La fine del Medioevo tra profeti ed inquisitori

33 - UN PROFETA CALABRESE

Con l'occupazione normanna, la Chiesa si rinnovò. Fu ripristinato il rito latino, abolito durante il periodo bizantino secondo la volontà della chiesa ortodossa, e le gerarchie ecclesiastiche, già dipendenti da Bisanzio, furono subordinate a Roma. Gli ordini religiosi occidentali si stabilirono saldamente in tutto il territorio: i Benedettini elevarono monasteri a Cetraro ed a Rossano, i Cistercensi a Corigliano, ad Acri quello famosissimo della Sambucina, favorendo anche l'incremento artistico ed economico di tutta la provincia. Un nuovo misticismo si diffuse ovunque, e da esso sorse la singolarissima figura di Gioacchino da Fiore, nato a Celico (CS) nel 1130.

Da giovane aveva intrapreso un lungo viaggio in Terrasanta, tornatone pieno di mistico zelo entrò nel monastero cistercense della Sambucina, cenobio che era anche centro culturale oltre che religioso. Questo, unitamente alla sua appartenenza alla borghesia locale, gli permise di attendere agli studi con l'aiuto di buoni maestri. Ciò appare evidente dalla conoscenza del greco, dalla finezza del suo latino e dalla profonda padronanza di testi della Scrittura che ricorrono nei suoi scritti.

La sua formazione fu prettamente latina, ed egli non ebbe nulla a che vedere con i monaci greci, che al suo tempo avevano una posizione predominante nella Calabria meridionale, ma del tutto trascurabile nella Cosenza normanna.

Gioacchino da FioreTrasferitosi a Corazzo, fu ordinato sacerdote, poi eletto Abate (1177). Nel 1183, durante la sua permanenza nell'Abbazia di Casamari, nel Lazio, incontrò a Veroli Papa Lucio III (1181-1185) ed ottenne da lui la "licentia scribendi".

Tornato in Calabria, si acquistò fama di oratore e fu stimato ed ascoltato per la novità e l'originalità degli argomenti. Attorno a lui giunsero seguaci da ogni parte ed egli, per poterli accogliere, edificò un nuovo monastero sulla Sila, su un poggio denominato "Fiore", donde venne il nome a Gioacchino ed al suo ordine, che fu detto appunto Florense. Riuscì in seguito ad ottenere privilegi per la sua Abbazia da Enrico VI (1191-1197) e Costanza d'Altavilla. Dal Papa Celestino III (1191-1198) ebbe invece il riconoscimento del proprio Ordine.

Gioacchino da Fiore incarnò in pieno il temperamento calabrese, forte ed elastico, a volte duro, ma sempre sincero. Al Re d'Inghilterra Riccardo Cuor di Leone (1189-1199) disse francamente che la sua crociata non sarebbe approdata a nulla; all'Imperatrice Costanza, che voleva confessarsi da Lui, disse risolutamente:

« Poiché io in questo momento occupo il posto di Cristo e tu quello di Maria Maddalena penitente, scendi dal tuo trono e scendi sulla terra, altrimenti io non ascolterò la tua confessione. »

Non solo il popolo confluiva presso il suo monastero, ma anche i potenti, e per ognuno di loro aveva una parola, un monito o un incoraggiamento, fino al giorno della sua morte, sopraggiunta quando si trovava a Pietrafitta, in uno dei monasteri dipendenti da quello di San Giovanni in Fiore, nel 1202.

La sua dottrina si fondava sia sulle Sacre Scritture, sia su rivelazioni private. Il tutto si basava su un concetto di storia umana intesa come progressiva conoscenza di Dio. Gioacchino suddivise questa storia in tre epoche: il Regno del Padre, da Adamo a Cristo; il Regno del Figlio, da Cristo fino al 1260, e il Regno dello Spirito Santo, che avrebbe avuto inizio dal 1260.

Il primo periodo era quello della sottomissione servile; il secondo quello dell'obbedienza filiale, mentre il terzo della libertà, secondo le parole dell'apostolo:

« Dov'è lo Spirito del Signore, c'è libertà » (2 Cor 3,17)

In questa nuova era il popolo di Dio, sosteneva Gioacchino, avrebbe vissuto in pace, affrancato da ogni fatica e sofferenza. Sarebbe stato il tempo degli umili e dei poveri, gli uomini non avrebbero riconosciuto più le parole "mio" e "tuo". I monasteri avrebbero abbracciato tutta l'umanità, e il Vangelo Eterno sarebbe stato letto con mistica intelligenza. L'era della perfezione, preceduta da guerre tremende e dall'avvento dell'Anticristo, si sarebbe compiuta nell'ambito della vita terrena. Gioacchino ne vedeva una prova nello stato di corruzione in cui si trovava la Chiesa a lui contemporanea.

