Salve, mi chiamo Paolo Maltagliati, studio storia medievale all'università di Milano, e sono in particolare appassionato di storia bizantina. Ecco la terza parte della mia ucronia pontica; per leggere la prima parte, cliccate qui; per leggere la seconda parte, cliccate qui.
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La fine di Trebisonda
1555: Muore Giovanni II Gabras. Stranamente, considerata la modalità con cui era giunto al governo, il figlio Andrea, primo del nome, gli succede senza intoppi. Quello di Andrea si potrebbe ben definire un periodo di relativa quiete prima della tempesta. Apparentemente, la gloria e la ricchezza di Trebisonda sono all'apice. I mercanti pontici scorrazzano per ogni parte dell'Asia, fin quasi alle porte della Cina e in India nordoccidentale. Gli unici screzi, se tali si possono definire, sono con i cugini del nord, che, forti dell'alleanza con i lituani, si stanno stabilmente instaurando lungo la via della seta settentrionale. Quest'ultima, che passa da Astrakan e per tutto il Turkestan, sta riguadagnando importanza sulla rotta meridionale, passante per la Persia, da quando Baber ha fondato un forte e solido regno che abbraccia tutta la steppa e le città carovaniere. L'opera di rafforzamento viene proseguita dai suoi successori Sher Shah e Humayun, che oltre a dedicarsi al consolidamento interno decidono anche di espandere i confini del loro impero.
1565: sale al trono dell'impero transoxiano Akbar il grande. Dato che non lo può fare verso
sud, vista la presenza della Persia, di cui peraltro la Transoxiana è fedele alleata, decide di
trovare terre di conquista al nord e all'ovest.
A nord, infatti, oltre una vasta terra di nessuno si estende il pacifico khanato di Sibir,
amico ed alleato con Kazan e con i russo-lituani. Ovviamente i siberiani non hanno mezzi
per fermare le scorrerie uzbeche provenienti da sud, pertanto chiedono aiuto, appunto, ai
propri tradizionali alleati a occidente degli Urali.
In questo clima di tensione, a Vilnius si comincia ad alzare il livello di guardia. Gli
Jagelloni temono, infatti, che il vero obiettivo di Akbar sia la città di Astrakan, posta a
crocevia degli scambi tra l'area del mar Nero e le steppe. Fatto che sembra giustificato
dalla decisione del khan di costruire una nuova capitale, chiamata Olyshar, sulle rive del
mar d'Aral (non immaginatevi la pozzanghera che abbiamo nella nostra TL!), dove il
Syrdaria entra nel grande lago. Oltretutto, gli Jagelloni temono anche che la Transoxiana
sia aizzata ed invogliata dal temibile impero persiano, che punterebbe a spianarsi la strada
per un'eventuale conquista della ciscaucasia. Partito da Cinqi Tura, il khan di Sibir decide
di scendere personalmente in guerra con il nemico, non fidandosi fino in fondo della
voglia dei kazaniani e degli jagelloni di aiutarlo.
1569: Battaglia del Turgaj. Come prevedibile, l'esercito siberiano viene spazzato via, prima
che possa arrivare un concreto aiuto da ovest. A questo punto, tra Lituania e Kazan
l'alleanza per "debellare il pericolo" proveniente da sud-est diviene un'alleanza per
spartirsi le terre orientali, prima che possano cadere nelle mani di qualcun altro. I Tatari
sono più svelti e si accaparrano quasi subito le zone meridionali, dove si trovano le due
capitali, Tyumen e Cinqi Tura, lasciando agli Jagelloni la parte settentrionale,
nominalmente molto più vasta, ma, di fatto, disabitata, se non da cacciatori nomadi Komi
e Samoiedi. La nuova regione verrà affidata dagli Jagelloni agli Stroganoff, ricca e potente
famiglia di estrazione borghese, che aveva anche acquistato la successione al principato di
Moscovia, dopo che i Rjurikidi si erano estinti senza lasciare diretti discendenti. Con la
loro mentalità imprenditoriale, capiranno abbastanza velocemente che il lucroso
commercio di pelli pregiate ai ricchi mercanti occidentali, che poteva nascere dalle regioni
appena annesse, giustificava lo sforzo di fondare almeno qualche forte nella regione,
anche a prezzo di perdite umane rilevanti per le condizioni poco favorevoli. Uno dei primi
centri di una certa importanza sarà la base di Surgut.
Ma se i due alleati pensavano che Akbar si sarebbe rassegnato a rinunciare alla preda per
paura di un confronto diretto avevano fatto male i conti.
1570-1571: Akbar con il suo esercito marcia verso nord. Re Andrea di Trebisonda prega i persiani di porsi come mediatori per una soluzione rapida del conflitto, che costringe i due rami dei pontici a vedersi come potenziali nemici. I trapezuntini, formalmente all'interno del commonwealth persiano sono, infatti, visti come rivali ad Astrakan e dintorni. Lo Shah sta sul vago, cosa che Andrea teme possa celare pericolose intenzioni da parte della corte Safavide. La battaglia decisiva tra transoxiani e tataro-lituani si svolge sul fiume Emba. Ambedue le parti rivendicano la vittoria. Certo è che ambedue gli schieramenti hanno riportato considerevoli perdite, che impediscono loro di portare a fondo i propri attacchi in territorio nemico. Tra Kazan e Transoxiana viene fissato un confine che regala le steppe a questi ultimi e gli altopiani ai primi. Inoltre Akbar giura di abbandonare qualsiasi proposito, vero o presunto, di attaccare Astrakan. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio: i russo-lituani cominciano perciò a creare un confine fortificato sulle sponde della Volga. Andrea di Trebisonda però capisce che qualcosa non quadra. I persiani stanno ammassando uomini e non riesce a capirne le ragioni. Invia una nota a re Isacco IV Comneno (i Comneni al nord erano rimasti in sella), invitandolo a stare in guardia. Ma questi non se ne da' per inteso, ritenendola una minaccia di imminente conflitto doganale, come ce n'erano stati sovente negli ultimi cinquanta anni tra le due rive del Mar Nero. E mal gliene incolse.
1573: Muore Andrea Gabras, che perciò non farà in tempo a vedere i suoi sospetti
materializzarsi. Gli succede il figlio, Andrea II. Il suo primo compito sarà quello di cercare
di rinnovare buoni rapporti con i cugini, troppo a lungo guastati da inimicizia. Il timore
che i persiani stessero tramando qualcosa sembra svanire allorché lo Shah muove guerra a
est, per domare la rivolta del Baluchistan e tentare di penetrare nel Punjab, sottomesso
dalla confederazione dei Rajput, la potenza in rapida ascesa del panorama indiano, che
stava prendendo il posto di Delhi come potenza egemone dell'Hindustan. Nel frattempo
anche Akbar per un po' dimentica i suoi sogni di gloria ad ovest per dedicarsi all'est.
Riafferma il suo dominio su Kabul, Herat e Kandahar, penetra nel Kasmir, ma, soprattutto,
è artefice di una grande impresa che lo rende rinomato perfino nella lontana Cina: strappa,
infatti, alle quattro orde il controllo della Zungaria e del Turkestan orientale, dando inizio
alla grande peregrinazione degli Oirati verso occidente.
Andrea II di Trebisonda la accoglie come nuova opportunità per espandere i mercati
pontici ancora più verso oriente, anche se nella regione indiana c'è già la forte concorrenza
italiana. Ma Teodoro Raios, erede del grande Pietro e governatore delle colonie trapezuntine nel golfo persico frena il suo ottimismo: lo Shah ha deciso di aprire un nuovo
porto franco presso le foci dell'Indo, ma, questa volta, i pontici non vi hanno accesso.
Ha, infatti, ordinato la deportazione forzata di persiani da Esfahan per popolarlo (non si
capisce con quanto successo). Inoltre, i controlli daziari sulle colonie negli ultimi tempi si
sono fatti intollerabilmente pesanti. Il mezzo gaudio è che anche i veneziani che
commerciano nei porti persiani provenienti da Socotra e dal Gujarat sono ugualmente
pressati.
Ma gli anni passano e la campagna contro i Rajput si protrae, senza giungere al successo
sperato. Per un po' Andrea II può dimenticarsi del problema, che sembra dettato da un
estemporaneo eccesso di zelo delle autorità portuali.
1580-1581: nuovo attacco di Akbar ad occidente. I russo-lituani faticano a fermare l'ardore del principe turco-orientale. Nel frattempo però gli Jagelloni hanno altro cui pensare. Gli Stroganoff, infatti, hanno rifiutato di mettere le loro truppe al servizio del re, adducendo diverse scuse. In concomitanza all'emorragia di forze fedeli al re lungo la Volga, lentamente, i principi di Moscovia hanno assunto il comando di un esercito più potente di quello di cui può disporre il sovrano. In più essi hanno stretto accordi privati con i signori di molti principati. La stessa Kazan tratta con Mosca come se si trattasse di una signoria indipendente. La partita per il controllo della ‘Rus, che sembrava essersi chiusa appena un cinquantennio prima, sembra ad un tratto riaprirsi, anche se pochi a corte se ne accorgono (e, del resto, gli Stroganoff si stanno preparando con calma e con molta discrezione), impegnati come sono ad abbellire Vilnius e intrattenere proficue relazioni con l'occidente.
1582: questa volta i persiani rompono finalmente ogni indugio. Akbar per loro è una focosa pedina, utile a spianare loro la strada. Come sbucato dal nulla, un immenso esercito copre la valle del fiume Kura e si prepara a marciare verso nord. Il primo obiettivo, però, non è Astrakan. E' Panagiopoli.
1582-1584: campagna ciscaucasica dei persiani. Andrea II si fionda a Tabriz di persona per
cercare di capirci qualcosa. Meno acuto del padre si accorge troppo tardi che i pezzi sulla
scacchiera erano già pronti da un bel po' ad un tale passo. Prova ad impetrare grazia per i
propri "parenti" settentrionali, ma senza successo. Anzi, si trova davanti una generale
atmosfera di scherno. Lo Shah gli chiede di prestare la flotta trapezuntina per operazioni
di appoggio navale. Per il sovrano pontico l'umiliazione è massima. Costretto ad accettare,
capisce finalmente che, tra le altre cose, anche quel "test di fedeltà" è stato pensato con
congruo anticipo. I pontici del nord non possono fare molto per ostacolare quell'immensa
armata, se non chiamare in ausilio gli Jagelloni. Ma, nel frattempo, Comnenia è rasa al
suolo; Panagiopoli si arrende senza combattere, con la promessa di non fare la fine della
città precedente. I re del ponto cimmerio trasferiscono armi e bagagli nella fortezza di
Teodoro, pensando di resistere in Crimea. In effetti, i tentativi dei persiani di costruire un
ponte di barche tra Tamatarca e Vasporo sono rintuzzati dalle forze navali cimmeriche (ed
è anche per questo che lo Shah chiede ai trapezuntini di dare una mano). Andrea II scrive
un accorato messaggio a Davide, figlio di Isacco. Per quello che valeva, lo invitava a
prendere il mare con una nave trapezuntina. Da lì lo avrebbe aiutato a prendere la via
dell'esilio verso qualsiasi paese occidentale, possibilmente verso la Romània italiana.
Ma Davide IV Comneno non era Giorgio III Mancafa. Decise di rimanere e resistere per
quanto gli era possibile. Accettò di buon grado per quanto riguardava la moglie Olga, una
principessa T'veriana e per i due figli Teodoro e Sofia, di sei e quattro anni. L'evento non
rimase però celato a lungo alla corte di Tabriz. Lo Shah lo scoprì, anche se la cosa non fu
fatta rilevare a re Andrea. Per ora. Alla fine, buoni ultimi arrivarono anche i lituani di re
Michele Vytautas. Suo figlio Manuele Algirdas, che contestava apertamente il padre per la
sua politica e che premeva per una resa dei conti con Semyon Stroganov, cercò di indurlo
a lasciare al proprio destino Panagiopoli e forzare il nemico ad avanzare verso nord,
colpendo solo una volta entrato in territorio moscovita. I principi di Mosca sarebbero stati
costretti così a dare una mano (e magari Semyon poteva anche morire in battaglia,
chissà…); inoltre la piovosa primavera e la distanza da casa dell'esercito persiano
avrebbero fatto il resto. Ma Michele Vytautas non ne volle sapere: era intenzionato ad
ottenere una rapida e sfolgorante vittoria, e decise di andare incontro al generale nemico
all'altezza di Tana, che, ostinatamente, resisteva ancora, seppur isolata.
La battaglia combattuta sarà poi famosa come "il disastro del Donez". L'esercito Jagellone
perde gran parte dei suoi uomini. Il sovrano di Vilnius muore negli scontri ed i persiani
hanno campo libero potenzialmente fino a Vilnius.
Nel frattempo gli ungheresi e gli italiani avevano ripreso una fase del loro perenne scontro
nei Balcani e poco si erano accorti della pericolosità di quanto stava accadendo a oriente. I
Visconti erano riusciti ad inquadrare nei loro ranghi una parte dell'esercito romeo che
aveva deciso di riparare in Morea assieme al proprio sovrano. Appoggiati e armati dagli
italiani riuscirono nel loro sogno di dare una bella lezione ai magiari, gli eterni nemici.
Alla nuova pace, gli ungheresi furono costretti a cedere la Tessaglia settentrionale e la
Macedonia sud-occidentale. Tessalonica smetteva così di essere un'enclave circondata da
territori in mano magiara.
Gli Hunyadi pensarono bene di rifarsi incorporando a tradimento il piccolo Ponto,
abbandonato dalla madre patria che crollava sotto i colpi dei Safavidi.
Ma i persiani, fino a quel momento alleati dei Visconti "traditori della fede", ne avevano
prontamente approfittato: l'esercito dei Bathory, voivodi di Transilvania, ormai uno stato
nello stato, fece di tutto per resistere alla forza d'urto persiana, ma fu sconfitto alle porte di
Tarnovo. Non in modo così decisivo, tanto da potersi permettere di riparare in modo quasi
ordinato sulla sponda sinistra del Danubio, ma la corona di Santo Stefano perdette la
Bulgaria.
1584-1585: Andrea II, disperato ed oppresso dal senso di colpa, corse il rischio di spedire Alessandro Gidon presso le corti occidentali allo scopo di un'alleanza per una "crociata" volta a salvare l'oriente dalle grinfie persiane. Formalmente era un alleato di Tabriz, ma ormai non si faceva molte illusioni su quanto rimaneva da vivere a Trebisonda come stato indipendente. Era chiaro che i falchi della corte dello Shah pensavano che fosse ora di finirla con una potenza straniera che controllava i commerci del paese; paese che si accingeva ad esaudire, forse, il sogno di portare i cristiani sotto l'egida dell'islam. Alessandro corse a Vilnius, ma fu tutto inutile: il paese era in preda alla guerra civile. Si spostò a Dresda, presso l'imperatore, da cui ottenne vaghe parole. Poi fu la volta di Buda e Pavia, tra cui fece spola diverse volte. La sua enorme abilità diplomatica riuscì nell'impossibile: far aprire gli occhi alle due potenze che confinavano direttamente con la Persia e farle smettere di litigare.
1585: ma non fu solo opera sua: lo Shah Muhammad Khudabanda I, dopo lo straordinario successo, si era particolarmente montato la testa, ed era ormai convinto che fosse solo questione di tempo perché tutto l'occidente cristiano cadesse ai suoi piedi. Valutava troppo poco gli ungheresi, che aveva ripetutamente sconfitto nei Balcani, e dei Visconti temeva solo la flotta, giudicando l'esercito di terra ben poca cosa rispetto al proprio.
Re Renato Maria, invece, non pensava minimamente che lo Shah avesse davvero intenzione di comportarsi in modo molto diverso dal solito, in altre parole di approfittare
semplicemente delle beghe dei paesi confinanti per guadagnarci. Ma in fondo, quale
sovrano si comportava in modo diverso?
Piuttosto scettico, decise in ogni caso di inviare un ambasciatore a Costantinopoli, dove si
trovava il sovrano persiano "in vacanza", per sondare l'ambiente della corte, l'abile Pirro
Borromeo.
La lettera che l'astuto uomo di fiducia del re inviò a Pavia dopo poco più di un mese e mezzo confermava le tinte più fosche del quadro descritto dall'oratore trapezuntino:
«
Dissimulare è arte antica, ma nostro solerte desiderio è stato de squarciare il velo del
tempio. L'umile servo vostro fu trattato con magnifica cortesia et sommo honore. Ma li
denari vostri e li occhi miei hanno potuto dove a dimandar honestamente non se poteva.
Tra cridi et lamenti che quasi parea si strangossasse a terra, per tucti li giuramenti al cielo
et al loro Machometto propheta un de' loro me confidò in fede certissima che lo gran
Sophi a null'altro mira che allo chanal de sancto Marcho, niente de mancho. Et lo
apparechio ch'ei fa in terra di Sirya come per mare, in fuste et navigli, como per terra in
bombarde et spingarde è grande et possente. Ho voluto significarvi che grande mia
doglianza è che l'osservanza nostra non s'è spinta lontana fino a vider questo grande
apparato. Ma tutto s'è fatto poi che noi non dubitassimo de la fede et de la bontà sua, così
che li balii nostri rimasero totaliter ingannati. Ei mira a la richeza sua et la ruina nostra. Poi
che mi par che se colpisse lo canale sia lo pezo che se nui cedessimo a lo re de Franza le
terre nostre de Lombardia. Prego Iddio che ne facia seguitar lo meglio per li christiani.
Datum 17 may 1585 in Constantinopoli »
Khudabanda aveva deciso che la sua vera, grande, impresa sarebbe stata la conquista del canale di San Marco. Il suo controllo avrebbe aumentato in modo esponenziale la ricchezza del già florido impero; avrebbe inoltre vibrato un colpo fatale alla potenza economica italiana, di cui quel passaggio era l'arteria vitale.
Nel tempo di un'estate i tradizionali equilibri di alleanze sono drasticamente capovolti: l'Ungheria riformata, l'Italia cattolica (e la Russia ortodossa, come si vedrà) unite contro i Safavidi islamici sotto la benedizione del Papa, che suggella con una bolla di crociata "la Lega Santa".
La battaglia, per l'alleanza cristiana, non iniziò, va detto, sotto i migliori auspici. La Persia sembrava disporre di forze inesauribili, e aprì un altro fronte, sul lato balcanico, per fronteggiare subito la minaccia magiara.
Subito dopo aprì le ostilità in Palestina, dove le basi italiane furono spazzate via. Per poi dirigersi verso il canale e cominciare l'assedio delle fortezze costruite a sua protezione, che però resistettero tenacemente all'assedio, grazie al grande capitano generale della Marca, Marcantonio Bragadin e il suo giovane luogotenente Girolamo Polidori, che respinsero al mittente i tre pesantissimi attacchi a Loredania, pur in grande inferiorità numerica. (anche se va detto che il morale delle truppe persiane durante il secondo ed il terzo assalto era molto basso, inversamente proporzionale a quello dei difensori: la marea era mutata).
Nel frattempo, le truppe di Janos Nenad, che guidava i serbi filo-magiari (in realtà una minoranza, rispetto alla totalità della popolazione Serba, e concentrata prevalentemente nella Sirmia), assieme a reparti di Slavoni, Croati e dei baroni del Banato a Krusevac furono pesantemente sconfitti. Con i pochi uomini rimasti attese i rinforzi del re trincerato nella possente fortezza di Nándorfehérvár, o Belgrado, per i serbi. Tutta la valle della Morava che avevano il compito di difendere era passata in mani persiane.
Semyon Stroganoff decise che era giunto il momento di togliere la maschere e approfittare
del momento per farsi incoronare "re dei Rus'", in aperta sfida a Manuele Algirdas, de
facto re di Lituania. A porgere omaggio a Semyon accorsero uno dopo l'altro la maggior
parte dei principi russi del regno. Gli unici a oriente della Dvina a opporsi all'usurpatore
furono i Novgorodiani, che avevano sempre odiato gli Stroganoff per questioni di rivalità
commerciale e personale. A Manuele non restò altro che trincerarsi nelle terre della
Lituania propria per levare un esercito a lui fedele. Semyon Stroganoff non voleva dargli
la possibilità di riorganizzarsi e lanciò le sue armate in direzione di Smolensk, senza
curarsi troppo del fatto che i persiani si stavano dirigendo verso Kiev.
Ma Manuele non si fece mettere nel sacco così facilmente. Quando i russi si apprestarono a
varcare la Dvina, si era già assicurato il controllo su Minsk, mentre un distaccamento dei
suoi uomini si dirigeva verso Pskov, pericoloso cuneo "stroganoffiano" tra i lituani e gli
alleati di Novgorod. La città sul lago Peipus non ebbe neanche il tempo per arrendersi: gli
ordini che Manuele aveva dato al suo luogotenente, Mikalojus Dauksa, erano chiari:
nessuna pietà per i traditori. La città fu saccheggiata e molti abitanti perirono in modo
brutale. Fece eccezione la componente lituana della popolazione (circa il 20% della
popolazione), che, messa alla porta dal principe quando questi si era schierato con Semyon
Stroganoff, poté rientrare. Da quel momento la città fu in tutto e per tutto lituana e prese il
nome di Daumantas. Anche se molte famiglie nobili lituane si erano progressivamente
russizzate, la guerra civile fu l'inizio di una progressiva diffidenza tra i lituani e i grandi
russi e, in generale, una brusca frenata nel trend di slavizzazione dei lituani (lento ma
costante dalla seconda metà del XIV secolo). Anzi, in alcune regioni si poté assistere ad
una "re-lituanizzazione", avvantaggiata dal fatto che gli Stroganoff erano ferventi
"vecchi
credenti", pertanto contrari al rito massimiano, particolarmente diffuso tra lituani e
novgorodiani. Tuttavia, di tale processo, più che gli slavi (essenzialmente i russi bianchi)
ne fecero le spese soprattutto le popolazioni baltofinniche, ossia gli estoni, i livoni, gli ingri
e i vòti, che ad oggi rappresentano un'esigua minoranza nelle loro terre ancestrali.
Tornando alle vicende belliche, Manuele Algirdas e Semyon Stroganoff si scontrarono, nel
1585, poco ad ovest di Smolensk. La vittoria arrise ai moscoviti, ma fu una vittoria di Pirro.
Manuele Algirdas fu ferito mortalmente, ma i suoi, guidati da Leonas Sapiega, riuscirono
a trincerarsi nella ben fortificata Minsk, mentre, nel frattempo, i moscoviti non riuscivano
ad avere ragione, a nord degli Sneghliani. Cosa ancora più importante, i persiani
dovevano ancora essere scacciati dalla Vareghia e, sebbene per loro dirigersi a nord non
fosse al momento un obiettivo prioritario, era chiaro che se la guerra civile si fosse
protratta ancora a lungo, gli eserciti di Tabriz non avrebbero avuto difficoltà a marciare
verso Mosca e verso Vilnius.
Ma Sapiega non era uno stupido, e sapeva di non poter sconfiggere gli Stroganoff; tantomeno i persiani. Non essendoci più alcun pretendente diretto al trono di Lituania, Leonas, con il consenso del suo consiglio di guerra, composto dalle grandi famiglie magnatizie lituane, propose un trattato di pace agli Stroganoff. Per i lituani fu una fortuna che le armate moscovite furono battute al loro primo tentativo di approccio con i persiani, durante un'incursione di questi ultimi verso Orel. Questo indusse molti principi a pentirsi di aver voltato le spalle così avventatamente agli Jagelloni, cosa che rafforzò non di poco il peso contrattuale di Sapiega, che, dalla sua, non aveva perso l'occasione di porsi come interlocutore credibile presso gli ungheresi e gli italiani, che ancora non avevano molto chiaro cosa stesse accadendo a Vilnius.
