Italia e la Grecia garantiranno l'indipendenza a Tingitania, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto. In più Egitto e Tingitania (probabilmente per via della discreta componente 'bianca' o comunque cristiana della popolazione) saranno sin da subito ammesse al Patto Mediterraneo come membri a pieno titolo.

Nel 1955-1956, vi sarà una seconda ondata: questa volta sarà il turno di Nubia, Eritrea, Etiopia, Somalia e Songhai.

Un paio di anni dopo, toccherà a Mauritania, Mossia, Hausa, Accania, Kanem e Ouaddai.

Nel 1960, il cosiddetto “anno dell'Africa”, sarà l'occasione di Senegal, Mandeia, Costa d'Avorio, Dahomey, Oyo, Benin, Camerun, Equatoria, Centrafrica, Sudan, Uganda, Strelekia, Zambia, Zanja, Angola e Madagascar (mentre il Sudafrica annetterà ufficialmente le 'province settentrionali francofone', ma concederà l'indipendenza al Natal).

Da ultimo, solo nel 1975, la Spagna concederà l'indipendenza a Kongo e Mozambico, a seguito di vasti fenomeni di guerriglia indipendentistica non più controllabili. Un anno dopo l'Italia si deciderà a concedere l'indipendenza alle due “colonie bianche”, ovvero le regioni con un alta percentuale di insediamento di popolazione europea, ossia il Gambia e il Capo, oltre che le isole Comore, Seychelles, San Maurizio&San Gallo, Socotra, Zanzibar. Queste ultime, Comore a parte, colonie rimarranno tutte unite all'Italia nella forma del capo di stato, ossia la regina Violante II.

È piuttosto interessante notare come, nel percorso dal 1950 al 1975, la stabilità e la ricchezza del paese siano praticamente sempre proporzionali alla data di indipendenza. In particolare, i paesi affacciati al Mar Rosso (NdA: al contrario della nostra TL...), assieme a Songhai ed Accania, sono tradizionalmente considerati i più prosperi dell'Africa subsahariana. E, se in Asia vengono definite tigri, quelle africane sono chiamate “gazzelle”: sono all'est Eritrea, Capo, Zanzibar, Socotra, all'ovest Gambia e Benin(quest'ultima prevalentemente in ragione degli introiti derivanti dal petrolio).

Marocco Tingitania Tunisia
Algeria Libia Egitto
Mauritania Songhai Mossia
Hausa Kanem Ouaddai
Nubia Senegal Gambia
Mandeia Costa d'Avorio Accania
Dahomey Oyo Benin
Camerun Centrafrica Sudan
Eritrea Etiopia Rep. del Capo
Somalia Equatoria Kongo
Strelekia Uganda Zanja
Zanzibar Comore Angola
Zambia Mozambico Madagascar
San Maurizio e San Gallo Sudafrica Natal

Le bandiere dei principali stati africani

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L'era delle organizzazioni internazionali

In misura apparentemente paradossale, le prime organizzazioni che portarono ad una unione e condivisione di interessi tra i paesi del mondo, di qualunque blocco fossero, non furono quelle politiche, ma quelle sportive. In un clima di festa, senz'altro dovuto alla gioia per il termine della guerra mondiale, vennero indetti nel 1946 i mondiali di calcio, negli Stati Uniti d'America. Naturalmente, le nazioni del blocco sovietico si rifiutarono di partecipare, ma ciò non tolse nulla all'importanza del primo grande evento internazionale dopo il conflitto. Il successo arrise alla Grimaldea, che sconfisse in finale la Germania per 2-0, dopo aver battuto i rivali storici del Paranà in semifinale per 3-2. Nell'altra semifinale, i tedeschi avevano avuto ragione dell'altra quotata formazione sudamericana del Nuovo Galles del Sud per 4-2.

Due anni dopo, l'Italia organizzò, invece, i giochi olimpici. Per indurre l'Urss e i paesi suoi alleati a partecipare, chiese l'ausilio del Vaticano per porre Roma come sede olimpica. Il pontefice Pio XII aderì alla proposta e, dopo molti tira e molla, alla fine i sovietici parteciparono con una delegazione, per quanto ridotta. Un primo momento di distensione in un periodo politicamente nervosissimo. Il personaggio principale di quelle olimpiadi fu certamente la lotaringia Fanny Blankers-Koen, che, trentenne e madre di due figli (impegno che, all'epoca, era visto come un ostacolo invalicabile alla pratica sportiva) vinse quattro medaglie olimpiche nell'atletica, guadagnandosi il soprannome di “mamma volante”.

Per quanto riguarda l'impero pontico, le prime medaglie arrivarono dalla lotta libera e dalla lotta greco-romana, sport tradizionalmente popolare in tutta la penisola anatolica e nel vicino Caucaso e dove i vicini turchi facevano tradizionalmente incetta di medaglie. Ma Alexander Doukanas, lottatore di Amiso, nella classe 67-73 Kg, tolse loro la soddisfazione di fare en-plein di ori in ogni classe di peso.

A prescindere dai risultati sportivi, il successo di queste due operazioni fu tale che lo sport si guadagnò senza dubbio un posto come vetrina internazionale per il confronto pacifico tra stati. Spesso, infatti, erano gli unici momenti in cui uomini e donne provenienti da mondi politici, sociali, culturali distantissimi potevano incontrarsi e confrontarsi in qualche modo e persino competere tra loro.