Il giudizio universale sarebbe stato di condanna, innanzi tutto verso la Chiesa guidata dall'Anticristo divenuto Papa. Gli eletti di Dio, che si erano votati alla povertà apostolica, sarebbero stati dalla parte di Cristo in questa lotta. Avrebbero sconfitto l'Anticristo riunificando tutta l'umanità nel cristianesimo.

La teoria di Gioacchino, come si può notare, è caratterizzata da un "determinismo storico", che fa sì che la storia possa essere prevista e calcolata. Secondo i suoi calcoli, la prima epoca era durata quarantadue generazioni, la seconda cinquanta.

In vita, Gioacchino, fu un figlio fedele della Chiesa, e nei suoi scritti combatté i catari. Una raccolta di citazioni, tratta dalle sue opere, fu però condannata, probabilmente in considerazione dell'influenza che ebbe sulle sette eretiche. La sentenza definitiva fu pubblicata in occasione del IV Concilio Lateranense (11-30 novembre 1215). Dagli atti di questo Concilio leggiamo:

« Condanniamo, quindi, e riproviamo l'opuscolo o trattato che l'abate Gioacchino ha pubblicato contro il maestro Pietro Lombardo sulla unità o essenza della Trinità, dove lo chiama eretico e stolto, per aver detto nelle sue Sentenze: "Poiché il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una realtà suprema, che né genera, né è generata, né procede". Da ciò egli conclude che il Lombardo ammette in Dio non una Trinità, ma una Quaternità: ossia tre persone più la comune essenza, come un quarto elemento, affermando chiaramente che non vi è cosa alcuna che sia Padre, Figlio e Spirito Santo, né essenza, né sostanza, né natura, quantunque conceda che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una sola essenza, una sola sostanza, una sola natura. Ma egli ritiene che questa unità non è vera e propria, bensì quasi collettiva e analogica come quando si dice che molti uomini sono un popolo (…)
A provare questa sua opinione, egli adduce soprattutto quell'espressione che Cristo dice dei suoi seguaci nel Vangelo: "Voglio, Padre, che essi siano una cosa sola in noi, come noi siamo uno, perché essi siano perfettamente uniti". In realtà, dice, i fedeli del Cristo non sono una cosa sola, cioè una realtà comune a tutti; essi sono un'unità, perché formano una sola chiesa a causa dell'unità della fede e, finalmente, un solo regno per l'unità indissolubile dell'amore (…) 
Noi, con l'approvazione del sacro concilio universale, crediamo e confessiamo, con Pietro Lombardo, che esiste una somma sostanza, incomprensibile e ineffabile, la quale è veramente Padre, Figlio e Spirito Santo, le tre persone insieme, e ciascuna di esse singolarmente. In Dio, quindi, vi è solo una Trinità, non una quaternità, poiché ognuna delle tre persone è quella sostanza, essenza o natura divina, la quale è, essa sola, principio di tutte le cose, e fuori della quale non se ne può trovare altra. Essa non genera, non è generata, non procede, ma è il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che procede; in tale modo vi è distinzione nelle persone e unità nella natura (…) 
Se qualcuno, quindi, intendesse su questo argomento difendere o approvare l'opinione, cioè la dottrina del suddetto Gioacchino, sia ritenuto da tutti eretico. Con ciò, però, non vogliamo gettare un'ombra sul monastero di Fiore, in cui lo stesso Gioacchino è stato maestro, poiché ivi l'insegnamento è regolare e la disciplina salutare. Tanto più che lo stesso Gioacchino ci ha inviato tutti i suoi scritti perché fossero approvati o corretti secondo il giudizio della Sede apostolica. Ciò egli fece con una lettera, da lui dettata e sottoscritta di proprio pugno, nella quale egli confessa senza tentennamenti di tenere quella fede che ritiene la chiesa di Roma, madre e maestra, per volontà di Dio, di tutti i fedeli. »

Il neo-millenarismo gioachimita (ricordiamo quanto detto a proposito del millenarismo) influenzò prepotentemente, nonostante le ritrattazioni del calabrese, Amalrico di Bené. La storia, anche per lui, era una graduale rivelazione di Dio. Da principio c'era la legge di Mosè, poi quella di Cristo, che aveva abrogato la precedente. Si approssimava, quindi, il tempo della terza rivelazione, che s'incarnava in Amalrico e nei suoi seguaci ("uomini della terza età") come prima si era incarnata in Cristo. Essi erano diventati Cristo.