Nell'ottobre del 1585 nacque così formalmente l'Unione di Minsk: veniva creata la "res publica delle due nazioni". Semyon Stroganoff veniva incoronato come "zar di tutte le Russie e granduca di Lituania". I titoli regi sarebbero stati suoi e dei suoi eredi, ma avrebbe dovuto rispettare l'autonomia amministrativa totale del gran ducato di Lituania, e della sua assemblea. Il gran ducato avrebbe occupato tutti i territori di quella che sotto gli Jagelloni era detta la terra del re a ovest di una linea che passava dal Dnepr, e a nord proseguiva passando poco a est del fiume Lovat. Infine, pur formalmente fuori dal gran ducato, anche il territorio della Sneghlia continuava a godere dei suoi antichi privilegi amministrativi.
I primi atti del nuovo regime furono di riconoscere l'annessione della Galizia orientale con Leopoli da parte dell'impero (i polacchi ovviamente avevano subito approfittato dei torbidi) e l'adesione del nuovo stato alla lega santa contro i persiani. Dal canto loro, questi ultimi avevano diviso il loro esercito. L'armata principale aveva come obiettivo la Moldavia, da cui poi poter attaccare anche da nord est il regno magiaro. In effetti, non era evidentemente intenzione dei persiani allungare il loro collo troppo a nord, perlomeno per il momento. L'obiettivo principale era il completo controllo di tutto il bacino del Mar Nero. Il voivoda di Kiev, Basilio Ostrogski, cui, francamente, poco o punto importava della guerra civile, cercò in ogni modo di ostacolare il passaggio del Dnepr da parte dell'esercito nemico. Evitando le sfide in campo aperto, i suoi uomini, tra cui figuravano anche fuggitivi pontici cimmeri, facevano base nel territorio delle cascate del fiume.
Venivano chiamati "uomini delle rapide" e avevano adottato come protettore (figurava nel loro vessillo) l'arcangelo Michele.
Bandiera di Basilio Ostrogski
Nonostante la propaganda nazionale Varega attuale che glorifica le loro gesta tanto da definirli "salvatori della cristianità" sia senza dubbio eccessiva, va detto che, effettivamente, guadagnarono al tribolato nord ed all'alleanza cristiana tempo bastante per reagire al diluvio persiano. Il generale persiano, infatti, si convinse per l'irritazione a conquistare la ben fortificata Kiev, perdendo tempo prezioso.
I primi successi del fronte cristiano giunsero dai Balcani, dove gli Ungheresi si erano riorganizzati. Nel frattempo, la flotta italiana bruciava i porti turchi nell'Egeo e nel Mediterraneo. Ma la grande impresa fu del grande ammiraglio Giovanni Andrea Doria, che distrusse gran parte della flotta Persiana nella battaglia navale di Castel Rosso del 1587.
A Trebisonda, intanto, si pregava e si sperava. Il segno più tangibile che qualcosa nel campo persiano cominciasse a non andare per il verso giusto era il fatto che le teste dei generali iniziassero a saltare, senza per questo essere sostituite da soggetti effettivamente più validi. Il partito di corte che accusava giustamente il sovrano di aver aperto troppi fronti contemporaneamente guadagnava potere e si stava prodigando per imporre un cambio di regime che garantisse una graduale, ma necessaria, exit strategy. Abbas, il figlio dello Shah aveva solo 16 anni, ma era già sufficientemente in gamba ed avido di potere a tal punto da approfittare della situazione per eliminare i fratelli e spodestare il padre con l'aiuto dei suoi nemici.
A Tabriz la situazione si faceva incandescente: in città assunse il potere il partito di corte e uno dopo l'altro, i membri del governo fedeli a Khudabanda venivano corrotti o eliminati.
Abbas riuscì a far passare dalla propria parte il generale dell'esercito del nord, ordinandogli di prendere pretesti per potersi avvicinare alla costa del mar Nero. Il piano era di caricare su alcune navi un discreto contingente militare e isolare con esso Costantinopoli, entrarvi e uccidere suo padre. Aveva bisogno, però di navi. Chiese a Trebisonda.
Sfortuna volle che la flotta trapezuntina fosse già stata requisita dallo Shah; gran parte aveva partecipato alla battaglia di Castel Rosso, contribuendo alla sconfitta dello schieramento persiano: alla prima occasione utile, infatti, molte navi riuscirono a buttare a mare il proprio ammiraglio iranico e a cambiar bandiera.
L'imperatore, venuto a conoscenza dell'"incidente", cominciò a disperarsi: avrebbe di lì a poco subito la rappresaglia dell'infuriato Shah! Quale modo migliore per salvarsi la pelle che cercare di catturare il figlio ribelle Abbas e consegnarglielo? Abbas, però, sfuggì alla cattura, meditando vendetta.
Khundabada a questo punto prese la decisione di ritirarsi dai Balcani per schiacciare suo figlio, insediatosi a Tabriz.
Nel frattempo, mentre l'esercito ungherese, approfittando del temporaneo ritiro dei persiani, compiva cavalcate in Bosnia, il partito di Abbas riuscì nell'inviare una missione segreta in Egitto per trattare con gli italiani un loro attacco navale a Costantinopoli. Non avrebbe dovuto essere necessariamente un successo, ma avrebbe dovuto essere pericolo a sufficienza da creare un diversivo per permettere alla fronda di penetrare in città ed eliminare lo Shah. Gli italiani erano diffidenti, perciò presero tempo, ufficialmente per discuterne con gli alleati. Ma per i congiurati di tempo non ce n'era: dovevano riuscire ad ottenere una risposta positiva nel più breve tempo possibile; più passava il tempo, più si correva il rischio che il sovrano li sconfiggesse.
Gli italiani allora chiesero la pace immediata ed il ritorno allo statu quo ante per quanto riguardava la politica economica persiana. Per quanto riguardava i Balcani, sarebbero stati liberi di chiedere ciò che desideravano agli ungheresi: non era affar loro. I fili a questo punto erano tesi.
1588: la congiura di Abbas va in porto, nonostante alla fine il sussidio italiano non risulti necessario. Il nuovo Shah fa accecare i suoi fratelli ed il padre e si fa incoronare nuovo sovrano. Indice subito una pace con i propri nemici.
Pace di Costantinopoli: l'Ungheria si vede restituita la Serbia, ma non Bulgaria, né Vidin. E nemmeno lo sbocco al mare con la Dobrugia. I russi non si vedono restituito proprio niente; devono essere grati di essere ancora vivi ed inclusi nella pace. Gli italiani perdono tutte le colonie palestinesi ed in realtà allo statu quo ante dal punto di vista del regime economico non si tornerà mai. Ma i signori europei sono contenti: sia di aver salvato la pelle, sia dell'umiliazione altrui. Ma per Abbas non è finita.
1587-1590: purghe di Abbas. Il nuovo Shah non si mostra troppo grato con chi l'ha aiutato a assumere il potere. Uno dopo l'altro elimina tutti i vari ministri dell'era precedente, giocando sulle loro reciproche invidie e ambizioni. Infine decide di completare l'opera togliendosi lo sfizio di dichiarare guerra all'impero pontico. Stavolta nessuno, in Europa, muove un dito per Trebisonda. I pontici si battono con ammirevole coraggio, ma la macchina bellica persiana è troppo forte. Andrea II si suicida nel suo palazzo, mentre la difesa viene presa da Teodoro Kastamonite a ovest e da Giorgio Taronite a est. Ancora una volta le banda si dimostrano di meritare la loro fama di essere guerrieri terribili tra gli impervi passi rocciosi. Ma la tenacia di Abbas e la sproporzione di mezzi, come due secoli prima con Tamerlano, non può nulla.
1591: la resistenza si conclude con il lungo assedio di Trebisonda, che cade dopo 9 lunghi mesi di assedio, (nei quali gli accorati appelli all'occidente non ottengono maggior risultato di sparuti gruppi di volontari che perlopiù vengono bloccati ai porti del mar Nero ed impalati dai persiani) la mattina del 15 agosto 1591. Il "triumvirato", ossia Giorgio Taronite, Demetrio Axuch e Angelo Bagrat, gli eroici capitani dell'ultima difesa, vengono impalati da Abbas, che inizialmente aveva deciso di risparmiare loro la vita in virtù dell'onore delle armi. Qualche castello conduce una resistenza isolata per alcune settimane e, in realtà, sui monti del ponto i persiani decideranno di andarci il meno possibile per "ripulire" il territorio. In alcune vallate non entreranno addirittura mai, alimentando tetre leggende su alcuni luoghi, che poi diverranno parte del folclore locale, come, del resto, tutti i canti sulla caduta (il più famoso è l'"Or Kortsanum", scritto da un monaco armeno di Ani).
Abbas sprona i suoi per l'assalto finale alla città
L'impero persiano era al culmine della sua potenza. Ma quanto sarebbe durato? I segni della disgregazione erano già inequivocabilmente apparsi. Ancora con Abbas vennero oscurati dalla ricchezze che affluivano da tutto il mondo, dalla magnificenza delle città e dei palazzi e della corte dello Shah. Ma corruzione, lotte di fazione, isolamento del monarca, autonomia dei generali, scarsa attenzione ad una politica di integrazione delle molteplici etnie dell'impero, associata ad una politica di spoliazione delle risorse delle provincie periferiche, portò ad un lento, ma crescente, indebolimento rispetto agli stati europei. Per molto tempo la natura di tale indebolimento sarà essenzialmente economica.
Ma in seguito diventerà anche politica e militare.
In occidente
La pace di Augusta era stata una vittoria ai punti dei Visconti, nell'eterno scontro tra questi e la Francia. La dinastia della vipera si era però poco dopo divisa in due rami, che regnavano a Pavia e ad Aquisgrana, con due panorami geopolitici necessariamente differenti. Galeazzo, rendendosi conto delle enormi difficoltà a gestire il suo troppo eterogeneo impero, aveva lasciato infatti Pavia nel 1555 a Renato Maria, suo primogenito, e a Filippo Maria II Aquisgrana, sempre nello stesso anno. Poi, come il padre, si era ritirato a Serra San Bruno per finire i suoi giorni come monaco. Filippo Maria II aveva poi lasciato il suo trono a Filippo Maria III, suo figlio, nel 1572. I Valois, ben consci che, sotto sotto, tale spartizione equivaleva poteva portare loro rilevanti vantaggi, non perderanno alcuna occasione fornita dal panorama internazionale per approfittarne. Si può ben affermare che la seconda metà del XVI e la prima metà del XVII secolo sono
"il secolo della Francia", in cui Parigi è la capitale del più potente regno del mondo.
Re Carlo XI, nipote di Carlo IX, re di Francia della linea dei Valois-Barcellona si rese famoso per
"l'empio accordo". Infatti, nel 1585, strinse un accordo di amicizia ed alleanza con lo Shah. Subito il papa lo accusò di empietà, ora che
"nel mortal pericolo la cristianità si doveva rescoprire unita". Non senza arguzia, il re rispedì al mittente l'accusa, facendo notare che i cattolicissimi Visconti erano stati amiconi dei persiani contro gli ungheresi fino ad un momento prima. Era comunque un segno, questo patto, che i francesi erano decisi ad approfittare della guerra nel Mediterraneo per attuare una serie di prove di forza a danno dello statu quo uscito dalla pace di Aquisgrana. E l'occasione non si fece attendere.
"La flotte invincible"
1586: Enrico VIII, re d'Inghilterra, figlio di Riccardo IV, muore per una caduta da cavallo.
Il problema è che ha solo una figlia, Maria, sposata a Giacomo VI Stuart di Scozia. L'unico erede maschio sarebbe Francesco, figlio primogenito di Arturo IV di Bretagna, figlio di Enrico, fratello di Arturo I d'Inghilterra, padre di Riccardo IV. Sia Giacomo, sia Francesco rivendicano il trono di Londra. Il parlamento si schiera a favore di Francesco. Ma quest'ultimo neanche fa in tempo a prendere una nave per Margate, pronto a radunare un esercito per combattere gli scozzesi, che a Sant-Maloù riceve una sgradita sorpresa: gli viene riferito che il padre Arturo IV è deceduto. E, peggio ancora, che suo fratello Giovanni è stato assassinato in circostanze misteriose.
A questo punto Francesco diverrebbe erede sia dell'Inghilterra, sia della Bretagna.
E Carlo XI di Francia non perde tempo: senza dare tempo ai Tudor di replicare, né permettergli di cercare soluzioni alternative, "in virtù dell'aperta violazione del patto di Rennes del 1503", che prevedeva che Bretagna e Inghilterra non dovessero essere unite sotto lo stesso scettro, è tenuto "suo malgrado" a dichiarare guerra agli inglesi, ufficialmente in appoggio alle pretese di Giacomo VI. Evidentemente era già pronto per attaccare e non cercava che il momento buono.
Francesco Tudor è però, purtroppo, più simile a Riccardo cuor di Leone che a Enrico VII.
Decide quindi di non cedere alle pressioni, raccogliere il guanto della sfida e rimanere in Bretagna a fronteggiare l'esercito francese. Affida la difesa dei suoi possedimenti insulari contro gli Stuart a Francis Walsingham, braccio destro del defunto Enrico VIII, promettendogli di inviare sull'isola il proprio figlio appena possibile. Chiede poi aiuto ai Visconti. Ma gli italiani sono impegnati contro i persiani e in Lotaringia la situazione interna non è buona. Infatti anche qui si erano intrufolate sette protestanti (con i sussidi di Parigi) in particolare nelle provincie meridionali e francofone del regno. Il vecchio generale Filippo di Montmorency stava fronteggiando una vasta ribellione del Delfinato, che si stava propagando anche nella contea di Borgogna.
Ma anche così, Francesco non vuole cedere di un millimetro contro "i maledetti gallicani".
Mentre alcuni nobili cominciano a defezionare dalle sue file, il popolo bretone si schiera compattamente con lui, in nome della religione cattolica.
"roue Fransez!" sarà il grido di battaglia della resistenza bretone contro i Valois.
La situazione si profila da subito pessima: gli scozzesi prendono York e i francesi sconfiggono i bretoni a Fougères, con la via per Rennes spianata.
A questo fa la sua comparsa nella vicenda uno dei più celebri e originali capitani di ventura italiani della storia, Alessandro Farnese, conte di Dunkirk, poi cantato dagli inglesi nella canzone "Ol' good Alex". Al servizio dei Visconti dall'epoca di Galeazzo, la famiglia aveva seguito il ramo lotaringio della famiglia, meritandosi grandi onori nelle guerre contro i francesi. Talentuoso capitano, decise di porsi comunque a lungo al servizio dei Visconti di Pavia per combattere nei Balcani. Al ritorno, dopo grandi imprese (in particolare come spezzò l'assedio di Nandorfehervar), ottenne da re Filippo Maria III, preoccupato dalla situazione inglese, il comando di un corpo di spedizione per la Bretagna. Attraversò la Normandia sconfiggendo diverse volte, anche in condizione di inferiorità numerica i francesi per portare aiuto a Francesco Tudor. La battaglia decisiva, che salva momentaneamente Rennes dalla capitolazione avviene nei pressi del villaggio di Bronn (Broons). Nel frattempo, anche l'impeto degli scozzesi si esaurisce; gli inglesi riescono a sconfiggerli nei pressi di Wakefield. Ma i francesi hanno in mente un piano.
A sinistra, Alessandro Farnese; a destra, la chiesetta rinominata in sua memoria church of "Ol' good Alex" a St. Alban's Head |
Da la Rochelle viene fatta partire un'enorme flotta verso il canale della Manica; il suo compito, caricare un esercito per sbarcare nientemeno che in Inghilterra, approfittando dell'impegno degli inglesi a nord e di Francesco in Bretagna. Ad Aquisgrana e a Londra giunge notizia. I tentativi di bruciarla in porto da parte della marina Lotaringia vengono però frustrati.
Il capitano Dominique de Gourgues guidò la "flotte invincible" verso nord. Grazie alle condizioni atmosferiche, la flotta alleata anglo-lotaringia (più lotaringia che inglese, in verità) non riuscì ad intercettarla, per poi essere colta di sorpresa e battuta al largo delle isole normanne, nonostante il grosso delle forze dell'ammiraglio Guglielmo d'Orange riuscisse a disimpegnarsi. Ma, intanto, de Gourgues aveva fatto sbarcare le sue forze. E ad accoglierlo non c'erano che 4000 uomini male equipaggiati ed addestrati, che vennero spazzati via dai francesi. I gigli sventolavano su Hastings, più o meno nello stesso posto in cui Guglielmo il conquistatore, ormai mezzo millennio prima, era sbarcato per conquistare il suo regno. Appena prima che giungesse la notizia, ritenuta impossibile, il campo inglese al nord era nel culmine dei festeggiamenti per la riconquista di York. A questo punto, leggenda vuole che vi fosse un lungo dialogo a Pontivy, tra il Farnese e Francesco Tudor sul da farsi. Farnese a quanto pare voleva tornarsene a casa, visto che ormai era chiaro che Francesco stava perdendo il regno. Ma il Tudor aveva deciso di combattere fino alla fine.
Al che, sembra che Alessandro disse:
"Se questo è quello che volete, sappiate che è la speranza di un folle. E solo un audace e sventato generale può trovare il coraggio di provare ad invertire il corso degli eventi!"
E Francesco ridendo rispose:
"Questo mi rincuora. E io che temevo mi avreste lasciato solo!"
Farnese escogitò un piano effettivamente folle, che nessuno si sarebbe aspettato: avrebbe provato, con i suoi fidati veterani, con l'aiuto di Guglielmo d'Orange, un contro-sbarco, eludendo la flotta francese. Invitò re Francesco a prendere parte alla spedizione, ma il sovrano rifiutò, non intendendo abbandonare i "suoi" bretoni. Forzò invece il figlio, Arturo, a prendere parte alla missione, se proprio non voleva saperne di fuggire ad Aquisgrana.
E il piano folle, incredibilmente, riuscì. Manco a farlo apposta, il 22 giugno 1587 (giorno di Sant'Albano martire), Farnese sbarcò a St. Alban's Head.
Vista la piega degli eventi, nel frattempo, re Giacomo Stuart decise che, tutto sommato, non voleva avere come vicini i francesi; era pur sempre un cattolico e non credeva che i francesi stessero combattendo tanto solo per cedere l'Inghilterra a lui. E anche fosse, non voleva governare l'Inghilterra come loro burattino. Sigla quindi la pace con Robert Dudley conte di Leicester, e Francis Walsingham, plenipotenziari del regno. Decidendo che non è il caso di perdere tempo, i due si precipitano verso sud per fermare i francesi, quando vengono a sapere sia che Londra è caduta, sia che il Farnese è sbarcato.
Il capitano di ventura, assieme all'erede al trono, riesce a sollevare le forze dei gallesi e di alcuni signori meridionali (questi ultimi, al contrario del nord e del Galles, compattamente monarchici, stavano alla finestra, per saltare sul carro del vincitore al momento opportuno) contro l'invasore. I Francesi, che più o meno pensavano che una volta presa Londra, la guerra sarebbe finita, non sanno bene che strategia adottare. Decidono comunque di impedire che l'esercito del nord e quello di Farnese si uniscano. Il problema principale del capitano François de Coligny era però che cominciavano a mancare i soldi per le paghe dei soldati. Il regno di Francia in tre anni aveva speso dalle tre alle cinque volte le sue entrate ed era pericolosamente vicino alla bancarotta. E quando un re è in bancarotta, tutta la finanza internazionale se ne guarda bene dal prestargli altri soldi.
Ad Aylesbury l'esercito dei feudi del nord viene sconfitto, anche se Dudley con i suoi uomini riesce ad aprirsi la strada verso sud-est. A Salisbury incontra il campo di Alessandro Farnese, che nel frattempo ha ingaggiato battaglia con i francesi presso Andhover, venendo sconfitto. In realtà Farnese aveva deciso di ingaggiare battaglia in inferiorità apposta: voleva usare sé stesso come esca (e che esca), attirando l'esercito francese verso la piana di Salisbury, dove era nascosto Arturo con le forze dei gallesi guidate da Thomas Paget. Coligny ci casca in pieno, e viene a sua volta, ma in modo decisivo, sconfitto. A Glastonbury, nel Somerset, che da qualche secolo veniva identificata come il luogo di sepoltura del mitico re Artù, Arturo (appunto) viene incoronato come re di Inghilterra, secondo del nome, per dare corpo con un po' di scena e di sacralità mistica alle proprie prerogative sovrane (ai gallesi in particolare la cosa piace un sacco).
I francesi però nel frattempo non mollano: anche se ormai le pretese di agire per conto della figlia del re di Scozia sono malamente crollate, così come l'iniziativa nel conflitto, Coligny riesce a trincerarsi in una ben munita Londra. Il re di Francia continua a sperare di ottenere quantomeno la Bretagna, in cui Francesco, per quanto abile, nulla può contro l'esercito Francese, che ormai occupa tutta la penisola tranne Brest.
Alessandro Farnese non sa che fare: accorrere in aiuto di Francesco o chiudere la partita con Coligny?
La flotta francese è ancora nel canale della Manica, con Guglielmo d'Orange che non riesce ad avere definitivamente ragione delle navi di de Gourgues. A peggiorare la situazione sono le condizioni atmosferiche, che si fanno a dir poco sfavorevoli per tentare uno sbarco a Saint Maloù. A malincuore, Alessandro decide di non sfidare una seconda volta la sorte e lasciare Francesco, che non intende arrendersi, al proprio destino. Anche perché Pietro Ernesto di Mansfeld, generale lotaringio, non riesce nell'intento di emulare il geniale Farnese e penetrare in Normandia a portare aiuto a Francesco , rimanendo impantanato in scontri senza grande rilevanza tra la Lorena e Liegi.
Francesco decide di rimanere a Brest fino alla fine e di morire con i suoi uomini, sebbene i francesi gli proponessero diverse volte la resa.
L'East Anglia ed il Kent si sollevano contro i francesi (o contro i proprietari terrieri collaborazionisti?), così come la città di Londra. La rivolta viene soppressa, ma Coligny non può nulla contro l'ammutinamento dei suoi stessi uomini, a corto di paghe da mesi, cui fa eco una seconda sollevazione del popolo londinese, che questa volta ha successo. Il corpo di spedizione francese va allo sbando, mentre Arturo II ed Alessandro entrano in città accolti dalla testa del generale Coligny in cima ad una picca.
Parigi nel frattempo ha fatto bancarotta. Anche se la Bretagna è conquistata, di provare a mandare un nuovo contingente sull'isola non se ne può nemmeno parlare: per tutti sembra giunto il momento di siglare una pace.
I Tudor devono cedere la Bretagna ai Valois, ponendo così termine al patto di Rennes.
Manterranno però le isole di Ognissanti, dove un gruppo di soldati Bretoni ostinatamente fedeli a Francesco si era rifugiato, portando con sé la salma del proprio sovrano, recuperata dal campo di battaglia. Venerato come un santo dai Bretoni, che vedranno sempre i francesi come invasori (e miscredenti), il santuario di Ognissanti diverrà un'importante meta di pellegrinaggio (particolarmente suggestive le processioni notturne con le barche la notte tra il 1° e il 2 novembre) e, in qualche modo, simbolo dell'indipendentismo bretone.
L'ascesa della lega guascone
Con la riforma di Calvino, la lega guascone, oltre ad abbracciare entusiasticamente la religione riformata, si era avviata verso una struttura politica ben definita.