Anche i regimi capirono bene presto il valore di questa finestra di visibilità, tanto da allestire programmi sportivi tali da creare atleti supercompetitivi per ogni manifestazione (e, qualora l'allenamento non fosse stato sufficiente, ricorrendo talvolta anche a mezzi illeciti).

Dallo sport partirono anche gli europei, per creare qualcosa che non li subordinasse totalmente all'arbitrio delle due potenze dall'altro lato dell'Atlantico. Nel 1951, infatti, i paesi del Patto Mediterraneo (un anno dopo l'ingresso di Egitto e Tingitania) organizzarono ad Alessandria i “Giochi del Mediterraneo”, allo scopo di “Promuovere uno spirito di fratellanza e amicizia tra i paesi che si affacciano su questo splendido mare”, secondo le parole di Mohammed Tater Pasha, primo delegato del comitato olimpico Egiziano.

Questi giochi furono anche il primo evento sportivo che vide come partecipanti atleti provenienti dalla Francia, che era stata esclusa dalle precedenti competizioni, al pari della Corea.
I 10 paesi partecipanti alle competizioni furono: Catalogna, Spagna, Francia, Italia, Illiria, Romania, Turchia, Arabestan, Egitto e Tingitania. La manifestazione fu un grande successo e due anni dopo, nel 1953, anche Catalogna e Spagna entrarono nell'alleanza mediterranea, mentre la Francia venne inserita con il ruolo di osservatore.

Anche il “Trattato di cooperazione e pace europeo”, nel medesimo tempo, venne esteso anche a Inghilterra e Scozia. In questo caso sarà l'Italia ad essere invitata a ruolo di osservatore permanente.

Un terzo trattato, ma più di natura prettamente militare e difensiva, sarà invece l'”Accordo di difesa mitteleuropeo”, firmato da Boemia, Polonia, Slovacchia e Ungheria, desiderosi di un più stretto accordo di cooperazione tra le loro forze armate rispetto a quello garantito dal patto atlantico.

Una prima idea di unificazione di queste tre principali organizzazioni internazionali europee verrà nel 1957, quando I presidenti incaricati delle tre organizzazioni sigleranno “L'accordo di equo scambio economico”, ossia una dichiarazione di intenti avente come tema la creazione di facilitazioni nei trattati di collaborazione (prevalentemente economica) tra queste tre associazioni.

Mentre all'interno delle rispettive alleanze si compivano passi verso una maggiore integrazione economica, il lavoro per la fusione del PAM (patto Mediterraneo), del TCP (Trattato di Cooperazione e Pace) e del MEB (Accordo di difesa Mitteleuropeo) procedeva alacremente, pur ostacolato da perplessità derivanti dal timore di una progressiva cessione di sovranità nazionale ad un organismo sovranazionale.

Il culmine di questo processo si può designare come il 25 marzo 1963, quando venne fondata la CEEM, Comunità Economica Euro-Mediterranea, con i seguenti stati membri:

Cinque anni dopo, nel 1968, vi sarà l'allargamento anche a Guascogna, Gotland, Irlanda e Ponto portando a 20 gli stati membri. Contestualmente, tra il 1968 ed il 1978 verrà istituito l'AEUM (in italiano EUEM. L'Illiria non vi parteciperà, in virtù della contrarietà ad aderire a qualsiasi forma di accordo militare), ossia l'esercito unificato euro-mediterraneo, una forza militare unificata di deterrenza europea (inizialmente molto modesta) non subordinata alla Nato (per quanto gli eserciti degli stati aderenti fossero membri del patto Atlantico), cui gli Stati Uniti faranno cattiva accoglienza.

Più importanti, ma coronati da maggiori insuccessi, saranno i tentativi di una maggiore integrazione economica, con i detentori di monete relativamente deboli e votati ad un'economia d'esportazione (come Ungheria e Inghilterra) che faranno cattiva accoglienza ai progetti di unioni monetarie virtualmente in grado di ridurre l'inflazione certo, ma di ridurre la competitività dei propri prodotti sui mercati esteri.

Per un successivo allargamento si dovrà attendere invece il 1990, quando la Sassonia verrà riunificata alla Germania occidentale e la R.S.S Polacca riunificata alla repubblica federale di Polonia, dopo la caduta del comunismo. Man mano l'ampliamento interesserà gran parte dei paesi dell'orbita sovietica, oltre che i paesi della costa nordafricana.

Nel frattempo, altre organizzazioni internazionali di rilievo, sulla scorta dell'Europa, prendevano piede in altri angoli del mondo. Degni di particolare nota saranno l'ANI (Associazione delle nazioni indonesiane) e l'ASEAN (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico), oltre che il Consiglio per la Cooperazione dei Paesi del Golfo (CPG) in Asia o il MERCOSUD in Sudamerica (Mercato comune Sudamericano, su ispirazione della Grimaldea, naturalmente) e il Trattato di Cooperazione del Mar Rosso (COMERO) in Africa.

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Guerra fredda e guerra calda

Tutto il fiorire di associazioni per la cooperazione internazionale, così come la conquista dell'indipendenza da parte di molti stati non deve però trarre in inganno: la guerra fredda tra il blocco comunista e quello capitalista incombe ancora e in alcune aree del mondo si trasforma in vera e propria guerra guerreggiata.
Per quanto nel 1953 il temuto leader dell'unione sovietica, Stalin venga a mancare, abbassando di qualche grado lo stato di febbre tra i due schieramenti (specialmente in Europa), esplosioni di situazioni esplosive non ne mancheranno.

