Il Giudice

di Dario Carcano

Introduzione

Autunno. Il sole era appena sorto, e la sua cresta rosata illuminava le vette dei monti che circondavano Laresinio. Gli abitanti del villaggio incastrato tra le montagne si erano appena alzati per svolgere le loro quotidiane occupazioni. L’inverno si stava avvicinando, bisognava finire di raccogliere le provviste prima che arrivasse ottobre e il freddo. A ottobre infatti inizia a nevicare.

I vecchi ricordavano che una volta non iniziava a nevicare prima di novembre. Ma quello era prima della guerra. Erano passati più di cinquant’anni da quella guerra, che si era portata via non solo una generazione degli abitanti di Laresinio, ma che aveva completamente distrutto ogni singola nazione che vi aveva preso parte.

Laresinio era stata risparmiata; lontana dalle grandi città, incastrata tra le montagne, era diventata meta di sfollati e profughi, alcuni di questi sopravvissuti alle bombe atomiche; e tutti raccontavano le stesse storie. Le corse nei rifugi al suono delle sirene, il rumore assordante delle bombe che cadono, la pioggia nera, i mesi trascorsi nei rifugi in attesa di poter uscire. E poi, una volta fuori, la vista di un paesaggio lunare, grigio, desertico, completamente spoglio e inospitale. Infine, il viaggio della speranza, in cerca di un nuovo luogo da poter chiamare “casa”.

Per molti la nuova casa fu Laresinio. Nella valle era ancora possibile coltivare, il bestiame non era stato colpito dalle radiazioni. Sembrava che lì la guerra non ci fosse mai stata. Gli abitanti accolsero i profughi, purché lavorassero la terra assieme a loro.

Ma nonostante questo la vita non fu per nulla facile. I vicini ghiacciai, che per anni si erano ritirati fin quasi a sparire, dopo la guerra avevano ripreso ad avanzare, ed erano arrivati pericolosamente vicini alle case. Anche gli inverni si fecero più lunghi e rigidi; nei primi inverni molti morirono per la fame o per il freddo. Spesso erano i profughi, arrivati già debilitati per la fame e per il lungo viaggio a piedi. Ma anche molti autoctoni non sopravvissero.

Poi la popolazione si stabilizzò attorno ai cinquecento abitanti.

Fu anche necessario ricostruire da zero un ordinamento sociale. Fu qui che emerse il Giudice. Prima della guerra era studente di giurisprudenza, ed evitò la chiamata alle armi perché due settimane prima che scoppiasse la guerra si era rotto una gamba. Assieme alla sua famiglia, allo scoppio delle ostilità aveva lasciato la Città per trasferirsi a Laresinio, dove avrebbero aspettato la fine della guerra.

Lì era una delle poche persone istruite rimaste nella comunità, e divenne presto un punto di riferimento per gli abitanti del villaggio. Divenne uno stretto collaboratore del sindaco e dell’amministrazione, e dopo il collasso delle istituzioni fu nominato dagli abitanti di Laresinio Giudice. Dopo la morte del sindaco ne aveva assunto le funzioni, ed era diventato la guida di quella piccola comunità.

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Capitolo I

Erano trascorsi molti anni. Ormai era quasi ottantenne mentre dalla sua casa contemplava le cime delle montagne illuminate dal sole del mattino. Non avrebbe rinunciato a quello spettacolo per nulla al mondo.

Si staccò da quella vista per andare verso la tavola, dove l’anziana moglie aveva preparato per la colazione.

Bussarono alla porta, il Giudice si alzò per andare ad aprire.

Era Pietro, il falegname del paese:

“Perché sei qui così presto? Ti hanno di nuovo rubato la legna?”

“No signor Giudice. Molto peggio. Posso entrare?”

Pietro entrò, e iniziò a spiegare:

“Sapete che dalla mia bottega vedo il sentiero che conduce al paese, giusto?”

“Certo che lo so. Al tempo degli inquisitori era dalla tua bottega che vedevamo chi stava arrivando.”

“Bene signor Giudice, cerco di essere sintetico. È da un po’ di sere che quando chiudo la bottega per andare a casa vedo delle luci giù, sul sentiero. Quelle luci erano molto lontane una settimana fa, ma piano piano vedevo che si avvicinavano. Ieri sera pensai che se stasera si fossero avvicinate ancora sarei andato a dirvi tutto. Poi però stamattina, guardando col binocolo il sentiero, ho scoperto cosa sono quelle luci.”

“E cosa sono?”

“Soldati, signor Giudice. È una colonna di soldati, armati e ben provvisti, completa persino di muli da soma.”
“Ma cosa ci fanno qui dei soldati? Sei sicuro che sono diretti verso il paese?”
“Venite a vedere coi vostri occhi se non mi credete.”

Il Giudice si vestì rapidamente, e andò col falegname alla bottega, per vedere il sentiero.

Una volta arrivato, prese il binocolo e guardò nella valle. Pietro aveva detto il vero. C’era una colonna di almeno settanta militari che stava risalendo il sentiero; vide anche dieci muli da soma, e su cinque di questi vide una mitragliatrice. Vide anche che erano effettivamente diretti verso il villaggio; sarebbero stati lì prima di sera.

“Dobbiamo agire subito. Corri al Municipio e suona la campana dell’adunata; il Tribunale deve riunirsi il prima possibile.”

In pochi minuti le campane suonarono, e gli abitanti di Laresinio si erano radunati nell’Aula del Tibunale. Quando arrivò il Giudice li contò mentalmente e vide che non c’erano assenti. Poco più di trecento persone, comprese donne, vecchi e bambini.

Fu rapidamente spiegata la situazione, e il Tribunale iniziò a discutere su cosa fare.

Rapidamente si delinearono due opzioni: attaccare la colonna prima che arrivasse al villaggio, oppure nascondersi sulle montagne e far trovare agli stranieri solo un paese deserto.

“Dobbiamo e possiamo attaccarli. Noi conosciamo le montagne, loro no. Con la mulattiera possiamo arrivargli dietro e attaccarli. Non si salverà nessuno, abbiamo già sperimentato questo metodo al tempo degli inquisitori, quando provarono a tornare dopo essersi presi la nostra Angelica.”

“Gli inquisitori erano dei fanatici organizzati alla meno peggio, qui stiamo parlando di militari. Non saranno così stupidi da farsi prendere alla sprovvista, e la mia paura è che provare ad attaccarli possa ritorcersi contro di noi.”