Le famiglie detentrici del potere feudale tradizionale, segnatamente i Foix e gli Armagnac, erano state progressivamente messe in minoranza nella gestione del potere, dal
"consiglio degli anziani", ossia i rappresentanti del nuovo ceto borghese, dominatori nelle città costiere e lungo gli assi fluviali. In particolare, la città di Baiona si era posta molto presto fuori dalla dipendenza dagli Armagnac e aveva acquisito un ruolo chiave nell'economia del paese. Ruolo che aumentò ulteriormente quando alcuni rami delle famiglie aristocratiche avevano deciso di rimanere o di tornare alla fede cattolica, per timore di perdere i propri diritti feudali. Il partito dei borghesi aizzò il popolo verso un'ondata di furia iconoclasta, di cui fecero le spese chiese, monasteri, ma anche residenze nobiliari. A questo punto, l'ala nobiliare moderata prese però le redini della situazione, per evitare lo slittamento verso una vera e propria guerra civile.
Fu così che dagli anni '60 del ‘500 la lega guascone si trasformò progressivamente in un vero e proprio stato centralizzato.
Una sorta di repubblica oligarchica, le provincie unite di Guascogna, ma con il potere militare saldamente nelle mani dei nobili.
Il territorio, diviso in 9 provincie, (Labord, Scialossa, Navarra, Biscaglia, Armagnac, Bearn, Bigorra, Comenge, Foix) ognuna in grado di inviare i propri rappresentanti a Baiona, ormai affermatasi come sede del governo centrale, a scapito delle storiche Pau, Tarbes e Fezensac.
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Stemma e bandiera delle province unite di Guascogna |
Per via della vantaggiosa posizione all'interno del nuovo sistema dei traffici, Baiona, ma anche altre città del paese, divennero la base di diverse compagnie creditizie e mercantili, che traevano profitto dal commercio con tutta l'Europa occidentale, anche per la scelta di una via di stretta neutralità nel corso dei diversi conflitti che laceravano l'Europa di allora.
Neutralità, però, non vuol dire raggiungimento dei propri obiettivi con mezzi pacifici. Tra la fine del ‘500 e i primi decenni del ‘600 la pirateria divenne uno degli affari maggiormente redditizi dei guasconi, in particolare a danno di italiani e portoghesi, sia in sud America, sia nelle indie orientali, per la somma felicità dei francesi (che per ovvie ragioni non erano disturbati dai corsari di Baiona e San Sebastiano).
Questa grande attività sui mari portò le province unite a fondare diverse colonie nel nuovo mondo e nelle Indie, inizialmente come scali, poi come veri e propri centri di contrabbando.
I primi ad essere colpiti furono gli italiani. La grandi colonie sudamericane di Guiana e Grimaldea, che teoricamente dovevano abbracciare gran parte della costa atlantica del sud America, in realtà avevano una densità di insediamenti molto discontinua. Infatti, la parte colonizzata era, prevalentemente, quella settentrionale. Più a sud si andava, più era facile trovare modo e tempo per costruire e fortificare colonie autonome, come capirono bene i guasconi. Questo fu l'inizio della colonia di Florina, che rapidamente si ingrandì, fino a divenire una seria minaccia per il commercio italiano nell'Atlantico.
Situazione del Sudamerica nel XVII secolo, prima della guerra di Spagna e del trattato di devoluzione (cliccare sull'immagine a destra per ingrandirla) |
Ovviamente, non fu solo l'intraprendenza dei guasconi a dare filo da torcere alle colonie italiane (e poco dopo anche portoghesi, come si può vedere dalla carta).
Furono anche i problemi europei degli italiani, che mal si rassegnavano a vedere l'egemonia francese espandersi nel continente. Le imprese coloniali vennero progressivamente abbandonate a loro stesse, mentre il governo centrale incanalava ingenti risorse economiche verso la nobiltà cattolica francese e catalana, la costruzione di fortezze e
"manifesti d'immagine", ossia la costruzione di magnifiche ville e castelli per rivaleggiare con quelli che i Valois stavano facendo costruire lungo la Loira.
Ma la spesa più rilevante fu quella spesa dall'Italia nel conflitto noto come la
"guerra di Spagna", dove le lotte per l'egemonia della penisola iberica si incrociarono con quelle tra Francia e Italia per l'egemonia europea.
La guerra di Spagna
Da poco più di un secolo la situazione ispanica era in equilibrio, anche se quanto mai precario. La penisola era ancora divisa tra Portogallo-Leon e Castiglia-Aragona, mentre ampi spazi erano occupati da potenze
"straniere": il regno di Granada era sotto l'Italia, la Catalogna era francese, mentre Navarra e Biscaglia erano parte delle provincie unite di Guascogna. Il trattato di tregua tra Portoghesi e Aragonesi venne più volte rinnovato, sia perché nessuno dei due si sentiva mai in grado di sferrare il colpo decisivo, sia perché il Portogallo preferì lanciarsi nelle imprese oltremare, piuttosto che investire in una futile guerra sul continente. Ma i tempi cambiano.
Infatti il regno di Lisbona cominciava a risentire delle attività di pirateria ai danni delle proprie colonie da parte dei Guasconi e più di una voce all'interno della nobiltà spingeva la corte verso una revisione delle priorità in politica estera.
Teodosio di Braganza, indubitabilmente il più potente dei duchi portoghesi, scrisse e proclamò più volte che
"Il regno di Portogallo, Algarve, Galizia e Leòn non può più permettersi di essere grande di là dal mare e nano sul continente. Perché è l'acquisto della gloria in Europa che solo può permettere il mantenimento stabile e duraturo delle nostre colonie".
Gli obiettvi che si poneva il partito dei Braganza erano essenzialmente tre: uno sbocco sul Mediterraneo (e quindi, implicitamente, l'annessione della Castiglia-Aragona), l'estromissione dalla penisola degli italiani (per cui i possedimenti iberici erano l'indispensabile porta dell'Atlantico) ed il ridimensionamento dei guasconi.
L'ultimo punto, il più urgente, fu affrontato con un ribaltamento delle alleanze tradizionali di Lisbona.
1610-1615: quando Teodosio divenne consigliere del nuovo sovrano, Manuele II d'Aviz, lo convinse infatti ad abbandonare la storica amicizia con gli inglesi ed avvcinarsi notevolmente ai francesi. In questo modo Parigi avrebbe potuto
"correggere il tiro" della pirateria guascone minacciando ritorsioni su Baiona.
In Italia e a Granada il gesto fu interpretato come palesemente ostile e accese più di un campanello d'allarme.
Nel frattempo, anche i Francesi avevano, però, i loro problemi: la Castiglia-Aragona, col tempo, si era allineata su posizioni filo-francesi, anche per frenare gli appetiti portoghesi.
Ora che però Lisbona si era avvicinata a Parigi, molte delle contraddizioni mal sopite nel regno dei Trastamara riapparvero con inaspettata violenza.
I "catalani meridionali", in altre parole, i valenciani, avevano sempre digerito con una certa difficoltà la posizione filofrancese assunta dalla corte di Toledo. In primo luogo per motivi religiosi; in secondo luogo perché ciò significava rinunciare a rivendicare la sovranità su Barcellona e sulla Catalonia propria; infine perché Valencia traeva vantaggio dalla sua posizione come importante scalo tra Tangeri e Genova, e perciò la borghesia cittadina vedeva più di buon occhio gli italiani dei francesi.
Al contrario i porti e le città dell'immediato entroterra cantabrico e asturiano, iniziavano a godere dell'accresciuto volume di scambi nel golfo di Biscaglia e ne attribuivano il merito ai guasconi e ai francesi. Il ruolo tradizionale dei mercanti catalani come principale finestra commerciale della Castiglia si stava, lentamente, ma progressivamente, indebolendo.
L'unico motivo che i Valenciani avevano di digerire l'influenza di Parigi su Toledo era la garanzia di evitare che la Castiglia finisse in mano portoghese. Ma adesso che le cose sembravano sul punto di cambiare, era il momento di dire basta.
La goccia che fece traboccare il vaso fu la morte in circostanze misteriose dell'ormai anziano Giovanni de Ribera, il vescovo di Valencia, da tutti considerato come un santo.
San Giovanni de Ribera
Fervente esponente della Riforma cattolica, aveva speso molte prediche sui gallicani e, in particolare, sui catalani che si lasciavano irretire dagli eretici francesi. Circolò la voce che fosse stato assassinato da un sicario gallicano, con il tacito benestare della corte di Toledo.
Questo evento diede il via alla rivolta di Valencia. Alla sua testa si pose Alfonso Borja, esponente di una delle più potenti famiglie nobili della zona e sposato con Isabella, una sorella del re. Presto, a lui si unì anche la storica famiglia aragonese dei De Luna, a Saragozza. Il momento era ben scelto, perché il re di Castiglia era debole, incapace e la corte in preda a torbidi e congiure.
Anche per questo Alfonso riuscì ad organizzare un esercito e sconfiggere i castigliani ad Alcalà del Jucar.
Dopo tale evento la rivolta divenne generale e il problema sfuggì di mano a re Filippo III Trastamara di Castiglia. Che non seppe fare di meglio che chiedere aiuto ai francesi.
Ma anche a corte, di questioni in sospeso non ne mancavano. Francisco Gomez de Sandoval, duca di Lerma, valido del re (una sorta di primo ministro) era apertamente convinto che chiedere aiuto alla Francia sarebbe stato un errore. L'intervento francese avrebbe convinto gli italiani ad appoggiare i ribelli catalani e aragonesi e la situazione sarebbe precipitata.
Ma ormai il duca godeva sempre meno delle grazie del capriccioso sovrano ed il suo consiglio non venne ascoltato. Decise quindi di prendere in mano la situazione e ordire una congiura contro la famiglia reale. Il complotto venne scoperto, ma il duca riuscì a fuggire in tempo e scappare in Navarra, dove scrisse il trattato politico filosofico El rey y las leyes, pilastro della letteratura castigliana.
Non si dovette attendere comunque molto perché le sue previsioni si rivelassero fondate: dopo l'arrivo dei francesi a Saragozza, gli italiani iniziarono a muovere in direzione di Murcia per portare aiuto ai ribelli.
Filippo III, però, in un ripensamento improvviso, per timore di fare brutta figura di fronte ai suoi alleati, decise di scendere in campo in prima persona per stroncare i nemici.
A Zafrilla, mentre il suo esercito stava per conseguire la vittoria, il re venne abbattuto da un proiettile vagante di balestra (c'è chi parla di assassinio), cambiando completamente il corso del conflitto.
Infatti adesso sembrava diventare una guerra di successione. Il figlio Filippo aveva solo dieci anni. Sia Alfonso Borja, sia il re Manuele di Portogallo (su consiglio di Teodosio Braganza) pretesero la reggenza, il secondo in quanto marito di Anna, la quindicenne figlia del defunto sovrano. I castigliani decisero perlopiù, a questo punto, di schierarsi con i portoghesi e i leonesi.
Il conflitto fu lungo e aspro, con continui capovolgimenti di fronte, e terminò solo nel 1621.
Da una parte i francesi, i portoghesi e i castigliani, dall'altra aragonesi, catalani e italiani.
La corte di Toledo divenne un covo di serpi, ed i due figli infanti di Filippo presto furono misteriosamente messi da parte. Da che parte stesse la mano che pose fine alla loro vita, nessuno lo sa, anche se è uno dei temi preferiti degli pseudo storici a caccia di
"misteri".
Presto il fronte di guerra si estese anche alla Provenza e gli italiani dovettero chiedere aiuto ai
"cugini" di Lotaringia, che però negarono il loro sostegno, adducendo diverse scuse. In realtà per i loro interessi avrebbero preferito una vittoria di misura dei francesi, che permettesse ai fiamminghi si svicolarsi dalle dipendenze italiane sul piano coloniale e spostasse il baricentro del mercato internazione più verso nord. Si decisero a concedere il proprio ausilio, però, per il recupero dei possedimenti americani degli italiani contro i guasconi, che erano arrivati ad assediare San Salvatore della Baia, ma solo in cambio del permesso di costruire alcune basi coloniali in sud America ed in estremo oriente.
Questo trattato, datato 1619 fu detto "patto di devoluzione" perché "devolveva" parte dei territori coloniali riconquistati ai nemici alla Lotaringia. Prima di tale data, infatti, per la spartizione delle colonie vigevano le disposizioni di spartizione di Galeazzo, che, lasciando il sud all'Italia, volevano che Aquisgrana si limitasse a tentare di colonizzare il nord America, in gran parte ancora inesplorato. In questo continente i lotaringi possedevano, al momento del patto, le isole di San Giorgio e della penisola di nuova Zelanda (HL: Bahamas e Florida).
Alla fine, gli italiani e i valenciani furono però comunque nettamente sconfitti. Per i Visconti la priorità, alla fine, divenne quella di mantenere i propri possedimenti.
Perlomeno, respinse i tentativi di attacco alle Baleari e conservò diverse piazzeforti sulla costa (tutta la provincia di Cadice, con Sanlucar, Jerez, Trafalgar, Tarifa, Algeciras e Gibilterra; poi Malaga e Almeria, con la zona del capo di Gata) da cui fermò gli attacchi in Tingitania. Granada, comunque, e quasi tutto l'entroterra, venne perduto.
Il trattato di pace di Pamplona (i guasconi si proposero come mediatori, temendo che i francesi stravincessero) fu durissimo.
I Francesi si presero l'Aragona ed il regno di Valencia. La Castiglia, la Murcia e quella parte del regno di Granada tolta agli italiani passò invece al Portogallo.
Re Manuele II di Portogallo decise a questo punto di cambiare nome, diventando "re Manuele I di Spagna". Mantenne, saggiamente, le legislazioni locali (nella lingua del posto), cercando anche di ammettere a corte esponenti di spicco della nobiltà castigliana e granadina, anche se non mosse la capitale da Lisbona e implementò l'uso del portoghese anche fuori dal Portogallo.
E per quanto riguarda l'Italia? Paradossalmente, la sconfitta fu un bene. Gli italiani si chiusero in un periodo di
"splendido isolamento", cercando di mantenere una politica di pace e di basso profilo sul continente, spostando di nuovo il baricentro dei propri interessi sulle colonie, adeguandosi anche alle nuove modalità di scontro con le potenze emergenti (ossia la pirateria).
L'Europa nel 1600 circa (cliccare per ingrandire)
I successi della riforma cattolica
La rinascita, grazie al concilio promosso dai Visconti, della vitalità del cattolicesimo, esemplificato dalle figure degli autorevoli papi del periodo e dai nuovi ordini per l'evangelizzazione di popoli lontani e la ri-evangelizzazione dell'Europa, come gesuiti e carmelitani, portò, dagli anni
'20 e '30 del ‘600, ad un lento "recupero" di aree che erano passate alla riforma. Come è prevedibile, la maggior parte della controffensiva si ebbe in aree in cui il sovrano era cattolico, e promuoveva tale opera, per esempio nella Lorena o in Savoia e nel Ginevrino, oppure la Carniola, la Carinzia e alcune zone della Germania occidentale. Però si può assistere ad una
"marcia indietro" anche in zone in cui i ceti elevati, in un primissimo momento, avevano aderito alle decisoni del proprio sovrano, per poi tornare sui propri passi. Qui i gesuiti agivano come vera e propria chiesa clandestina.
E' il caso soprattutto della Catalonia settentrionale, sotto la dominazione francese, e quindi gallicana.
Il fatto è che la compagnia del Gesù, nel giro di breve tempo, venne vista, a volte anche a ragione, ma per la maggior parte dei casi a torto, come vera e propria quinta colonna delle monarchie cattoliche.
L'esempio più eclatante è quello dell'Ungheria. Lo stato magiaro, forse il più tollerante dell'intera europa, non aveva mai ufficialmente abiurato il cattolicesimo. Ciò nonostante, ormai i fedeli del papa di Roma erano in larga minoranza. Praticamente irrilevanti nella Transilvania, centro propulsivo della riforma nel regno di Santo Stefano, il loro numero aumentava nelle regioni sud-occidentali. Molti missionari gesuiti provenienti dalla Carniola, si riversarono progressivamente nella regione del Dunantul per riconvertire le campagne, dopo i loro successi tra gli sloveni. La reazione inziale dei sovrani ungheresi, solitamente tolleranti, fu, però, in questo caso dura. Non solo e non tanto per problemi di coscienza religiosa, ma, come detto, per paura che i gesuiti fossero l'avanguardia di un progetto Visconteo di invasione. Il regno di Buda, vedendo nel loro successo una minaccia, decise quindi di dichiararli fuori legge. Ma nel pur breve tempo in cui la compagnia aveva operato, era riuscita a farsi degli amici e addirittura ben volere. Quando dei soldati del re andarono a distruggere il collegio gesuita di Kaposvar, appena costruito, la città, guidata dall'arciprete cattolico Gyorgy Hertelendy insorse e cacciò i soldati. A Buda persero la testa e considerarono la cosa come un atto di ribellione da stroncare . Quando divenne chiaro che il re aveva intenzione di radere al suolo la città a maggioranza cattolica, perché fungesse da esempio. Il vescovo di Veszprem fece di tutto per fermare il sovrano, ma non ottenne risultati tangibili, chiese dunque aiuto in segreto ai Visconti, che proposero all'arciprete di fuggire, assieme a tutti coloro tra i suoi che lo volessero all'interno dei confini dell'impero del Biscione.
"Tutti coloro che lo volessero": il re di Italia aveva inteso il vescovo ed il suo seguito. Ma, nella sorpresa di tutti, Hertelendy non fu di tale avviso.
La gran parte della componente cattolica della città, assieme ai gesuiti, si riversò oltre il fiume Mura, il confine. Il governo italiano, per non causare una ribellione slovena, decise di
"reinsediare" gli ospiti presso il confine militare balcanico, nelle valli montuose alle spalle di Ragusa e lungo il basso corso della Narenta, zona che, durante le guerre con i persiani aveva subito un discreto spopolamento, anche per via degli spostamenti di molti slavi verso la costa. Erano rimasti solo i pochi abitanti
"morlacchi", come estensivamente venivano denominati dai croati i poveri villaggi di montanari di lingua romanza (anche se i morlacchi veri e propri vivevano molto più a nord).
La sorprendente avventura di questi magiari cattolici si concluse con la fondazione, intorno ad una vecchia fortezza in rovina, di una cittadina presso un guado della Narenta, chiamata Boltivhìd (HL: Mostar).
La Guerra dei Trent'Anni
Durante il XVII secolo le grandi monarchie del continente aumentano le proprie tendenze accentratrici. La corte cerca di imporre il proprio controllo diretto su tutto il territorio, ed il potere del sovrano e dei suoi burocrati cerca di imporsi sui tradizionali ceti detentori del potere locale.
Tale processo, costellato da ribellioni anche violente al sistema, si può vedere in tutte le grandi potenze dell'epoca.
Il più arretrato, sotto questo aspetto, è l'impero sassone, che deve però affrontare il compito più duro. Infatti non solo deve consolidare il controllo del potere centrale su un complesso di territori che è il più eterogeneo del continente, ma anche cercare di imporre il proprio dominio, come imperatore, su tutti i principi del sacro romano impero.
La politica di potenza della Francia contribuisce ad alimentare l'ansia dei Wettin da questo punto di vista. Infatti, i principi tedeschi, stretti tra Lotaringia e Impero, cercano sempre di più un appoggio
"esterno" per puntellare la propria sopravvivenza. E il candidato più autorevole per questo scopo sono proprio i Valois, indipendentemente dalle divergenze religiose. Anche perché i principati cattolici vedono con un certo timore l'atteggiamento ambiguo della monarchia lotaringia, timore che aumenta ulteriormente all'indomani dell guerra di Spagna.
Sulla questione religiosa si incaglia il tentativo imperiale di affermare la propria potenza.
Il principio del "cuius regio, eius religio" si era imposto quando le correnti calviniste non si erano ancora affermate. Non sono una
"religione riconosciuta" dagli accordi di Aquisgrana del 1547. Ma in Boemia ed in Austria, che si trovano a contatto con l'Ungheria, tale confessione sta prendendo sempre più piede. Inoltre non va dimenticato che vi sono ancora dei cattolici nell'impero, che resistono forti in alcune aree, come in Galizia occidentale (Cracovia era rimasta cattolica) o nella Moravia rurale. Gli imperatori Augusto e Cristiano I avevano generalmente rispettato le libertà confessionali, tanto che Cristiano fece approvare alcuni decreti che concedevano libertà di coscienza e rispettavano le libertà confessionali nel regno di Boemia ed in quello di Polonia. Tale illuminata politica sembrava destinata a continuare anche sotto il figlio di Cristiano I, Cristiano II, che era di vedute simili al padre. Non così, però, suo fratello, Giovanni Giorgio, che, fervente luerano, odiava il proliferare di sette e la sopravvivenza del
"cancro papista". Ulteriore motivo di dissidio fu che Cristiano II decise di sposare Edvige, figlia del re cattolico di Danimarca. Nel frattempo, però, l'aggressività dell'azione dei
"manner gottes", organizzazione di predicatori luterani che godono il favore di Giovanni Giorgio, definiti dai cattolici i
"gesuiti dell'anticristo", spinge ad una insolita alleanza tra principi e città imperiali calviniste guidate dal Lauenburgo e da Goslar, e alcuni principati cattolici, guidati dal Brunswick, con la Baviera che rimane neutrale.
Nel 1611 Cristiano, che aveva meno di trent'anni, morì, senza che la moglie gli avesse dato alcun figlio. Il titolo imperiale passò così all'imperatore Giovanni Giorgio II, che vedeva la sterilità del matrimonio del fratello come una evidente maledizione divina.
Come si può facilmente intuire, il nuovo sovrano, tutto compreso nella sua missione di
"purificazione" dell'impero, ritira la lettera di maestà che garantiva l'equiparazione del credo calvinista con il luteranesimo a livello di diritti,
"degradandolo" al rango del cattolicesimo, cui non è permesso mostrare pubblicamente i propri simboli.
L'insurrezione di Praga è la logica conseguenza. Il duca Augusto Wettin(sì, erano Wettin anche nel Lauenburgo) viene proclamato sovrano di Boemia. Quest'ultimo, tuttavia, non si aspettava una così rapida deriva degli eventi, e non si sente affatto pronto a muovere l'unione evangelica contro l'impero. In cambio della promessa di non permettere l'intromissione dei Visconti nella faccenda, l'impaurito Augusto chiede assistenza militare al capo della lega cattolica, Federico Ulrico di Wolfenbuttel, duca di Calenberg. Chiamato
"il matto" per la sua smania di correre a guerreggiare, il duca Federico-Ulrico acconsente subito alla richiesta, mandando rinforzi al Lauenburgo. Il suo sogno era di creare un terzo polo di aggregazione, aconfessionale e esclusivamente tedesco, alternativo sia ai Visconti sia ai Wettin, nell'ambito del sacro romano impero. Il suo soprannome,
"il matto", lascia immaginare quanto lontano i suoi progetti fossero rispetto alle sue reali possibilità.
Ad ogni modo, l'inizio delle ostilità fu sorprendentemente favorevole agli imperiali, che si preparavano a penetrare verso nord, raggiungendo il Meklemburgo ed il Lauenburgo.
Nel frattempo, un'armata imperiale si dirigeva verso ovest, per conquistare Hannover.
