Parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude  


Non altrimenti il trïunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude,

a poco a poco al mio veder si stinse...

(Par. XXX, 10-13)

 

Abbiamo visto nei capitoli precedenti quanto sia importante per Dante l'osservazione delle stelle. Ma, se leggiamo con attenzione un passo del Paradiso, ci accorgeremo che egli ha spinto il suo sguardo ancora più addentro nelle profondità del cosmo. Ecco i versi a cui mi riferisco:

« Come distinta da minori e maggi
lumi biancheggia tra' poli del mondo
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;
sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo. » (Par. XIV, 99-104)

La protagonista di questi versi è la Via Lattea, che ai tempi di Dante era considerata la "Galassia" per antonomasia (e l'unica conosciuta), dal greco Γαλαξίας, "lattea". Come essa si distende fra i due poli celesti, apparendo all'osservazione come una striscia biancheggiante, e mantiene nel dubbio i più saggi circa la sua vera natura, cos' dentro il corpo del pianeta Marte due raggi uniti a mo' di costellazione formano il venerabile segno della croce, costruito dall'intersezione ad angolo retto delle linee di congiunzione dei diametri di un cerchio (cioè una croce greca, a bracci uguali). I "ben saggi" cui Dante accenna sono Aristotele (nei "Meteorologica"), Alberto Magno ed altri. Dante espone nel Convivio alcune delle loro opinioni:

« È da sapere che di quella Galassia li filosofi hanno avute diverse oppinioni. Chè li Pittagorici dissero che 'l Sole alcuna fiata errò ne la sua via e, passando per altre parti non convenienti al suo fervore, arse lo luogo per lo quale passò, e rimasevi quella apparenza de l'arsura: e credo che si mossero da la favola di Fetonte, la quale narra Ovidio nel principio del secondo di Metamorfoseos. Altri dissero, sì come fu Anassagora e Democrito, che ciò era lume di sole ripercusso in quella parte, e queste oppinioni con ragioni dimostrative riprovaro. Quello che Aristotile si dicesse non si può bene sapere di ciò, però che la sua sentenza non si truova cotale ne l'una translazione come ne l'altra. E credo che fosse lo errore de li translatori; chè ne la Nuova pare dicere che ciò sia uno ragunamento di vapori sotto le stelle di quella parte, che sempre traggono quelli: e questo non pare avere ragione vera. Ne la Vecchia dice che la Galassia non è altro che moltitudine di stelle fisse in quella parte, tanto picciole che distinguere di qua giù non le potemo, ma di loro apparisce quello albore, lo quale noi chiamiamo Galassia: e puote essere, chè lo cielo in quella parte è più spesso e però ritiene e ripresenta quello lume. E questa oppinione pare avere, con Aristotile, Avicenna e Tolomeo. Onde, con ciò sia cosa che la Galassia sia uno effetto di quelle stelle le quali non potemo vedere, se non per lo effetto loro intendiamo quelle cose, e la Metafisica tratti de le prime sustanzie, le quali noi non potemo simigliantemente intendere se non per li loro effetti, manifesto è che 'l Cielo stellato ha grande similitudine con la Metafisica » (Convivio II, XIV, 5-8)

Sorprendentemente, qui Dante anticipa con grande acutezza proprio ciò che noi impariamo fin da bambini, e cioè che la Via Lattea altro non è se non un immenso agglomerato di stelle, troppo dense e lontane per essere risolte una per una! Ma nel passato le opinioni erano ben diverse e molto varie. Fin dall'antichità ci si era accorti che nel cielo notturno, tra le altre stelle, si distingueva un alone biancastro in movimento insieme alle stelle fisse. Anassagora ed Arato parlarono della "ruota risplendente che gli uomini chiamano Latte", presumibilmente per il suo colore. Eratostene di Cirene la chiamò "il circolo della Galassia"; presso i Greci fu nota anche come "Eridanus", il fiume celeste. A Roma era conosciuta come "ghirlanda celeste" ("coeli cingulum"), e Plinio la definì il "Circolo Latteo". Il poeta latino Marco Manilio (I sec. d.C.) così ne parla, fornendo un chiaro spunto alla similitudine dantesca:

« Namque in caeruleo candens nitet orbita mundo
ceu missura diem subito caelumque recludens. (...)
utque suos arcus per nubila circinat Iris,
sic superincumbit signato culmine limes
candidus et resupina facit mortalibus ora,
dum nova per caecam mirantur lumina noctem
inquiruntque sacras humano pectore causas »
[Splende infatti il lattiginoso fulgore del suo cerchio nel firmamento ceruleo
quasi stesse per inviare il giorno dal cielo dischiuso (...)
E come il suo arco Iride incurva lungo le nuvole,
così sovrasta il costellato tetto questo percorso
di candido bagliore, spingendo i mortali a levare il viso
per ammirarne nella cieca notte la stupefacente luminescenza
e a interrogarsi nei loro cuori degli uomini sulla sua origine divina]
(Astronomica I, 703-704.713-717)

I Turchi la battezzarono "Via degli uccelli". In Asia prevale l'immagine di un fiume celeste: gli Arabi la chiamarono il "Fiume di Luce", in Cina, Corea e Giappone è detta "il Fiume d'Argento", mentre in India si utilizza il termine sanscrito Akasha Ganga, "il Gange celeste". Anche per gli Incas essa era il Grande Fiume del Cielo, da cui il dio del tuono traeva le piogge da inviare sulla Terra. In svedese è chiamata "Vintergatan", la "Strada dell'Inverno", poiché le stelle nella sua fascia sono usate per predire il tempo che farà nell'inverno successivo. In molte tradizioni infine la Via Lattea era interpretata come "il cammino dei morti", cioè la strada che le anime dovevano percorrere per raggiungere la loro eterna dimora: questo mito lo ritroviamo ad esempio presso i Celti, tra i Pawnee e i Cherokee dell'America del Nord, nonché tra i popoli Polinesiani. Del resto all'idea di una "via" tracciata nel cielo dagli déi per i defunti si atteneva anche Cicerone, come abbiamo avuto modo di leggere a suo tempo nel "Somnum Scipionis".