“Macché militari, quelli saranno ragazzini. Della mulattiera non se ne saranno nemmeno accorti: non è segnata sulle mappe, e se non la si conosce è molto difficile individuarla.”

“Non possiamo attaccarli, dobbiamo nasconderci e portarci dietro tutto ciò che può essergli utile.”

“Siete dei codardi! Dobbiamo e possiamo combattere, scappare è inutile.”

Alla fine fu presa una decisione che di fatto riuniva le due opzioni citate prima. Gli uomini e le donne che sapevano usare le armi, una ventina, avrebbero bloccato la colonna prima che arrivasse in paese. Si sarebbe cercato un colloquio con gli stranieri per capire le loro intenzioni.

Nel frattempo il resto del paese avrebbe iniziato a portare i capi, le provviste, la legna e soprattutto i bambini al sicuro nei nascondigli; nel caso le cose si fossero messe male, avrebbero trovato solo un paese disabitato.

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Capitolo II

I ventisette, guidati dal Comandante Tempesta, con le armi in spalla stavano marciando verso il sentiero. Prima di uscire dal paese si fermarono di fonte all’immagine di Angelica, e si inginocchiarono facendo il segno della croce. Il Comandante Tempesta disse:

“Santa Angelica, prega per noi.”

Si rialzarono e lasciarono il paese. Imboccarono il sentiero, lo seguirono fino al pino rosso, poi salirono sulla vecchia mulattiera. Marciarono, sempre con le armi in spalla. Poi li videro.

Il grosso della forza si nascose, per prenderli dal fianco, un gruppo più piccolo proseguì sulla mulattiera per aggirarli e prenderli da dietro. Cercando di non fare il minimo rumore, furono preparate al fuoco le mitragliatrici. Tre in tutto, gli altri erano armati con fucili da caccia.

Come concordato, quando il secondo gruppo ebbe terminato la manovra, sparò in aria un colpo di fucile. Il Comandante Tempesta, che era rimasto un po’ in disparte dai suoi uomini, urlò restando nascosto:

“Siete circondati! Alzate le mani e gettate le armi!”

I soldati obbedirono. Solo allora il Comandante Tempesta uscì allo scoperto, andò sul sentiero e chiese ai militari:

“Chi è il vostro comandante?”

Si fece avanti un giovane, che avrà avuto poco più di venticinque anni, il quale rispose:

“Sono io, tenente Ettore Villa!”

“Cosa ci fate qui?” gli chiese brusco il Comandante.

“Siamo soldati del Nuovo Esercito Nazionale; il nostro capo, il Generalissimo, è vicino a riunire la Nazione dopo la distruzione della Grande Guerra.”

“E noi cosa c’entriamo con questo?”

“Il Generalissimo sta preparando l’offensiva finale contro i signori della guerra che ancora gli si oppongono, e per essere certo della vittoria ha acquistato un grosso carico di armi, con cui rinforzare le sue truppe. Ma le armi dovranno passare da qui, dal Passo della Forca, e da Laresinio si controlla il Passo, dunque…”

“Dunque volevate essere sicuri di averci dalla vostra parte.” concluse il Comandante.

“Esatto, e siccome giù temevano che i signori della guerra potessero attaccare il villaggio, hanno deciso di mandare noi a proteggervi.”

“Che pensiero gentile! Però non dovevate disturbarvi, perché come avete visto oggi siamo perfettamente in grado di proteggerci da soli.”

“Cosa volete fare?”

“Non posso mica decidere da solo! Se ne deve discutere.”

“E allora?”

“Adesso ti porto dal Giudice, sarà lui a decidere.”

“E i miei soldati?”

“Se non fanno niente di stupido, tipo sparare ai miei uomini, non hanno nulla da temere.”

Il tenente Villa fu portato dal Giudice, che il Comandante Tempesta trovò al nascondiglio cogli altri paesani. Gli spiegarono le ragioni che avevano portato i soldati a venire lì:

“Noi non ci immischiamo nelle faccende della pianura.” disse il Giudice.

“Cercate di essere ragionevole", disse il tenente Villa. Il Generalissimo vi ricompenserà per il vostro aiuto.”

“Ma non c’è niente che un signore della guerra possa fare per aiutarci. Noi non abbiamo bisogno di niente.”

“Davvero non vi serve niente? Prima al rifugio ho visto bambini malati di morbillo, persone denutrite… possiamo fornirvi vaccini, alimenti a lunga conservazione, attrezzi, stufe, qualsiasi cosa che vi possa servire.”

Purtroppo il tenente Villa non aveva tutti i torti, e il Giudice lo sapeva. Nel paese solo gli anziani erano stati vaccinati, prima della guerra. In paese non c’era un medico. Solo tre mesi prima Antonio, il maniscalco, si era ammalato di tetano ed era morto.

“Va bene, vi aiuteremo”, disse infine il Giudice. “Finché starete qui, alloggerete al vecchio Hotel Quattrocroci, così non passerete la notte all’aperto. Però le vostre armi restano in nostra custodia.”

“Non se ne parla!”

“Siete sotto la nostra protezione, non avete nulla da temere.”

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Capitolo III

L’Hotel Quattrocroci, che prendeva il nome dalla vicina “Cima delle Quattro Croci”, era un vecchio edificio ai margini del paese costruito molti anni prima della guerra, quando ancora Laresinio era meta turistica per le settimane bianche. All’epoca in cui fu costruito era vicino alle piste da sci, che però ora erano in gran parte occupate dal ghiacciaio. Non era abitato da molto tempo, ma era solido e in grado di ospitare i militari il tempo della loro permanenza nel paese.

Come richiesto dal Giudice, lasciarono le armi in paese, in consegna agli abitanti del villaggio. Ora dovevano aspettare, ma perlomeno aspettavano con un tetto sopra la testa. La marcia attraverso le montagne per arrivare a Laresinio era stata terribile; partiti in settantatré, compresi due ufficiali, tre sottufficiali e cinque graduati di truppa, erano arrivati a Laresinio in sessantasette. In sei erano morti assiderati nelle gelide notti passate all’aperto.

Non se li erano portati dietro, li avevano seppelliti dove erano morti, segnando il punto con una croce e il luogo sulla mappa, così se un giorno fossero venuti a cercarli li avrebbero trovati.