Ma questo straordinario successo innalzò il livello di guardia delle potenze cattoliche e della Francia, che non avevano alcuna intenzione di permettere un radicale capovolgimento degli equilibri all'interno dello SRI. La prima potenza a sentirsi colta sul vivo fu la Danimarca di re Cristiano, che non desiderava che l'impero arrivasse ai propri confini. La svolta sembrava arrivare in un momento poco favorevole per gli imperiali, poiché Giovanni Giorgio II non poté avvalersi del collaudato metodo di muovere gli svedesi alle spalle dei danesi. Gli svedesi infatti erano in rotta con l'Hansa (di nuovo) e non avrebbero aiutato i sassoni.
Il regno di Copenaghen registrò inizialmente qualche successo, riuscendo ad occupare l'isola di Rugen e la città di Straslunda. Le stesse Lubecca ed Amburgo furono in serio pericolo.
Quando Cristiano guidò l'attraversamento dell'Elba da parte delle sue armate, sembrò che il vento fosse definitivamente girato contro l'impero.
Ma i danesi avevano cantato vittoria troppo presto: fatale fu per loro il mancato accordo con la Lotaringia. I Visconti si ostinavano in una politica attendista, che in tanta parte del senato della stessa Aquisgrana sollevava non poche perplessità. Piccati, gli scandinavi si rivolsero alla Francia Gallicana, che però era troppo lontana dal teatro delle operazioni per essere di qualche reale utilità. Se l'attendismo lotaringio era servito a qualcosa, questo qualcosa era proprio lo svelamento della velletarietà delle reti di amicizia intessute dai francesi nel SRI nell'ultimo ventennio.
Quando entrò nella guerra il ricco nobile boemo Albrecht von Wallenstein, come generale imperiale, la sua capacità tattica ed organizzativa ebbero ragione di Cristiano.
Siamo all'alba del 1630. Con il ritiro danese la guerra sembra giunta alla conclusione, quando accadono due eventi che la prolungheranno ancora. Il primo è l'acquisizione del cardinale di Dordrecht Jacob de Wit,
"l'eminenza rossa", della preminenza politica nella corte di Aquisgrana. Egli elabora un piano politico di sicuro successo per permettere alla Lotaringia di acquistare un ruolo di primo piano all'interno delle lotte del SRI. Oltre a far fluire in modo razionale e sistematico sussidi ai nemici dei Wettin, promuovendo la mobilitazione dell'esercito per intervenire in maniera decisa, ma solo all'ultimo, per massimizzare il profitto, induce i Boemi a tentare una nuova carta, per scombussolare i piani sassoni: dopo la morte di Augusto di Lauenburg, offrire la corona Boema al re dei Magiari. Il quale, stante un riavvicinamento con l'Italia e la preoccupazione per voci riguardanti una possibile intesa tra Sassonia e persiani (sempre merito degli italiani e di de Wit?), accetta. Wallenstein deve far fronte al Condottiero magiaro György Thurzó. Geniale e innovativo, riesce a spingere il suo esercito a due passi da Dresda. Purtroppo muore accidentalmente nella vittoriosa battaglia di Gorlitz, nel 1634. Il suo esercito perciò si sbanda e viene sconfitto nella ritirata verso sud.
Messa fuori gioco anche Buda, il cardinale de Wit ha finalmente buon gioco nel dipingere al re la prospettiva di una Lotaringia schiacciata nella morsa di Francia ed Impero, ed imporgli una politica aggressiva in difesa della libertà religiosa nel sacro romano impero.
Paradossalmente, uno dei più grandi ostacoli al successo lotaringio venne rimosso dall'imperatore sassone stesso: il grande capitano Wallenstein troppo potente ed ambizioso, venne assassinato in un complotto mentre si accingeva, forse, a cambiare bandiera, dato che aveva fiutato il mutamento del vento.
Il generale Carlo d'Angiò condusse una serie di campagne militari lungo il Reno, per poi dirigersi verso est. Nel frattempo anche la Baviera si era alleata ai
lotaringi.
I sassoni inizialmente continuarono a riportare successi, e la guerra sembrò destinata a prolungarsi per ancora molto tempo. Ma presto si videro in difficoltà, anche perché i lotaringi poterono contare nuovamente sull'aiuto danese, oltre che quello bavarese. Il successo decisivo dei lotaringi fu nella battaglia del Westerwald, nel 1643.
Dopodichè, di fatto le ostilità cessarono, per lasciare spazio ai negoziati di pace, che culminarono nella pace di Coblenza nel 1648, che parzialmente ridisegnò la cartina politica del sacro romano impero, viste le acquisizioni bavaresi, hannoveriane, danesi e lotaringie( su tutte, l'Emsland, parte del Munster, Diverse città sul Reno e alcuni territori nel Palatinato e nell'Assia). Ma ciò che contò maggiormente fu l'estensione alle religioni riformate del principio del
"cuius regio eius religio". Non solo: il ruolo di comando dell'imperatore sui principi dell'impero fu molto indebolito, di fatto annullato e venne riconosciuta la piena indipendenza politica alle più di trecento formazioni statali di diverso ordine e grado che componevano il SRI. Per il regno visconteo di Aquisgrana fu un successo tale da togliere lo scettro di
"stato più potente d'Europa" ai francesi, la cui ansia di intervenire si concluse in una specie di fiasco, che, però va in parte imputato anche ai dissidi interni della società francese.
La rivoluzione francese
La Francia aveva infatti diversi problemi di natura istituzionale. I Valois, non solo come sovrani ma anche come capi supremi della chiesa di stato, non avevano lesinato strumenti per accentrare il governo nelle proprie mani, togliendo sempre più spazi di manovra alle famiglie nobiliari sparse un po’ in tutto il territorio del regno. Notoriamente, tali grandi famiglie erano recalcitranti all’obbedienza ad un unico potere assoluto, ma erano lontani, e, del resto, nemmeno rientrava nei loro progetti, dal far rivivere delle grandi leghe per opporsi al potere regio. La corte giocava sulle reciproche divisioni, ma tale equilibrio non era né sicuro, né stabile. Il principale strumento regio per tenere a bada i riottosi principi era l’appoggio alle città, come contrappeso alla loro influenza. Ma questo ebbe il prezzo di creare le precondizioni perché la borghesia urbana richiedesse organismi assembleari adeguati, sul modello inglese, con potere di controllo sull’operato, innanzitutto in materia fiscale, del sovrano (cui avevano elargito in numerose occasioni copiosi prestiti).
La guerra dei trent’anni aveva fatto svanire il sogno, nell’immaginario popolare, della Francia come perno assoluto dell’Europa, quantomeno in termini di prestigio.
Contemporaneamente il paese dovette affrontare una grave crisi di bilancio che, legata ad una pessima annata in cui pioggia e grandine avevano rovinato numerosi raccolti, non rendeva certo roseo il clima per il re.
Siamo nel 1649. Il casus belli che fece precipitare gli eventi fu una rivolta nella città di Nantes, (che si allargò immediatamente alla Bretagna) i cui cittadini riuscirono a sconfiggere persino un esercito inviato in Vandea per domarla, mentre il grosso dell’esercito si trovava ancora al confine della Lorena. Alla ennesima richiesta di prestito e di nuove tasse, la popolazione di molte città si sollevò e le principali banche del paese, a Marsiglia, Lione, La Rochelle, Bordeaux e molti altri centri, condizionarono il loro aiuto alla convocazione a Parigi degli stati generali. La stessa città di Parigi si schierò a favore della grand petition, come venne chiamata. Al re, Carlo XII, non restò altro da fare che chiedere aiuto, stavolta, proprio alle odiate famiglie dell’antica nobiltà, detta di spada. Odiate anche perché a capofila dell’opposizione nobiliare al sovrano stava la casata di Bourbon, considerata cripto(e neanche tanto cripto a dire il vero)cattoliche. Gastone di Bourbon, in quel momento zio e tutore per il capo della casata, il decenne Luigi, decise di temporeggiare. Nel frattempo però le voci (non del tutto infondate) di una richiesta di Gastone di rendere nuovamente legale il cattolicesimo si diffondono a macchia d’olio. La nobiltà di toga e l’alta borghesia fieramente gallicane temono un ritorno della Francia all’obbedienza romana. Carlo XII, cui la sorte aveva peraltro regalato solo figlie femmine, non sa come reagire. La città di Parigi però sì, e si solleva, costringendo il sovrano a fuggire a Orleans da cui si affretta a promettere riforme e la convocazione degli stati generali. Ma la capitale rifiuta di arrendersi e dota di un consiglio militare, mentre l’intero sud della Francia si solleva schierandosi con il parlamento. Nel frattempo però l’esercito torna dalla Lorena. A capo delle armate vi era Federico de la Tour D’Auvergne, detto anche “il Sedan” poiché era anche il governatore militare di Sedan, al confine con la Lotaringia. Parigi, assediata, rifiuta caparbiamente di arrendersi. A questo punto, il ribaltone. Il Sedan, per quanto anche lui sospettato di simpatie cattoliche decide di accordarsi con i ribelli, per marciare su Orleans e deporre il re (di cui era genero). A questo punto Gastone interviene, assieme a Luigi di Bourbon-Condé contro il Sedan. Ma prima “rapisce” Carlo XII da Orleans per portarlo in salvo e, soprattutto, per dettare le sue condizioni. La situazione si fa piuttosto intricata, piena com’è di complotti, tradimenti e ribaltamenti di fronte. Gaston ottiene per suo nipote di sposare Enrica, terza figlia del re e metterlo eventualmente sul trono di Francia alla morte di Carlo XII. Ma il matrimonio non avverrà mai. Il povero Carlo (siamo nel 1650), infatti, verrà nuovamente rapito, ma dal Sedan, e portato a Parigi, per essere sottoposto a processo. E qui si registrano le prime spaccature nel fronte ribelle. Il partito “parigino” infatti, è contrario alla condanna del re. Ma i seguaci di Federico della Tour d’Auvergne decidono di intervenire e porre agli arresti molti parlamentari, sostituiti da militari. A questo punto l’inevitabile esito, il 30 gennaio 1651 è la decapitazione di Carlo XII e la nomina di Federico (Federico I) come re di Francia. Ma da subito il Sedan fa capire che non ha la minima intenzione di governare con qualsivoglia consenso parlamentare. A questo punto i resti del parlamento fuggono nella fedele Bordeaux, da dove chiedono il disperato aiuto dei Borbone ancora in armi. Gastone nel frattempo è morto e leader della fronda nobiliare è il più duttile (e abile militarmente) Condé. Il quale si è risposato con Enrica di Valois. Con l’aiuto non troppo nascosto della Lotaringia riesce a ribaltare la situazione di svantaggio, per poi sconfiggere definitivamente il Sedan nella battaglia di Formigny.
Al suo ingresso a Parigi (settembre 1651) verrà acclamato come Luigi XIII di Borbone, re dei francesi.
Il nuovo re ristabilirà velocemente la potenza francese, facendo capire piuttosto rapidamente ai lotaringi che se avevano sperato di aver ormai reso la Francia un loro stato fantoccio si erano illusi grandemente. Inizialmente si servirà molto del parlamento parigino nella sua azione di governo, ma, facendo valere il suo carisma, riuscirà progressivamente ad ottenere sempre più margine di manovra per sé. Per converso, sarà spietato contro tutti i focolai di potere autonomo e potenzialmente in grado di destabilizzare la monarchia (fece persino mettere a morte Luigi di Borbone, nipote di Gastone). Morirà nel 1673, lasciando una Francia più che mai in ascesa al figlio, chiamato significativamente Carlo
XIII.
La guerra atlantica
La competizione per il centro-nord America
All’indomani della guerra dei trent’anni la Lotaringia era senz’altro lo stato più ricco ed economicamente sviluppato d’Europa. Anversa si era dotata di un nuovo porto, che non subisse gli effetti di interramento dovuti alla mole di detriti portati al mare dalla Schelda. Altri porti importanti avevano avuto uno sviluppo tumultuoso, in particolare S.Valéry, Dunkerque/Duunkerke, Rotterdam, Amsterdam ed Emdem. Ma era sempre Anversa la porta principale del regno , in cui merci di tutto il mondo passavano di mano in mano ad una velocità sconcertante. Dalla fine del XVI secolo, poi, le spezie provenienti dal mercato italiano non erano più la voce principale di guadagno. Manifatture di ogni tipo producevano
qualsiasi tipo di merce e se è vero che i prodotti italiani erano i più ricercati, quelli fiamminghi erano più diffusi, soprattutto in Francia e in Gran Bretagna.
In generale, anche a livello degli equilibri di potere all’interno del regno, la nobiltà tradizionale francofona andava lentamente perdendo terreno rispetto a quella germanofona, anche se la prima rimaneva il principale serbatoio dell’esercito.
Uno scherzoso detto lotaringio diceva: “Al mercato e sulle navi parla fiammingo, nei campi e sul cavallo in francese. L’unico posto in cui puoi parlare come vuoi è la taverna!” . Il bilinguismo infatti era diffuso, e anche in regioni relativamente omogenee culturalmente per l’una o l’altra parta e lontane dai centri di commercio e produzione qualche parola in francese o fiammingo la si sapeva sempre. Anche perché va detto che “francese” e “fiammingo” erano definizioni piuttosto astratte: anche all’interno dell’area francofona e germanofona, come l’olandese o il frisone non erano esattamente fiammingo così il piccardo e il lorenese non potevano definirsi propriamente francese! In particolare per quanto riguarda le lingue romanze, i sovrani avevano sempre mostrato interesse per le opere letterarie in vernacolo ed il francese standard degli editti era definibile come una via di mezzo tra il francese di Parigi e il Gaumais, il dialetto dell’alta Lorena. Ad ogni modo le lingue “ufficiali”, ossia quelle in cui erano promulgati gli editti erano tre: il Fiammingo di Anversa, il Francese (com’era parlato a Nancy, si potrebbe dire) ed il Francone di
Aquisgrana.
Un ulteriore fattore positivo per l’economia lotaringia fu un ritrovato interesse per l’espansione coloniale. Infatti il regno di Aquisgrana contribuì alla controffensiva italiana in america meridionale contro i Guasconi guadagnandoci alcune terre a sud del tropico del capricorno, ribattezzate nuova Olanda (HL: zona del rio de la Plata, Uruguay e Rio grande del sud, circa). Ma il ritorno di fiamma per le imprese d’oltremare si vide soprattutto nell’america settentrionale dove vennero fondate le colonie di quella che venne poi estensivamente definita nuova Fiandra, che man mano abbraccerà gran parte del golfo del Messico. Gran parte dei colonizzatori erano infatti fiamminghi, mentre la parte romanza della popolazione del regno fu meno interessata a tali imprese, pur con rilevanti eccezioni. Le prime colonie fondate furono Mariadorp, Orange, Nuova Anversa (Nieuwe Antwerp) (HL: Mobile, Baton Rouge, New Orleans).
Con la Lotaringia entrò molto presto in concorrenza la Francia, che, anche per riprendersi dal flop della guerra dei trent’anni e dalla guerra civile, riversò anch’essa uomini e capitali nella colonizzazione del nord America. In più, i francesi divennero in un certo qual modo i “protettori” delle colonie della corona di Spagna, che non riuscivano a liberarsi dal problema della pirateria e, soprattutto, del contrabbando. Mentre in teoria, infatti, le colonie potevano commerciare esclusivamente con la madrepatria, le manifatture del regno di Lisbona non erano in grado di soddisfare la domanda di beni da parte del nuovo ceto medio che si stava sviluppando al di là del mare. Negli anni ’70-’80 del ‘600 si valuta che ben il
25 % delle importazioni fosse garantito da imprenditori lotaringi, con italiani guasconi intorno al
15 % l’uno e i francesi intorno al 7-8 %. In totale, praticamente due terzi del commercio delle colonie era in mano a stranieri. I lotaringi infestavano la parte occidentale di Cuba, le coste dello Yucatan e quella nord-occidentale di Portugheisa. I pirati italiani erano attivi invece più a sud, infestando le coste della Tristània (HL: la zona delle repubbliche centro-americane di Panama, Costa Rica e Nicaragua). Infine i guasconi si erano avventurati nel Pacifico, per togliere ai portoghesi il lucroso monopolio del commercio con l’impero Inca. Per via si erano impossessati delle isole Dortochàs
(HL: Galàpagos), dell’Arcipelago delle Perle (HL: al largo di Panama) e si erano spinti
addirittura nella poco popolata penisola della California.
Per ovviare a questo problema, decisero, all’inizio del ‘700, che era il caso di optare per il minore dei mali e affidarsi ai francesi per debellare gli altri. Parigi aveva già colonizzato alcune isole delle Antille, che funsero da basi strategiche; in seguito comprarono per una cifra astronomica l’isola di Giamaica dagli spagnoli, e si assicurarono alcuni porti della costa dello Yucatan (ufficialmente per la “difesa dai pirati lotaringi”). Ma quel che più conta fu il lucrosissimo accordo di monopolio per la fornitura di schiavi per le piantagioni delle colonie spagnole,
“l’assiento”.
Ma anche prima che avvenissero questi accordi, comunque, i francesi si erano dotati per proprio conto di un’abbondante dote di terre: avevano infatti sbarrato la strada verso nord ai fiamminghi, reclamando tutto il territorio a nord del fiume Santee, dando il via alla creazione delle colonie di Nuova Francia. Già alla fine del ‘600 si potevano contare diverse importanti città come Nouvelle Orleans, Valois, Trois Montagnes (HL: New York, Baltimora, Boston).
In questo già complesso quadro entrarono anche gli inglesi e gli scozzesi. L’impulso economico dato dal considerevole aumento del volume d’affari attraverso l’Atlantico ebbe infatti effetti evidenti in tutti i paesi che si affacciavano sull’oceano. Diverse manifatture lotaringie, inoltre non disdegnavano comprare i prodotti semilavorati a Londra, per via del minor costo della manodopera, garantendo l’ulteriore espansione dell’economia inglese, aiutata da una rigida politica regia sulla proprietà terriera, che incoraggiava la piccola nobiltà di campagna ad avventurarsi in imprese marittime e commerciali. Anche gli inglesi si lasciarono tentare dalle imprese coloniali e fondarono nel golfo di San Lorenzo la città di Kinghill (HL: Montreal). Capitale della colonia del Canada. I lotaringi, poi, decisero di vendere agli inglesi parte di quello che avevano acquistato dagli italiani sull’estuario del Paranà, da loro giudicato improduttivo, dal momento che nessuno aveva trovato le miniere d’argento che si pensava esistessero (HL: la zona di Buenos Aires). Gli inglesi denominarono la loro piccola colonia Nuovo Galles del Sud.
Buoni ultimi, non si lasciarono sfuggire l’occasione nemmeno i Danesi, che reclamarono nuovamente la Groenlandia e ottennero dagli italiani alcuni diritti di commercio sull’isoletta di Santa Caterina, da loro ribattezzata santa Brigida (HL: davanti a Florianopolis)
Ma la pirateria non si trovava solo tra gli arcipelaghi dell’america centrale. Anche sulla via del ritorno era possibile trovare imbarcazioni pronte ad abbordarvi. Buona parte dell’ingente volume di traffico dell’Atlantico settentrionale, dopotutto, imboccava il canale della Manica, per dirigersi verso Londra o Anversa o Rouen. Al limite si fermava poco prima, a Baiona, o a Brest, Nantes e La Rochelle, il principale porto francese sull’Atlantico. Anche sulle sponde europee vi erano luoghi dove era facile nascondersi in mezzo a piccole isolette e dove mancava uno stabile potere centrale. Tali regioni erano le frastagliate coste di Irlanda, Scozia e Galles. Chi cominciò ad intuire che la pirateria a largo raggio in tutto l’Atlantico poteva essere un lucroso business furono gli Stuart, la casa regnante di
Edimburgo. Il regno era povero, dedito perlopiù alla pastorizia. Non vi erano particolari risorse da poter sfruttare, e i crocevia degli scambi internazionali avvenivano in regioni più meridionali. Ciò nonostante La Scozia aveva quantomeno il vantaggio di essere un regno che ormai da un paio di secoli non partecipava più a nessuna guerra e si era dichiarato sempre neutrale. Ciò lo rendeva uno scalo per il contrabbando da e per il Baltico tra Inglesi, Danesi e Lotaringi, quando le ricorrenti tensioni dell’area rendevano necessario un posto tranquillo per mandare avanti gli affari pur rispettando le apparenze, fatte di blocchi commerciali e di guerre doganali. La nascita di un ceto che potremmo chiamare borghese, aveva spinto gli Stuart a promuovere la creazione di un piccola industria cantieristica navale. La manodopera costava poco e la materia prima anche, perché non provare? Ma i borghesi di Glasgow, Aberdeen ed
Edimburgo trovarono che tutto sommato poteva essere lucroso non solo vendere navi ad altri, ma metterci su gente del posto e provare a rapinare qualche incauto galeone di passaggio. L’idea non era però venuta solo a loro. Gli inglesi avevano sperimentato che poteva essere un buon modo per rovinare gli affari agli odiati francesi e avevano trovato in questo un certo appoggio da parte dei bretoni, i sudditi di gran lunga più recalcitranti di Parigi, che da ottimi marinai quali erano, non disdegnavano neanche servire su navi che potessero indispettire i propri odiati padroni. Fu così che gli Highlanders delle Ebridi cominciarono ad infestare le acque dell’Atlantico, dalle isole di San Giorgio (HL: le Bahamas) alla baia di Quiberon, assieme a Cornici, Bretoni e Mannesi che lavoravano (forse) per Londra. E quali erano gli obiettivi? Diciamo che non si andava molto per il sottile, quando capitava una ghiotta occasione. Certo è che, come è logico supporre, i francesi erano gli obiettivi preferiti, vuoi perché erano erano gli odiati nemici di tutti, vuoi perché diversamente da quella mercantile, la marina militare di Parigi era ancora piuttosto indietro a livello di unità e tonnellaggio rispetto ai suoi vicini. Inferiore persino rispetto agli inglesi, ancor di più rispetto ai guasconi e nemmeno lontanamente paragonabile ai Lotaringi, che in data 1670 erano la seconda marina più potente del mondo (l’Italia aveva riconquistato il posto che le spettava come regina dei mari, ma era poco presente nell’Atlantico settentrionale).
Presto persino gli irlandesi entrarono nella partita. All’epoca l’Inghilterra non aveva fatto seri sforzi per conquistare l’isola, per cui controllava direttamente solo il
Pale, ossia la costa occidentale con Dublino e poco più.
Perciò, due dei regni irlandesi più potenti, Tyrone e Desmond, furono attratti dalla prospettiva di fare dei propri territori un covo di pirati e contrabbandieri, come lo stava diventando Glasgow, che ancora nel primo ‘700 veniva detta “il paradiso dei ladri”.
I Mc Carthy Mòr del Desmond promossero le attività portuali e mercantili di Corcaigh (HL: Cork) e Trà li (HL: Tralee) fino a farle diventare dei vivaci centri di scambio, che incisero profondamente sullo sviluppo economico dell’Irlanda del tempo.
Una conseguenza antropologicamente curiosa di tutto questo fu che tra i marinai dell’Atlantico si sviluppò un argot “panceltico” che univa modi di dire e parole scozzesi, irlandesi, mannesi, gallesi, corniche (nota sul cornico: in questa TL non c’è stata nessuna grande ribellione cornica del 1497, con conseguente politica di ritorsione della corona inglese per decenni a venire contro la Cornovaglia, nessun Act of Uniformity, dato che l’Inghilterra è rimasta cattolica, e nemmeno, di conseguenza, la Prayer Book Rebellion, quando la Cornovaglia, che era rimasta in gran parte cattolica anche dopo, si ribellò contro l’atto di uniformità e l’imposizione della messa in inglese. Per questo motivo, pur avanzando la comprensione dell’inglese nel paese, la lingua della Cornovaglia non viene vista dalle autorità come un male da estirpare, non viene imposto l'inglese con la forza e la sua diffusione rimane più o meno stabile entro i confini del XV-XVI secolo) e bretoni.