La Via Lattea fotografata da Alex Cherney (clic per ingrandire)

La Via Lattea fotografata da Alex Cherney (clic per ingrandire)

Inizialmente questo biancore venne interpretato in senso mitologico: due in proposito sono le principali interpretazioni della Galassia secondo i poeti e i mitografi greci. Esiodo racconta che Zeus, figlio di Crono e di Rea, nacque a Creta, dove fu nascosto in una grotta sul monte Ida, per nasconderlo al padre, che divorava tutti i suoi figli dopo che un Oracolo gli aveva predetto che uno di essi lo avrebbe detronizzato. Infatti Dante registra questo mito con i seguenti versi, messi in bocca a Virgilio:

« "In mezzo mar siede un paese guasto",
diss'elli allora, "che s'appella Creta,
sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto. 
Una montagna v'è che già fu lieta
d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta.
Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida." » (Inf. XIV, 94-102)

Creta è qui definito "paese guasto" a causa della decadenza seguita al glorioso regno di Minosse (« Centum urbes habitant magnas, uberrima regna », dice Eneide III, 106: "Cento città vi sono, e floridissimi regni"). Rea aveva dato ordine ai Coribanti, un popolo dell'isola di Creta, di mettersi a cantare a squarciagola e di fare musica a più non posso ogni volta che il piccolo Zeus si metteva a piangere, così da impedire che il padre udisse i suoi vagiti. Zeus era nutrito dalla capra Amaltea, con la cui pelle egli avrebbe forgiato il suo scudo, da cui deriva il suo appellativo di Egioco ("dallo scudo di pelle di capra"). Un giorno però una poppata di latte gli scappò dalla bocca e finì in cielo, e da qui sarebbe nata la Via Lattea.

Un'altra versione ricollega la Via Lattea al mito di Fetonte, figlio del Sole e della ninfa Climene. Questi ottenne dal padre il permesso di guidare per una volta il carro del sole attraverso il cielo, ma, a causa della sua inesperienza, non riuscì a trattenere la foga dei cavalli (« il temo / che mal guidò Fetonte » dice Par. XXXI, 124-125) e, uscendo dal cammino consueto, rischiò di incendiare tutta la natura, tanto che la Madre Terra dovette pregare Zeus di intervenire, e il Padre degli Dei non poté far altro che fulminare l'incauto auriga:

« Quel del Sol che, svïando, fu combusto
per l'orazion de la Terra devota,
quando fu Giove arcanamente giusto. » (Purg. XXIX, 118-120)

Ora, il carro del Sole, uscito dalla sua via diurna (« la strada / che mal non seppe carreggiar Fetòn... » in Purg. IV, 71-72), lasciò anche una bruciatura nel cielo, come riporta lo stesso Dante:

« Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse » (Inf. XVII, 106-108)

La Via Lattea, visibile ancor oggi a tutti noi, mostrerebbe chiaramente la cicatrice di quella millenaria bruciatura. Da notare come anche gli indiani Nuxalk, che vivono nella provincia canadese della British Columbia, abbiano un mito incredibilmente simile a questo. Naturalmente, come abbiamo visto, accanto a questo mito eziologico già presso gli antichi esistevano già dei tentativi di spiegazione razionale. Tra gli altri, Anassagora (500–428 a.C.) pensava che essa riflettesse la luce del sole, mentre per Aristotele la Galassia si sarebbe formata dalla condensazione di vapori attorno alle stelle di quella parte del cielo. Platone suppose che essa fosse il risaltato di un'immane catastrofe celeste avvenuta nella notte dei tempi (presunto tentativo di razionalizzare il mito di Fetonte). Il primo a fare centro fu però Democrito di Abdera (450–370 a.C.), il quale ipotizzò che il biancore della Galassia fosse dovuto ad una maggior densità di stelle che, troppo lontane per essere distinte, davano l'effetto globale di una fascia maggiormente luminosa. L'ipotesi fu in seguito respinta perché prevedeva un universo infinito con le stelle distribuite in modo non omogeneo, in contrasto con la concezione aristotelica di un universo finito, sferico e omogeneo in ogni direzione. Pur essendo un aristotelico di ferro, come abbiamo già visto ampiamente in quel che precede, Dante Alighieri sposa proprio quest'ultima tesi. Ciò testimonia da una parte l'enorme cultura scientifica di Dante, dall'altra quel profondo ripensamento del pensiero aristotelico che fu proprio delle università medievali: ad esempio, l'ipotesi della natura stellare della Via Lattea era già stata fatta proprio dall'astronomo persiano Abu Rayhan al-Biruni (973-1048).

Fu però solo con l'invenzione del cannocchiale, avvenuta nel 1609, che Galileo poté confermare la veridicità di questa ipotesi. Così egli scrive infatti nel "Sidereus Nuncius" (1610):

« Quello che  osservammo è l'essenza o materia della Via Lattea, la quale attraverso il cannocchiale si può vedere in modo così palmare che tutte le discussioni, per tanti secoli cruccio dei filosofi, si dissipano con la certezza della sensata esperienza, e noi siamo liberati da sterili dispute. La Galassia infatti non è altro che un ammasso di innumerabili stelle disseminate a mucchi; ché in qualunque parte di essa si diriga il cannocchiale, subito si offre alla vista un grandissimo numero di stelle, parecchie delle quali si vedono abbastanza grandi e molto distinte, mentre la moltitudine delle più piccole è affatto inesplorabile. »