Amalrico era professore di teologia a Parigi. Non divulgò appieno la sua dottrina, ma solamente le affermazioni più inoffensive. Furono depositate però a suo carico delle denunce a Roma. Nel 1204 il Papa condannò la sua teologia, allontanandolo dalla cattedra. Amalrico morì poco dopo.

Si sono conservate le tre proposizioni fondamentali di questa nuova interpretazione del cristianesimo:

Queste formulazioni stavano a significare che i seguaci di Amalrico sarebbero riusciti, attraverso l'estasi, a identificarsi con Dio. Non c'era più spazio, dunque, per il culto, i sacramenti, la gerarchia, perché ogni credente era culto, sacramento e gerarchia. Lo Spirito Santo si incarnava in loro come aveva fatto con il Cristo. Un tale uomo non poteva più peccare, perché ogni suo gesto era rappresentativo della volontà di Dio. L'uomo, in altre parole, era considerato superiore alla legge.

Così, per gli amalriciani, il regno dello Spirito non era altro che la condizione spirituale dei membri della setta, e non l'attiva trasformazione del mondo.

Il Concilio Lateranense IV ha un pensiero gentile anche per costui:

« Riproviamo e condanniamo anche la stravagante opinione dell'empio Amalrico; la cui mente è stata così accecata dal padre della menzogna, che la sua dottrina non tanto deve giudicarsi eretica, quanto insensata. »

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34 – STORIA DI UN ERETICO NOVARESE: FRA DOLCINO

I terribili e cruenti fatti di sangue che videro protagonisti da una parte fra Dolcino con i suoi discepoli e dall'altra il vescovo Raniero di Vercelli fra il 1306 e il 1307, ebbero un importante preambolo rappresentato dalla predicazione di Gerardo Segarelli, il fondatore della setta dei nuovi apostoli.

Fra Dolcino da NovaraTutto ebbe inizio a Parma nel 1260:

« Durante il mio soggiorno nel convento dei frati Minori di Parma, quando già ero sacerdote e predicatore, si presentò un giovane del luogo, di famiglia di basso rango, illetterato e laico, idiota e stolto, di nome Gherardino Segalello e chiese di essere accolto nell'ordine. Costui, non essendo stato esaudito, se ne stava tutto il giorno, quando gli era possibile, nella chiesa dei frati a meditare ciò che poi, nella sua stupidità, mise in atto.
Tutt'intorno al lampadario della fraterna comunità del beato Francesco, c'erano dipinti gli apostoli con i sandali ai piedi ed i mantelli tirati indietro sulle spalle, secondo l'antico uso invalso tra i pittori e ancor oggi in voga. Se ne stava li in contemplazione quando finalmente decisosi, lasciatisi crescere barba e capelli, si rivestì dei sandali e della corda dell'ordine dei frati Minori; questo perché come ho già avuto occasione di dire, chiunque intenda costituire una nuova congregazione, inevitabilmente usurpa sempre qualcosa dell'ordine del beato Francesco.
Si fece anche un vestito di bigello e un mantello bianco di stamigna robusta, che portava avvolto intorno al collo, credendo in tal modo di vestire come gli apostoli.
Venduta una piccola casa e intascatone il ricavato si mise sopra la pietra da cui un tempo i podestà di Parma solevano arringare il popolo. Il sacchetto dei denari che possedeva non lo distribuì ai poveri né "si rese amabile alla comunità dei poveri" (Ecl 4, 7), ma chiamati a sé dei poco di buono che se ne stavano a giocare sulla piazza gettò loro il denaro dicendo: "Chi lo vuole lo prenda e se lo tenga". Subito quei ribaldi raccolsero le monete e se ne andarono a giocare ai dadi bestemmiando il Dio vivente, e Gerardo li sentiva.
Era quanto mai convinto di adempiere così al consiglio del Signore; "Se vuoi essere perfetto va, vendi ciò che
hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi." (Mt 19, 21) »

Così la "Cronaca" del francescano Salimbene de Adam (1221-1288) ci riferisce degli esordi della setta.