François de La Rochefoucauld lo descrive così in una sua lettera ad un amico:
« L’incauto viaggiatore che decida di dirigersi a Brest farà bene ad imparare la lingua di quei bruti. Non c’è miglior marinaio di loro, ma ad un francese di Parigi farà pagare qualsiasi cosa tre volte il suo valore corrente. D’altrocanto è un insieme di suoni incomprensibili, ed è ben difficile da apprendere per un uomo che possa o voglia dirsi civilizzato. Essi dicono che è ben più antica del francese e anche del dotto latino, poiché è tal quale, o poco differente, da quella che Svetonio Paolino sentì uscire dalle labbra della fiera regina degli Iceni. Ma vi è poco da dar credito a tali facezie. Ricordate infatti che sono immersi nella menzogna sin da fanciulli, poiché sono papisti e tali vogliono restare, sebbene diversi di noi, e dei più intelligenti, non facendogliene una colpa abbiano provato a convincerli ad abbandonare le tenebre della superstizione. Voi non provateci, ché se finite ad insultare san Francesco re o quei loro santi evangelizzatori dagli strani nomi, Brieuc, Tegonnec, o che so io, potreste finire con la gola tagliata, invece che sani e interi a Nouvelle Orleans. »
È logico che la situazione non potesse durare così a lungo senza arrivare ad un punto di rottura. La Francia si mise d’impegno nel cercare di recuperare terreno dal punto di vista navale, grazie anche al tenace sforzo in questo senso del ministro del re Jean Baptiste Colbert, che promosse grandi investimenti in questo settore da parte dello stato. A tempo di record Parigi si dotò di una marina militare nuovamente temibile. Ma questo non poteva bastare. Per l’orgoglio e l’onore della Francia era necessario testare le nuove armi con una serie di prove di forza contro lo statu quo che si era creato.
Quando Colbert si sentì sufficientemente sicuro promosse la stesura del Traité de
Navigation, che sanciva l’obbligo, da parte di qualsiasi merce francese, di essere trasportata fuori dalla Francia con naviglio francese e, viceversa, l’obbligo di qualsiasi merce diretta verso la Francia o le sue colonie di entrare in Francia con naviglio francese.
Era un bel colpo, anche perché Parigi aveva tutta l’intenzione di far rispettare con la forza il trattato. Era intesa come un colpo diretto ai traffici di Lotaringi e Inglesi nel paese e anche un tentativo di porre argine al contrabbando.
Colbert sapeva che Londra e Acquisgrana non avrebbero mai accettato di rispettare il trattato senza combattere per farlo ritirare, perciò decise di giocare all’attacco.
Indusse Carlo XIII a “dichiarare guerra senza quartiere agli empi pirati che privano il nostro glorioso regno di pace e ricchezza, fino a stanarli nelle loro tane e debellare i loro covi”.
Nessuno comprese bene cosa questo potesse significare fino a che la flotta francese, nell’anno del Signore 1695, piombò inaspettatamente davanti al porto di Corcaigh. I francesi non volevano però solo radere al suolo la città. Volevano conquistare l’Irlanda e, molto probabilmente, usarla come piattaforma per le loro operazioni contro l’Inghilterra! Inghilterra, Lotaringia, Tyrone, i Mayo del Connacht, e molti altri clan, che, riposte le loro tradizionali
divisioni, accorsero sotto la bandiera di Donal XIII MacCarthy Mór, re di Desmond. Ma la corruzione era un’arma potente, e ci furono anche diversi clan che preferirono allearsi con i francesi per il ottenere vantaggi locali.
Se sul mare i francesi lasciavano (ma ancora per poco) ancora a desiderare, potevano vantare l’esercito più potente e addestrato d’Europa, se non del mondo. Lo vide bene la cavalleria lotaringia, fatta a pezzi nella battaglia di Langres. Da quel momento in poi i lotaringi si trincerarono dietro al loro ben munito sistema di fortificazioni di confine, ideato con provvida lungimiranza dal celebre architetto Sebastien le Prestre, senza osare più affrontare in campo aperto l’esercito francese. Ma la Lotaringia, dalla sua, aveva un’arma altrettanto temibile, ossia il blocco navale. I guasconi stessi erano rimasti indispettiti dal traité de navigation, per cui rimasero neutrali, aiutando nella misura del possibile i lotaringi
(ovviamente in cambio di compensazioni economiche rilevanti nell’oltremare). Con un drastico calo delle importazioni il pur esteso sistema di manifatture francesi era destinato ad entrare in seria difficoltà. Chi avrebbe ceduto prima? La neocostituita marina e con essa l’economia francese o il confine lotaringio?
Fatti due conti, nessuno dei due stati voleva seriamente correre il rischio. Perciò, ed era quello su cui Colbert contava, i due stati si accordarono per una tregua. La Francia rinunciava alla piena applicazione del Traité in cambio di Langres, Chaumont e Nogent e, in più, alcuni territori sudamericani nella zona del Paranà, che poi diverranno la colonia francese di
Deux Rivierès o Méspotamie (HL: Entre Riòs).
L’Inghilterra, sentitasi tradita, non poté far altro che continuare il conflitto per l’Irlanda senza l’aiuto militare diretto di Aquisgrana (anche se non mancò quello indiretto: materiale bellico, capitali…). Ma se Atene piangeva, Sparta non rideva.
I francesi avevano preso il controllo dei porti, ma in quanto a entroterra facevano parecchia fatica, anche per il modo di combattere degli irlandesi cui non erano abituati, fatto di continue imboscate.
La guerra finì nel 1697, con il trattato di Dublino, che sanciva la divisione dell’isola in due: Il Munster ed il Leinster meridionale sotto influenza francese, il resto sotto quella inglese. Formalmente il regno di Desmond non veniva smantellato, ma rimaneva “sotto la protezione” di Parigi. Inoltre gli inglesi dovevano sgomberare anche tutto il banco meridionale del San Lorenzo e l’isola di Terranova o Newfoundland, come la chiamavano gli inglesi, che venne ribattezzata
Acadie, Acadia.
Senza quasi rendersene conto, in Europa, dopo tanti secoli si era combattuta la prima guerra per motivi essenzialmente economici e senza tirare in ballo la religione.
Le logiche politiche stavano definitivamente cambiando.
Trebisonda nel XVII secolo
Anche se dal 1591 era finita la storia dell’impero di Trebisonda, la vita nel Ponto continuava, anche sotto la dominazione persiana. Nonostante si abbia l’impressione che nei libri di testo pontici il XVII ed il XVIII secolo siano un enorme buco nero, bollato genericamente come un’epoca di decadenza, ciò non è del tutto esatto.
Innanzitutto, con i persiani, si assiste ad una nuova inversione di tendenza degli equilibri interni del Ponto. Se per almeno una buona parte del ‘500 per peso economico e politico il piatto della bilancia pendeva a ovest, verso Sinope e la Paflagonia, ora il pallino tornava a spostarsi nelle regioni orientali. Il ruolo commerciale che aveva l’occidente infatti, venne gradualmente riassorbito da Costantinopoli, che si avviava a rinverdire i fasti di un tempo.
Inoltre il Traffico marittimo interno al mar Nero era sensibilmente diminuito, un po’ perché era un mare chiuso, con i persiani che mettevano tasse alte e ineludibili al traffico commerciale, ma soprattutto perché la via della seta aveva perso la sua importanza, dato che le navi di italiani e portoghesi, a cui in seguito si aggiunsero quelle dei guasconi (e da ultimo, anche se in misura molto minore, quelle di lotaringi e inglesi) raggiungevano ora India, Indonesia e Cina direttamente via mare.
Le merci ora arrivavano a Trebisonda perlopiù da Costantinopoli, via Egitto, per poi diffondersi nel resto della Persia. La città pontica rimaneva comunque un ganglio fondamentale del circuito economico interno dell’impero, anche se non era più un porto “di livello internazionale”. La fortuna della regione, però, la fece la scoperta di nuovi, ricchissimi, filoni d’argento intorno ad Argiropoli. Ora poi che quella non era più una regione di frontiera, lo sfruttamento sistematico delle miniere era molto più semplice. Molte banda, smisero i panni dei clan feudali, intrisi di valori guerreschi e indossarono quelle di imprenditori. Famiglie che prima erano parte della piccola nobiltà e piuttosto povere guadagnarono ricchezza e fama, come i Sarasitai, i Karatsadoi e i Kalimachidoi, per citare le principali.
Ma i pontici, nel multietnico impero persiano non si trovavano più solo nelle regioni dell’ex-impero di Trebisonda, erano ormai diffusi ovunque. Prestare denaro a interesse era una pratica rigidamente vietata ai musulmani. In particolare, gli sciti erano decisamente intransigenti in merito. Ma se le operazioni bancarie erano curate dai cristiani, allora il problema era risolto. I pontici si fecero una fama di abili maneggiatori di denaro, tanto che gran parte delle attività finanziarie all’interno dell’impero persiano erano svolte da loro. Non erano l’unico popolo “specializzato”. Gli armeni infatti erano mercanti per antonomasia, come gli assiri e i georgiani e, nell’est dell’impero, i sindhi. I romei e i pontici dell’ovest, invece erano preferiti per la cantieristica navale. I turchi erano presenti in gran numero nei ranghi delle armate persiane, apprezzati in particolare come cavalleria. Ovviamente questi “ruoli” derivano anche da un certo grado di generalizzazione, non senza punte xenofobe, adottato dal teatro persiano, che proprio nel XVII secolo tocca i suoi massimi vertici.
Anche se la società persiana era largamente tollerante nei confronti dei cristiani, a volte accadevano episodi di violenza, che ricordavano ai pontici il loro status di popolo sottomesso. Il caso più famoso è quello del martirio di Santa Elena vergine di Sinope.
Esponente di una famiglia della media borghesia della città, i Bekiary, Elena, una ragazza di 16 anni circa, venne notata dal governatore persiano della città e venne portata a forza nel suo palazzo. Com’era prevedibile, il governatore tentò di stuprarla, ma ogni volta che tentava di toccarla veniva respinto indietro da una forza sconosciuta. Piuttosto frustrato la rinchiuse nella torre del suo palazzo, ma nottetempo la ragazza riuscì a fuggire. Adirato, minacciò il consiglio della città di consegnargliela, o avrebbe ucciso tutta la popolazione cristiana e dato le loro case e i loro beni ai turchi e ai pochi persiani che abitavano in città. La ragazza, per risparmiare la popolazione, si consegnò, ma ancora una volta il governatore non riuscì a soddisfare le proprie voglie. A questo punto la rinchiuse nei sotterranei, e poi decise di farla torturare a morte. Dopo la sua morte il suo corpo venne rinchiuso in un sacco e buttato in mare. Ma presto il corpo si mise ad irradiare luce dal mentre veniva trasportato dalle correnti e verso il fondo del mare. Qualche giorno dopo una barca di pescatori, pensando che fosse lo scintillio di un tesoro, recuperò il sacco, lo aprì e vide il corpo della ragazza perfettamente intatto. Il capitano decise quindi di portarlo, di nascosto alla chiesa della Panagia di Sinope, in cui da quel momento fu venerata da tutti i pescatori della regione.
Il XVII secolo riveste una certa importanza per il Ponto anche per l’avvio di nuove e importanti colture, che influenzeranno non poco l’economia della regione, provenienti
dall’America o dall’Asia. La regione di Amiso diventerà un importante centro di coltivazione del tabacco, mentre Risonda sarà rinomata per le colture di the, che già esistevano prima, ma che in questo periodo raggiungeranno proporzioni veramente ragguardevoli.
Un aspetto curioso di quest’ultima coltivazione sarà la “guerra del the”. Le teerie erano importanti luoghi di ritrovo sociale in tutto l’impero persiano. I persiani stessi erano forti consumatori della bevanda, prodotta dalle coltivazioni lungo i monti del Gilan,
prospicienti al mar Caspio. Ma i pontici svilupparono un loro peculiare tipo di preparazione della bevanda, ovviamente tratta dalle foglie delle coltivazioni di Risonda, (la miscela era scura e forte), contraddistinta dalla tipica “doppia caraffa”, la “zugiera”, tanto che nell’impero la concorrenza tra i locali che servivano il the di Risonda e quello del Gilan era accanitissima. Dal canto loro, i turchi non disdegnavano né l’uno, né l’altro, ma si specializzarono nella degustazione del
caffé. I Kahvehane, ossia i locali in cui si beveva la scura bevanda divennero popolarissimi in tutta l’Anatolia prima, in tutto l’impero poi, per diffondersi presto anche nei Balcani e da lì al resto d’Europa, in special modo in Italia.
L’importanza di queste bevande fu soprattutto sociale: le teerie e i caffé erano importanti punti di ritrovo, anche dal punto di vista culturale e politico e fu in questi luoghi che nacque quella che poi si chiamerà opinione pubblica, così come i movimenti artistici o i movimenti a base etnico-linguistico-religiosa che tanta parte avranno nello sviluppo di un’identità nazionale da parte di molti popoli negli anni a venire.
Una Zugiera tradizionale
Tuttavia non furono i caffé a far cominciare la parabola discendente dei persiani, ma la controffensiva dei paesi cristiani confinanti unita alla debolezza interna.
Dopo la morte di Abbas, nel 1629, il paese entrò infatti in una crisi politica piuttosto grave. Per la Persia fu una fortuna che in Europa imperversasse la guerra dei trent’anni e né l’Italia, né l’Ungheria fossero troppo disposte ad approfittarne. Se ne accorsero invece i russi, che ingaggiarono una serie di scaramucce lungo il confine. La zona era fortificata dall’una e dall’altra parte e la regione tra Brest, Briansk, Cernigov e Minsk, ovvero la regione abitata dai bielorussi, acquisì il nome di Ucraina, ossia “frontiera-zona di confine” e sottoposta ad uno governo prettamente militare, in lituano detta la Karinissiena.
Già dall’inizio del ‘600 nacque il corpo degli Ussari alati Ucraini, un’unità specializzata di cavalleria particolarmente adatta a sorvegliare quei territori da incursioni nemiche e a sua volta addentrarsi nel territorio sotto controllo persiano. L’organizzazione militare della regione diede alla popolazione che vi abitava tutta una particolare serie di tradizioni basate su onore e spirito di corpo. Ovviamente l’amministrazione separata non intendeva avere alcunché di etnico, anche perché, teoricamente l’Ucraina rientrava sotto l’amministrazione lituana, gelosissima della propria autonomia, motivo per cui la maggior parte dei comandanti generali era lituano, anche se comunicava con i propri uomini in bielorusso o in varego. Pur non volendolo, però, tale stato di cose contribuì a far sorgere le premesse di un’identità nazionale ucraina. Fu in questo secolo che furono per la prima volta stampati testi in lingua bielorussa, per esempio.
Il confine militare si estese anche a est del rialto centrale russo e lungo il corso del Don. Tuttavia in quelle regioni si preferì reclutare in massa il popolo seminomade degli
Oirati, poi detti Calmucchi, arrivati in queste regioni dalla Zungaria dopo una lunga migrazione verso ovest. Erano caratterizzati, oltre che dalla loro religione, il
buddismo, da una grande velocità e mobilità, qualità molto apprezzate dai russi, che permisero loro di stanziarsi lungo la riva sinistra del fiume Don.
Altro discorso era dall’altro lato del confine. I persiani pensarono di utilizzare i vareghi così come i russo-lituani usavano i bielorussi, ma la cosa non si rivelò inizialmente di grande successo. I russi neri, infatti, non erano propriamente sudditi fedeli dell’impero. Sotto Abbas, per tenerli sotto controllo ci fu il tentativo di impiantare colonie persiane lungo il confine. A Est, sul Don e sulla Volga, di fronte agli
Oirati, l’operazione riuscì, mentre a ovest andò incontro ad un miserevole fallimento. L’unica soluzione sembrò a questo punto essere il ritorno alla strategia iniziale, cooptare i vareghi nella difesa dell’impero, trovando però qualche incentivo che li tenesse legati ai persiani, se non altro per un loro tornaconto personale. Si inaugurò così una politica di autonomia de facto della Vareghia, con annessi privilegi economici, politici, religiosi. La popolazione non diventò fedele ad Isfahan da un giorno all’altro, ma certo le cose iniziarono a calmarsi e lentamente a funzionare, mentre gli eserciti di frontiera si dotavano dei letali “cavalieri delle rapide” vareghi, perlopiù dediti al banditismo e le fortezze di confine venivano completate e si riempivano di soldati pronti ad intervenire non solo contro i nemici, ma anche in caso di gravi sommosse.
Ussari alati ucraini
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Un “libero cavaliere” varego con la tipica spada ricurva e il bandura, strumento a corde
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Una carovana calmucca
Tra il 1629 ed il 1642, durante il regno dello Shah Sufi I, grazie alla loro organizzazione, ma soprattutto al fatto che la Persia era governata da un sovrano debole e incapace, i russi guadagnarono diversi territori come la Volinia e la città di Charkov. Fortunatamente per i persiani, nel 1642 prese il potere Abbas II, che cercò di porre un argine alla corruzione dilagante, grazie anche la gran visir Saru Taqi, ma soprattutto rilanciò un’azione offensiva verso i confini. Si assicurò il controllo sulla città santa della Mecca, riuscì a porre fine per un certo tempo alle scorrerie Baluchi a est, sconfisse in alcune occasioni i Transoxiani(che da diverso tempo approfittavano della scarsa sorveglianza per erodere territori di confine all’impero), ma soprattutto rilanciò in grande stile un’offensiva contro i cristiani. Inflisse infatti diverse sconfitte ai calmucchi. Recuperò Charkov, conquistò Orel e avanzò persino su Tula. Dopo la spinta iniziale, tuttavia, l’ondata rifluì, e nel 1660 i russi recuperavano Orel da una parte e l’importante caposaldo di Saratov dall’altra, vitale per la comunicazione con gli avamposti di Samara e Yaitsk, posti di fronte al confine con i tatari di Kazan.
La situazione rimaneva però piuttosto precaria.
Fu una fortuna che Abbas II morì già nel 1666, prima che potesse progettare una nuova spallata verso Mosca. Al suo posto salì al trono Suleiman, che era uguale in tutto e per tutto al nonno Sufi I. A questo punto però, nel 1670, stanchi di doversi imporre comandanti incapaci da Isfahan, che vedevano il comando della provincia solo come una tappa per arricchirsi il più possibile per poi tentare la scalata al potere nella capitale, i generali dell’esercito di stanza a Kiev si ribellarono. Il comandante di origini turche Fazil Ahmet Köprülü prese il controllo della situazione, creandosi un vero e proprio consiglio di guerra ed un nuovo governo. Tali erano gli intrighi di palazzo e i disordini interni che i tentativi per sottomettere il ribelle furono tutti assolutamente velleitari. Approfittando della confusione, i russi provarono a saggiare le forze del nuovo nemico, subendo una brutta sconfitta a Konotop. Dopo la vittoria, Koprulu decise che era il momento di ingrandire le proprie prospettive. Nel 1675 Lanciò il proprio esercito verso sud. Senza incontrare resistenza raggiunse Tabriz, e la fece occupare dai suoi uomini, poi fu la volta di Rayy. Spaventato, lo Shah gli mandò incontro un forte esercito, che però, nei pressi di Qom si unì ai ribelli. Koprulu raggiunse Esfahan tra due ali di folla festante, e ottenne dal sultano la carica di gran visir. Gli storici sostengono che avrebbe potuto permettersi di farsi Shah, cambiando le sorti dell’impero, ma che preferì non correre il rischio di rimanere intrappolato negli intrighi di corte. Con il sostegno dell’esercito, da lui notevolmente ingrandito e parzialmente riammodernato, ebbe carta bianca per tutti i suoi progetti. Fece decapitare moltissimi governatori di provincia, accusati di corruzione. Molti grandi famiglie persiane furono decimate dalle sue feroci purghe. Una volta ritenuta la situazione interna “pacificata”, dopo cinque anni di terrore, decise di riprendere la strada della Vareghia per dare corpo alle proprie ambizioni militari. Innanzitutto decise di “rinforzare” i confini, mettendo a ferro e fuoco la troppo ambigua Moldavia, che godeva di uno status di semi-autonomia. Fu poi la volta dei vareghi e dei calmucchi, cui tolse tutte le autonomie di cui godevano fino a quel momento. La politica di soppressione delle autonomie, nonostante le resistenze del visir di Costantinopoli, furono applicate anche nei Balcani. Nelle sue intenzioni dovevano essere le premesse per una grande offensiva contro i nemici della Persia. Dopo la vittoria avrebbe provveduto anche alle minoranze in Asia. La paura che incuteva il suo corpo di polizia e le violenze contro i cristiani, “il nemico interno” furono tante e tali che la notizia si sparse anche fuori dai confini, così come l’imminenza di una nuova, grande offensiva contro l’Europa.
Che non si fece attendere. Travolte le difese ucraine, le truppe dell’impero puntarono dritte verso nord. Aggirata con un’astuta manovra la fortezza di Minsk(as), l’unico avamposto realmente in grado di bloccarli, puntarono ad una preda di prestigio, ossia Vilnius, la capitale dei lituani. Grande e difesa da mura solide e un buon numero di armati, la sua resa avrebbe probabilmente portato ad una breve fine anche per Mosca. Sarebbe potuto crollare l’ultimo stato ortodosso.
Se i regni cristiani non erano molto famosi per la loro capacità di deporre le loro rivalità per ragioni di forza maggiore, in questo caso il terrore di una nuova spallata dell’islam fu talmente grande che riuscì nel miracolo. Subito il focoso imperatore Giovanni Giorgio III decise che avere come vicini i persiani anziché i russo-lituani non fosse la cosa più conveniente per lui. Neanche gli italiani gradivano la notizia. Un collegamento territoriale diretto tra Baltico e oceano indiano non era certo favorevole agli affari, pur nell’incapacità persiana di sfruttarne i vantaggi in maniera efficace. Era giunto il momento di ricacciare i persiani indietro, quantomeno fuori dall’Europa.
L’insolita alleanza tra Italia e Impero, benedetta addirittura dal pontefice Innocenzo XI (cosa per cui molti sudditi sassoni storsero un po’ il naso) per recare soccorso alla confederazione russo-lituana, chiamata “Santa Alleanza” , si mise in moto. Gli italiani avrebbero dovuto impegnare i persiani a sud, come diversivo, mentre l’imperatore sarebbe marciato alla testa delle sue truppe verso oriente. Michał Kazimierz Pac, difensore della città resisteva disperatamente in attesa dei rinforzi promessi da ovest e da est, questi ultimi al comando di Vasily Vasilyevich Galitzine, il braccio destro dello zar Pietro Stroganoff. Brutte nuove però lo attendevano. I russi infatti vennero sconfitti mentre si trovavano a pochi passi da Homiel, mentre l’imperatore non era ancora giunto in Prussia. All’ultimo però, ci pensò il regno d’Ungheria a correre in aiuto dell’alleanza. Il re di Santo Stefano, Michael Apafi, assieme al giovane generale Imre Thokoly, marciò verso nord alla testa di diecimila soldati Transilvani. All’altezza della foresta di Bjaloweza, invece che continuare verso settentrione per unirsi all’imperatore il brillante comandante decise di entrare in territorio ucraino, per raggiungere Vilnius da Sud. Voleva spezzare il blocco di Minsk, riuscendo a guadagnare alla sua armata anche la nutrita guarnigione di quella città. Dal lato della Prussia, nel frattempo, Koprulu aveva lanciato un’offensiva contro Giovanni Giorgio, per impedirgli di ragigungere Vilnius a ranghi intatti. Dopo un’accanita battaglia presso Suwalki, l’avanguardia turca fu però costretta a ritirarsi. Poco dopo giunse al campo persiano la notizia che il re d’Ungheria era sbucato all’altezza delle alture di Asmiany. Le avanguardie della cavalleria imperiale (polacchi), assieme ad un corpo scelto di sassoni, guidata da scout ungheresi, riuscirono a farla sotto il naso all’esercito nemico e entrare in contatto con il grossso dell’esercito magiaro. Il 12 settembre 1683 gli ungheresi lanciarono l’attacco che spazzò via i persiani assieme allo stesso Koprulu. L’esercito persiano in fuga fu poi fatto definitivamente a pezzi dall’esercito imperiale in manovra da sul versante nord.