Nel 1755 Immanuel Kant (1724-1804) ipotizzò che la Via Lattea fosse in realtà un corpo in rotazione formato da un numero enorme di stelle, legate insieme dalla forza di gravità in modo simile a quanto avviene nel sistema solare, ma di dimensioni assai maggiori; il disco di stelle viene visto dall'interno come una lunga scia chiara solo per un effetto prospettico. Fu anche il primo ad ipotizzare che alcune delle nebulose visibili nel cielo notturno non fossero altro che "galassie" esse stesse, simili alla nostra, ma molto più lontane. Il primo tentativo di descrivere la forma della Via Lattea lo dobbiamo invece a William Herschel (1738-1822), il quale nel 1785 contò il numero di stelle in seicento regioni differenti del cielo boreale, ed ipotizzò che la Galassia avesse una forma ellissoidale. Egli notò che la densità stellare aumentava man mano che ci si avvicinava ad una determinata zona del cielo, nella costellazione del Sagittario, che oggi sappiamo coincidere con il centro della Via Lattea. Al giorno d'oggi inoltre sappiamo che la Galassia ha una forma a spirale, o a spirale barrata, con un diametro di circa 100.000 anni luce e uno spessore di circa 1000 anni luce: se il sistema solare misurasse un millimetro, la nostra Galassia supererebbe i 60 Km. Il Sole si trova a 26.000 anni luce dal centro galattico, nel cosiddetto Braccio di Orione. Controverso è il numero di stelle che la compongono: secondo alcuni sarebbero circa 100 miliardi, secondo altri addirittura 400 miliardi. All'esterno della Via Lattea esistono il cosiddetto alone galattico ed alcune galassie satelliti, le maggiori delle quali sono la Grande e la Piccola Nube di Magellano, di cui abbiamo già parlato nella lezione precedente. E al di là?

Oltre alla Via Lattea, ad occhio nudo sono visibili solo le due Nubi di Magellano (ma soltanto dalle basse latitudini e nell'emisfero australe) e la galassia M31 di Andromeda, una "gemella" della nostra in scala maggiore. L0invenzione del telescopio portò tuttavia alla scoperta delle cosiddette "nebulose", oggetti che all'osservazione appaiono effettivamente come delle nuvolette luminose. Il primo tentativo di classificazione di questi oggetti ancora misteriosi lo dobbiamo al siciliano Giovan Battista Odierna (1597-1660), autore del catalogo "De Admirandis Coeli Characteribus" (1654); in esso tuttavia nebulose planetarie, resti di supernova e galassie erano mescolate tra di loro senza comprendere la loro diversa natura. Nel 1771 l'astronomo francese Charles Messier (1730-1817) compilò un catalogo delle 109 nebulose più luminose, indicate da allora con la M maiuscola che è l'iniziale di Messier. William Herschel compilò un altro catalogo degli oggetti del cielo profondo, e fu il primo ad usare il termine "nebulosa a spirale". Nel 1917 Heber Curtis (1872-1942) osservò la supernova S Andromedae all'interno della grande Nebulosa di Andromeda; avendo misurato la magnitudine apparente di questo oggetto, stimò che esso era 10 volte inferiore a quella raggiunta dalle supernove all'interno della Via Lattea, e quindi doveva essere estremamente lontano ed extragalattico. Curtis rispolverò così l'ipotesi di Kant, formulando la teoria degli "universi isola", secondo cui le nebulose a spirale erano in realtà galassie separate dalla nostra e simili ad essa. Nel 1920 Curtis misurò l'effetto Doppler nella luce delle nebulose, verificando che il loro spostamento verso il rosso era assai maggiore di quello delle stelle della Via Lattea. Fu Edwin Hubble (1889-1953) che il 30 dicembre 1924, grazie all'uso del potente telescopio Hooker, presso l'osservatorio di Monte Wilson in California, riuscì a risolvere le parti esterne di alcune nebulose a spirale, dimostrando definitivamente che si tratta di insiemi di stelle, troppo distanti per essere parte della Via Lattea.

Oggi si pensa che nell'universo osservabile siano presenti più di 100 miliardi di galassie, separate da distanze dell'ordine di milioni di anni luce, mentre lo spazio intergalattico è così vuoto, da contenere meno di un atomo per metro cubo. Le odierne osservazioni dello spazio profondo mostrano che le galassie si trovano spesso in associazioni relativamente strette con altre galassie, detti ammassi e superammassi. I più recenti censimenti galattici, unitamente alle misure delle loro distanze, fanno pensare che gli "universi isola" non siano distribuiti uniformemente nell'universo, ma formino una strana struttura a forma di spugna, ricca di lunghissimi filamenti e di immensi spazi assolutamente vuoti: una struttura cui nessun astrofisico è finora riuscito a fornire una spiegazione ragionevole.

Il discorso da noi avviato a proposito delle galassie ci porta direttamente a discutere della struttura dell'universo secondo Dante, cioè della cosmologia dantesca. Ma attenzione: non stiamo parlando del sistema geocentrico tolemaico, da noi sviluppato ampiamente in un'altra lezione, perchè quest'ultimo rappresenta la struttura del Sistema Solare. Stiamo riferendoci invece all'idea stessa che Dante aveva di spazio.

Appare più che legittimo domandarsi cosa vi è al di là delle stelle, considerate a buon diritto l'orizzonte dello sguardo che l'uomo può gettare sul cosmo. Secondo il poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli (1791-1863), proprio questo fu il motivo per cui gli uomini avrebbero deciso la costruzione della Torre di Babele:

« "Pe vede' cosa c'e' ssopra le stelle
Che sse po' ffà?" diceveno le gente.
Fece uno: "E che ce vò? Nun ce vò gnente:
frabbichiamo la torre di Babbelle" »