L’ultimo a morire era stato il soldato Giuseppe Mezzanzanica, due notti prima di arrivare al paese. Non erano nemmeno riusciti a scavare i consueti due metri per seppellirlo, il terreno era talmente duro che già scavarne uno solo costò molta fatica ai due soldati che il tenente Villa aveva incaricato della sepoltura. Uno dei due soldati incaricati di quel compito era Giovanni G., detto “Giggì”, che veniva dallo stesso paese di Giuseppe ed era suo amico fin dall’infanzia. Nessuno dei due aveva scelto di arruolarsi nell’esercito del Generalissimo; due anni prima nel loro villaggio erano venuti i reclutatori del Nuovo Esercito Nazionale, i quali richiesero tre giovani che prestassero servizio per dieci anni nell’esercito del Generalissimo in cambio della protezione che egli avrebbe fornito al villaggio.

Loro due, Giuseppe e Giggì, non avevano famiglia, i genitori di entrambi erano morti e non avevano fratelli, quindi per risparmiare i figli degli altri gli fu chiesto di offrirsi volontari, cosa che fecero, seppur con riluttanza.

Pensava a queste cose, ma era ora di alzarsi: nonostante la forzata inattività il Sergente aveva deciso che il reparto doveva comunque restare in piena efficienza.

Lo aveva deciso il Sergente perché il tenente Villa e il sottotenente Gazzaniga erano stati alloggiati separatamente, in paese. Si erano opposti, perché un ufficiale non deve assolutamente essere separato dai propri soldati. Ma il Giudice aveva insistito: non sia mai che un ufficiale non riceva una sistemazione degna del suo rango.

Stesso discorso quando il Giudice propose al tenente Villa di prendere una domestica che tenesse in ordine il loro alloggio. Il tenente Villa provò a dire che c’era già l’attendente. Niente da fare, il Giudice fu irremovibile: gli attendenti sarebbero stati assieme agli altri soldati.

Ma comunque, ora i soldati passavano gran parte della giornata senza fare nulla.

Giggì stava guardando fuori dalla finestra, quando vide una ragazza che da sola stava portando su in paese una gerla carica fascine da ardere. Uscì e le chiese se avesse bisogno di aiuto. Lei rispose di sì, e lui si caricò la legna e la accompagnò fino in paese.

Intanto in paese il tenente Villa era a colloquio col Giudice:

“Allora, le armi quando arrivano?”

“Ho segnalato con la radio che avete accettato di collaborare e che il passo è sicuro. Tra due settimane ci sarà lo scambio.”

“Così tanto?”

“Il tempo di avvisare i nostri fornitori e mandare su la contropartita.”

“E la contropartita in cosa consiste?”

“Non sono affari vostri”, ribatté brusco il tenente Villa.

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Capitolo IV

Erano passate due settimane dall’arrivo a Laresinio del tenente Villa e dei suoi soldati. Finalmente un mattino di sole arrivò la contropartita attesa; Erano delle casse, portate su muli che lentamente risalivano l’angusto sentiero. L’attesa era finita, ora si poteva procedere allo scambio vero e proprio.

I soldati scaricarono le casse e a spalla furono portate all’Hotel Quattrocroci. Nessuno a parte il tenente Villa sapeva cosa contenessero, ma il giudice ebbe l’impressione che fossero pesanti.

Cos’era quella misteriosa contropartita che i soldati stavano per dare via in cambio delle armi?

Oro? Impossibile, sarebbe stato molto più pesante e probabilmente ne sarebbe bastato meno.

Gioielli? Il Giudice non sapeva se era ancora possibile radunarne così tanti, e poi, come per l’oro, erano state contate almeno venti casse. Troppe perché contenessero gioielli o oro.

Banconote? Dopo la guerra non c’era nessuna banca o zecca che ne stampasse; e poi, i trafficanti avrebbero accettato la carta moneta di un altro Stato?

Restava il mistero, nessuno sapeva cosa contenessero quelle casse.

Alla fine il tenente Villa, dopo molte insistenze, il giorno prima dello scambio acconsentì a che il Giudice e il Comandante vedessero il contenuto delle casse.

Nella stanza dell’Hotel adibita a magazzino i tre tirarono giù una cassa, la aprirono, e dentro…

Dentro c’erano dei cristalli, a prima vista sembrava sale, tanto che il Comandante era alquanto perplesso. Poi però, il Giudice capì di cosa si trattava:

“Questa è metanfetamina! Durante la guerra il crimine organizzato faceva un sacco di soldi su questa roba.”

“E non solo durante la guerra.” commentò il tenente Villa.

“Non vi vergognate?” chiese il Comandante, furente.

“E perché dovremmo? A noi servono le armi, quelli che le armi le hanno sono disposti a darcele in cambio della droga.”

“Ma come ve la siete procurata?” chiese il Giudice.

“I narcotrafficanti per i loro affari hanno bisogno che finisca il caos provocato dai signori della guerra, quindi si sono alleati col Generalissimo e il Nuovo Esercito Nazionale affinché riportino un minimo di ordine. Diciamo che è uno scambio vantaggioso per entrambi.”

Nella stanza il silenzio fu assordante per alcuni interminabili secondi, poi il Giudice disse:

“Le armi arrivano domani al passo, giusto?”

“Sì, esatto.”

“Il Comandante vi guiderà fin lassù; è pericoloso in questa stagione, ci sono buche nel terreno nascoste dalla neve, in cui è facile cadere. Senza una guida esperta rischiate di fare una brutta fine.”

Il giorno successivo il tempo era ancora sereno, al mattino presto il tenente Villa, il Comandante e trenta soldati partirono per il passo con le casse che contenevano la contropartita.

Tornarono nel tardo pomeriggio, quando il sole già si era nascosto dietro le cime delle montagne. Erano sempre carichi, ma di casse diverse da quelle con cui erano partiti.

Il giorno successivo i soldati ripartirono. Non mancava nessuno, tranne il soldato Giovanni G. che dalla sera prima non si trovava da nessuna parte.

Il Giudice disse che probabilmente si era nascosto sulle montagne, il tenente Villa imprecò contro quei montanari che davano asilo ad un disertore, ma alla fine partirono.

Quando la colonna fu lontana ed era quasi sparita alla vista, il Giudice andò nel bosco vicino al paese, fino ad un larice vicino al quale c’era quella che a prima vista sembrava una grossa roccia. Scostò una pietra che teneva fermo un telo coperto di aghi di pino, rivelando quella che in realtà era una piccola grotta abbastanza grande per nascondere un uomo rannicchiato, e fece uscire il soldato G.

“Adesso sei uno di noi. Cosa sai fare?”

“Me la cavo come maniscalco.” Rispose G. seguendo il Giudice che tornava al paese.