In particolare nel 1956, quando una violenta protesta a Oslo verrà repressa nel sangue, con il famoso cannoneggiamento del porto da parte della flotta russa e dei paesi alleati. Una catastrofe in termini di vite umane che verrà pesantemente denunciata da parte degli stati occidentali. In seguito a questo evento alla Norvegia verranno garantite implicitamente alcune autonomie e libertà maggiori, rispetto ad altri stati socialisti, tanto che, con una certa qual amara ironia, i norvegesi chiameranno poi il loro paese “La baracca più allegra del gulag”.
Ciò che, nel contempo, impedì all'occidente di agire in misura più incisiva fu l'imbarazzante tentativo fallito da parte di una task-force anglo-italiana di favorire una rivolta indipendentista nella regione del Kuwait, dopo la decisione da parte del governo dell'Arabestan di nazionalizzare i propri pozzi petroliferi. Gli stessi EUA e grimaldei appoggeranno, almeno a parole, il legittimo governo di Damasco, costringendo gli europei ad una precipitosa quanto vergognosa ritirata.

Chi svelò il complotto che mise a nudo “l'ultimo tentativo coloniale del XX secolo” come più volte venne definita la crisi Kuwaitiana fu proprio il governo pontico, guidato da Georgios Domouris Taronites, successore di Kourselas al ruolo di primo ministro e leader dei socialdemocratici. Le informazioni giunsero infatti a Trebisonda da alcuni influenti esponenti della comunità greco-pontica delle isole Persiche, all'epoca ancora sotto il dominio italiano e sede di una importante base navale del governo di Pavia. In un gioco di intrighi degno dei migliori film di spie, il governo di Trebisonda decise di divulgare la notizia dell'attacco per il timore, non del tutto infondato, che un'azione destabilizzante nei confronti dell'Arabestan avrebbe portato un serio rischio dell'allineamento di Damasco agli interessi di Mosca, togliendo al Ponto (e all'alleato assiro) un importante contraltare alla pericolosa Turchia, retta dal suo particolare “socialismo islamico”, che peraltro, con il favore dei russi, si faceva propagatrice di un'ideologia turanista in salsa comunista.

L'anno seguente, nel 1957, le multietniche e multiconfessionali Isole Persiche guadagnarono l'indipendenza, nonostante la base navale sull'isola di Qeshm rimanesse. Probabilmente, in questo caso, l'indipendenza delle ricche isole (per i giacimenti petroliferi offshore e per i giacimenti di gas naturale sull'isola di Qeshm) fu il prezzo da pagare per il fallimento dell'operazione.

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Bandiera delle isole Persiche

Bandiera delle isole Persiche

Altro colpo grave per la credibilità dell'occidente fu che lo Yucatan, indipendente solo dal 1933 (al termine del mandato temporaneo italiano sui Caraibi Francesi), ma di fatto sottomesso agli interessi delle multinazionali delle piantagioni e soggetto a continui colpi di stato (per i conflitti tra la fazione filo-americana e quella filo-grimaldea), venne “liberato” dai guerriglieri di ispirazione socialista di Georges Cadre Prix.

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Georges Cadre Prix (al centro)

Georges Cadre Prix (al centro)

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Bandiera dello Yucatan (post 1959)

Bandiera dello Yucatan (post 1959)

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Gli americani reagirono particolarmente male, e inviarono l'anno seguente truppe per uno sbarco nella baia di Chetumal, che finirono tutte puntualmente catturate o uccise. In risposta a questa provocazione, Prix prese accordi difensivi con il presidente sovietico Krushev, che pensò bene di alzare il livello dello tensione.

Ancora una volta, parte del problema viaggiava dalle parti di Trebisonda. Sì, perché, con la vittoria del partito conservatore alle elezioni pontiche del 1960, il progetto, tanto procrastinato dai socialdemocratici, di installazione da parte statunitense di basi missilistiche al confine con l'Armenia e la Georgia, venne portato finalmente avanti a pieno regime. Per tutta risposta, i russi approfittarono del nuovo alleato nel “cortile di casa degli americani” per stanziare dei missili nucleari in grado di raggiungere la costa americana. La crisi arrivò ad un passo dal trasformarsi in guerra guerreggiata. Ma grazie alla fondamentale mediazione del pontefice, papa Giovanni XXIII, il presidente americano, Jean Kennedie(di origini franco-irlandesi cattoliche) e quello sovietico raggiunsero un accordo (che di fatto era un'accettazione della minaccia reciproca) diplomatico.

Ma il presidente americano non fu famoso solo per la crisi missilistica yucateca. Fu anche uno strenuo difensore dei diritti umani e tuonò diverse volte contro il regime di segregazione razziale che veniva riservato ai neri negli Stati Confederati. Minacciò persino sanzioni economiche e sostegno economico ai movimenti di ribellione. Non aveva però fatto i conti con le potenti lobby economiche cui stava andando a pestare i piedi, in quanto i maggiori produttori d'armi per l'esercito statunitense erano localizzate proprio nello spazio confederato, per via dei bassi salari che potevano essere imposti alla manodopera di colore.

Molto probabilmente furono tali associazioni di potere che armarono la mano del pazzo che lo assassinò il 22 novembre 1963, durante una visita di stato a Dallas.