Il 1260 era l'anno che secondo Gioacchino da Fiore doveva segnare l'inizio dell'era dello Spirito Santo: siamo quindi in un periodo di attesa, di cambiamenti radicali e forse epocali. Nella sua ingenua semplicità, Segarelli ebbe il merito di saper sintetizzare le prerogative patarine alle attese gioachimite. Il risultato sarebbe stato inquietante, e non solo per il suo movimento. La risposta della Chiesa fu, ancora una volta, sanguinosa e lontanissima dal Vangelo.

Entrare nel movimento dei nuovi apostoli significava dover votare la propria vita alla povertà, significava dover "seguire nudi il Cristo nudo", eper questo era previsto un rito, la "svestizione": erano fatti togliere ai neofiti gli abiti, segno della morte dell'uomo "vecchio", quindi gli abiti erano restituiti a caso.

« Costoro, riunitisi da diverse parti vennero per vedere il loro fondatore e ne tessero tante e tali lodi che egli stesso ne rimase sbalordito. E altro non dicevano se non che, standosene tutt'intorno a lui, per ben cento volte gridavano: "Padre, padre, padre"; e dopo una breve interruzione riprendevano questo ritornello e cantavano: "Padre, padre, padre", ne più ne meno come fanno i bambini che, quando sono istruiti dai maestri di grammatica, ripetono a voce alta e ad intervalli ciò che loro è stato insegnato.
Egli li ricompensò per tanto onore facendoli spogliare tutti nudi, senza mutande o altro vestimento che coprisse loro almeno i genitali, e se ne stavano appoggiati tutti intorno al muro, ma in maniera disordinata, sconcia e tutt'altro che decorosa e pudica. Voleva infatti togliere loro ogni bene perché d'ora in poi seguissero nudi Cristo nudo. Su ordine del maestro, ciascuno, affardellati i propri vestiti, li pose in mezzo alla stanza. Poi chiamata dal maestro, mentre costoro se ne stavano in quella maniera impudica, fu fatta entrare "una donna, origine del peccato, arma del demonio, causa della cacciata dal paradiso, madre di delitto, corruzione dell'antica legge". A lei Ghirardino Segalello, che era il loro maestro, ordinò di ridistribuire gli abiti come se li desse a dei poveri privati di ogni loro bene. Costoro poi, una volta rivestitisi, gridarono: "Padre, padre, padre". Questo diede loro per ricompensa e ringraziamento: si comportò da folle e fece comportarsi da folli pure loro…Fatte queste cose, li mandò nel mondo a farsi vedere ed essi andarono, chi verso la curia romana, chi a San Giacomo (di Compostella), chi a San Michele Arcangelo (Monte Santangelo del Gargano), chi in terra d'oltremare. »

In un primo momento gli apostolici non furono rifiutati dalla gerarchia; anzi, il vescovo Obizzo di Sanvitale li aiutò economicamente. Nel 1215, però, il IV Concilio Lateranense sentenziò:

« Perché l'eccessiva varietà degli ordini religiosi non sia causa di grave confusione nella chiesa di Dio, proibiamo rigorosamente che in futuro si fondino nuovi ordini. 
Chi quindi volesse abbracciare una forma religiosa di vita, scelga una di quelle già approvate. Ugualmente chi volesse fondare una nuova casa religiosa faccia sua la regola e le istituzioni degli ordini religiosi già approvati.
Proibiamo anche che uno sia monaco in diversi monasteri, e che un solo abate possa presiedere a più monasteri. »

Il problema non fu sanato, e il Secondo Concilio di Lione (7 maggio - 17 luglio 1274) ritornò con maggior decisione sulla questione.

« Un concilio generale con apposita proibizione ha cercato di evitare l'eccessiva diversità degli ordini religiosi, causa di confusione. Ma l'inopportuno desiderio dei richiedenti in seguito ha strappato, quasi, il loro moltiplicarsi e la sfacciata temerità di alcuni ha prodotto una moltitudine di nuovi ordini, specie mendicanti, ancor prima di aver ottenuto un'approvazione di principio. Rinnovando la costituzione, proibiamo assolutamente a chiunque di istituire un nuovo ordine o una nuova forma di vita religiosa, o di prendere l'abito in un nuovo ordine. Proibiamo per sempre tutte, assolutamente tutte, le forme di vita religiosa e gli ordini mendicanti sorti dopo quel concilio, che non abbiamo avuto la conferma della sede apostolica e sopprimiamo quelli che si fossero diffusi. »

Segarelli non ebbe scelta: o si piegava o si ribellava. Optò per la seconda ipotesi.