Dario Carcano

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Dario Carcano ha anche scritto un altro realistico racconto di guerra:

La "Casati" e la "Fieramosca"

Nonostante la città fosse un piccolo capoluogo della provincia lombarda, durante gli anni della Repubblica Sociale poteva vantare un movimento partigiano molto attivo. Le fabbriche di Borgo San Bernardo, che nel corso della guerra si erano ulteriormente espanse per produrre componenti aereonautiche, avevano creato una forte base operaia nella città, da cui avevano attinto a piene mani i comunisti, che nell’ottobre del 1943 avevano già fondato la 173° Brigata Garibaldi, guidata dal comandante “Raul”, ovvero Adriano Borgonovo, riapparso dalla clandestinità nei giorni successivi l’8 settembre.

Contemporaneamente, anche i fascisti si erano dati una organizzazione. I giorni successivi il 25 luglio erano stati confusi, per tutti ma in particolare per i fascisti, costretti a scegliere se restare leali al nuovo governo e provare a rientrare in politica, oppure accettare passivamente la dissoluzione del Partito decisa dai badogliani. Quasi tutti optarono per la prima opzione, e in quelle settimane fascisti di tutta Italia scrissero ai prefetti, alle autorità locali nominate dal nuovo governo Badoglio, e persino direttamente al capo del governo e al sovrano, mettendo a disposizione del nuovo governo sé stessi, la propria esperienza e la propria rete di conoscenze.
La notizia dell’armistizio la sera dell’8 settembre sparigliò nuovamente le carte in tavola: ora era coi tedeschi che si doveva trattare, non più con Badoglio e il Re.

Il 13 settembre, il giorno successivo la liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso, il federale Carlo Radice aveva già ricostruito il Fascio cittadino, e la locale Casa del Fascio era nuovamente presidiata da militari in camicia nera; quei militari erano una dozzina di ragazzini raccattati dalla strada, pagati personalmente dal federale, e privi di addestramento militare, ma in quei giorni la forma, l’apparenza, erano esse stesse la sostanza.
C’era molto da fare in quelle settimane, innanzitutto ricostruire un esercito per riprendere la guerra al fianco dell’alleato germanico.
Il federale Radice si spese personalmente affinché nella “sua” provincia non ci fossero renitenti alla leva, e a dicembre era riuscito a radunare quasi mille coscritti, partiti per l’addestramento in Germania con una cerimonia di saluto a cui partecipò personalmente.

Rimase però molto deluso quando scoprì che dei mille partiti per la Germania, solo centotrenta sarebbero effettivamente entrati a far parte del nuovo esercito repubblicano, e gli altri erano stati trattenuti in Germania dai tedeschi, che li avrebbero usati come manodopera nelle loro fabbriche al posto degli operai chiamati a combattere nella Wehrmacht.
Radice scrisse delle lettere infuriate sia a Mussolini che al ministro Graziani, esprimendo la sua delusione per come i tedeschi non permettessero agli italiani di riscattare l’onore della Patria. Queste lettere non ebbero risposta, e da quel momento il federale capì che in quella guerra non avrebbe ricevuto alcun aiuto, e avrebbe dovuto arrangiarsi da solo.

Per questo scopo trovò la persona giusta: Amilcare Bellano, quarantaduenne ex tenente colonnello della Regia Aereonautica, che si sarebbe guadagnato l’affettuoso soprannome il Macellaio per le atrocità commesse nella guerra contro i partigiani, a cui il federale affidò il compito di costituire un corpo militare che sarebbe stato interamente dipendente da lui, senza rispondere per l’utilizzo ai vertici della Repubblica.
Bellano riuscì a raccogliere circa trecento militi, tra cui militari sbandati provenienti dalle più diverse specialità, adolescenti fanatici provenienti dalle file degli Avanguardisti e dei Balilla, e molte persone tirate dentro con minacce di ritorsioni. Quando nell’estate del 1944 il governo centrale costituì ufficialmente le Brigate Nere, quella che fino a quel momento era stata nota come Banda Bellano divenne la base su cui fu costruita la Brigata Nera “Pierangelo Casati”.

Nella lotta contro il banditismo la Banda Bellano, poi Brigata Casati, ebbe l’onore di essere affiancata da un reparto della prestigiosa Xª MAS. Il comando tedesco, infatti, riteneva strategiche le fabbriche della città, e non fidandosi del federale Radice, e soprattutto fidandosi ancora meno di Bellano e di quella che ai loro occhi era una banda di sbandati, i tedeschi chiesero e ottennero dal governo della Repubblica che in quella zona fosse operativo un reparto della Xª, ossia il Battaglione Fieramosca, comandato da Roberto Turriziani, ex tenente di vascello della Regia Marina.

Tra i due reparti non correva buon sangue.
Per quelli della Bellano, quelli del Fieramosca erano dei padreterni cocchi dei tedeschi, che sapevano tutto loro e gli rubavano le reclute usando il prestigio di Borghese e della Xª.
Per quelli del Fieramosca, Bellano e i suoi erano un branco di vagabondi e sbandati che si erano messi la camicia nera per rubare e uccidere impunemente facendosi passare per fascisti.
Come anticipato, il Fieramosca, come il resto della Xª MAS, non aveva i problemi di reclutamento che invece erano cronici nelle altre forze armate di Salò. Il prestigio di Borghese, del nome della Xª, e lo spirito di corpo assicuravano un costante afflusso di volontari, mentre invece non solo la Bellano, ma anche i reparti dell’esercito regolare lottavano con un grosso problema di renitenza alla leva.

Per questo nel settembre 1944 la Brigata Casati aprì un centro di reclutamento in cui i volontari che si presentavano venivano ingannati, e convinti a credere che avrebbero prestato servizio nella Xª MAS, e non nella Casati.
Il centro rimase attivo circa tre settimane, poi una bomba lo distrusse uccidendo due militi della Casati; l’attentato venne attribuito ai partigiani, e dieci detenuti politici vennero presi dal carcere locale e giustiziati per rappresaglia.
Una settimana dopo, due militi del Fieramosca che avevano avuto il permesso di uscire per la serata vennero aggrediti mentre tornavano alla caserma. I cadaveri sarebbero stati ritrovati il giorno successivo, senza i testicoli e appesi a due lampioni con un cappio al collo.