Un altro grave fallimento della presidenza Kennedy e di quella del suo successore, Louis Martin, fu altresì il sostegno incondizionato al generale cinese Lin Biao, il cui feroce governo dittatoriale portò ad una rinascita dei movimenti di ribellione armata d matrice comunista in Cina. Il potere dei partigiani contro il dittatore guadagnò sempre maggiori strati della popolazione, specialmente nelle aree settentrionali del paese, tanto che Lin Biao dovette fuggire da Pechino, occupato dalle guardie rosse del “grande Leader” Zhou Enlai dal 1965 fino al 1978, mentre il governo repubblicano poneva la sua capitale a Nanchino. In questa grave situazione di crisi, gli statunitensi continuarono ad appoggiare Lin Biao fino alla sua morte, avvenuta nel 1976.
Il fatto che centinaia di migliaia di buoni marines andassero a morire nelle risaie cinesi per un oscuro e impopolare dittatore in nome della lotta contro il comunismo raggiunse presto un punto di rottura totale con la popolazione statunitense, culminate nelle manifestazioni del 1968, che si propagarono in tutto l'occidente, in concomitanza con la nascita di una nuova generazione in crisi di valori e desiderosa di un drastico rinnovamento culturale.

Per quanto riguarda la Cina, il clima di disordine fu, per certi aspetti, acuito dai grimaldei, che in questa circostanza appoggiarono abbastanza apertamente gli oppositori di destra al regime, capitanati da Deng Xiaoping. Alla fine, si poté dire che però a San Sebastiano ebbero la lungimiranza di puntare sul cavallo vincente, dato che, dopo un periodo di disordini della durata di due anni, terrà le redini del paese a partire dal 1978, inaugurando un periodo di “normalizzazione democratica” (sempre in modo molto monopoartitico), e riconquistando con ritrovata energia il nord del paese strappandolo ai comunisti (che, lontano dagli occhi della propaganda, subiranno una brutale repressione, non certo migliore rispetto al destino che avrebbe tributato loro Lin Biao). Si dovette alla lunga presidenza di Xiaoping nel decennio tra la fine degli anni '70 e la fine degli anni '80 il rilancio dell'economia cinese (definito un vero e proprio boom).

Ma la crisi del 1968 colpì, per motivi diversi, anche un altro stato, dall'altra parte del mondo, la Danimarca. Tra il 5 gennaio ed il 20 agosto 1968 andò infatti in scena la “Primavera di Copenaghen”. Iniziata con la salita al potere del riformista Otto Krag, che già in precedenza aveva ricevuto incarichi di governo, durò fino a quando il suo sogno del “Socialismo dal volto umano” non si scontrò con la violenza sovietica, in ottemperanza a quella che a Mosca era definita “Dottrina Brezhnev” (ossia imporre i diktat della Russia ai paesi alleati anche con la forza, se necessario) che invase il porto di Copenaghen con le proprie navi e inviò i propri carri armati nello Jutland. Pochi mesi di libertà amaramente stroncati con la forza il cui epilogo simbolico fu il suicidio su un rogo del giovane ventunenne Johan Poulsen l'anno seguente, il 19 gennaio 1969. Il suo atto ancor oggi è ricordato quale simbolo del sacrificio disperato per la libertà del proprio popolo sofferente sotto la dittatura.

In questi convulsi anni, nel frattempo, Anche nel Ponto si assiste ad una radicale trasformazione della società. Quello che era un paese sostanzialmente basato sul settore ittico e della cantieristica navale, oltre che del settore primario (in particolare le piantagioni di the e tabacco) attuerà negli anni sessanta e settanta una vera e propria rivoluzione industriale, figlia anche di una moneta debole, e quindi vantaggiosa per le esportazioni a basso costo, una pace sociale invidiabile e, merito degli sforzi dei decenni precedenti, di una rete infrastrutturale ragguardevole, nonostante l'orografia accidentata del territorio. Nonostante i settori trainanti di questo nuovo sviluppo fossero l'industria chimica, plastica e farmaceutica, il simbolo del boom economico pontico fu la Despina, utilitaria prodotta dalla Eusinus Voitures, casa automobilistica con sede a Coloneia che verrà poi acquisita, all'inizio degli anni novanta, dal colosso italiano M&G (Miari e Giusti, con sede legale a Padova).

Ma questi anni non portano solo benessere ai paesi capitalistici. La rivoluzione culturale e la contestazione mietono una vittima illustre nella vecchia Europa: la Spagna. La corona di Lisbona, in grave crisi identitaria da diverso tempo, riceve una spallata pesantissima da parte dei partiti di sinistra, che cavalcano la tigre della contestazione, della difficile congiuntura economica (mentre tutti gli altri sembrano correre) e degli scandali della famiglia reale per promuovere l'indizione di un referendum per l'abolizione della monarchia. La raccolta firme sembra dar ragione ai repubblicani. Ma nella notte del 14 ottobre 1969 il celebre generale Manuel Antonio Vassalo e Silva da' ordine alle forze armate di irrompere nel senato e dichiarare lo stato d'emergenza contro “le pericolose forze disgregatrici che mirano all'annientamento dello stato iberico e alla sua consegna nelle mani del comunismo sovietico”.

I reali divengono difatti, per quanto involontariamente, la causa del colpo di stato, per quanto siano a tutti gli effetti ostaggio della giunta militare.