All'epoca di Dante le stelle erano ritenute tutte equidistanti dalla superficie terrestre, ed incastonate su di una sfera, il firmamento appunto. Ispirandosi alla dottrina di Aristotele, al di là di esso era stato posto il Primo Mobile, che non conteneva alcun astro visibile, ma originava il movimento degli altri cieli, come visto parlando della planetologia dantesca. Ma al di là del Primo Mobile vi era ancora qualcosa? Evidentemente sì. I teologi introdussero allora il cielo Empireo (dal greco "empyros", "infuocato"), il più alto dei cieli, luogo della presenza fisica di Dio, dove risiedevano gli angeli e le anime beate: in pratica, esso coincideva con il Paradiso. Ed infatti più volte Beatrice ricorda che esso è la sede naturale dei Beati, i quali si mostrano a Dante lungo i diversi Cieli dei Pianeti solo per dargli modo di constatare i diversi gradi di beatitudine. Secondo alcuni, le stelle altro non erano che fori nella sfera del firmamento, attraverso cui filtrava la luce eterna dell'Empireo posto al di là di esso. La sua origine va ricercata nella Bibbia, dove è usata l'espressione semitica "Cieli dei Cieli" per indicare il più alto degli spazi, dove risiede il Signore Dio in persona:

« O regni della terra, cantate a Dio,
salmeggiate al Signore,
a Colui che cavalca sui cieli dei cieli eterni!
Ecco, egli fa risuonare la sua voce,
la sua voce potente » (Salmo 68, 32-33)

« Lodatelo, cieli dei cieli,
e voi acque al di sopra dei cieli! » (Salmo 148, 4)

Dante parla di questo Cielo Supremo già nel Convivio:

« E quieto e pacifico è lo luogo di quella somma Deitade che sola [sè] compiutamente vede. Questo loco è di spiriti beati, secondo che la Santa Chiesa vuole, che non può dire menzogna; e Aristotile pare ciò sentire, a chi bene lo 'ntende, nel primo De Celo et Mundo. Questo è lo soprano edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s'inchiude, e di fuori dal quale nulla è; ed esso non è in luogo ma formato fu solo ne la prima Mente, la quale li Greci dicono Protonoè. Questa è quella magnificenza de la quale parlò il Salmista quando dice a Dio: Levata è la magnificenza tua sopra li cieli » (Convivio II, III, 10-11)

Dante e Beatrice contemplano l'Empireo dal Primo Mobile, visti da Doré

Dante e Beatrice contemplano l'Empireo dal Primo Mobile, visti da Doré

L'Empireo era dunque concepito infinito ed illimitato, anzi privo affatto di dimensioni fisiche, e non costituito da materia, neppure dalla purissima quintessenza, come si credeva fossero gli altri cieli: era una realtà di puro spirito, fuori dal tempo e dallo spazio, e mentre i nove cieli erano in perpetuo movimento, come una sorta di orologio cosmicoe, l'Empireo era eternamente immobile ed immutabile. Dante viaggia attraverso di esso negli ultimi quattro canti della Divina Commedia, e quando vi entra Beatrice così glielo descrive:

« Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch'è pura luce:
luce intellettüal, piena d'amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
Qui vederai l'una e l'altra milizia
di paradiso, e l'una in quelli aspetti
che tu vedrai a l'ultima giustizia. » (Paradiso XXX, 38-45)

Nell'Empireo insomma Dante vedrà entrambe le schiere del Paradiso, quella degli Angeli e quella dei Santi, e quest'ultima ha modo di vederla come essa apparirà nel giorno del Giudizio Finale, quando ogni anima « ripiglierà sua carne e sua figura » (Inf. VI, 98). Le tribune su cui siedono i Beati appaiono a Dante disposte lungo una "candida rosa". Nell'Empireo inoltre il nostro poeta ha modo di contemplare le gerarchie degli angeli, disposte su nove cerchi concentrici, ad immagine dei nove cieli; e al centro di questi nove cerchi, un punto luminosissimo che rappresenta la Divinità, in cui Dante arriva a scorgere i misteri della Trinità e dell'Incarnazione. In pratica, quando l'Alighieri comprende « me sormontar di sopr'a mia virtute » (Par. XXX, 57), cioè che le sue facoltà percettive sono accresciute più di quanto egli stesso non credeva possibile, si rende conto che sta guardando una sorta di secondo universo, simmetrico rispetto al primo, costituito dal mondo sensibile! Quest'ultimo infatti è composto da nove cieli materiali che circondano la Terra; l'Empireo a sua volta è formato da nove cieli, stavolta spirituali, che convergono loro pure in in un punto.

A complicare la questione della "cosmologia su larga scala" di Dante viene il fatto che in alcuni passaggi l'Empireo sembra circondare il Primo Mobile e quindi il mondo sensibile, così come vediamo raffigurato su tutte le nostre edizioni della Divina Commedia (ed anche noi ne abbiamo visto un esempio):

« Luce e Amor d'un cerchio lui comprende,
sì come questo li altri; e quel precinto
Colui che 'l cinge solamente intende. » (Par. XXVII, 112- 114)

Cioè: il cerchio di luce e d'amore che è l'Empireo contiene il Primo Mobile, così come quest'ultimo comprende tutti i cieli precedenti; e solo Colui che lo avvolge, cioé Dio, intende cosa sia e in che modo operi. Appena un canto dopo, invece, l'Empireo sembra piuttosto "richiudersi su se stesso", come se esso non fosse lo spazio esterno ad una sfera (il Primo Mobile), ma piuttosto lo spazio interno ad essa!