Nonostante uno dei due militari si fosse vantato di aver rubato la donna ad un ufficiale della Casati, cosa che aveva rafforzato i sospetti che l’azione fosse una rappresaglia della Casati contro il Fieramosca, anche questo atto fu attribuito ai partigiani, e per rappresaglia altri dodici prigionieri politici finirono fucilati.
Nelle settimane successive fino all’inverno inoltrato i partigiani si diedero alle bombe: ogni settimana sotto alle caserme sia della Casati che del Fieramosca esplodeva un ordigno, prima da una parte, poi in risposta dall’altra, come se la Garibaldi non facesse discriminazioni tra i due reparti.

Questa situazione andò avanti fino a febbraio del 1945, quando il battaglione Fieramosca lasciò la città e fu mandato a rafforzare il fronte.
Ma a quel punto, anche il federale Radice e i vertici della Casati avevano altro a cui pensare.

Dario Carcano

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Nota: Questo racconto ci mostra come in una situazione di guerra avanzata (quando a distanza di anni comincia ad emergere il caos) il punto di approdo sia la guerra tra bande, dove gli obiettivi strategici teorici restano sullo sfondo e prevalgono questioni locali, "tribali", personali.

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Diamo spazio a un altro breve racconto di Dario Carcano:

Lo sciopero

Erano già tre mesi che la miniera di Donnersville era chiusa per lo sciopero dei minatori; uno sciopero a oltranza contro le decisioni del governo, a cui avevano aderito anche i minatori che abitavano nel villaggio di Huttonwood, in gran parte impiegati nella miniera di Donnersville.

Perché lo sciopero? Perché secondo il governo estrarre il carbone non era più conveniente, e aveva deciso di togliere i sussidi pubblici alle aziende che gestivano le miniere; i minatori non erano d’accordo perché non volevano restare disoccupati. Così i sindacati avevano dichiarato lo sciopero.

Da tre mesi si andava avanti, e il governo non faceva marcia indietro. Per le famiglie di molti minatori la situazione iniziava diventare insostenibile; i risparmi stavano finendo, e si stava iniziando a far fatica a pagare la spesa e le bollette.

“Ti prego Arthur, non ci puoi fare credito? Se do i soldi a te poi non riesco a pagare la luce!”

“Mi dispiace David, ma sai come funziona. Non faccio credito a nessuno” e disse questo indicando un cartello dietro il bancone, dove in grossi caratteri maiuscoli stava appunto scritto ‘Non si fa credito a nessuno!’

A parlare erano David Smith, minatore padre di una figlia e due figli, e Arthur Johnson, proprietario dell’unico negozio di alimentari di Huttonwood. Non era la prima discussione di quel genere nel negozio del signor Johnson, quasi tutti i minatori di Huttonwood gli avevano chiesto di fargli credito, promettendo che avrebbero pagato non appena avessero ripreso a lavorare, ma la risposta di Arthur era sempre la stessa.

“Mi dispiace, ma la mia regola è ‘si paga subito e in contanti’. Ho questo negozio da trent’anni, e in trent’anni non ho mai fatto credito a nessuno, e non ho intenzione di iniziare adesso!”
“Sei un verme!” gli urlò David uscendo dal negozio.

“Se veramente avesse a cuore la sua famiglia, ci avrebbe pensato due volte prima di aderire a questo sciopero” pensò tra sé Arthur mentre apriva il giornale. Si era messo gli occhiali da lettura e aveva iniziato a leggere un articolo della sezione sportiva, quando entrò nel negozio una ragazza, poco più che ventenne. Era Linda Smith, la figlia di David; era molto bella, il vecchio Arthur aveva un debole per lei e Linda lo aveva intuito.

“Arthur, so che mio padre non può pagare, e tu non sei disposto a fargli credito. Ma se potessi farti cambiare idea, in qualsiasi modo…” toccandosi vogliosamente la scollatura del vestito mentre lo diceva.

Arthur tolse gli occhiali, e disse a Linda: “No! Non così.” Prese due buste di carta e ci mise dentro carne in scatola, verdure in scatola, riso e altri generi alimentari a lunga conservazione. Prima di prendere la roba Linda lo baciò su una guancia, poi uscì.

* * *

Arthur non usava spesso l’auto. Del resto in paese non serviva, la usava solo le poche volte che doveva andare in città. Quella sera l’aveva caricata con varie buste piene di generi alimentari. Era buio, e Arthur aveva in mente una lista di indirizzi a cui fermarsi; ogni volta che arrivava alla via di uno di questi si fermava, prendeva due buste della spesa, le lasciava davanti alla porta, suonava il campanello e se ne andava prima che i proprietari potessero vederlo.

Così ogni volta, facendo attenzione a non farsi vedere. Ogni tanto nella busta lasciava anche due biglietti da cento, se sapeva che era una famiglia particolarmente bisognosa.

Erano quasi due ore che andava avanti, mancavano solo due indirizzi, poi aveva finito.

Mentre sistemava le buste davanti alla penultima casa si accorse che qualcuno lo stava osservando. Si girò e vide che era Linda. Arthur le sorrise, e si portò un dito sulla bocca. Lei annuì e se andò.

Era esausto, ma mancava solo una casa.

Poi aveva finito.

Dario Carcano

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Nuova idea di Dario Carcano, in forma dialogica:

Il pranzo educativo

“All’epoca in cui ero in terza elementare nella mia scuola la direttrice ebbe un’idea per rendere il quotidiano pranzo alla mensa un esperienza formativa: ogni bambino avrebbe estratto un bigliettino col nome di un paese del mondo, e avrebbe mangiato in maniera proporzionale al PIL pro capite di quel paese.”

“Ah, una cosa carina!”

“Ma neanche un po’! Era un'idea che come crudeltà stava a metà tra il metodo Montessori e il metodo Cianciulli. Quel giorno ho visto cose che tu non puoi immaginare.

Ho visto il Pakistan sventrare l’Estonia con cucchiaio di plastica per prendergli una fetta di prosciutto. Ho visto il Venezuela elemosinare alla Spagna dell’olio da mettere sul pane, e la Spagna rispondere ‘Solo se mi segui in bagno’.

Ho visto la Svizzera che costringeva la Somalia e il Niger a lottare tra loro, promettendo al vincitore un piatto di pasta. Anzi mezzo. Mentre l’Italia, la Francia e la Germania scommettevano intere portate su chi avrebbe vinto.”

“E tu?”

“Quel giorno fu una delle poche volte nella mia vita in cui fui fortunato. Mi capitarono gli Stati Uniti. E in quanto Stati Uniti avevo diritto a:

“E tutta quell’abbondanza immagino che tu l’abbia condivisa con gli altri!”