La giunta, autoproclamatasi “governo d'emergenza”, resterà in vigore fino al 1988. Ancora oggi la discussione sull'operato della giunta divide le coscienze del paese. Perché se è vero che fu un governo assolutamente non democratico e non certo a favore della libertà di espressione, oltre che fautore di scellerate politiche nazionalistiche contro le minoranze linguistiche (in particolare la repressione del castigliano), è anche vero che la politica economica del regime permise allo stato una rapida crescita economica ed uno svecchiamento della macchina burocratica, affetta sino a quel momento di una paralizzante elefantiasi.

L'Europa odierna (clic per ingrandire)

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Gli anni ottanta e novanta

Si giunge così agli anni 'ottanta. Un'epoca contrassegnata da un'economia sempre più globalizzata ed in cui fanno breccia settori industriali e merceologici completamente nuovi, come l'industria Hi-Tech e l'Informatica, che divengono il traino della cosiddetta “new economy”. Colossi multinazionali sorgono rapidamente e lottano senza esclusione di colpi per accaparrarsi fette di un mercato in continua e rapida espansione, come CIME (HL: IBM), Olivetti, Olidata, Hitachi, Samsung e tante altre.

Il mondo politico, però, continua a seguire le sue logiche imperterrito, in particolare per quanto riguarda l'Unione Sovietica, che sembra sempre più propensa all'uso della forza militare per risolvere le dispute internazionali.

La cosiddetta “rovina dell'Urss”, molto spesso paragonata al pantano cinese degli americani di un decennio prima fu la sanguinosa e ultimamente inconcludente guerra con la Persia.

Quest'ultimo stato negli anni ottanta era in forte ascesa economica, per quanto guardato sempre con una certa inquietudine dalle potenze occidentali, per via dello spiccato nazionalismo (per quanto ferocemente anticomunista) di cui si faceva forte. Nonostante la brutale occidentalizzazione forzata portata avanti dopo la prima guerra mondiale (compreso l'obbligo di utilizzo dell'alfabeto latino per il persiano) avesse portato alla creazione di uno stato laico e industrializzato (grazie anche agli introiti del petrolio), il multipartitismo non aveva fatto breccia e di fatto, l'esercito, con i suoi generali, dominava la scena politica. Nel 1978 il capo di stato era il generale Abbas Gharabaghi. Da un punto di vista militare, il principale cruccio persiano erano saltuari scontri di frontiera, piuttosto che la guerriglia indipendentista nel Balochistan. Le frontiere occidentali erano ben difese, ed in particolare nel nord vi erano diverse stazioni di missili (gentile concessione europea) puntati verso Armenia e Turchia. Con gli Assiri, invece, i rapporti erano solitamente buoni, anche perché alleati nella repressione della guerriglia indipendentista curda sulla frontiera, oltre che domare la guerriglia comunista del partito del popolo assiro, finanziato da turchi e armeni. Ma certo non poteva pensare che proprio da lì potesse provenire all'improvviso un attacco su larga scala. In realtà non tutti i curdi erano ostili al governo persiano, che, anzi, era piuttosto generoso a livello di concessione di autonomie alla minoranza etnica in questione. Erano anzi documentati casi di scontri a fuoco tra gli esponenti del partito dei lavoratori curdo, di chiara ispirazione marxista, e le forze curde lealiste.

L'incidente avvenne nell'estate del 1978, quando una task force assiro-iraniana oltrepassò il confine armeno per eliminare un gruppo di guerriglieri curdi. Le forze armate armene si accorsero dello sconfinamento e fecero fuoco sulle unità iraniane (ancora oggi diversi studiosi sostengono la teoria dell'errore armeno, ma non si avranno mai dati certi in merito).

La minaccia di una risposta militare di fronte all'accaduto da parte del generale Garabaghi spinse il governo armeno a chiedere ausilio a Mosca. Ma l'improvvisa affluenza di uomini e mezzi russi in Armenia generò un'escalation ancora peggiore.
Il partito del popolo assiro, infatti, cogliendo al volo la situazione favorevole, attaccò il palazzo del governo di Ninive e riuscì ad attuare un colpo di stato. I capi delle forze armate assire inizialmente non si mossero, vista anche l'impopolarità del precedente governo, incerte sul da farsi, mentre i curdi, viceversa, vedevano con favore la piega che stavano prendendo gli avvenimenti. 
Quando però il nuovo governo iniziò a varare provvedimenti altamente impopolari contro la proprietà privata e, in particolare, contro i monasteri e i loro possedimenti, la popolazione iniziò ad andare in fermento. Infatti l'appartenenza al cristianesimo assiro era il collante della nazione e i monasteri ne erano il simbolo. Lo svecchiamento della società non incontrava il favore del popolino legato alle proprie tradizioni.

Nel giro di un anno le rivolte si erano pericolosamente diffuse tra le regioni montane, per cui il neo-presidente implorò aiuto alle forze armate russe di stanza in Armenia. Brezhnev si rivelò in verità piuttosto titubante verso un intervento in forze, ma infine cedette.
Questo si rivelò uno dei più grandi errori della politica estera russa. Le armate sovietiche vennero impelagate in un conflitto sanguinoso contro una guerriglia sfuggente. Con la morte di Brezhnev nel 1982, la politica già muscolare di Mosca si fece ancor più rigida e l'incapacità di trovare un'exit strategy convincente indusse invece ad un ampliamento del conflitto, penetrando nell'Azerbaijan persiano, utilizzando come motivazione (giusta del resto), l'ausilio militare dato dai persiani agli assiri. Gli stessi armeni iniziarono a sollevare sporadiche rivolte armate, imitando le tattiche e le modalità assire. Da ultimo, agli stessi turchi venne imposto dall'URSS di inviare le proprie truppe a sussidio, complicando ancor di più il quadro di un conflitto confuso e brutale. Unici che ne giovarono furono i curdi che, dopo una resa dei conti interna, proposero ai persiani di cambiare campo in cambio della garanzia dell'autogoverno e di un eventuale referendum sull'indipendenza. I persiani inizialmente rifiutarono, ma messi alle strette dallo spropositato numero di forze che sembrava volesse mettere in campo Mosca, decisero di accettare, lasciandosi aperta la possibilità di un tradimento futuro delle proprie promesse.