Vilnius era stata liberata.
Ma non era finita. Da quel momento i russo-lituani cominciarono un’avanzata inarrestabile, che li portò fino a Kiev e poi ancora oltre. Nel frattempo l’effetto della sconfitta si faceva sentire anche nei Balcani. Gli italiani, nella loro guerra parallela a sud erano passati di vittoria in vittoria, ma alla notizia della morte di Koprulu la loro avanzata si trasformò in un diluvio. Gli Ungheresi prontamente approfittarono della situazione e attraversarono il Danubio. Stavolta, insomma, gli stati europei non volevano perdere l’occasione per chiudere definitivamente la partita. Le ribellioni nella parte orientale dell’impero e le congiure di palazzo non aiutavano l’impero, sempre più in crisi.
Il 17 luglio 1698 persino la stessa Costantinopoli fu conquistata. Di nuovo.
La pace di Mesembria ridisegnò la cartina dell’Europa orientale di punto in bianco: Bulgaria, Moldavia e piccolo Ponto tornavano sotto il controllo Ungherese. L’Ucraina con Kiev entrava nel regno russo-lituano, il cui confine con l’impero veniva catapultato al Don, mentre la Macedonia e la Tracia con Costantinopoli finivano all’Italia.
Imre Thokoly |
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Michele II Apafi |
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Michele Casimiro Pac, |
L’imperatore Giovanni Giorgio III |
La Romània italiana
Il re d’Italia, Galeazzo Maria, succeduto al defunto Renato Maria II, in un rigurgito di millanteria pensò inizialmente di aggiungere alla già lunga sfilza dei suoi titoli anche quello di imperatore romano d’oriente, ma poi preferì evitare, per non guastare i da poco migliorati rapporti con l’impero tedesco. In alcuni ritratti, sul suo scudo vi è anche, assieme ai tradizionali simboli della vipera, della scala e dell’aquila di Sicilia, anche quello di un’aquila bicipite che sorregge l’antica bandiera paleologa
(sebbene fosse appropriazione indebita di simbolo, visto che i Paleologi erano ancora vivi e vegeti e anche molto ricchi) Riorganizzò però i suoi possedimenti ponendo tutti i territori a sud di Scutari sotto l’autorità del “regno di Romania” che riuniva i Balivati di Scutari, Durazzo e Valona, I granducati di Nasso, Lemno, Arta e Cefalonia, i principati d’Epiro e Lesbo, le signorie di Creta, Negroponte e Corfù, i regni di Cipro e Macedonia, il despotati di Morea e piccola Tessaglia, i ducati di Tebe e Tessaglia maggiore, la la città libera di Salonicco, le maone di Chio e di Samo. Era un bel caos amministrativo che venne progressivamente “risuddiviso”, seguendo un’analoga tendenza anche sul suolo metropolitano, in intendenze, non senza qualche polemica da parte dei ceti dirigenti locali, che venivano ora a trovarsi scavalcati da funzionari di nomina regia. Le intendenze erano di
Albania (Valona), Epiro (Arta), Morea (Mistra), Attica (Tebe), Tessaglia minore o
greca (Neopatria), Tessaglia maggiore o valacca (Larissa), Macedonia
(Salonicco), Creta (Candia), Cipro (Nicosia), Egeo (Nasso). A queste si aggiungeva il nuovo territorio di Tracia, con Adrianopoli come capitale, mentre a Costantinopoli sedeva il viceré, coadiuvato da un prefetto per la città, che però aveva potere anche su tutto il tratto di mare dal Bosforo ai Dardanelli.
Ma come si stava nel “regno di Romania” di marca italica? Con l’eccezione della Morea, si può dire che creò, progressivamente, una netta dicotomia tra le città costiere e l’interno o, più in generale, tra città e campagna. L’urbanocentrismo dell’impostazione mentale italiana, infatti, portò ad uno sviluppo ingente e spesso impetuoso di realtà urbane estremamente fiorenti, proiettate verso il mercato mediterraneo e, in alcuni casi, anche internazionale, mentre, per converso, le realtà dell’interno rimanevano povere, disagiate e con scarso impiego di capitali o innovazioni, mentre la produzione agricola era tutta o quasi rivolta al mercato locale e con rendite non molto diverse rispetto a quelle di
tre o quattro secoli prima: due mondi diversi, che a fatica comunicavano tra loro.
Poche le eccezioni. Tra queste, quella di maggior rilievo è la Morea, in cui il sistema manifatturiero decentralizzato aveva costruito un circuito economico, se non proprio capillare come nelle Fiandre o in Lombardia, quantomeno molto più integrato rispetto al resto della Romània. Ovviamente, l’asse portante rimaneva la valle dell’Eurota, con il binomio Mistra-Monemvassia
(o Malvàsia, come la chiamavano gli italiani), ma anche centri minori non erano privi di una certa vitalità. Clarenza-Andravida, Leontari, Argo-Nauplia, Patrasso, Corinto-Castel del
Muro (dai greci detta Examilionpolis), erano altre aree importanti della Morea.
Fuori dalla Morea, distretti economicamente altrettanto importanti potevano essere considerati la Beozia, tra Cheronea e Tebe, la Ftiotide, tra Neopatria e Zetonia.
Il principale problema, però, che Pavia si trovò ad affrontare era quello religioso. La maggior parte dei sudditi era ortodossa, ed obbediva al patriarcato di Costantinopoli. L’unificazione delle chiese era sempre stata un problema piuttosto spinoso che nessuno era mai riuscito a risolvere in via risolutiva. Anche perché da parte ortodossa spuntava sempre qualche movimento in senso contrario, che alla fine riusciva a manipolare l’opinione pubblica a proprio vantaggio. Questo in gran parte dipendeva dalla mai completamente guarita ferita della quarta crociata. Chi aveva abbattuto l’impero rischiando, per poco, di gettare tutta la cristianità orientale in pasto all’islam erano stati gli odiati latini, che avevano nel frattempo provveduto a strangolare l’economia dell’impero ricostituito, sino a farlo diventare per un buon secolo intero l’ombra di sé stesso.
L’odio nei confronti del latino era poi progressivamente scemato, grazie alla ripresa economica del tardo XIV secolo e, soprattutto, agli immensi sforzi di Costantino XI Paleologo, venerato come un santo dai romei. Era stato infatti lui a migliorare notevolmente le relazioni diplomatiche del defunto impero bizantino con gli stati latini. Ma, in ultima analisi, la progressiva rivalità con i latini era diminuita più che altro per via del miglioramento economico, la nascita di un ceto medio romeo e probabilmente anche perché alla competizione con gli occidentali si era sostituita la competizione con i “cugini” pontici.
Ad ogni modo gli italiani avevano il problema di non dover scontentare né i propri sudditi ortodossi, né il papa. Perché se è vero che Roma era circondata dall’Italia e che nella gran parte dei casi il papa proveniva dalle fila della nobiltà italica, è anche vero che i vescovi erano agli ordini del pontefice e non del re. Si potevano controllare, certo, ma non sempre così scopertamente come potevano permettersi i sovrani cattolici d’oltralpe o, meglio ancora, i francesi o i luterani. Occorreva, insomma, un certo tatto. Ed uno dei nervi delicati era proprio il tentativo papale di imporre alle diocesi ortodosse dei vescovi cattolici. Cosa molto rischiosa. I primi tentativi in tale senso vennero fatti a Creta e Negroponte, terre d’antica colonizzazione. Il risultato furono ribellioni di vaste proporzioni e le popolazioni di interi villaggi che si davano alla macchia tra i monti. Tra le diverse soluzioni, quella più recente, che resse per diverso tempo, fu questa: l’intero territorio romeo era sotto la giurisdizione del patriarca di Tessalonica che secondo la legge dell’alternanza, una volta era scelto dai cattolici e quella successiva dagli ortodossi. Ma anche così, non era raro che la corte di giustizia vescovile dovesse affrontare spinossissimi casi di vertenze giurisdizionali o incidenti tra i fedeli che a volte rischiavano di degenerare pericolosamente. Ma dalla seconda metà del ‘600 la posizione della corte si fece sempre più in contrasto con quella del papa, segno di una progressiva laicizzazione del ceto dirigente dello stato. Alla fine, Galeazzo Maria, esempio ante litteram di “despota illuminato” decise che il dovere dello stato era garantire il benessere al cittadino con l’uso della ragione. Ed il benessere passava anche da una certa tolleranza religiosa. Pertanto promosse, dopo numerosi, timidi tentativi in tale senso abortiti in passato, finalmente, “lo sdoppiamento”. Ovvero, dopo la conquista della seconda Roma impose (non senza un certo grado di prove di forza da una parte e dall'’altra) al papa di trovare l’accordo con il patriarca di Costantinopoli per:
a) un’unione tra le due chiese che mantenesse il rito greco praticamente inalterato (e tanti saluti al problema del filioque)
b) se proprio ciò non fosse stato possibile, che le sedi vescovili, ove necessario fossero due: una per i cattolici e una per gli ortodossi. Stessa cosa valeva non solo per i vescovi ma anche per i preti (ma per quello non c’era di fatto problema, perché nella maggior parte delle città ci si era già organizzati in questa direzione con molto buon senso).
Alla fine, stante l’assicurazione che il cammino verso l’unione sarebbe stato intrapreso senza indugio con buona volontà da parte di entrambi, ci si orientò verso la seconda (e più realistica) opzione, con gli accordi del venerdì santo del 1699.
Il piccolo Ponto ungherese
Il piccolo Ponto, se dal punto di vista strettamente materiale aveva passato relativamente indenne i cambi di dominazione, preferendo alla lotta armata una pronta sottomissione in cambio di autonomia, dal punto di vista economico aveva sofferto molto nel secolo di dominazione persiana. La maggior parte dei clienti dei mercati della regione erano infatti di provenienza centro-europea. Quando lo Shah prese il possesso di quelle terre gli ungheresi, i boemi e i polacchi cambiarono progressivamente strada, mentre Mesembria si riduceva a scalo del commercio interno del mar Nero.
Pertanto quando gli eserciti di Buda entrarono a Mesembria furono accolti da una folla festante. E in effetti, una certa ripresa nel XVIII secolo vu fu. I magiari avevano interesse infatti nello sfruttare finalmente un terminale sul Mar Nero, anche per cercare di bypassare in qualche modo la pesante ipoteca italiana sul controllo del commercio mediterraneo (cosa che comunque, anche così, si rivelava quasi impossibile, visto che gli stretti era comunque nelle mani del regno italico).
La composizione etnica della regione era cambiata leggermente. La popolazione romea si era ridotta, preferendo trasferirsi a Costantinopoli. Allo stesso modo c’era stada una drastica riduzione dell’elemento italiano, mentre per converso erano aumentati tatari e bulgari, e altre etnie di più recente immigrazione, come le genti caucasiche (alani, armeni e georgiani) e turche. Dopo l’annessione al regno ungherese aumentò rapidamente anche la popolazione ebraica, visto che la maggior parte del commercio interno del regno era nelle loro mani.
La provincia di Perateia
Quando il regno del Bosforo Cimmerio smise di esistere, la regione fu inserita in un governatorato che i persiani chiamarono piuttosto genericamente “oltremare”. E divenne presto Perateia, ossia “oltremare” anche per i pontici locali. Anche perché già, prima che entrasse in uso la denominazione di Bosforo Cimmerio, nel XIII e ancora agli inizi del XIV secolo, i pontici di Trebisonda chiamavano così la regione.
Come per altre regioni che si affacciavano sul mar Nero, il periodo persiano non si poté proprio definire florido dal punto di vista commerciale. Pur tuttavia la regione non smise comunque di essere un punto di riferimento per il resto della pianura russa, sia economico, sia, soprattutto, culturale. Molti vareghi, alani, armeni, georgiani e di diverse etnie tatare, per non parlare dei nuovi inquilini turchi e persiani, furono attirati dalla vita urbana delle città. A Panagiopoli si teneva ancora una grande fiera che era superata nella provincia solo da quella di Kiev. Il periodo di calma e tolleranza si interruppe bruscamente all’epoca di Koprulu, quando iniziò una serie di persecuzioni che, se avevano l’obiettivo di colpire i cristiani in generale, colpirono i pontici in particolare. Idealmente, il visir li considerava il popolo più pericoloso, poiché era diffuso su tutto il territorio e, con gli ebrei, controllava ampia parte delle attività economiche delle città. Inutile dire che avrebbe voluto eliminare tutti i pontici, anche quelli di Trebisonda, ma preferì fare le cose con calma e non forzare subito i tempi. Molte comunità di pontici (in particolare quella di Minsk) fuori dai confini persiani aumentarono di volume proprio a seguito di tali eventi. Dopo la grande vittoria di Vilnius, tuttavia, non tutti fecero buona accoglienza alla concreta possibilità di finire sotto il dominio del commonwealth russo-lituano. Tutto sommato, i persiani avevano finito per contare molto sull’appoggio pontico per governare l’oltremare e molti temevano di perdere la grande influenza economica, culturale, ma anche politica nei confronti delle popolazioni slave e non delle grandi pianure. Ovviamente, c’erano anche società segrete che, al contrario, auspicavano tale esito, sognando una confederazione a tre russo-lituano-pontica in cui avrebbero giocato un ruolo decisivo. Ma l’avanzata russa si fermò prima, esaurendosi con la conquista di Kiev e consentendo ai persiani di mantenere comunque le coste del Mar Nero dal fiume Dnestr a Calcedonia. Il futuro della Perateia rimaneva denso di
incognite.
Il settecento: nuovi equilibri
La guerra del nord
Mentre Francia Inghilterra e Lotaringia erano impegnate nella guerra atlantica e Italia, Impero, Ungheria, Russia sconfiggevano l'impero persiano con “l'ultima crociata”, lo spettro della guerra si avvicinava anche al nord Europa. La situazione che si era venuta a creare, in particolare dopo la guerra dei trent'anni, era di una netta egemonia della corona danese sul bacino del Baltico. Le città dell'Hansa, nonostante l'appoggio imperiale, non erano in grado di contrastare l'influenza di Copenaghen. In più le rivalità reciproche tra Hansa, Svezia, russi di Novgorod e impero, giocavano proprio a favore dei danesi. Ma non è detto che chi gode di un vantaggio, riesca poi ad amministrarlo a lungo e saggiamente. I dazi che i danesi pretendevano per l'ingresso nello Skagerrak non fecero che crescere, infastidendo, in questo modo i principali partner commerciali della Danimarca, ossia i Lotaringi. A maggior ragione irritati, poiché la contemporanea riapertura del mar Nero rischiava di complicare la situazione. Infatti se passare dagli stretti costava troppo caro, rischiava di tornare competitiva la via Costantinopoli-Mesembria-Minsk-Vilnius-Riga.
La conseguenza logica era che per i danesi rivestiva una considerevole importanza mettere le mani su quest'ultima città. Ma Riga non era una preda ambita solo per il governo di Copenaghen. Nella partita entravano gli svedesi, e, naturalmente, anche i russi.
Ma c'era un piccolo dettaglio: svedesi e russi erano nemici giurati: i secondi cercavano regolarmente di penetrare in Finlandia, mentre i primi ambivano a conquistare Ingria, Estonia e Livonia, oppure puntavano verso Arcangelo, il terminale delle piste da e per la Siberia, e perciò lucroso centro per il commercio delle pellicce.
E l'Hansa cosa ne pensava? Ovviamente non poteva tollerare la situazione, ma non aveva grandi strumenti di pressione. Furono gli antichi nemici della Lotaringia a fornirgliene uno, inizialmente con il solo scopo di ridurre a più miti consigli il regno di Danimarca sui dazi: la costruzione di un grande canale, alla stregua di quello di San Marco, tra Kiel e la foce dell'Elba. In verità già esistevano canali navigabili tra Lubecca e Amburgo, ma non erano adeguati al transito di grandi vascelli mercantili.
Ma al contrario delle previsioni dei Visconti di Aquisgrana, i danesi, invece di ammorbidirsi, si irrigidiscono ulteriormente nelle loro pretese, spingendoli a scatenare una serie di reazioni a catena che sarà poi nota come “guerra del nord”.
Nel 1709 la Svezia invade la Carelia. La Danimarca coglie la palla al balzo ed offre ai russi in difficoltà un'alleanza, in cambio di un successivo impegno russo per la conquista e la spartizione di Riga e di altri porti hanseatici della Livonia. Ma le cose non vanno come previsto: nonostante l'indubbia superiorità danese, la modesta macchina bellica svedese era stata rimodernata da una serie di generali particolarmente brillanti. il talento militare di Carlo XII Vasa, (che nella nostra timeline disponeva di mezzi indubbiamente superiori) da cui il nome del suo famigerato esercito, i” Karoliner”, fece il resto. Prima di tutto sventò un tentativo di conquista danese di Helsinki; successivamente portò a termine la conquista della Carelia e dell'Ingria; non riuscendo a conquistare Reval, decise di accorrere in aiuto al suo esercito a ovest, che non solo respinse così la penetrazione danese nel Gotaland, ma conquistò addirittura lo Smaland, il Bohuslan e parte dell'Halland e, soprattutto, il grande porto di Alvheim, poi ribattezzato Karlborg (HL: Goteborg). La sconfitta per la coalizione russo-danese sembrava inevitabile, ma quando gli svedesi si spinsero sino ad assediare Novgorod, osarono troppo: presto i russi passarono al contrattacco e gradualmente gli svedesi dovettero ritirarsi a nord del lago Ladoga, mentre i lituani distruggevano le divisioni di Stoccolma penetrate in Livonia.
Ad ogni modo, nel 1711 venne firmata una tregua, favorevole agli svedesi, che guadagnavano al proprio regno la Carelia occidentale ed il Bohuslan.
Ma non era finita. L'impero aveva deciso di occuparsi in prima persona di Riga ed i porti a lei dipendenti, trasformandola in città imperiale alle dirette dipendenze dell'imperatore.
Ma la mossa era per prendere delle misure in difesa dell'Hansa, o rispondeva ad altri interessi?
A dire il vero l'impero si preparava a muoversi contro la federazione di città che tante volte gli aveva consentito di racimolare crediti per le proprie imprese, belliche o meno. La prova? Poco prima della guerra tra svedesi e russo-danesi, i Wettin avevano firmato un accordo economico con i danesi. L'impero infatti non aveva la benché minima intenzione di permettere che le città anseatiche prendessero accordi commerciali con i lotaringi tali da rivoluzionare il mercato del Baltico e gli equilibri bancari dell'Europa settentrionale. E per far cambiare idea a Lubecca e soci, non aveva esitato a mettersi d'accordo con Copenaghen.
La sorprendente vittoria svedese per poco non fece riconsiderare all'imperatore l'intera faccenda, ma a questo punto i sassoni decisero di giocarsela fino in fondo, portando l'alleanza economica a livello di alleanza militare. Era giunto il momento, forse, di farla finita con quell'anacronistico retaggio del medioevo quale era l'Hansa. L'alleanza a questo punto esplose. Le due città più potenti dell'ovest, Brema ed Amburgo, che peraltro potevano disporre anche di un esteso dominio sui loro rispettivi entroterra, decisero di sfilarsi. Lubecca, però, la “capitale” decise di non arrendersi, preferendo resistere ad una più che probabile conquista danese, mentre le città prussiane sarebbero finite nelle grinfie imperiali. Ma a mali estremi, estremi rimedi: l'unica alleanza possibile era con chi ancora guadagnava dall'indipendenza delle città mercantili sulle coste del Baltico, o, almeno, che avrebbe preferito l'indipendenza di queste ultime rispetto alla loro sottomissione ad una potenza straniera. La Lotaringia non aveva voglia di impegolarsi in una guerra con l'impero, che automaticamente avrebbe fatto scattare il gioco di alleanze europeo per una eventuale nuova guerra per il dominio del continente, anche perché ad Aquisgrana si stava progressivamente optando per una politica di buon vicinato e di neutralità armata (Un po' come la Venezia tardo-quattrocentesca della nostra TL: perché fare guerre se quello che si poteva perdere era più di quello che si poteva ottenere e ormai si era ottenuto a sufficienza per dominare il commercio mondiale? E quando scattano considerazioni del genere, emerge anche il pensiero immediatamente conseguente: che la guerra fa male agli affari).
Lo stesso discorso non valeva però per i Russi. In piena crescita economica e militare, certo avrebbero preferito mettere direttamente le loro mani sui porti autonomi del Baltico orientale. Molte delle città più deboli erano già finite sotto la loro protezione. Ma l'offensiva imperiale contro la loro lenta ma inesorabile progressione era troppo, anche volendo evitare una guerra contro i polacchi. A maggior ragione irritava, poi, il voltafaccia della Danimarca, che aveva portato loro nient'altro che guai. Logica voleva che un'Hansa disperata, garantisse una flotta ad uno stato che ne era praticamente privo, e che pure era voglioso di farla vedere agli imperiali. Per spirito anti-danese, alla coalizione si unì anche la Svezia.
La seconda guerra del nord, svoltasi a due anni dalla conclusione della prima, terminò, sostanzialmente, in parità. L'esercito danese aveva avuto tempo sufficiente per fare tesoro delle lezioni imparate dagli svedesi ed adeguarsi, mentre la forza d'urto dei russi ancora non era in grado di avere la meglio sui più esperti e meglio equipaggiati eserciti polacchi. Tuttavia, dei cambiamenti ci furono: di fatto fu la fine dell'Hansa. Imperiali e russi si accordarono per spartirsi il protettorato sulle città del Baltico. Da Elblag a Lubecca sarebbero state imperiali, da Elblag a Reval, russe. Lubecca rimase la sola veramente indipendente, (anche se i danesi avevano ottenuto l'annullamento dell'oneroso dazio di uscita dal porto) ma i suoi giorni di gloria erano ormai definitivamente sulla via del tramonto.
La guerra di successione lotaringia
Dopo la guerra atlantica, sembra che ormai o principali attori della scena politica europea abbiano raggiunto un certo equilibrio. Rimangono ancora dei punti caldi, come il sacro romano impero, il ventre molle del continente, ma tutto sommato, la situazione pare ormai tranquilla. La Francia sembra essersi affermata come lo stato più potente; la Lotaringia sembra accontentarsi di rivestire un ruolo di potenza mercantile e nient'altro. Anche l'Italia sembra non aver intenzione di espandere ulteriormente la sua sfera d'influenza: ha già il Mediterraneo e i suoi impegni politici e militari sembrano rivolti più che altro in Asia. Per ora può permettersi di lasciare che la Francia e la Sassonia si giochino l'egemonia sull'Europa continentale. Sembra.
Ma a volte basta una scintilla molto piccola per generare un grande incendio. E le rivalità tradizionali sono solo sopite, non dimenticate.