“Ma neanche per idea! Dio me l’ha data, guai a chi la tocca. Ho pugnalato con una forchetta la mano della Colombia quando ha tentato di rubarmi un piatto di patate e ho minacciato il Messico quando mi ha chiesto un piatto di pasta. Il cibo lo avevano, erano loro che non sapevano gestirselo!”

“E poi?”

“Son stati senza mangiare, così imparano a nascere poveri!”

“Intendevo dire, quell’esperimento poi è stato ripetuto?”

“No.”

Dario Carcano

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Passiamo al contributo di Sandro Degiani:

Pilota

Uno dei miei primi racconti… molto evidente l'influenza delle letture fantascientifiche di allora.
Una curiosità… nel 2007 è stato annunciato che è stata creata una interfaccia tra cervello e memoria al silicio e che la scambio di dati è stato effettuato. La connessione avviene attraverso una porta a 72 pin… ma io lo sapevo già dieci anni prima!

02/09/2005,  20.31

Sognavo di volare e non volevo svegliarmi.... tutt'intorno a me si stendeva lo spazio infinito, un drappo di velluto nero trapuntato di abbaglianti diamanti, screziato da colorate nuvole di gas e di polveri, una impetuosa sensazione di forza e di energia percorreva le mie braccia ed i miei occhi scrutavano oltre l'infinito... il gracchiare rauco della sirena mi riporta in questo squallido mondo di metallo lurido e scrostato, nel mio cubicolo puzzolente ed umido, con in bocca un gusto amaro di rancido da far vomitare.

La testa pulsa dolorosamente e ronza come piena di vespe impazzite, gli occhi non mettono a fuoco che vaghe ombre e scintille multicolori, le orecchie rombano e fischiano...

Giovani uomini! Non restate terricoli per tutta la vita! Iscrivetevi all'Accademia Spaziale e diventate PILOTI!

Ecco.. così imparo a credere ai manifesti dove giovani atletici dagli occhi azzurri, circondati da femmine adoranti con un metro di torace e curve da capogiro protendono la mano e lo sguardo fiero verso le galassie! Potevo ben scegliere un altro mestiere invece di farmi mettere le prese e diventare Pilota!

Già... le prese... me le sto grattando furiosamente come ad ogni risveglio, facendo sanguinare il bordo dove la carne confina con la plastica e luccicano i 72 pin dorati, luccicanti ed invitanti... "...collegami!"  sembrano implorare!

Passo alle prese delle caviglie, gratto pure loro,  poi una grattatina a quella da 144 pin sulla nuca e mi ficco nella doccia ad ultrasuoni. Niente acqua per i piloti,  fa' a pugni con le prese. Niente di peggio che un corto tra due pin. Ti sembra di essere messo in un tritacarne, e a seconda dei pin in corto  viene deciso da che parte del corpo si incomincia a macinare.

Pulito ma puzzolente come solo un Pilota può essere, indosso una tuta da turno di riposo fresca di bucato e barcollo verso il locale mensa per farmi uno spuntino, magari così riesco a far star fermo lo stomaco!

Dalla piccola cambusa si sentono delle voci che chiacchierano, la porta è socchiusa e ci sono un Motorista ed un Sistemista a fine turno vicino al tavolo.

Il Sistemista mi volta le spalle e sta parlando ad alta voce al Motorista unto e bisunto con il cappello messo al contrario e seduto a cavalcioni dello sgabello.

Il Motorista non sembra molto interessato e masticando lentamente guarda con occhio spento un panino con della roba che sembra salame di soia (bleah!!! Mi coglie di sorpresa un conato di vomito!).
Ma il Sistemista non sembra far caso allo scarso interesse dell'uditorio, sembra parlare soprattutto per se più che per il compagno.

".. sai cosa vuol dire avere una vista che spazia dai raggi gamma all'infrarosso fino ai neutrini? Sai cosa vuol dire sentire che le tue gambe sono motori con dieci TeraErg di spinta? Sai cosa vuol dire avere accesso ad un archivio totale dei dati delle scibile umano e consultarlo tutto in tre nanosecondi? No, non lo sai... altrimenti saresti un Pilota! Sono una Razza Superiore di Superman drogati! Dopo averle avute, una settimana senza le prese e il cervello fa tilt..."

"Già ... come quel Roberts che aveva raggiunto il traguardo e quando gliele hanno tolte si è buttato sotto un camion."

Poi cade improvviso un imbarazzante silenzio quando lo sguardo del Motorista si alza su di me e fa' voltare anche il Sistemista.

"Ehm... Buongiorno, Pilota.... "

"... Buongiorno Pilota... Buon riposo!"

"...grazie ragazzi!  Buon Riposo anche a voi!"

"Cavolo, Cavolo, CAVOLO!!" penso  "Anche Roberts non ce l'ha fatta!"

Bill Roberts alias "Buck Rogers", il nostro capocorso all'Accademia... lui sì che era come il tipo dei cartelloni, ragazze comprese!

Ricordo ancora le sue parole alla consegna dei Brevetti, esibendo spavaldamente le prese che luccicavano nuove sui suoi polsi"... dieci anni a girare la Galassia mentre il conto in banca si ingrassa e poi a farmelo consumare a colpi di lingua su una spiaggia tropicale, Arrivederci ragazzi!"

Dieci anni nello spazio con le prese collegate e poi.. un Grazie di Cuore, una stretta di mano ed il Benservito!

Ecco l'Eroe che torna a casa! Dopo dieci anni con le prese collegate a decine di astronavi a zonzo per la Galassia adesso ritorna alla sua Terra, alla vita "normale", a giocare coi i bambini ed i cani e a correre per i prati!

Ti ricordi ancora il profumo di una donna, dell'erba bagnata, dei tigli in fiore, Pilota? I tuoi occhi riescono ancora a percepire le sfumature di un tramonto, la magia della nebbia, le mille sfumature del verde delle foglie e del blu del mare?

Solo dieci anni ti raccontano, poi torni a casa, avrai girato in lungo ed in largo la Galassia e riceverai una pensione che ti farà vivere come un nababbo per il resto della vita... già, il resto della vita... tre giorni nella migliore delle ipotesi o una camicia di forza ed una stanza imbottita per sempre.

Premo un paio di pulsanti a caso sul menù e ritiro il cibo nel vassoio, vado al frigo e mi prendo una bottiglia di birra. No, non mi siedo... non resto qui a farmi guardare di traverso le prese da questi idioti,  con gli occhi sgranati mentre mi guardano mangiare... si, un pilota mangia anche, ogni tanto...!