I governi occidentali minacciarono di intervenire con la forza e i missili della base statunitense di Cotyoris mai come prima di allora furono ad un passo dall'essere utilizzati.
L'orologio del conflitto nucleare si avvicinò pericolosamente alla mezzanotte, ma ancora una volta, l'olocausto fu scampato.
Dopo una serie di inutili perdite di uomini e mezzi, con la totale incapacità di presidiare un territorio completamente accidentato, nel 1985 le truppe russe si ritirarono, trascinando nel loro tonfo anche i marxisti assiri.

Naturalmente, effetto previsto e prevedibile di tale lungo e sanguinoso conflitto fu l'alto numero di profughi in fuga dalle zone di guerra. Gli assiri avevano come meta del loro viaggio verso la salvezza proprio il Ponto. Molte famiglie di origine assire si stanziarono a Trebisonda proprio in quel periodo. Purtroppo nacquero contemporaneamente nel paese affacciato sul Mar Nero anche movimenti xenofobi che inneggiavano al fatto che gli stranieri avrebbero sarebbero vissuti di crimini o, peggio, avrebbero rubato il lavoro ai cittadini locali. In questo caso fu addirittura il re, Alessio VIII, che tuonò contro tali partiti, dicendo in parlamento:

« La tradizione dell'impero pontico è di accoglienza e di ospitalità. Siamo diventati grandi proprio perché così abbiamo sempre fatto, sin da quando questo stato è nato e ancor di più durante i tumultuosi anni della guerra mondiale. L'esimio senatore che dice tali oscenità dovrebbe esserne grato, visto il cognome che porta! »

Infatti, il capo del “Movimento dei pontici liberi” si chiamava Johannis Sargsyan, un cognome di chiara origine armena orientale. Quel discorso è famoso ancor oggi e spesso è ripresentato in programmi televisivi, più o meno liberamente reinterpretato (spesso in chiave ironica e satirica).

Questo fu però anche il canto del cigno dell'impero sovietico. Piegato dalle crescenti spese militari e da un'insostenibile stagnazione economica, di lì a poco crollerà, esplodendo in mille frammenti.

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Il mondo di oggi

La fine del comunismo in Europa

Le avvisaglie della fine si erano già fatte sentire nell'umiliante ritiro dall'Assiria. Sulla via della ritirata l'Armenia stessa aveva visto crescenti disordini nelle sue maggiori città, richiedendo libertà e democrazia con proteste di piazza, ovvero qualcosa che sin dai tempi di Praga nessuno aveva mai osato fare apertamente in un paese satellite. Ma la situazione iniziò a divenire la norma anche a Copenaghen, Stoccolma, Helsinki, Vilnius, Bucarest e tante altre città. Ovviamente, chi protestava sapeva di rischiare il carcere e finanche la vita, ma ciò non li avrebbe fermati. La sensibilità verso la condizione dei paesi oltre cortina venne acuita di gran lunga dal fatto che nel 1978 fosse stato eletto come pontefice Giovanni Paolo II, originario di Wadovice, nella Polonia indipendente, ovvero l'ultima frontiera avanzata del mondo occidentale, circondata o quasi da paesi comunisti. Fece sentire sin da subito la propria voce in difesa del popolo assiro e armeno, che stava soffrendo sotto il tallone dell'esercito sovietico. Molto simbolicamente, una delle prime visite apostoliche che compirà, naturalmente dopo quella alla sua amata terra natale, sarà a Trebisonda, dove concelebrerà una messa insieme al patriarca della chiesa armeno-cattolica, Hemaiag Pietro XVII Guedikian, nativo proprio della città, a suffragio di tutti i defunti del conflitto in Assiria. Il suo impegno per il dialogo ecumenico, specialmente nei confronti delle chiese orientali (anche se con il patriarcato di Mosca i rapporti saranno sempre freddi) rimarrà celebre.

Particolarmente famose saranno le proteste degli operai dei cantieri navali danesi di Munkebo, a pochi chilometri da Odense, guidate da Hans Ludvig Martensen(nella nostra HL, vescovo cattolico di Copenaghen fino al 1995), leader del sindacato clandestino di ispirazione cattolica Solidaritet.

Dalla Danimarca la rivolta si diffuse anche agli altri paesi. In Svezia, le redini ideali del dissenso vennero invece prese da intellettuali laici come Sven DelBlanc, Lars Gyllensten e, soprattutto, Christian Jersild, che in seguito diverrà il primo presidente della Svezia post-comunista.

Il primo paese ad avere un governo democraticamente eletto e un primo ministro non comunista dei paesi del blocco sovietico sarà proprio la Danimarca. Dopo una concitata seduta nel plenum del partito, il presidente Anker Jorgensen accettò di incontrare Martensen per un colloquio. A seguito di questo incontro, lo stesso Jorgensen approvò l'indizione di elezioni semi-libere. I risultati per Solidaritat andarono oltre alle attese, conquistando tutti i seggi per cui era stata data loro la possibilità di competere. Per converso, i risultati per gli esponenti del partito comunista furono disastrosi, non riuscendo nemmeno a conseguire il numero di voti minimo nei seggi a loro riservati.