Appare chiaro nel giro di nemmeno vent'anni: Carlo Maria II Visconti, re di Lotaringia ha un problema: non ha né figli, né fratelli e nel 1719 designa come proprio successore, in virtù di parentela, niente meno che Luchino Maria, figlio di Francesco Maria re d'Italia(il figlio di Galeazzo Maria il grande), imponendogli però di rinunciare, in compenso, alla corona di Pavia.
Tuttavia nessuno, in Europa, gioisce della potenziale riproposizione del grande impero visconteo di Filippo Maria e Galeazzo I. Nemmeno il senato di Aquisgrana, che non vuole che il regno di Lotaringia sia asservito agli interessi di Pavia e veda sacrificati i propri personali obiettivi (e, soprattutto, non vuole una guerra con la Francia. Di nuovo). Con Carlo Maria II con un piede nella fossa, i senatori chiamano come re Filippo, figlio di Carlo XIV re di Francia. Luchino non ha però la ben che minima intenzione di lasciar perdere, anche perché anche lui ha molti sostenitori nel regno lotaringio, in particolare nella parte francese. Decide di entrare in Aquisgrana e farsi incoronare comunque, sostenuto dal padre. Senza porre tempo in mezzo, i francesi allora animano una coalizione anti-italiana cui partecipano anche Spagna e Ungheria. L'invito era rivolto anche ai sassoni, ma l'impero germanico si chiama fuori, a dimostrazione che i Wettin hanno ormai rapporti molto freddi con i Borbone. A sostituirli ci pensano, sorprendentemente, i re di Baviera.
Il blocco visconteo si trova molto presto in difficoltà: i francesi si trovano alle porte di Arles da una parte e di Anversa dall'altra, mentre i pochi alleati tedeschi dei Visconti subiscono l'offensiva bavarese, che però, dalla parte del Tirolo viene arginata efficacemente. Ma nel 1721, il re di Francia ha la pessima idea di morire: erede al trono diventerebbe, così proprio Filippo. Gli ungheresi, gli spagnoli ed i bavaresi, certo non combattono per scambiare un enorme impero con altro. In più, a questo punto, l'impero sassone decide di intervenire in favore dei Visconti, se Filippo non dovesse ritirare la propria candidatura a sovrano della Lotaringia.
Inevitabile dire che Filippo decide di insistere, ma le sorti della guerra, grazie all'aiuto imperiale, volgono progressivamente a favore degli italiani; anche perché finalmente Luchino riesce ad ottenere il sostegno dei propri sudditi, nel nord fiammingo come nel sud francofono. Durante i tre anni di esperienza di governo era riuscito a farsi ben volere.
Nel 1723, ad Aquisgrana viene siglata la pace e celebrata una seconda incoronazione solenne di Luchino.
I francesi ci guadagnano il Viennois, la Savoia, Digione e qualche città al confine con la Lorena. La Baviera, da parte sua, guadagna i vescovati di Salisburgo e di Augusta, il Furstenberg, l'Ansbach e buona parte del Wurttemberg, oltre alla città di Ulm.
Anche nell'oltremare si era combattuto, ma, a dir la verità in modo molto blando: la Mesopotamia francese era stata conquistata senza troppa fatica dai neo-olandesi del Paranà, ma nel nord America i francesi erano penetrati a fondo nella penisola di nuova Zelanda, nonostante i fiamminghi avessero ottenuto l'appoggio dei Cherokee, dei Chickasaw e dei Choctaw (che avevano avuto burrascosi trascorsi con i coloni francesi e si trovavano meglio con i fiamminghi. I Muskogee, invece preferirono rimanere neutrali, mentre i Seminole si schierarono con i francesi) Per questo motivo si decise di tornare senza troppe ansie alle posizioni di partenza.
La guerra di successione magiara
Per l'Ungheria, la crociata anti-persiana fu il canto del cigno. Dopo Michele II Apafi, infatti, non vi fu più un sovrano forte, in grado di tenere a bada lo strapotere degli ispan, i baroni ungheresi. Imre Tokholy provò ad occupare il trono con questo obiettivo, ma senza successo: l'eroe della guerra contro gli infedeli era un candidato troppo scomodo e poco malleabile per la nobiltà magiara. L'elettività della corona di santo Stefano e la litigiosità del consiglio dei signori diede perciò l'opportunità alle grandi potenze europee di complottare per mettere sul trono il proprio candidato favorito. Per evitare inutili e spiacevoli rischi, italiani e imperiali cercheranno, nella misura del possibile di stipulare accordi preventivi, allo scopo di evitare che i conflitti tra la fazione filo-italica, cattolica e quella filo-sassone, evangelica, sfuggissero di mano. Durante la guerra del nord, però, i russi si scoprirono una potenza militare e a Budapest spuntò anche una nazione filo-russa, complicando le cose. Nel 1717, per la prima volta, Wettin e Visconti si allearono per mettere da parte il candidato (lituano) della Russia. La fazione italiana ritirò il proprio aspirante sovrano, lasciando il campo a Ermanno Maurizio, figlio bastardo dell'imperatore Federico Augusto e della contessa Maria Aurora di Koenigsmarck.
Ma sia la Sassonia, sia l'Italia, se volevano un'Ungheria tranquilla, avevano riposto la propria fiducia in un pessimo soggetto. Maurizio aveva un temperamento focoso ed una smodata passione per l'arte militare e le donne. Nel 1719, decide di entrare, con gran scorno del padre, nella coalizione anti-italiana, con il malcelato fine di misurarsi in battaglia. Da' prova di grandissime capacità, nonostante la disparità di forze e la mancanza di risultati pratici per il proprio paese durante la pace di Aquisgrana. Il disprezzo per gli italiani e l'amicizia con i francesi non fecero che aumentare. Quando finalmente suo padre morì, nel 1733, Maurizio si sentì libero di infrangere i patti e nominare suo figlio come erede al trono di Buda. Suo fratellastro Federico Augusto II, era sì disposto ad appoggiarlo, ma non condivideva la posizione filo-francese di Maurizio. Anche perché i francesi erano in termini molto, anzi, troppo amichevoli con i bavaresi, che sembrava avessero l'intenzione di sfidare l'egemonia sassone sugli stati dell'impero germanico. A questo punto, il conflitto tra il “patto di famiglia” Wettin e l'Italia sembra inevitabile. La Francia, anche per rendere la pariglia per lo scherzetto imperiale durante la guerra di successione lotaringia, si chiama fuori dai giochi. All'Italia anche la Russia-Lituania e la Baviera. Quest'ultima non tanto perché gli interessi chi governa in Ungheria, quanto, piuttosto, per guadagnare ancora territori.
Le scaramucce ad ovest non sembrano risolutive, visto che gli italiani avanzano in Croazia ma arretrano in Tracia e Macedonia, mentre i bavaresi non riescono ad entrare in Boemia ma occupano diverse città imperiali, tra cui Norimberga. Efficace invece è l'attacco su due fronti dei russo-lituani, che avanzano in profondità in Polonia ed in Galizia.
La guerra si trascina per due anni, dal '34 al '36. Fino a quando al sovrano di Baviera non viene in mente una soluzione piuttosto creativa per risolvere la situazione:
1) nessuno desidera una monarchia ereditaria Wettin su un altro enorme stato nell'Europa centrale
2) formalmente il re d'Ungheria è: re d'Ungheria, Croazia e Bulgaria, principe di Valacchia, Moldavia e piccolo Ponto
Conseguenza: rendendo uno di questi regni/principati indipendente e donandolo a Maurizio si accontentano i Wettin, si indebolisce la potenziale pericolosità del regno di S. Stefano, e si tranquillizzano italiani e russi.
Tutti si dicono favorevoli all'accordo: manca solo scegliere il territorio. Gli italiani danno il loro no sulla Croazia, mentre i russi dicono niet alla Moldavia. Alla fine, pur con qualche resistenza da parte di Pavia, si opta per la Bulgaria, unita al piccolo Ponto.
Maurizio pone la propria capitale a Tarnovo. Gli ungheresi non se la prendono troppo a male, visto che il regno Bulgaro non è mai stato troppo redditizio. Spiace più che altro per Mesembria, ma la Dobrugia è rimasta in mano loro, per cui conservano ancora un porto sul mar Nero. Non sanno che questo accordo è un precedente estremamente pericoloso.
Bandiera del regno di Bulgaria
L'America
Mentre in Europa le guerre di successione mutavano gradualmente il paesaggio politico, anche in America si prefiguravano i confini di quelli che sarebbero state le nazioni moderne.
Nel continente meridionale la situazione era questa:
La costa settentrionale e quella orientale erano occupate dalle tre grandi suddivisioni amministrative delle indie occidentali italiane: da nord a sud vi erano la Colombia, chiamata così in onore del grande ammiraglio portoghese (Hl: la parte settentrionale del Venezuela), la Guiana e la grande Grimaldea (HL: gran parte del nostro Brasile), chiamata così dai fondatori, ovvero la grande famiglia monegasca dei Grimaldi, che su licenza della corona aveva per prima posto delle basi sulle coste. Con il tempo lo stato era subentrato alle compagnie private, pur lasciando loro ampi spazi in ambito amministrativo, ed erano state fondate molte grandi città dai costumi europei. I principali profitti del paese provenivano dalle piantagioni di canna da zucchero e caffè a nord, e dall'estrazione di minerali preziosi a sud. Tuttavia molto presto erano state introdotte delle manifatture per coprire il bisogno di beni di consumo da parte dei ceti benestanti, bisogno che non riusciva ad essere interamente soddisfatto dalle industrie nazionali. A fronte delle proteste di queste ultime, tuttavia era stato vietato l'utilizzo della manodopera schiavile prelevata dall'Africa per gli opifici. Il loro uso era riservato alle piantagioni e alle miniere. Ed ecco che si va a toccare un argomento particolarmente doloroso della tarda epoca moderna: la tratta degli schiavi neri. Catturati da popoli di razziatori come i Fulani, venivano venduti a poco prezzo agli europei, caricati su navi in condizioni pietose, tali per cui non più di un terzo sopravviveva al viaggio e raggiungevano infine l'America, dove li attendeva una vita fatta di lavoro massacrante, e, in alcuni casi, anche maltrattamenti da parte dei padroni.
Tornando alla suddivisione politica, la parte occidentale e meridionale del continente era più variegata. La costa pacifica era appannaggio degli spagnoli (ma i colonizzatori erano quasi tutti portoghesi). Innanzitutto con la
Magaglia, chiamata così in onore del grande Magellano (HL: Colombia, Ecuador settentrionale, Venezuela interno, la parte interna pianeggiante del Perù centro-settentrionale e parte del Brasile amazzonico).
Più a sud, la cordigliera andina era dominata ancora dall'impero Inca, che, tuttavia si era largamente cristianizzato e a livello culturale si era molto europeizzato. I portoghesi erano inoltre molto diffusi nelle città, soprattutto nelle città portuali, di recente formazione.
A sud gli spagnoli occupavano anche una piccola fascia costiera a sud di Coquimbo, l'ultima città inca. Piccola soprattutto perché gli spagnoli non riuscirono ad andare molto più a sud del fiume Bìo Bìo. Prima, per colpa dei Mapuche, fiero popolo indigeno della regione. Poi per colpa dei guasconi. Ma poiché gli italiani rinunciarono a pretendere, secondo i loro diritti, l'estremità meridionale della costa atlantica, vi si insediarono gli spagnoli, che, col tempo, unirono la colonia atlantica a quella pacifica, chiamandola con un solo nome,
Patagonia. Come già detto, i guasconi si insediarono proprio nel territorio Mapuche. Ma anziché tentare di eliminare gli indigeni, decisero subito di allearsi con loro, evitando accuratamente di rubare loro territori. Guadagnandosi la loro fiducia, riuscirono persino a cristianizzarli (in parte). Gli europei, per la più parte si insediarono tra le isole e i fiordi della regione, per certi aspetti simile all'Inghilterra, o alla Norvegia, e decisero, per l'abbondanza di isole e isolette, di chiamarla
Nuova Dalmazia. Più tardi aggiunsero l'aggettivo “australe”, per differenziarla dalla Nuova Dalmazia boreale, la colonia che stavano fondando nell'America del nord. Il luogo di per sé non interessava ai guasconi come centro produttivo, ma come base d'appoggio per la propria attività di prateria e commerciale sulle coste del Pacifico. Nonostante tutto, finirono per rivendicare il possesso di quella regione, creando cantieri navali (vi erano boschi a volontà sulle coste) e diverse manifatture, che trasformavano le materie prime acquistate dagli inca. I guasconi avevano infatti avevano progressivamente eroso il monopolio ispanico sul commercio dell'impero andino e in alcune città avevano addirittura superato numericamente i portoghesi.
I guasconi non avevano solo questa colonia. Il loro centro principale, infatti era la già menzionata
Florina, da cui un tempo avevano minacciato di conquistare buona parte della costa della Grimaldea. Ora la colonia era limitata ad una striscia costiera, che però, da un punto di vista produttivo e commerciale era ancora importante.
Più a sud vi era la regione del Paranà, diviso tra Lotaringia, Francia e Inghilterra. La parte settentrionale, più grande, era dei primi, che l'avevano ribattezzata
Nuova Olanda. La striscia interna, compresa tra i fiumi Paranà e Uruguay, era dei secondi, che l'avevano chiamata
Mesopotamia (per il fatto di essere tra due fiumi). Infine gli inglesi avevano la parte meridionale, che in realtà con il fiume Paranà, nulla c'entrava. Gli italiani a suo tempo l'avevano chiamata Argentina, pensando che nel letto fiume (Argentino, appunto; ora detto Silver) vi fosse contenuto dell'argento. In realtà quando divenne chiaro che non c'era proprio nulla, gli italiani preferirono venderla ai lotaringi, assieme al resto del Paranà, nel periodo di difficoltà di metà '600, facendogli balenare ancora l'ipotesi che qualcosa c'era. Ma la verità non ci mise molto a venire a galla e sentitisi truffati, preferirono cederla agli inglesi, con cui già c'erano accordi di spartizione della regione. Londra accolse ben felice la possibilità di avere una colonia in America meridionale e la rinominò
Nuovo Galles del Sud.
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Capitania di Colombia
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Capitania di Guiana
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Capitania di Grimaldea
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Florina
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Nuova Dalmazia Australe
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Nuova Olanda
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Nuovo Galles del Sud
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Mesopotamia
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Patagonia
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Magaglia
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Nell'America centrale, invece la situazione era questa:
Il continente era quasi completamente dominato dalle colonie spagnole: Tristania e Messico. Per quanto riguarda le isole, tuttavia, la situazione era decisamente più fluida. Dare una cartina ben precisa dell'area non è facile, poiché i possedimenti delle varie potenze cambiavano di anno in anno. Sembrava che, a dispetto delle paci e delle guerre sul continente, per mare si combattessero guerre diverse, con regole diverse. E non sempre la madrepatria sembrava essere a conoscenza di tutti i dettagli. I principali contendenti erano lotaringi, francesi e italiani, a parte, naturalmente, gli spagnoli, che possedevano le isole più grandi e ricche, ma che non sempre erano in grado di difenderle a dovere da un punto di vista militare ed a volte erano veri e propri protettorati economici di altre potenze. A questi grandi contendenti si aggiungevano inglesi, guasconi, danesi e polacchi imperiali, che in diverse riprese avevano tentato di guadagnarsi un posto al sole, ma senza grandi successi (i danesi avevano occupato per diverso tempo le isole di san Tommaso, San Martino e sant'Eustachio; i guasconi avevano provato ad insediarsi a Portorico, alcune delle isole di San Giorgio e sulla stessa Portugheisa. Mentre i polacchi avevano tentato la conquista di Saint Croix, Vieques e Mona. Quest'ultima, però, riuscirà a restare imperiale fino all'ottocento, quando, in virtù degli avvenimenti in Europa, diverrà un protettorato degli E.U.A. Ma questa è un'altra storia...infine gli inglesi crearono diversi “regni” pirati in alcune isolette fuori mano del vastissimo arcipelago di San Giorgio).
I francesi occupavano le isole di sopravento settentrionali, la Giamaica ed un ampio pezzo della penisola dello Yucatan. I lotaringi avevano tentato, partendo dal vasto arcipelago di San Giorgio, di strappare Cuba agli spagnoli. Per un breve periodo vi riuscirono, per poi venirne scacciate dagli spagnoli aiutati dai francesi. Per qualche tempo rimasero insediati anche nell'arcipelago Camaguey e a Tortuga, ma anche da lì vennero, anche se con fatica, sloggiati. Mantennero però l'isola dei Pini, e, soprattutto, Cozumel, proprio davanti alla penisola dello Yucatan, una spina nel fianco, dal punto di vista del contrabbando, agli affari dei francesi in Messico e in Tristania. Per quanto riguarda gli italiani, infine, essi potevano contare (più o meno a seconda dei conflitti, è sempre bene ricordarlo) sulle isole sottovento e le isole sopravento meridionali. Inizialmente erano dipendenti dalla
capitania generale della Guiana. Poi, vista la “flessibilità” politica della regione, per una gestione più efficiente del territorio, le isole vennero scorporate, e venne creata la capitania generale delle Antille, con sede a Portolombardo, sull'isola della Santissima Trinità.
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Capitania generale delle Antille Italiane
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Indie Occidentali Lotaringie
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Antille Francesi
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Yucatan francese
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Giamaica francese
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Tristania
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Messico
Va però detto, che, per quanto riguarda l'America centrale, non era finita qui. I guasconi erano sì stati estromessi dai Caraibi, ma avevano mantenuto una tenace presa su alcune isole del Pacifico, da cui organizzavano il commercio tra centro-America e impero Inca, oltre che a vendere alcuni prodotti locali molto richiesti, come le perle.
Il loro dominio era rappresentato dalle isole di Coiba, dall'arcipelago delle perle, dalle isole Dortochàs (le Galapagos) e parte della penisola che gli spagnoli chiamavano California e che i guasconi avevano ribattezzato nuova Guascogna.
Colonie della Nuova Guascogna
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Infine l'America settentrionale:
Qui la divisione è allo stesso tempo semplice e complessa: semplice perché vi sono “solo” quattro potenze europee che si contendono il continente, Lotaringia, Francia, Inghilterra e Guasconi. Complessa perché nemmeno le potenze in questione (a cui andrebbero aggiunte le propaggini settentrionali del Messico spagnolo) sapevano esattamente quali erano i confini delle proprie colonie. L'interno infatti era sì rivendicato, con maggiore o minore insistenza a seconda dei casi, ma praticamente privo di insediamenti bianchi. A sud vi erano le colonie della nuova Fiandra, che si stavano specializzando nella coltivazione intensiva del cotone e, sulle pendici meridionali dei monti Appalachi, della vite, che vi trovava un clima non del tutto sfavorevole per la maturazione. Presto il vino della nuova Fiandra divenne ricercato quanto quello della Borgogna. Su tutta la costa orientale si stendeva il dominio coloniale francese. Si erano venute a creare molte città che ricalcavano quelle della madrepatria. Vi era una densità di popolazione particolarmente elevata e vi si produceva di tutto, dal momento che molti opifici vi erano sorti. Il vanto erano però i cantieri navali delle colonie settentrionali. Infine, sul banco settentrionale del san Lorenzo si trovavano gli inglesi, che, tuttavia, subivano la pressione dei coloni francofoni. Tra i tre, coloro che avevano i peggiori rapporti con la popolazione autoctona erano i francesi, forse per via del loro numero. Probabilmente è per questo che lotaringi e inglesi avevano in genere rapporti cordiali con alcune popolazioni indiane: il comune nemico. Va detto anche che i rapporti instaurati dai coloni della nuova Francia furono quasi da subito conflittuali, mentre i lotaringi si interessarono più che altro a mantenere rapporti cordiali. Ovviamente, nemmeno per i fiamminghi mancarono i problemi da questo punto di vista. Gli indiani, tuttavia, godettero presto di una potente difesa, ossia gli ordini religiosi. I gesuiti e i carmelitani si premurarono di portare la parola di Dio tra Cherokee, Creek e altri. La Chiesa era ancora influente, nonostante la secolarizzazione, e con tali paladini era difficile largheggiare in soprusi, da parte dei coloni bianchi. L'altra faccia della medaglia è che questi popoli indiani si “civilizzarono”, come si diceva all'epoca, perdendo progressivamente molti tratti della loro originale cultura. Discorso simile non si poteva dire al nord, dove i missionari inglesi convertirono sì diverse tribù al cattolicesimo, almeno in forma superficiale, ma il numero di inglesi non fu mai tale da indurre tali popoli a mutare il loro stile di vita. Anzi, semmai erano i bianchi che adottavano alcuni degli elementi della cultura indiana.
Sulla costa orientale, invece, i guasconi avevano piantato, da intrepidi navigatori quali erano, diverse basi, fin su, nell'estremo nord. Avevano ribattezzato le isole di cui avevano preso possesso con il nome di nuova Dalmazia boreale. Spinti dal desiderio di trovare il famoso “passaggio a nord-ovest”, non trovarono però mai quello che cercavano. Il passaggio infatti era poco conveniente, per via del ghiaccio e della pericolosità dei bassi fondali. Ad ogni modo, continuarono ad osare avventurarsi nel nord per lungo tempo, tanto da costruire basi per la pesca alle balene anche nelle isole Aleutine e la penisola di Kamchatka. Grazie ad esse potevano persino arrivare all'isola di Ezo-chi e commerciare con coreani e giapponesi, per quanto fosse un commercio limitato e certamente poco conveniente rispetto alla grande via del mar cinese meridionale.
Colonia del Canadà inglese
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Nuova Fiandra
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Nuova Francia
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Nuova Dalmazia Boreale
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In Asia
Anche oltre i confini orientali dell'impero persiano il mondo non era rimasto fermo.
L'india era ancora divisa in molti stati diversi, ma era chiaro che ormai i giochi si facevano tra pochi, grandi regni.
A nord-ovest vi era la regione del Punjab. Nel corso dei tentativi di espansione dell'impero persiano ad oriente, il controllo di questa regione passò diverse volte di mano, considerata, ricca, fertile ed importante crocevia per le carovaniere che portavano nella steppa e poi in Cina. I punjabi ben presto considerarono come feroci invasori e mortali nemici sia gli eserciti dello Shah sia le armate Rajput. Questo anche perché si era diffusa tra il popolo una nuova religione, il sikhismo. Creata dal guru Nanakh, è una specie di monoteismo che fonde elementi presi dall'islam, dal cristianesimo (per influenza dei gesuiti del Gujarat), dall'induismo e dal giainismo. Ma prima di essere un nuovo credo è anche un fenomeno creatore di un'identità “protonazionale”.
Con il lento declinare delle fortune persiane in India i regni punjab iniziarono ad unirsi in una potente confederazione, in grado di respingere qualsiasi invasione dal nord e dal sud. Si trattava di uno stato ricco e florido. Gli italiani capirono abbastanza velocemente che, in quanto nemici sia dei persiani sia dei rajput, potevano essere un alleato strategico per il consolidamento della loro presenza nell'India.