Poteva contare sull'innegabile successo della sua semplice predicazione. Occorreva convertirsi, fare penitenza (penitentiam agite, deformato in penitençagite, che divenne il vero slogan del movimento), predicare il tempo nuovo nelle piazze e nelle cattedrali, abbandonare le ricchezze per rivestirsi di povertà. Una dottrina patarina, potremmo dire. Che ci siano stati influssi gioachimiti, è dimostrato da un altro passo riportato sempre dal Salimbene nella sua Cronaca:

« In altra occasione, mentre me ne stavo a Ravenna, gli apostolici fecero predicare un fanciullo nella basilica Ursiana, che è la chiesa arcivescovile di Ravenna. E fu tale l'affannoso affrettarsi di uomini e donne, che si guardavano bene dall'attendersi l'un l'altro. A punto che una gran nobildonna di quella città, a nome Giulietta, moglie di ser Guido Riccio da Polenta, si lamentò con i frati che a malapena era riuscita a trovare una vicina che andasse con lei. La chiesa Ursiana era poi talmente piena quando vi giunse che non trovò posto se non fuori della porta. Eppure è grande, visto che consta di quattro navate oltre quella centrale.
Facevano dunque gli apostolici girare questo fanciullo per le città e lo facevano predicare nelle chiese E grande era l'afflusso di uomini e donne e l'ammirazione, perché al giorno d'oggi si amano le novità …Così commenta l'abate Gioacchino (da Fiore) il passo di Geremia l,7: "Non dire sono un giovincello, perché andrai a fare tutto quello per cui ti manderà e tutto quello che t'ordinerà, tu farai" "Penso che come un tempo Dio scelse gli antichi padri per rivelare i suoi misteri, poi scelse apostoli più giovani che chiamò addirittura amici, ora, in questa terza fase, sceglie dei fanciulli veri e propri, perché annuncino il vangelo del regno a coloro per i quali il vecchio modo di vivere ha perduto valore. »

Chi ci parla del nostro eretico, il Salimbene, è un francescano fazioso, lontano anni luce dalla splendida figura del suo maestro, e oltre tutto lui pure in odore d'eresia, per quei tempi, perché sostenitore velato (ma non troppo) di Gioacchino da Fiore. La sua unica preoccupazione fu che gli apostoli potessero diventare i veri propagatori del messaggio pauperistico che era proprio di Francesco, e che, dato il loro successo, potessero ottenere l'appoggio economico dei vescovi. Senza volerlo il Salimbene ci fornisce un penoso spaccato di quel particolare momento storico. A pochi decenni dalla morte del grande Santo di Assisi, c'era già nell'ordine chi anteponeva gli interessi economici a quelli spirituali, ma di questo abbiamo già parlato.

Gerardo Segarelli fu in ogni modo un uomo coerente: si fece addirittura circoncidere. Ebbe come amico un vescovo che cercò anche di salvarlo dalle mani dell'Inquisizione lombarda, ma non vi riuscì. Sotto il pontificato di Bonifacio VIII (1294-1303), "colpevole in molte eresie ed enormi delitti", Gerardo fu arso vivo. Correva il mese di luglio del 1300. Esattamente un mese dopo, fra Dolcino da Novara scriveva la sua prima lettera, prendendo in pugno la situazione e ridando vita, fortuna e notorietà al movimento, anche se per poco.

Bernardo Gui interpretato per il cinema da F. Murray Abraham Una testimonianza qualificata (anche se certamente di parte) che possiamo analizzare è nientemeno quella di Bernardo Gui, inquisitore ed autore di numerose opere, fra cui "De secta illorum qui se dicunt esse de ordine apostolorum", nella quale così riferisce sulla dottrina di Dolcino:

« Tolto di mezzo ed arso sul rogo l'eresiarca Gerardo Segarelli, gli succedette nel magistero dell'errore e della perversa dottrina Dolcino della diocesi di Novara, figlio naturale di un sacerdote, uno dei discepoli di Gerardo. Egli divenne il capo ed alfiere di tutta quella setta e congregazione non apostolica, come sostengono per ingannare, ma di fatto apostatica, ed aggiunse errori agli errori, come apparirà con maggiore evidenza più sotto, dove gli errori di costoro sono raccolti in una sorta di compendio, perché, una volta smascherati, i fedeli li possano evitare più facilmente.
Dolcino radunò nella sua setta ereticale molte migliaia di persone di entrambi i sessi, da ogni dove, soprattutto in Italia settentrionale e in Toscana e nelle altre regioni vicine, e a loro trasmise una dottrina pestifera e predisse molti avvenimenti futuri con spirito, non tanto profetico quanto fanatico ed insensato, affermando e fingendo di avere da Dio delle rivelazioni e uno spirito profetico. Ma in tutte queste cose fu trovato falso, ingannatore ed illuso, insieme con Margherita, sua malefica ed eretica compagna nei delitti e nell'errore, come le seguenti vicende mostreranno.
Dolcino scrisse tre lettere che indirizzò a tutti i cristiani in generale, e in particolare ai suoi seguaci, in esse farnetica abbondantemente circa passi della S. Scrittura e finge nell'esordio di seguire la vera fede della Chiesa romana, ma la stessa serie delle lettere mostra a ragione la sua perfidia. Dal testo di due, che ebbi fra le mani, sfrondando ho raccolto in compendio quanto segue, omettendo, per motivi di brevità, il resto che non mi sembrava pertinente.
La prima di queste fu datata o scritta nel mese di agosto del 1300. In apertura Dolcino afferma che la sua congregazione ha carattere spirituale ed incarna in senso proprio ed esclusivo il modo di vita apostolico, con vera povertà, senza il vincolo di un'obbedienza esteriore, ma solo interiore. Aggiunge che in questi ultimi tempi essa è stata scelta e mandata da Dio nell'intento speciale di salvare le anime; e che il capo, cioè egli stesso, che chiamano fra Dolcino, è stato eletto e mandato da Dio con rivelazioni a lui fatte sul presente e sull'imminente futuro riservato ai buoni e ai malvagi, per svelare le profezie e il significato delle S. Scritture nel tempo attuale. Indica nel clero secolare i suoi avversari e ministri del demonio, insieme con molti del popolo, dei potenti e dei sovrani, e tutti i religiosi specialmente i Domenicani e i Francescani, ma anche gli altri, che continuano a perseguitare lui e i suoi, perché aderiscono a detta setta, che egli definisce congregazione spirituale ed apostolica. Per questo motivo Dolcino dice di fuggire e di nascondersi dai suoi persecutori, come hanno fatto i suoi predecessori di questa congregazione, fino a un tempo prefissato, in cui, sterminati gli avversari, egli e i suoi appariranno in pubblico e predicheranno a tutti. Inoltre dice che tutti i suoi persecutori e i prelati della Chiesa verranno uccisi e annientati entro breve; i superstiti si convertiranno alla sua setta e si uniranno a lui; allora egli e i suoi avranno il sopravvento su tutti.
Distingue poi nella storia quattro stati di santità secondo il proprio modo di vita: nel primo vi furono i padri dell'Antico Testamento, ossia i patriarchi e i profeti, e gli altri uomini giusti fino all'avvento di Cristo. In questo stato approva che il matrimonio, come fatto buono, ci fosse per favorire la moltiplicazione del genere umano. Ma poiché verso la fine i discendenti si allontanarono dallo stato spirituale e buono dei progenitori, allora venne Cristo con i suoi apostoli, discepoli e i loro imitatori, a sanare la debolezza di quelli. E questo fu il secondo stato di santi, che ebbero un altro particolare modo di vivere e rappresentarono la medicina perfetta per la debolezza del popolo precedente. Essi mostrarono la vera fede con i miracoli, l'umiltà, la pazienza, la povertà, la castità ed altri buoni esempi di vita in contrasto con tutto ciò da cui si erano allontanati quelli del primo stato. In questo secondo stato la verginità e la castità furono considerate migliori del matrimonio, la povertà migliore della ricchezza, il vivere senza nulla possedere migliore dell'avere proprietà di beni terreni. Questo stato durò fino al tempo del beato Papa Silvestro e dell'imperatore Costantino; e a quel tempo i posteri si allontanarono dalla perfezione dei primi.