« Distante intorno al punto un cerchio d'igne
si girava sì ratto, ch'avria vinto
quel moto che più tosto il mondo cigne;
e questo era d'un altro circumcinto,
e quel dal terzo, e 'l terzo poi dal quarto,
dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.
Sopra seguiva il settimo sì sparto
già di larghezza, che 'l messo di Iuno
intero a contenerlo sarebbe arto.
Così l'ottavo e 'l nono; e chiascheduno
più tardo si movea, secondo ch'era
in numero distante più da l'uno;
e quello avea la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, però che più di lei s'invera.
La donna mia, che mi vedëa in cura
forte sospeso, disse: "Da quel punto
depende il cielo e tutta la natura." » (Par. XXVIII, 25-42)

Dante Alighieri sta osservando il punto luminosissimo nel quale riconoscerà l'Unità e Trinità di Dio, e vicino ad esso vede girare un cerchio di fuoco ("d'igne"), tanto veloce da superare anche il moto di quel cielo (il Primo Mobile) che più rapidamente si volge intorno alla Terra. Questo primo alone è circondato ("circumcinto", latinismo) da un secondo, e questo da un terzo, e via seguitando. Il settimo è così esteso che persino "il messo di Iuno", cioè l'arcobaleno, se anche fosse un circolo intero e non un arco, quale noi lo vediamo (vedi la lezione dedicata all'Ottica), sarebbe troppo stretto ("arto") per contenerlo. Ed ognuno si muove con velocità decrescente, in proporzione del numero d'ordine di ciascuno in rapporto all'unità: il secondo ha velocità angolare pari alla metà del primo, il terzo la ha pari a un terzo del primo, e così via, proprio come il Cielo della Luna è più veloce di quello di Mercurio, questo di quello di Venere, e così via, potenziando la simmetria tra mondo materiale ed Empireo. E risplende più limpida ("sincera") la fiamma di quel cerchio che ruota più vicino alla "favilla pura", cioè a Dio, perchè, essendo più prossimo alla perfetta Verità che Egli è, maggiormente si compenetra in essa. Il commento di Beatrice ("Da quel punto / depende il cielo e tutta la natura") riflette quasi letteralmente la formula aristotelica « Ex tali igitur principio dependet coelum et natura » (Metafisica XII, 7), ripresa da San Tommaso nella Summa Theologica; ma Dante sostituisce all'astratto "principio" il concetto di "punto geometrico" (del quale riparleremo in seguito)

Se dunque nel Canto XXVII il Primo Mobile appariva come un cielo la cui struttura fisica non è dissimile da quella degli altri cieli, cioè una sfera esterna e concentrica a quelle planetarie e stellari, immersa nell'infinità dell'Empireo, che delimita l'intero Universo visibile, appena un centinaio di versi dopo lo stesso Empireo viene raffigurato come un'altra serie di sfere concentriche, costituite dai vari ordini di angeli che ruotano a loro volta attorno ad un punto centrale che è Dio stesso. Guardando dal Primo Mobile verso l'esterno, cioè verso l'Empireo, è come se ci trovassimo a contemplare un... secondo universo, simmetrico rispetto al mondo sensibile, con nove cieli intorno a un fulcro di rotazione che resta immobile!! Nessuno ha rappresentato artisticamente questa situazione meglio di Sandro Botticelli (1445-1510), il celebre autore della "Primavera" cui Lorenzo il Magnifico nel 1490 commissionò le illustrazioni per una nuova edizione della Divina Commedia:

Curiosamente, il nostro Autore si sofferma a sottolineare con forza come non vi sia alcuna indicazione che si debba scegliere un punto particolare sul Primo Mobile per avere questa visione; anzi, Dante ci ha già avvisati che il Primo Mobile è così omogeneo ed isotropo (cioè sempre uguale a se stesso in ogni punto e in ogni direzione, che non riesce a stabilire con certezza neppure da che parte vi è entrato:

« Le parti sue vivissime ed eccelse
sì uniforme son, ch'i' non so dire
qual Bëatrice per loco mi scelse. » (Par. XXVII, 100-102)

Con questa terzina, il Ghibellin Fuggiasco vuole dirci che avremmo la stessa visione dell'interno dell'Empireo guardando "fuori" da qualsiasi punto del Primo Mobile. In altri termini, se posso dir così, l'Empireo è un Cielo che circonda l'universo sensibile, e allo stesso tempo è a sua volta richiuso a mo' di sfera intorno ad un punto. Apparentemente siamo davanti ad una contraddizione, che comunque nella geometria euclidea è impossibile da spiegare. E allora?

E allora, l'unica spiegazione possibile è quella proposta per la prima volta nel 1925 dal matematico tedesco Andreas Speiser (1885-1970) nel suo "Klassische Stücke der Mathematik": lo spazio del Paradiso Dantesco è basato su una geometria non euclidea!!!

L'ipotesi non è così peregrina come potrebbe parere a prima vista, dato che l'Alighieri aveva probabilmente più familiarità con la geometria sferica, legata alle osservazioni astronomiche, che con la geometria euclidea: forse fu questo a favorire la sua arditissima intuizione di una geometria "diversa". Ma cosa vuol dire, esattamente, "geometria non euclidea"?

Nel capitolo dedicato alla Geometria Euclidea abbiamo parlato con ampiezza del Quinto Postulato di Euclide. Fin dal tempo del suo autore, questo assioma fu oggetto di dibattiti a non finire. Se infatti i primi quattro appaiono praticamente evidenti nella loro chiara semplicità:

I) Per due punti passa una retta ed una sola
II) Un segmento che congiunge due punti può essere prolungato indefinitamente
III) Dato un punto e un segmento vi è un solo cerchio che ha l'uno come centro e il secondo come raggio
IV) Tutti gli angoli retti sono uguali tra loro

altrettanto non si può dire per il quinto, del quale si conoscono differenti enunciati, tutti equivalenti fra di loro (come è possibile dimostrare), ma nessuno dei quali appare evidente a prima vista:

Non tutti i matematici dunque accettarono a cuor leggero l'indimostrabilità di questo postulato, e cercarono per secoli di dedurlo dai primi quattro. Tra questi vi fu Padre Gerolamo Saccheri (1667-1733), il quale nella sua opera "Euclides ab omni nævo vindicatus" ("Euclide ripulito da ogni difetto", 1733) tentò di negarlo, nella speranza di poterlo dimostrare per assurdo. Egli credette di esserci riuscito, ma in realtà aveva dedotto nient'altro che una nuova geometria, che obbediva a teoremi completamente diversi da quelle della geometria euclidea, e perciò detta geometria non euclidea. Dopo la morte di Saccheri la sua opera fu dimenticata, poiché nessuno se la sentiva di mettere in dubbio la geometria di Euclide, confortata dall'evidenza. Tuttavia il tedesco Carl Friedrich Gauss (1777-1855), uno dei più grandi matematici di ogni tempo, la riscoprì, la rivalutò e tentò di costruire ex novo una geometria non euclidea, ma non pubblicò mai i suoi risultati. A giungere per primi ad una geometria non euclidea compiuta, indipendentemente l'uno dall'altro, furono il russo Nikolaj Lobacevskij (1793-1856) nel 1829 e l'ungherese Janos Bolyai (1802-1860) nel 1832. Essi fondarono il lavoro su un postulato completamente diverso dal Quinto di Euclide:

Per un punto fuori di una retta passano infinite rette parallele ad una retta data.

Come realizzare in pratica questa strampalata geometria? In realtà è meno difficile di quanto sembri: basta chiamare "piano" quello che per Euclide è un cerchio, e "retta" ogni corda dello stesso cerchio (estremi esclusi). È facile verificare che i primi quattro postulati di Euclide valgono anche in questa geometria. Tuttavia, non vale più il famoso Quinto Postulato se definisco "rette parallele" due corde del cerchio che non si intersecano mai. Si consideri infatti la seguente figura:

Il punto P non appartiene alla "retta" AB, ma come si vede ci sono infinite "rette" passanti per P (ad esempio r1, r2, r3) che non intersecano AB, e quindi ad esse "parallele"! Questa nuova geometria viene chiamata iperbolica. Si può dimostrare che in essa valgono ancora molti teoremi della geometria euclidea: ad esempio gli angoli opposti al vertice sono congruenti, ma non è più vero che la somma degli angoli interni di un triangolo è pari a 180° (questo infatti è uno degli enunciati alternativi del Quinto Postulato): è invece sempre minore di 180°. Un'ottima rappresentazione di una geometria iperbolica di questo tipo è stata fornita dal pittore olandese Maurits Cornelis Escher (1898-1971) nella sua straordinaria opera "Limite del cerchio III" (1959): ponendoci al centro del disegno e smuovendoci verso il bordo di esso, ci restringiamo sempre di più, e per raggiungere il bordo ci occorrerà percorrere una distanza infinita, proprio come se volessimo raggiungere il "bordo" di un piano euclideo. Questa rappresentazione dell'infinito anticipa di qualche decennio la formulazione matematica del concetto di frattale ad opera di Benoit B. Mandelbrot (1924-1910).

"Limite del cerchio III" (1959). di Maurits Cornelis Escher

Successivamente, sempre negando il Quinto Postulato, Bernhard Riemann (1826-1866) nel 1854 costruì un'altra geometria non euclidea, stavolta detta ellittica, in cui vale il seguente postulato alternativo:

Per un punto fuori di una retta non si può condurre alcuna retta ad essa parallela.

Come riuscire in questa impresa? Basta chiamare "piano" quella che per Euclide è la superficie di una sfera S, e "rette" i suoi cerchi massimi, ad esempio T1 e T2, mentre "punti" sono le coppie di punti euclidei antipodi sulla sfera, come ad esempio E ed F nella figura seguente:

Come si vede, nessun cerchio massimo può evitare di intersecarne un altro, e dunque le rette parallele non esistono più, in accordo con il "nuovo" postulato di Riemann! Non è difficile dimostrare che in questa geometria non esistono triangoli simili, salvo quando sono anche congruenti; che da un punto ad una "retta" si possono condurre infinite perpendicolari; che due "rette" perpendicolari ad una stessa "retta" non sono parallele tra loro; e soprattutto che la somma degli angoli interni di un triangolo è sempre maggiore di 180°. Infatti si consideri la superficie terrestre e si prendano il suo equatore e due meridiani separati da 90° di longitudine. Come si vede qui sotto, il triangolo ABN formato dall'intersezione di questi tre cerchi ha ben tre angoli retti, e quindi la somma dei suoi angoli interni è pari a 270°! La geometria costruita sulla superficie di una sfera è una geometria non euclidea!

Come si vede, mentre la geometria iperbolica di Lobacevskij e Bolyai sfrutta pur sempre figure piane come il cerchio che si sostituiscono al piano, invece la geometria ellittica di Riemann abbandona il piano, costruendo la sua geometria su di una superficie curva. In questo caso si tratta in effetti della superficie tridimensionale di una sfera, ma il tutto può essere generalizzato ad una "superficie ad n dimensioni", che prende il nome di varietà riemanniana n-dimensionale. Viene introdotto in tale modo il concetto di curvatura dello spazio, giacché la varietà di Riemann è manifestamente una superficie curva. In particolare, la sfera viene chiamata una "varietà di Riemann a curvatura positiva", in quanto la somma degli angoli interni di un triangolo risulta maggiore di un angolo piatto. Allora la geometria euclidea, che è costruita dentro un piano, è una geometria a curvatura nulla, mentre la geometria iperbolica prima descritta è una "varietà di Riemann a curvatura negativa", in quanto la somma degli angoli interni di un triangolo risulta minore di un angolo piatto. In pratica, la geometria costruita su una superficie sferica è sicuramente ellittica, mentre quella costruita su di un piano è inevitabilmente euclidea, e quella realizzata su di una superficie "a sella" è certamente iperbolica, come mostra lo schema seguente:

La grande intuizione di Andreas Speiser è stata proprio questa: l'universo di Dante non è uno spazio euclideo, bensì una varietà di Riemann! Ecco come si esprime egli stesso:

« Dante possiede una chiara visione globale della complessa struttura spaziale nella sua totalità. Per le nove sfere del cielo, Dante recupera la rappresentazione di Aristotele, apportando un cambiamento fondamentale che riguarda la fine dello spazio: come può essere che la sfera più distante, che appare la più grande, abbia in realtà le più piccole dimensioni? [...] Lo spazio di Dante è una varietà di Riemann con una fonte di energia che imprime ad esso la metrica » ("Klassiche stücke der Mathematik", 1925)

La forma dell'Universo di Dante secondo Speiser è quella che i matematici chiamano ipersfera, cioè una sfera avente avente tre dimensioni ed immersa in uno spazio a quattro dimensioni. Il nostro cervello è incapace di figurarsi oggetti con più di tre dimensioni, ma possiamo avere un'idea del modello di Speiser se procediamo per analogia con quanto avviene nello spazio euclideo ordinario. Se consideriamo una comune sfera tridimensionale, la quale secondo i matematici ha la topologia di una due-sfera (perché sulla sua superficie si può camminare in due direzioni, nord-sud ed est-ovest), partendo dal polo sud verso l'equatore notiamo che i paralleli su di essa si allargano sempre più fino all'equatore; poi, man mano che procediamo verso il polo nord, rimpiccioliscono di nuovo fino a ridursi ad un punto. Tutti i paralleli presi globalmente costituiscono la due-sfera. Analogamente, se a partire da un punto prendiamo una serie di sfere di raggio crescente, fino ad arrivare ad un valore massimo dopo il quale esse cominciano a ridursi sino a ridursi nuovamente un punto, potremo dire che tutte queste sfere hanno costruito una tre-sfera, cioè una sfera quadridimensionale con una superficie a tre dimensioni, di cui il punto iniziale rappresenta il polo sud, il punto final rappresenta il polo nord, e la sfera di raggio massimo rappresenta l'equatore. Ci accorgiamo così di avere fra le mani una bizzarra sfera quadridimensionale, la cui superficie è costituita da una successione di infinite sfere tridimensionali! Il punto da cui partiamo è la Terra (anzi, il centro della Terra); le sfere di dimensione crescente sono le sfere dei quattro elementi e poi le sfere celesti fatte di etere, cioè il mondo sensibile; l'equatore della tre-sfera è costituita dal Primo Mobile; le successive sfere decrescenti sono i cori angelici, puramente spirituali, che costituiscono l'Empireo; il punto di arrivo è Dio. 

Se ancora non siete riusciti a figurarvi una geometria di questo genere, ricorriamo ad un'altra immagine, elaborata dal giornalista Carlo Rovelli. Consideriamo la superficie della nostra Terra: una tecnica molto semplice per disegnarla su una carta geografica piana, quindi bidimensionale, consiste nel disegnare due dischi, uno comprendente i continenti dell'emisfero boreale e con il polo nord al centro, e l'altro con l'emisfero australe centrato sul polo sud. L'equatore risulterà disegnato due volte, rappresentando il bordo di entrambi i dischi. Se partiamo dal polo sud e ci muoviamo verso nord, a un certo punto attraverseremo l'equatore, e saremo costretti a "saltare" da un disco all'altro. Nella realtà non facciamo alcun salto, perché noi sappiamo bene che l'emisfero boreale, visto da chi proviene dal polo sud, "circonda" l'emisfero australe, così come l'emisfero australe "circonda" quello boreale, per chi guarda da nord. L'ipersfera può essere rappresentata in maniera del tutto analoga, disegnando due serie di sfere, una delle quali di raggio crescente rappresenta "l'emisfero australe" della tre-sfera, l'altra di raggio decrescente simboleggia "l'emisfero boreale". La sfera "equatoriale" che al tempo stesso separa e connette i due emisferi costituisce il termine della prima serie e l'inizio della seconda. Un viaggiatore che, come Dante, partirà dal centro della prima serie e salirà "di sfera in sfera" fino a questo equatore, vedrà sotto di sé un insieme di sfere concentriche, che si richiudono intorno ad un punto. Quest'altro emisfero allo stesso tempo "circonderà" e "sarà circondato" dalla prima serie!

Ancora dei dubbi? Proverò allora ad illustrarvi questo difficile concetto con l'immagine utilizzata dal mio amico e collega prof. Roberto Ghisu nel suo pregevole libro "La Luce della Fisica", che vi consiglio caldamente. Come scrive Ghisu, non è possibile rappresentare su un piano l'intera superficie terrestre e, se voglio poter osservare l'intero globo terracqueo su di un foglio di carta, devo raffigurare i due emisferi, l'uno centrato sul Polo Nord, l'altro sul Polo Sud. Ora, se ci trovassimo esattamente al Polo Nord, ci riterremmo al centro del mondo, e non avremmo tutti i torti, giacché la scelta di un sistema di riferimento rispetto ad un altro è totalmente arbitraria, dato che il Principio di Relatività di Einstein afferma che nessun sistema di riferimento è privilegiato rispetto agli altri. In altre parole, come scrive Ghisu, « il fatto che Dante abbia adottato il sistema tolemaico per la sua descrizione del mondo, non inficia per nulla la quantità e la profondità delle sue deduzioni scientifiche. » Ora se, partendo dal Polo Nord, immaginiamo di esplorare la superficie terrestre inviando quattro droni A, B, C, D in quattro direzioni opposte, lungo i meridiani di latitudine 0° (quello di Greenwich), 90° E, 90° W e 180° E, alla fine essi arriveranno all'equatore, e questo sarebbe il "cerchio più esterno" dell'emisfero settentrionale.  Se però i droni vogliono continuare la loro esplorazione, per seguirli dobbiamo "cambiare emisfero" e spostarci nel secondo emisfero, quello meridionale, mentre per essi ovviamente non vi sarebbe nessuna discontinuità, nessun "salto" da un universo all'altro! Essi continuerebbero a viaggiare in linea retta (o almeno così parrebbe loro), senza fermarsi, ma... con somma sorpresa, essi finirebbero per incontrarsi nuovamente tutti al Polo Sud!!