".. scusate ragazzi! Vado a mangiare nel mio cubicolo... non mi sento ancora completamente in sintonia con la realtà!"

".. ma certo Pilota, ci mancherebbe!"

".. nessun problema Pilota, Buon Appetito!"

Faccio il corridoio con lentezza e sussiego studiati, girato l'angolo butto il vassoio nel condotto di riciclaggio e mi scolo la bottiglia di birra. Tre lunghi passi e sono in cabina.

Mi immergo nel bozzolo di pilotaggio, sistemo sui supporti imbottiti polsi e caviglie, collego le prese ai polsi ed alle caviglie, poi adagio la nuca nel supporto e la presa cervicale entra in contatto... scattano anche le prese dei polsi e delle caviglie... la luce si spegne, il silenzio cade improvviso e poi...  un lampo abbagliante, una energia infinita mi percorre le membra ed esplode nel cervello, poi SONO LA NAVE! Ed ecco la quiete, la calma olimpica, l'immensa sensazione di potenza, di libertà, di eternità alla quale nessun pilota riuscirà mai a rinunciare.

Sandro Degiani

MOE8, dipinto di Sandro Degiani

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Quello che segue non è un racconto, ma un articolo scritto dal nostro amico Andrea Villa:

L’eroica impresa del
Capitano Roberts Smalls

La nostra storia inizia nel secondo anno della guerra civile americana. È il 12 maggio 1862, e la Marina dell'Unione ha istituito un blocco navale intorno a gran parte della costa atlantica e del Golfo, per impedire ai confederati di acquisire preziosi rifornimenti di armi, munizioni e generi di sussistenza dall’Europa. All’interno di questo blocco, i Confederati stanno costruendo delle fortificazioni per difendere Charleston, le sue acque costiere e Fort Sumter, dove esattamente un anno e un mese prima sono stati sparati i primi colpi della guerra. Nel porto della città è ormeggiata la nave C.S.S. Planter, una vecchia nave per il commercio del cotone recentemente riconvertita a scopi militari.

Dopo due settimane passate a fare rifornimento lungo la costa atlantica della Confederazione, la Planter fa ritorno al porto di Charleston verso il calare della notte. L’indomani mattina è previsto che la nave riprenda il mare, e per questo motivo essa è stata pesantemente armata con un cannone da 32 libbre, un obice da 24 libbre e numerosi fucili, di cui uno prelevato da Sumter un anno prima. Ad un certo punto della notte, i tre ufficiali bianchi di bordo (il capitano C.J. Relyea, il pilota Samuel H. Smith e l'ingegnere Zerich Pitcher) prendono la fatidica decisione di sbarcare, per far visita alle proprie famiglie e rilassarsi, lasciando gli otto membri dell’equipaggio (tutti schiavi di colore) a bordo. Relyea, se ciò si dovesse sapere, potrebbe essere arrestato e condannato dalla Corte Marziale, ma si fida del proprio equipaggio e non ci pensa due volte.

Tra i membri dell’equipaggio vi è un certo Robert Smalls, uno schiavo mulatto di 22 anni che naviga queste acque da quando era adolescente: intelligente e pieno di risorse, è un navigatore esperto con una famiglia che desidera essere libera più di ogni altra cosa. Smalls è il vero e proprio pilota della nave, ma poiché per legge della Confederazione solo i bianchi possono essere classificati come tali, il suo ruolo ufficiale è quello di "timoniere". Smalls viene anche preso in giro dai bianchi per la sua eccessiva somiglianza a Relyea. Nessuno degli ufficiali sa però che Smalls si è preparato e ha pianificato questa occasione da settimane, ed è disposto a usare ogni arma a bordo per andare fino in fondo.

Robert Smalls è nato il 5 aprile 1839, sul retro della casa del suo proprietario, al 511 di Prince Street a Beaufort, nel Sud Carolina. Sua madre, Lydia, serviva in casa ma è cresciuta nei campi. Nessuno sa chi era suo padre: alcuni dicono che fosse il suo proprietario, John McKee; altri, suo figlio Henry; altri ancora, il direttore della piantagione, Patrick Smalls. Ciò che sappiamo è che i McKee favorivano Smalls rispetto agli altri bambini schiavi, tanto che la madre, temendo che raggiungesse la pubertà senza cogliere appieno gli orrori dell'istituzione in cui era nato, fece in modo che fosse mandato nei campi a lavorare, e ad osservare la condizione degli altri schiavi. In seguito la madre chiese ai McKee il permesso per Robert di recarsi a Charleston è di essere “affitato” per vari lavori. Quando Smalls compì 19 anni, si era già cimentato in numerosi lavori in città, guadagnandosi perfino il permesso di potersi tenere un dollaro del suo salario settimanale (il resto andava al suo padrone). Pochi conoscevano il porto di Charleston meglio di Robert Smalls.

È qui che Robert si è guadagnato il suo lavoro sulla Planter. Ed è qui che ha incontrato sua moglie, Hannah, una schiava della famiglia Kingman, che lavora in un hotel di Charleston. Con il permesso dei loro proprietari, i due hanno iniziato a vivere assieme e hanno avuto due figli: Elizabeth e Robert Jr. Ben sapendo che la loro unione non è permanente, e che andrebbe in briciole se i loro proprietari decidessero di dividerli o di vendere i loro figli, Smalls ha chiesto al proprietario di sua moglie se poteva acquistare la sua famiglia in via definitiva; egli ha acconsentito, ma ha chiesto un prezzo molto alto: 800 dollari. Smalls al momento ne ha solo 100, e ci vorrebbe troppo tempo per guadagnare i 700 dollari rimanenti.

Senza volerlo, il capitano Rylea, con la sua somiglianza, offre a Smalls un’opportunità migliore. Per i bianchi della confederazione, le navi dell'Unione che bloccano i loro porti sono un altro esempio dell’oppressione del Nord sul Sud; per gli schiavi neri come Robert Smalls, queste navi rappresentano invece l’allettante promessa della libertà. Per ordine del segretario Gideon Welles a Washington, i comandanti della Marina hanno iniziato ad accettare gli schiavi fuggitivi come merce di contrabbando dallo settembre del 1861. Anche se Smalls non può permettersi di comprare la libertà della sua famiglia, sa che potrebbero conquistare la loro libertà scappando via mare - e così ha detto a sua moglie di essere pronta ad ogni occasione che si presenti loro.