Tutto l'Hindustan occidentale era invece controllato dall'impero Rajput. Partiti nel medioevo come clan di cavalieri amanti della guerra e spesso in conflitto tra loro, vennero unificati, inizialmente, dalla necessità di combattere contro l'avanzata persiana. Fu il re di Mewar, Maharana Udai Singh II (1522-1572) che diede ai rajput una struttura imperiale. Sconfisse più volte i persiani in condizione di inferiorità numerica, grazie anche all'aiuto dell'artiglieria comprata dagli italiani (per quanto temessero lo Shah e non gli dichiarassero mai guerra, gli occidentali non disdegnavano l'idea di aiutare i suoi nemici) e delle condizioni del territorio, poi detto del Rajasthan. Spinti dai suoi successi, sempre più regni e clan si posero sotto la sua protezione o si allearono con lui. Dopo aver inflitto agli eserciti del sultano di Delhi, alleatosi con i persiani, una disastrosa sconfitta presso Chittor, nel 1559, decise di fondare una nuova città, da erigere a capitale di quello che comunque rimaneva un eterogeneo agglomerato di territori dai ben poco chiari confini e uniti più che altro dal carisma del leader. Viene così costruita Udaipur, poi soprannominata la “Venezia indiana”.
Non era la prima volta che vi erano dei tentativi di unificazione dell'area da parte di un capo particolarmente abile. Tutti, però, finivano solitamente quando moriva l'uomo forte, poiché i figli non erano in grado di continuare l'opera paterna. In questo caso, tuttavia, ad un grande sovrano ne successe uno ancor più grande. Il figlio di Udai, Pratap Singh, continuò l'opera del padre con energia ancora maggiore. Divenne l'eroe indù per eccellenza, colui che combatte contro le orde musulmane. Come generale per conto di Udai prima e come sovrano poi, sconfisse l'ultima invasione persiana dell'India, con forze decisamente inferiori. Il vero pericolo, però, era nel frattempo divenuto un altro. Il sultanato di Delhi, sotto la casata dei Lodi, era in piena decadenza. I rajput, dopo la schiacciante vittoria di Chittor non avevano molto badato al suo destino, se non per eroderne progressivamente i confini.
Tutto cambiò quando l'ultimo dei Lodi di Delhi cedette quanto restava del sultanato ad una potenza indiana di fede islamica in rapida ascesa, il nawab del Bengala. I bengalesi divennero da quel momento la nemesi dei rajput. Praticamente dalla sua ascesa al trono fino alla sua morte (nel 1611. Nella nostra TL muore nel 1597 per un incidente di caccia) Pratap combatterà contro i nawab. I rapporti con gli italiani saranno molto più freddi rispetto a quelli che aveva suo padre. Infatti, finché il rajasthan era un argine per la penetrazione persiana in India andava bene. Meno bene se erano le premesse per la nascita di un regno potenzialmente egemone nell'India nord-occidentale.
Ad ogni modo, i bengalesi lanciarono una campagna in profondità e nel 1576 inflissero una pesante sconfitta ai rajput nella battaglia del passo di Haldighati. Per un breve periodo il sultanato di Bengala sembrò sul punto di conquistare l'intero Hindustan. Tuttavia la battaglia fece quasi più bene allo sconfitto che ai vincitori. Innanzitutto perché, in ragione della politica dell'equilibrio di forze, gli italiani offrirono, a questo punto una alleanza ai rajput. In secondo luogo perché molti signorotti indù, temendo di finire inglobati dai possessi bengalesi, finirono per aumentare i ranghi dell'esercito di Pratap. In terzo luogo perché il sovrano intuì che era necessario un nuovo modo di combattere contro Delhi, fatto di azioni rapide e distruttive per cogliere di sorpresa l'avversario e non aspettare di affrontare l'avversario in campo aperto in epici scontri campali fidando sulla maggiore abilità di manovrare i temutissimi elefanti da guerra. Il punto di svolta decisivo fu la battaglia di Dewair, nel 1582. I bengalesi furono annientati ed abbandonarono le parti del Rajasthan che erano riusciti ad occupare. Ajmer venne riconquistata pochissimo tempo dopo, poi cominciò la grande avanzata verso nord-est raccontata da molti poeti indù. Prima fu la volta della battaglia di Mathura, in cui il sovrano riuscì a varcare lo Yamuna con un grande esercito. Poi, nel 1586, la conquista di Delhi. Quella che era stata la capitale storica degli invasori musulmani per quasi quattrocento anni, tornava nelle mani di un sovrano indù dopo più mezzo millennio. Pratap Singh si mostrò relativamente tollerante nei confronti dei musulmani rimasti in città, almeno in un primo momento, permettendogli di restare in cambio del pagamento di un tributo (lo considerava una sorta di “rimborso” dei lunghi anni in cui si era praticata la Jizya). Dopo la grande conquista, si fermò per qualche anno. Organizzò amministrativamente il suo regno, accentrando diverse prerogative locali sotto il suo controllo e rendendosi per questo inviso a molti piccoli signori che gli avevano giurato fedeltà inizialmente. Tuttavia, inflessibile, stroncò una dopo l'altra le opposizioni, foraggiate anche da bengalesi, e, forse, anche italiani e turchi. Mandò, pur senza molta convinzione, un esercito per occupare il Punjab, con i risultati già sottolineati. Tuttavia, dalla metà degli anni '90 del '500, il suo spirito irrequieto lo indusse a riprendere le sue campagne di conquista. Buon momento, poiché i bengalesi avevano altro cui pensare, afflitti da torbidi interni e conflitti nell'Orissa, contro il regno Gajapati. In breve, alla sua morte aveva posto il suo controllo su tutta la valle dello Yamuna e l'alto corso del Gange.
Nel Deccan centrale c'era invece una situazione più frammentata. Nell'ovest vi erano diversi sultanati, come Malwa, Kandesh (sempre più orbitanti intorno ai rajput), Ahmadnagar e Bijapur. A est vi era invece il grande e piuttosto pacifico Gondwana, ed il regno di Golconda, che aveva presto il posto del sultanato Bahmani. Forte della sua imprendibile capitale, era riuscito a tenere testa non solo ai propri antichi signori (i Bahmani), ma anche a regni di gran lunga più potenti come Vijayanagar e gli Orya del regno Gajapati, esteso sulla costa orientale dell'India dal delta del Gange fino a quello del Godavari, anche se dall'inizio del '500 era entrato in una profonda fase di decadenza.
A sud invece, come abbiamo accennato, vi era il potente impero di Vijayanagar, che, forte anche della precoce alleanza con gli italiani, si era arricchito ulteriormente, aumentando di molto il volume del proprio commercio. Era dotato di una forza militare temibile, in più una delle prime del sub-continente a dotarsi di armi da fuoco come gli archibugi e più tardi i moschetti.
Last but not least: gli italiani e gli altri occidentali: sappiamo già delle colonie italiche nel Gujarat. Il dominio del banco di San Marco si era esteso ed alla fine, l'intero regno era passato in mani italiane. In seguito, giocando sulla potenza della propria flotta, del proprio esercito e giocando abilmente a livello di politica locale, il dominio indiano si era espanso ulteriormente, fino ad occupare un lungo tratto della costa occidentale, fino a Goa. La concorrenza spagnola non era mai riuscita a ribaltare il grave svantaggio accumulato ed era riuscita ad accaparrarsi pochi porti, come Goa, appunto, e Cannanore. Per un breve periodo gli spagnoli sperarono di potersi avvalere dell'alleanza di Vijayanagar, che pareva disposto ad un'alleanza. Quando però l'impero meridionale scelse di appoggiare gli italiani, per le colonie spagnole lo spazio si restrinse ancor di più (anche se lo stesso impero di Vijayanagar aveva interesse a che alcuni fondachi spagnoli sopravvivessero, per far tenere la guardia alta agli italiani e permettere che una ragionevole quota di commerci con l'Europa fosse di contrabbando).
Nel corso del XVII secolo la situazione non cambiò molto: Il Sindh si rese progressivamente indipendente dalla tutela persiana; i rajput si espansero verso sud-est, “mangiandosi” Malwa e Kandesh, mentre Bengala, Vijayanagar e Golconda si spartirono il regno Gajapati. Gondwana stessa finì sotto la tutela dei nawab, mentre in Ahmadnagar e Bijapur, i sultanati si indebolivano per via di nuove forze, i maratti, stirpe indù che stava unendo in una sorta di federazione il Deccan centro-occidentale. Altra novità fu l'arrivo di altri europei, i guasconi, che si assicurarono l'amicizia bengalese e l'occupazione di alcuni porti dell'ex regno Gajapati.
Nel XVIII secolo il quadro si era ulteriormente semplificato: Punjabi a nord-ovest; Rajput nell'Hindustan (e, nella nostra TL, le regioni di Uttar Pradesh occidentale, Uttarakhand e Madhya Pradesh) occidentale, a est il Bengala; al centro la confederazione maratti; al sud Vijayanagar (che si era conquistata Golconda). In più sulla costa occidentale e nel Gujarat gli italiani, che però potevano vantare una fortissima influenza su gran parte delle corti indiane, in particolare nel Rajput, tornato amico, e, soprattutto, nel Vijayanagar. A est, invece, oltre ai guasconi, avevano fatto una breve apparizione anche i francesi. Tuttavia il loro tentativo di acquistare potere nel Bengala si era risolto in un sostanziale fallimento, che li aveva indotti a cercare fortuna più a est. I guasconi, al contrario avevano avuto più successo, ed anche loro potevano contare il controllo di diversi territori, soprattutto nella zona di
Gondwana.
Più a est, nell'Indocina, la presenza occidentale era meno rilevante. Gli italiani erano presenti a Pegu, sul delta dell'Irrawaddy, ma invece che abbattere la rete dei mercanti locali per sostituirsi a loro, avevano preferito lasciare ai Mon il ruolo di intermediari locali tra India ed Indocina. Forse perché non li ritennero mai competitori pericolosi, forse perché temevano che una conquista avrebbe potuto deviare risorse economiche verso il faticoso controllo del territorio, come già avveniva a Giava e, soprattutto, Sumatra. Ad ogni modo, causarono indirettamente la ricchezza di Pegu e la sua capacità di resistenza contro il regno birmano di Toungoo, che non fu mai in grado di ottenere la posizione dominante che aveva il regno di Ava nel medioevo. Toungoo fu più volte costretto a fronteggiare tentativi di conquista dei siamesi e non riuscì mai fino in fondo a far cessare l'autonomia de facto dei principati Shan. A proposito dei siamesi, nemmeno loro riuscirono ad unificare i regni del sud-est asiatico, sebbene fossero la potenza egemone. Anche perché nel XVIII secolo i francesi iniziarono a ottenere concessioni economiche e territoriali dai Dai Viet, in cambio di aiuto militare contro i nemici dell'ovest (siamesi) e del nord (cinesi).
Veniamo infine all'Indonesia. La penetrazione occidentale, al contrario, tra le isole era iniziata già dal primo XVI secolo, con la competizione tra spagnoli e italiani. Ad essi si erano aggiunti in seguito i guasconi, la cui offensiva tolse posizioni, anche in concomitanza a quanto avveniva in altre parti del mondo, ai primi sfruttatori della regione. Tuttavia, lentamente l'offensiva calò d'intensità, fino ad esaurirsi. I guasconi non avevano tanti e tali mezzi da poter scardinare completamente l'egemonia conquistata dagli italiani, che in questa parte di mondo erano informalmente alleati con gli spagnoli contro i nuovi arrivati(al contrario di quanto accadeva in America), anche se i primi manterranno il controllo di diverse isole ed una propria proficua rete commerciale, integrata nel circuito Africa-India-Cina. Più pericoloso fu l'arrivo nell'agone dei francesi, che potevano disporre di maggiore forza d'urto. Tuttavia per Parigi il teatro coloniale primario fu sempre il dominio delle tratte atlantiche, mentre l'oriente fu sempre visto come un obiettivo secondario, più per attuare un opera di disturbo che per un serio progetto di conquista. Ad ogni modo, ottennero larga influenza sui Dai Viet e sul sultanato di Brunei, soppiantando di fatto i portoghesi nel commercio del mar cinese meridionale. Nota finale, l'acquisto di Luchino Maria dei diritti di possesso sulla Corsalia. Gli italiani pensavano fosse un deserto privo di risorse e mai misero piede sull'isola (di cui avevano una conoscenza piuttosto vaga, peraltro). Ma la fascinazione dovuta ai resoconti degli esploratori indusse il nuovo sovrano di Aquisgrana, all'inizio del XVIII secolo a convincere suo padre a cedergli i diritti di colonizzazione su quella parte di mondo. Venne avviata una colonia sull'isola di Tasmania, in onore dell'esploratore Abel Tasman, che per primo vi approdò nel lontano 1635. La costa sud-orientale dell'isola venne invece ribattezzata Nuovo Artois meridionale.
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Capitania generale delle indie orientali italiane
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Indie orientali spagnole
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Indie orientali guasconi
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Più a nord dell'Indonesia e dell'Indocina vi era il grande impero cinese. Anch'esso non era rimasto immutato. I Ming infatti erano entrati in decadenza, innanzitutto per ragioni interne: la corruzione e l'immobilismo delle classi burocratiche avevano creato una stagnazione sia politica sia economica, che aveva avuto pesanti ricadute dal punto di vista sociale; gli occidentali avevano introdotto dall'America il granoturco, che aveva una resa molto maggiore dell'orzo e del miglio. Nel nord secco questa pianta aveva riscosso tale successo da generare un notevole aumento demografico. Il problema era però che tale aumento della popolazione non generò ulteriore aumento della produttività dei campi, anche perché l'aumento di manodopera, in una società rigida come quella che si era venuta a creare, aveva contribuito all'abbandono di diverse tecnologie che pure erano presenti in Cina. Il lavoro dell'uomo, alla fine, veniva a costare di meno. Questo generò a lungo andare una serie di carestie, cui seguirono rivolte a sfondo sociale che minarono profondamente la stabilità dell'impero. A far scricchiolare le fondamenta della Cina contribuirono anche cause esterne: innanzitutto gli occidentali. A parte la predicazione del cristianesimo, l'aumento della dipendenza, a livello commerciale, dalle reti creati dai mercanti europei, era evidente. Se questo tornava ancora, all'inizio del settecento, a vantaggio della bilancia commerciale cinese, presto non sarebbe più stato così. In seconda posizione, venivano gli avvenimenti oltre il confine settentrionale. La cauta apertura all'occidente della dinastia Joseon, lungi dal far divenire la Corea un protettorato europeo, ne aveva accresciuto la potenza. I coreani scambiavano prodotti cinesi e giapponesi con l'Europa, perlopiù in cambio di armi. I cinesi, infatti a parte Macao, avevano impedito la residenza ai bianchi sul suolo cinese. Questo però tornava utile all'impero Joseon, più disponibile al dialogo e che aveva “aperto” alcuni porti e concesso, alla stregua di Macao, l'isola di Queju agli italiani.
Conseguenza di ciò fu anche che l'impero coreano attuò una politica espansiva a nord-ovest, ponendo sotto il proprio controllo gli Jurchen, poi detti Manciù, abili e temuti cavalieri, per poi sopperire alla pressione demografica creando colonie e avamposti militari nel loro territorio, o nelle semi-disabitate regioni costiere del Wusuli (dove sorge Vladivostok nella nostra TL).
Altra direttrice dell'espansione coreana fu il Giappone. I Giapponesi non erano barbari come gli Jurchen, tuttavia gli Shogun del clan Tokugawa non erano riusciti ad unire completamente tutti i signori (Daimyo) sotto il proprio controllo, in particolare i Daimyo esterni del Kyushu, isola che ben presto finì sotto le influenze degli occidentali e dei coreani. Parimenti i signori di Ezo-chi, “l'isola dei barbari del nord”, si avvalse dell'appoggio dei Joseon per rimanere fuori dall'orbita di Edo (Tokyo), per finire, però, a propria volta, nella rete di protettorati dei coreani (e con i guasconi in alcune città costiere).
La potenza coreana, forte della sua influenza, lentamente invertì la tendenza storica: i Joseon infatti, presero, almeno dagli anni '30 del '600 ad intervenire nella politica cinese, garantendosi appoggi, amicizie, foraggiando signori e, da ultimo, cullandosi nella possibilità di rovesciare i Ming per garantirsi un imperatore cinese loro protetto.
Mentre gli imperatori di Pechino erano sempre più deboli e più che altro impegnati a sopravvivere agli intrighi di corte, rivolte agrarie scoppiavano un po' ovunque nell'impero. Gli aderenti, confuciani ma anche cristiani, dell'accademia Donglin, perseguitati sotto il governo dell'imperatore Tianqi, si rifugiarono in Corea, contribuendo a far cadere la popolarità della dinastia Ming. Nella sua follia, il Chongzen, successore di Tianqi, pensò bene di lanciare una campagna militare, per ripicca, contro i Joseon. Ma mentre gli eserciti cinesi si facevano sorprendentemente sconfiggere dalla cavalleria manciù, integrata nell'esercito coreano, la ribellione nelle regioni di Shanxi e Shaanxi assumeva tratti preoccupanti. Finanziato e armato dai coreani, il capo-popolo Li Zicheng, approfittando dell'assenza di truppe, impegnate a nord, arrivò nel 1644 a Pechino con i suoi uomini, e pose a sacco la città. Chongzen nel frattempo, per non cadere nelle sue mani si suicidava. I coreani né volevano conquistare la Cina, né pensavano di poterci riuscire (mancavano del sano menefreghismo nei confronti del timore reverenziale e di considerazioni non strettamente militari che ebbero i Manchu nella nostra TL), pertanto si limitarono a salutare Li Zicheng come nuovo imperatore, in cambio, ovviamente, di doni, tributi, facilitazioni economiche e quant'altro potesse giovare loro.
Il problema fu però l'incapacità del nuovo imperatore a eliminare la minaccia rappresentata dal lealismo Ming a sud del fiume Huai. I lealisti non riuscirono a formare un fronte compatto, e le armate sino-coreane della nuova dinastia Shun furono più volte sul punto di schiacciare le rivolte. Ma qualcuno sempre sfuggiva.
L'ironia della sorte fu che la bandiera del lealismo, dopo essere passata nelle mani di generali mediocri, fu innalzata dal valente generale Wu Sangui (che nella nostra TL passò abbastanza presto, una volta capita l'antifona, ai Qing), che era stato mandato da Li Zicheng a reprimere gli ultimi focolai di rivolta nello Yunnan.
Le sue truppe amavano di più lui che la causa per cui erano stati inviati nella regione e rimasero perlopiù al suo fianco. I contingenti coreani, invece, non tentarono nemmeno di combattere, ma presero e se ne tornarono a Pechino. Tutti i simpatizzanti dei Ming tornarono allo scoperto e si unirono a Wu, che nel giro di breve tempo conquistò alla sia causa Guanxi, Guandong e Fujian; in un secondo momento, approfittando del fatto che rivolte pro-ming erano scoppiate anche al nord, e che l'esercito di Li Zicheng aveva concentrato i suoi sforzi per reprimerle, Wu prese il controllo anche dello Hunan.
Li Zicheng supplicò nuovamente i coreani di dargli una mano, anche perché anche mongoli e tibetani (sotto l'influenza mongola), vista la situazione, avevano iniziato una serie di raid a scopo saccheggio. Nel frattempo, anche l'offensiva verso nord di Wu si era fermata, interrotta dal suo desiderio di porre sotto il proprio controllo il Sichuan, controllato ancora da Zhang Xianzhong, che aveva tenuto in scacco tra le zone montuose del Sichuan, molti suoi nemici. Ora però, per via degli attacchi tibetani, era in difficoltà.
Wu diresse personalmente l'attacco contro Chengdu, ma, dopo poco, Zhang gli offrì la propria resa e la sottomissione del Sichuan alla causa di Wu. In seguito, il grande generale passò all'offensiva, passando il Chang Jiang.
Ma, domate le ribellioni e ottenuti nuovi aiuti dai Joseon e dagli italiani, l'esercito di Pechino resse e vinse alcune battaglie, anche se non risolutive. Tuttavia, quando fu la volta di Wu essere in difficoltà, accorsero in suo aiuto i francesi, che chiesero Hainan e, nel caso, Formosa (la cui costa settentrionale era già occupata dagli italiani) in cambio del proprio sostegno. A queste pretese si oppose il generale della flotta Zheng Chenggong, che addirittura voleva scacciare il contingente francese. Parigi, visto che non otteneva nulla sparando troppo alto, si accontentò a questo punto dei piccoli porti di pescatori di Xuwen e Haikou, tra l'isola di Hainan ed il continente, assieme a qualche piccola isoletta lì intorno.
Ad ogni modo, nemmeno con tale sostegno, Wu riuscì a intraprendere la grande avanzata verso nord che aveva in mente. Fermò la sua avanzata alle porte di Nanchino
Nel 1653 ambedue le parti erano esauste e decisero di siglare una tregua.
Per il momento vi erano, come era già accaduto in passato, due imperatori: uno al nord, a Pechino ed uno al sud, a Nanchino, comandati dall'imperatore Shunzhi a nord (Li Zicheng) e dall'imperatore Guoxingye (Zheng Chenggong. Ovviamente, deteneva il potere assieme a Wu Sangui) a sud.
Anche se ambedue le dinastie reclamavano il possesso dell'intera Cina, la situazione era destinata a durare. Il pericolo dei mongoli occupava i pensieri a Pechino come a Nanchino. I tibetani chiesero più volte aiuto ai cinesi, perché li liberassero dalla soffocante tutela mongola, ma ambedue gli stati ottennero risultati molto modesti.
Alla fine del XVII secolo, tuttavia, le ambizioni dei mongoli iniziarono a farsi troppe per le loro forze. Le razzie contro la Manciuria, l'ostilità dei turchi a ovest, la mal tollerata “protezione” del Tibet e il perdurante conflitto con i cinesi causarono il loro crollo. Cinesi e coreani mossero contro di loro approfittando di alcuni disordini interni dovuti al pessimo andamento del conflitto per la Zungaria. Conquistarono Hohhot e catturarono vivo Edzej Khan. Il territorio venne progressivamente affidato ad amban (governatori militari) cinesi o mancesi, che obbedivano all'autorità di Pechino. Dopo questi eventi, i tibetani iniziarono la loro ribellione, sottomettendo, infine, i mongoli che risiedevano nel loro paese. I Ming meridionali tentarono inutilmente di approfittare della situazione per prendere a loro volta il controllo del Tibet, ma vennero respinti.
Eliminato il pericolo immediato, gli Shun, intorno al 1720, videro l'opportunità per concludere l'opera rimasta interrotta settant'anni prima. Alleatisi con i tibetani, marciarono su Nanchino. I Ming meridionali, morto Wu Saguei non ebbero più un brillante generale in grado di difendere efficacemente la loro causa. Inoltre, molto presto iniziarono a ripetersi al sud gli errori che erano costati il dominio di mezza Cina. Corruzione dilagante, elefantiasi della macchina burocratica, peraltro inefficiente, vendita degli uffici militari a personaggi tanto ambiziosi quanto inetti.
Non che tali situazioni non ci fossero al nord, ma, quantomeno, la macchina bellica con il contributo coreano era stata migliorata e il governo di Pechino aveva potuto beneficiare di una maggiore integrazione nel circuito economico regionale controllato dai Joseon e dagli italiani, mentre lo xenofobo senso di superiorità nei confronti degli stranieri e dei barbari che aveva contraddistinto i Ming era continuato anche nel loro esilio al sud, e con esso un certo isolamento economico.
In questa occasione non vi furono grandi sollevazioni in favore della vecchia dinastia in grado di contrastare efficacemente l'esercito settentrionale. Anche perché il governo di Pechino si premurò di guadagnare alla propria causa molti degli uomini forti della corte meridionale corrompendoli, e garantendoli che i loro possedimenti e privilegi non sarebbero stati toccati in maniera rilevante.
Nel 1721 vennero distrutte le ultime sacche di resistenza nello Yunnan, mentre l'imperatore Yongzheng poteva festeggiare la riunificazione del celeste impero.
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