Questo indusse Jorgensen ad accettare, il 19 agosto del 1989, il primo governo con un primo ministro non comunista (l'amico di in un paese del blocco sovietico. Il fatto si riverberò come un boomerang in tutti i paesi del Patto di Stoccolma, provocando il crollo del castello di carte. Nel contempo, in Norvegia iniziarono ad essere proclamate apertamente le verità sui moti del 1956(bollate come un'insorgenza di poco conto orchestrata dall'occidente, alla quale il partito comunista reagì valorosamente) e nella tarda primavera di quell'anno, nei principali porti del paese, da Oslo a Trondheim, venne dato libero accesso ai traghetti, senza controllo di visto speciale per l'espatrio. Inoltre, la marina norvegese ritirò la propria flotta dallo Skagerrak. Migliaia di persone si riversarono sulle navi in partenza per la Scozia, la Lotaringia o la Germania, mentre migliaia di svedesi, sassoni, danesi e finlandesi si recavano in Norvegia per raggiungere i porti.

L'evento che però sancì simbolicamente il crollo del comunismo fu però l'apertura delle frontiere tra Germania e Sassonia. Centinaia di chilometri di reticolato distrutti tra ottobre e novembre 1989, mentre in ogni capitale dei paesi d'oltrecortina sventolavano bandiere bucate dove erano state strappate via falce e martello, i simboli dell'oppressione.

Al sud accadde la medesima cosa all'Armenia, con la distruzione dei checkpoint a guardia del confine con il Ponto e il riversarsi di migliaia di Armeni verso Coloneia e Argiropoli. Il re Alessio VII ribadirà ancora una volta il dovere all'accoglienza verso i profughi armeni in fuga(o desiderosi di riunirsi con le loro famiglie già dimoranti nel Ponto) e, nel contempo, alzando perentoriamente la voce in merito “Ai greci pontici che a centinaia di migliaia dimorano entro i confini di paesi ancora afflitti dai regimi marxisti. Fratelli, questo è il momento! Fate sentire la vostra voce e noi vi aiuteremo!”

Il governo russo, che aveva tentato una debole apertura e rinnovamento grazie al leader Mihail Gorbachev, si trovò impotente di fronte all'onda di marea. E i guai per l'URSS non erano ancora terminati. Infatti, si riverberarono anche nelle repubbliche sovietiche facenti parte dell'unione i moti nati nella lontana Danimarca. Fosse perché seriamente l'appello di Alessio VII fosse giunto fin lì o semplicemente per un caso, i primi e più attivi nei movimenti di piazza e nelle manifestazioni nelle città furono i perateici. La loro protesta divenne famosa come “L'insurrezione dei cartelli”. Infatti, squadre di giovani e meno giovani giravano per il paese e con pennelli e vernice cambiavano tutti i nomi delle città presenti sulla segnaletica stradale, restituendo la nomenclatura originaria a Teodoro, Nea Comnenia, Panagiopoli, Cembalo, Kalamita, Kerkinitida e tante altre località. Altrettanto attivi nelle rivolte e nelle proteste erano i lituani, che marciavano sventolando bandiere con impressa la croce Jagellone. 
Spinti dall'esempio, presto anche tutte le altre nazionalità imitarono lituani e perateici, creando una situazione del tutto ingestibile, anche con l'utilizzo massiccio della forza (cosa che comunque Gorbachev desiderava evitare il più possibile). Gli stessi polacchi orientali manifestarono vivacemente, mentre le guardie ai check point sui ponti della Vistola iniziavano a disertare in massa.

Entro il 1991, sfruttando lo Ius Secessionis previsto dalla carta costituzionale sovietica, fioccarono a Mosca le richieste di indipendenza di tutte le repubbliche sorelle, oltre ad alcune da parte delle repubbliche autonome in senso alla Russia. A questo punto Mosca, dopo aver tentato un accomodamento pur di mantenere l'unione, si rassegnò a ratificarle, perlomeno per quanto riguarda le prime (mentre per quanto riguarda le repubbliche autonome farà di tutto pur di mantenerle, riuscendo anche nel proprio intento).

Vennero così dichiarate indipendenti:

Mentre i regimi di sinistra cadevano, inaspettatamente, crollava anche un regime di destra: La giunta militare spagnola, salita al potere additando la minaccia del comunismo, una volta smarrita la sua ragione stessa di esistere venne progressivamente subissata da manifestazioni di piazza altrettanto imponenti e corpose di quelle che stavano avendo luogo nei paesi dell'est. Il colpo di stato definitivo fu messo a punto da esponenti dello stesso esercito, in accordo con la famiglia reale. Re Sebastiano VII, mentre le forze della guardia civile presidiavano i luoghi strategici delle città principali, lanciò un comunicato radio e televisivo in cui proclamava: “Lo stato di emergenza è terminato. Mi auspico che le forze vive del paese siano pronte a riprendere in mano le redini di un governo democratico per la nostra amata patria.”
Ciò che accadde andò però al di là delle sue stesse aspettative. Nel giro di una settimana, la giunta, fortemente monarchica e lealista, si dimise in massa senza attendere una deposizione con la forza e a tempo di record vennero indette nuove elezioni, vinte dai partiti centristi e federalisti. Tuttavia, in molte cortes della Castiglia, ottenne uno straordinario successo il partito socialdemocratico di Castiglia e Andalusia, che tra le altre cose propugnava l'indipendenza da Lisbona delle regioni a lingua castigliana, fortemente repressa durante gli anni della giunta.
Nel clima di effervescenza democratica, la nuova coalizione di governo fu costretta a concedere la promessa del referendum, non prima, però di proporre un altro quesito referendario agli spagnoli: il destino della monarchia. Nonostante infatti la manovra di re Sebastiano avesse restaurato parte della sua credibilità, la famiglia reale era accusata di essere stata connivente con la liberticida giunta militare. E anche se non lo fosse stata in un primo momento, la condotta di quiescenza di fronte alle leggi liberticide dei generali rappresentava comunque una colpa, agli occhi di molti.
Il risultato del plebiscito fu chiaro: il 74% degli aventi diritto si espresse a favore della repubblica in Castiglia, mentre in Portogallo, Galizia e Leon la monarchia ottenne una risicatissima vittoria al 52%
Stessa percentuale, o di poco superiore (78%) che ebbero i sì nella seguente votazione per l'indipendenza della Castiglia. Era nato un ulteriore nuovo stato (che fece subito richiesta di ingresso nella CEEM).

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Bandiera del regno unito di Portogallo e Leon

Bandiera del regno unito di Portogallo e Leon

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Bandiera della repubblica di Castiglia

Bandiera della repubblica di Castiglia

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Mentre Sassonia e R.S.S polacca completavano la road map per la riunificazione rispettivamente con Germania e Polonia (avvenuta il 12 marzo ed il 17 giugno 1991),il comunismo, tuttavia, non crollò affatto, come si poteva supporre, in molti paesi del resto del mondo che avevano adottato tale ideologia per giustificare un regime monopartitico. I casi più eclatanti furono Sumatra e Manciuria, in cui la dittatura, per quanto “convertita” progressivamente al capitalismo in economia, non aveva affatto intenzione di abbandonare il comunismo in politica.

Nel 1992, a Trebisonda veniva inaugurato il “Forum per la cooperazione e lo sviluppo del Caucaso e del Vicino oriente” in cui, per la prima volta dopo molto tempo si riunirono sullo stesso tavolo le nazioni, già un tempo alleate di Turchia, Assiria, Armenia, Alania e Ponto, cui si aggiunsero in un secondo momento anche Georgia e Azerbaijan/Kumykhstan , oltre che a Persia, Arabestan e Isole Persiche nel ruolo di osservatori.

Inoltre l'anno seguente, a Panagiopoli, il neopresidente della repubblica di Perateia invitò ufficialmente re Alessio VII in visita ufficiale, oltre che al presidente della Bulgaria e il governatore della regione autonoma del Piccolo Ponto, “Allo scopo di rinsaldare le comuni radici culturali dei nostri popoli, da troppo tempo dimenticate.”

Nel 1995, la CEEM, cambiò nome, per divenire semplicemente, nella riunione dei delegati dei paesi ad Anversa, il 7 febbraio UEM: Unione Euro Mediterranea. Il percorso per una progressiva unione politica di paesi con culture e tradizioni differenti sarebbe stato arduo e costoso; pur tuttavia, a partire dall'ambito economico e degli scambi commerciali, le prime fondamenta per un'unione duratura di popoli erano state gettate. Quello stesso anno, diversi paesi d'oltrecortina fecero richiesta di ingresso. I primi a rispettare i requisiti per l'ingresso saranno Danimarca e Svezia, nel 2000, seguiti nel 2002 da Lituania e Bulgaria e Perateia, oltre che ad un nuovo paese africano, la Tunisia. Nel 2005 sarà invece la volta di Norvegia, Finlandia, Carelia, Turchia e Armenia (sul cui ingresso verranno appuntate diverse critiche perché “Nazione Asiatica”, presto rimandate al mittente).

Nel frattempo nel 2005, la UEM approverà il progetto di un regime interno di cambi fissi tra le monete dei paesi membri, con l'obiettivo a lungo termine di ridurre il più possibile il gap in termini di Pil procapite e ISU tra le nazioni.

Tali progressi in ambito di unione economica, politica e militare tra i paesi europei non poteva che far sorgere diversi malumori dall'altro lato dell'atlantico, in particolare in virtù del fatto che le nuove nazioni aderenti alla UEM entrano nell'AUEM ma non nella NATO.

Ultima, in ordine di tempo per quelle che vengono considerate “indebite provocazioni tra alleati”, è l'accettazione, nel 2009, della candidatura della Russia all'ingresso dell'EUEM, assieme a Ucraina e Vareghia, oltre che alla proposta di rinominare la EUEM stessa “Unione Eurasiatica” (anche perché l'anno precedente, il 2008, aveva visto l'accettazione della candidatura dell'Assiria).

Quali sfide attenderanno questo mondo da ora in avanti? Crisi economiche? La minaccia di terroristi religiosi fanatici? La recrudescenza di guerriglie comuniste in angoli dimenticati del mondo? Emergenze umanitarie a cui il vecchio continente si trova incapace di reagire?

O una strada di coesione e di pace, in cui il ruolo del sempreverde e tenace impero Pontico sarà come sempre determinante?

THE END

Paolo Maltagliati

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Se avete suggerimenti e consigli da darmi, scrivetemi a questo indirizzo.


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