L’opportunità si presenta infine la notte del 12 maggio. Una volta che gli ufficiali bianchi sono scesi a terra, Smalls confida il suo piano agli altri schiavi di bordo. Due scelgono di restare a terra, e di non tentare: il piano è molto pericoloso, e Smalls e i suoi uomini non hanno alcuna intenzione di essere presi vivi: o scapperanno, o useranno le armi a bordo per combattere e, se necessario, affonderanno la nave.

Alle due del mattino, Smalls indossa il cappello del capitano Rylea e ordina all'equipaggio ridotto della Planter di mettere in moto la caldaia e di issare le bandiere della Carolina del Sud e dei Confederati come trucco mimetico. Allontanandosi dal molo, la Planter si ferma presso un vicino porticciolo per raccogliere a bordo la moglie e i figli di Smalls, insieme ad altre quattro donne, tre uomini e un altro bambino.

Alle ore 3:25, la Planter si rimette in moto. Smalls usa il fischio della nave mentre questa passa attarverso le acque controllate dai Forti Johnson e Sumter. Smalls non soltanto conosce i segnali della Marina; piega le braccia come il capitano Rylea, così che, grazie alla lontananza e alle luci del mattino, è un bianco molto convincente. Solo quando la Planter esce dal raggio di tiro dei forti ribelli viene dato l'allarme. Ma ormai è troppo tardi.

Avvicinandosi al blocco navale dell’Unione, Smalls ordina al suo equipaggio di sostituire le bandiere confederate dei ribelli con un lenzuolo bianco portato dalla moglie a bordo. Non accorgendosi di esso, il Tenente J. Frederick Nickels della Marina Unionista ordina ai suoi marinai di "prepararsi al fuoco". Proprio mentre gli unionisti stanno per aprire il fuoco, questi si accorgono della bandiera bianca. Gli schiavi, vedendo che gli unionisti non sparano, iniziano a lasciarsi andare alla più viva gioia. Ora sono liberi, definitivamente, e per sempre.

Il 30 maggio 1862 il Congresso degli Stati Uniti approva il “sequestro” e la “riconversione della Planter, assegnando a Smalls e al suo equipaggio metà del denaro assegnato per il suo “acquisto”. Smalls ricevette personalmente 1.500 dollari, abbastanza per acquistare, nel dopoguerra, la casa del suo ex proprietario a Beaufort.

Nel Sud, i Confederati, dopo la fuga di Smalls, hanno messo una taglia sulla sua testa di 4.000 dollari. Nel Nord invece Smalls è acclamato come un eroe e il suo gesto ha sicuramente influito sulla decisione del Segretario della Guerra Edwin Stanton di dare inizio all’arruolamento di soldati di colore. Per il suo valore e per le sue coraggiose azioni nel corso della Guerra, Smalls viene promosso al rango di capitano e, quando la guerra finisce nell'aprile del 1865, lo ritroviamo a bordo della Planter in una cerimonia nel porto di Charleston. Dopo la guerra Small sarà capitano di marina, imprenditore e uomo politico, servendo come parlamentare in rappresentanza dello stato della Carolina del Sud.

La sua storia ci insegna che il valore della libertà, così come la pace e l’uguaglianza sociale, non hanno prezzo.

Andrea Villa

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E ora, uno straordinario racconto del grande Gianni Rodari, in linea con il tema del precedente articolo:

Giacomo di cristallo

Una volta, in una città lontana, venne al mondo un bambino trasparente. Attraverso le sue membra si poteva vedere come attraverso l'aria e l'acqua. Era di carne e d'ossa e pareva di vetro, e se cadeva non andava in pezzi, ma al più si faceva sulla fronte un bernoccolo trasparente.

Si vedeva il suo cuore battere, si vedevano i suoi pensieri guizzare come pesci colorati nella loro vasca.

Una volta, per isbaglio, il bambino disse una bugia, e subito la gente poté vedere come una palla di fuoco dietro la sua fronte: ridisse la verità e la palla di fuoco si dissolse. Per tutto il resto della sua vita non disse più bugie.

Un'altra volta un amico gli confidò un segreto, e subito tutti videro come una palla nera che rotolava senza pace nel suo petto, e il segreto non fu più tale.

Il bambino crebbe, diventò un giovanotto, poi un uomo, e ognuno poteva leggere nei suoi pensieri e indovinare le sue risposte, quando gli faceva una domanda, prima che aprisse bocca.

Egli si chiamava Giacomo, ma la gente lo chiamava "Giacomo di cristallo", e gli voleva bene per la sua lealtà, e vicino a lui tutti diventavano gentili.

Purtroppo, in quel paese, salì al governo un feroce dittatore, e cominciò un periodo di prepotenze, di ingiustizie e di miseria per il popolo. Chi osava protestare spariva senza lasciar traccia. Chi si ribellava era fucilato. I poveri erano perseguitati, umiliati e offesi in cento modi.

La gente taceva e subiva, per timore delle conseguenze.

Ma Giacomo non poteva tacere. Anche se non apriva bocca, i suoi pensieri parlavano per lui: egli era trasparente e tutti leggevano dietro la sua fronte pensieri di sdegno e di condanna per le ingiustizie e le violenze del tiranno. Di nascosto, poi, la gente si ripeteva i pensieri di Giacomo e prendeva speranza.

Il tiranno fece arrestare Giacomo di cristallo e ordinò di gettarlo nella più buia prigione.

Ma allora successe una cosa straordinaria. I muri della cella in cui Giacomo era stato rinchiuso diventarono trasparenti, e dopo di loro anche i muri del carcere, e infine anche le mura esterne. La gente che passava accanto alla prigione vedeva Giacomo seduto sul suo sgabello, come se anche la prigione fosse di cristallo, e continuava a leggere i suoi pensieri.

Di notte la prigione spandeva intorno una grande luce e il tiranno nel suo palazzo faceva tirare tutte le tende per non vederla, ma non riusciva ugualmente a dormire.

Giacomo di cristallo, anche in catene, era più forte di lui, perché la verità è più forte di qualsiasi cosa, più luminosa del giorno, più terribile di un uragano.

Gianni Rodari

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Novelle di Sandro Degiani

Il Console Pharaon Ulysses Kursk 1943 Capoverde 1944 New York 1946 Jevah Ritorno al Passato La minaccia del Krang Il Bianco muove e dà matto in tre mosse Gatto di Bordo Pilota Anche gli Dei devono morire Il Valore di un giorno Viaggio di un secondo Briciole Breve Storia del primo McDonald su Marte Volpiano Sud

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