In questo approfondimento analizzeremo quantitativamente l'esperienza di Michelson-Morley, di cui si è già parlato nel paragrafo 1.2. Il dispositivo sperimentale da essi usato è mostrato schematicamente nella figura qui sotto, dove S è una sorgente di luce monocromatica, ed M1 ed M2 sono due specchi posti alla medesima distanza l (misurata da un osservatore terrestre) dalla lastra di vetro P. La luce proveniente da S, quando raggiunge P, viene trasmessa parzialmente verso M1, e riflessa parzialmente verso M2. 1 raggi riflessi in M1 ed M2 ripercorrono i loro cammini, e possono raggiungere l'osservatore in O'.
Figura 1
Osserviamo che il cammino luminoso disegnato in figura 1 è relativo al sistema O'x'y'z' in movimento con la terra, rispetto alla quale l'interferometro è in quiete. Il dispositivo sperimentale usato effettivamente da Michelson e Morley è illustrato nella figura 3 (tratto dalla rivista Scientific American).
Sia c la velocità della luce misurata da un osservatore stazionario rispetto all'etere. Indichiamo con v la velocità (presunta) della terra rispetto all'etere, ed orientiamo 1'interferometro in modo tale che la linea PM1 sia parallela al moto della terra.
Se usiamo le trasformazioni galileìane troviamo che, rispetto alla terra, la velocità della luce nel passare da P a M1 è c – v, nel passare da M1 a P è c + v. Pertanto, il tempo necessario perché la luce vada da P a M1 e ritorni in P, misurato da un osservatore terrestre O', è:
Più difficile è determinare la velocità della luce nel passare da P a M2 o da M2 a P. La situazione è resa complessa dal fatto che, se la Terra è in movimento, il cammino effettivo nell'etere – supposto immobile – del raggio di luce è quello che appare in fig. 2. In essa lo specchio semiargentato è stato rappresentato due volte, all'istante 0 e all'istante t'.
Dato che i segmenti PM2 ed M2P hanno ugual lunghezza, basterà calcolare il tempo impiegato dalla luce a percorrere una delle due, e raddoppiare il risultato.
Indicando con Δt il tempo impiegato dalla luce per percorrere il tratto PM2, e tenendo conto del fatto che questo tratto viene percorso a velocità c, si ottiene:
da cui:
ovvero:
Dunque il tempo impiegato dalla luce per per andare da P a M2 e ritornare a P, misurato da O', è pari a:
(tP' sta per tempo misurato in direzione parallela, tH' sta per tempo misurato in direzione ortogonale al moto della Terra rispetto all'etere)
Osserviamo che tP' e tH' sono differenti, cioè i raggi che raggiungono l'osservatore O hanno una certa differenza di cammino e dovrebbero dar luogo a delle frange di interferenza. Sorprendentemente, invece, Michelson non osservò alcuna frangia di interferenza; ciò suggerisce che tP' = tH'. Per risolvere questo enigma, Lorentz e, indipendentemente, Fitzgerald, proposero che tutti gli oggetti che si muovono attraverso l'etere subiscano una contrazione « reale » nella direzione del moto e che questa contrazione sia proprio sufficiente a far sì che tP' = tH'. Ciò significa che la lunghezza che compare in tP' non deve essere uguale alla lunghezza in tH', poiché la prima è misurata nella direzione del moto della terra, mentre l'altra è perpendicolare ad essa. Scrivendo l al posto di l' nell'espressione di tH' si ha:
Uguagliando le espressioni di tP' e tH' otteniamo, dopo aver semplificato:
Questa espressione fornisce la relazione fra le lunghezze PM1 e PM2 misurate da un osservatore O in quiete rispetto all'etere. L'osservatore O' non dovrebbe osservare questa contrazione, dato che il regolo che egli impiega per misurare la distanza PM1 è pure contratto nella stessa misura di PM1 quando viene posto nella direzione del moto della terra! Così, per lui, le lunghezze PM1 e PM2 sono uguali. Ma l'osservatore O dovrebbe ridere delle preoccupazioni di O', perché secondo lui O' è in moto e, secondo le ipotesi di Lorentz e Fitzgerald, gli oggetti che esso porta sono accorciati nella direzione del moto. Così O conclude che la lunghezza « reale » di PM1 è l e quella di PM2 è l'; questa differenza « reale » in lunghezza è all'origine del risultato negativo ottenuto esaminando l'interferenza dei due fasci di luce.
Naturalmente, una spiegazione alternativa del risultato negativo dell'esperienza di Michelson-Morley consiste nel supporre che la velocità della luce sia sempre la stessa in tutte le direzioni, indipendentemente dallo stato di moto dell'osservatore. Allora l'osservatore O' usa c per tutti i cammini luminosi della fig. 1, e quindi tP' = tH' = 2l'/c. Questa fu proprio la posizione assunta da Albert Einstein nel formulare il suo principio di relatività. Chi ha già affrontato lo studio dell'unità 2 può affermare che la contrazione « reale » ipotizzata da Lorentz per spiegare il risultato negativo dell'esperienza di Michelson-Morley sia esattamente la stessa contrazione (2.8) ricavata nel paragrafo 2.4 usando il postulato dell'invarianza della velocità della luce!
C'è però una differenza fondamentale fra le due rispettive ipotesi introdotte per ottenere questi due risultati apparentemente identici: la contrazione (1.6) è stata ottenuta per mezzo della trasformazione galileiana (0.1), e si suppone sia una contrazione reale subita da tutti i corpi che si muovono attraverso l'etere, poiché la v che appare nella formula è la velocità dell'oggetto rispetto all'etere. La contrazione (2.8), invece, si riferisce soltanto al valore misurato della lunghezza dell'oggetto in moto rispetto all'osservatore, ed è una conseguenza dell'invarianza della velocità della luce; la v che compare nella formula è la velocità dell'oggetto rispetto all'osservatore, e dunque la contrazione è differente per osservatori differenti. Fu il genio di Einstein che lo portò a rendersi conto del fatto che l'idea dell'etere era artificiosa ed inutile, e che la spiegazione logica era invece la seconda. E questo lo portò ad introdurre il secondo postulato ed a formulare il principio di Relatività Ristretta.