I quattro piloti dei droni non potrebbero che concludere di NON essersi mossi su un cerchio a due dimensioni, bensì su una sfera a tre dimensioni, come fecero i primi esploratori (Magellano, Drake...) che circumnavigarono la Terra. Questo è esattamente quanto è capitato a Dante e Beatrice, i quali prima si sono allontanati da un centro (la Terra) attraversando sfere concentriche sempre più ampie e lente, e quindi, superato un certo confine, si sono resi conto di attraversare di nuovo delle sfere concentriche, ma sempre più strette e veloci, fino ad arrivare ad un nuovo punto "centrale", cioè Dio. L'unica conclusione cui possono arrivare è di essersi mossi lungo la superficie di una incredibile ipersfera a quattro dimensioni! Come afferma il professor Ghisu, « assimilando il passaggio dal Primo Mobile all'Empireo al passaggio attraverso l'equatore terrestre, potremmo dire che ovunque ci troviamo nell'Empireo, potremmo vedere un punto luminosissimo così come da qualunque punto dell'equatore nella mappa rappresentata sul piano potremmo vedere il Polo Sud ».

Un'indiscutibile conferma di questa straordinaria visione quadridimensionale dell'universo ci è offerta dallo stesso Dante quando, appena entrato nell'Empireo oltrepassando il Primo Mobile, l'ultima frontiera dell'universo materiale, afferma:

« Non altrimenti il trïunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude,
a poco a poco al mio veder si stinse » (Par. XXX, 10-13)

Il punto di luce e le sfere di angeli circondano l'Universo sensibile, e insieme sono circondati dall'Universo stesso! Nessuna altra spiegazione è possibile, se non quella che ne ha dato Speiser, e che oggi è condivisa da molti matematici e fisici. Tra questi vi è lo scienziato romeno Roman Patapievici (1957-), direttore dell'Istituto di Cultura della Romania, il quale ha fatto notare come Dante colga per un attimo l'accecante visione di Dio circondato dai cori angelici, usando gli occhi di Beatrice come uno specchio. Ma l'immagine allo specchio è simile a quella reale, solo che è invertita. Il mondo invisibile diventa allora un « calco rovesciato del mondo visibile »: l'Empireo è Teocentrico mentre il nostro Universo è Geocentrico; i cori angelici orbitano intorno a Dio a velocità sempre più alta via via che ci si avvicina a Dio, come i cieli accelerano via via che ci si avvicina dalla Terra; l'invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile. Dalla circonferenza massima di una sfera è possibile vedere ogni suo punto, sia in direzione del polo nord che del polo sud; analogamente, dalla sfera del Primo Mobile è possibile vedere tutti i cieli planetari e la Terra guardando da una parte, tutti i cori angelici e la Trinità Divina guardando dall'altra!

Ma cosa dire del fatto che queste sfere appaiono velocissime e la loro velocità aumenta con l'allontanarsi dall'Empireo, e quindi con l'avvicinarsi al punto di massima velocità, ovvero a Dio? Qui ci può venire in soccorso una delle più importanti leggi della cosmologia, la cosiddetta Legge di Hubble-Lemaître, formulata per la prima volta nel 1927 dallo scienziato e gesuita belga padre Georges Lemaître (1894–1966), e poi confermata sperimentalmente nel 1929 dall'americano Edwin Hubble (1889–1953), soprannominato "il Titano dell'Astronomia", che si servì del potente telescopio Hooker da 100 pollici, appena costruito nell'osservatorio di Monte Wilson vicino a Pasadena (California). Questa legge si può sintetizzare con la formula seguente:

v = H r

dove v è la velocità di recessione delle galassie, cioè la velocità con cui esse si allontanano dalla Terra (allontanamento dimostrato da Edwin Hubble mediante lo spostamento verso il rosso per effetto Doppler degli spettri delle galassie lontane), ed r è la loro distanza da noi. Questa semplice legge ci dice che la velocità di recessione di un corpo celeste aumenta linearmente con la sua distanza dall'osservatore, che nel nostro caso è il Sistema Solare, ma il comportamento sarebbe presumibilmente identico se ci trovassimo in qualunque altro punto dell'universo, a causa dell'assenza di un punto di vista privilegiato, come afferma la Relatività Generale di Albert Einstein. La costante di proporzionalità H è detta costante di Hubble-Lemaître, e il suo valore è tuttora oggetto di discussione tra i cosmologi, giacché se calcolato con metodi diversi fornisce risultati sorprendentemente in contrasto tra di loro (il cosiddetto "paradosso cosmologico", uno dei grandi problemi irrisolti della Fisica del XXI secolo), In ogni caso, qualunque sia il valore di H, la legge testé scritta ci dice che più un corpo celeste si trova lontano dal punto di osservazione, tanto più velocemente si allontana da esso. Quindi una galassia distante due milioni di anni luce dalla Terra si allontanerà da essa ad una velocità doppia di una galassia che si trova ad un milione di anni luce da noi. A questo punto è semplice comprendere che la descrizione dantesca delle sfere che viaggiano sempre più velocemente all'avvicinarsi di Dio Uno e Trino, cioè allontanandosi dalla Terra, ha un riscontro straordinariamente fedele nell'astrofisica moderna, ed anzi proprio nella legge più importante di tale scienza!

 

Ma quanto vi ho detto fin qui non esaurisce affatto l'argomento. Se infatti Dante è stato geniale nel descrivere l'ipersfera con tanta chiarezza, oltre 500 anni prima che venissero sistematizzate le prime geometrie non euclidee, nel concepire il suo "universo a specchio", per metà avvolto intorno alla Terra e per metà attorno al punto da cui « depende il cielo e tutta la natura » (Par. XXVIII, 42), egli andò addirittura al di là, anticipando le intuizioni cosmologiche dello stesso Albert Einstein. Per scoprire insieme a me come ciò fu possibile, passate alla lezione successiva cliccando qui.