Il terzo stato iniziò da san Silvestro, al tempo dell'imperatore Costantino, quando i pagani presero a convertirsi in numero sempre maggiore alla fede di Cristo; e fintantoché si convertivano e non si raffreddavano nell'amore di Dio e del prossimo, fu cosa più opportuna per il santo Papa Silvestro e per i successori accettare e mantenere i possessi terreni e le ricchezze che vivere nella povertà apostolica, e meglio fu governare il popolo piuttosto che non reggerlo per poter in tal modo mantenerlo fedele.
Ma quando nelle popolazioni cominciò a diminuire la carità di Dio e del prossimo e ci si allontanò dal modo di vivere di san Silvestro, allora più di qualsiasi altro fu eccellente il modello di vita del beato Benedetto, per il fatto che fu più severo verso l'accumulo dei beni terreni e più distaccato dal dominio temporale. E tuttavia allora - come egli dice - la vita dei buoni chierici era santa quanto quella dei monaci, se non che i buoni chierici diminuivano e i monaci si moltiplicarono. E quando i chierici e i monaci si furono raffreddati totalmente nella carità verso Dio e verso il prossimo allontanandosi dal loro stato primitivo, allora il modello più consono di vita fu quello di san Francesco e di san Domenico, che furono più severi circa il possesso delle cose terrene e il dominio temporale di quanto non lo fossero san Benedetto e i monaci. E poiché ora è giunto il tempo in cui tutti, sia i prelati che i chierici e i religiosi si sono raffreddati nell'amore verso Dio e verso il prossimo e sono decaduti dallo stato di vita santa dei loro predecessori, fu ed è necessario ristabilire il modo di vita proprio degli apostoli più che tenerne un qualsiasi altro. E questo tipo di vita apostolico, egli afferma che è stato mandato da Dio in questi ultimi tempi, adottato ed intrapreso da Gerardo Segarelli di Parma, amatissimo da Dio, e che durerà costantemente fino alla fine del mondo e darà frutti fino al giorno del giudizio.
Questo è il quarto ed ultimo stato, basato sul comportamento di vita proprio degli apostoli, che differisce da quello di san Francesco e dì san Domenico, perché il loro progetto di vita fu di avere molte case in cui raccogliere ciò che mendicavano; "ma noi, dice Dolcino, non abbiamo case né dobbiamo portarvi le elemosine: per questo la nostra vita è superiore in perfezione ed è la suprema medicina per tutti".
(...) Passa poi a predire il futuro, affermando che, se non si avverano quelle cose che afferma e che sostiene essergli state rivelate da Dio, lui e i suoi siano reputati dei mentitori, e i suoi persecutori dei veritieri, e viceversa. 
Poi, da circa metà delle sua lettera fino alla fine, prosegue a parlare degli avvenimenti futuri che avrebbero dovuto accadere nel triennio successivo, e cioè che tutti i prelati della Chiesa e gli altri chierici, dal più grande al più piccolo, e tutti monaci e le monache, i religiosi e le religiose, e tutti i frati e le suore degli ordini dei Domenicani, dei Francescani e degli Agostiniani, che, come egli sostiene, si sono da tempo allontanati dal modo di vivere dei predecessori, che rappresentano la terza fase della Chiesa e sui quali insinua molte malignità, compreso anche Papa Bonifacio VIII, allora a capo della Chiesa, di cui in modo simile espone in quella lettera molte maldicenze, adducendo ed interpretando, a conferma di quanto sopra, con la sua malvagia intelligenza molti passi tratti dalla Scrittura, dei Profeti, dei Vecchio e del Nuovo Testamento, tutti, dico, i soprannominati verranno sterminati, uccisi e distrutti su tutta la terra, dalla collera divina ad opera di un nuovo imperatore e dei nuovi re da lui creati.
Indica e sostiene, nel testo, che si tratta di Federico, allora re di Sicilia, figlio del defunto Pietro d'Aragona. Federico deve essere innalzato al trono imperiale ed eleggere nuovi re, e con le arti impadronirsi dì Papa Bonifacio per farlo uccidere con gli altri meritevoli di morte. E a conferma di questo cita molti passi dell'Antico e del Nuovo Testamento, interpretandoli e presentandoli con quel suo particolare e perverso spirito esegetico. E dice che allora tutti i cristiani vivranno in pace, e ci sarà un unico Papa santo, mandato ed eletto in modo straordinario da Dio e non dai cardinali, perché allora tutti i cardinali saranno già stati uccisi con gli altri. Saranno sottomessi a quel Papa coloro che ora vivono nello stato apostolico ed anche gli altri chierici e religiosi che si uniranno a loro, che per aiuto divino saranno risparmiati dalla spada imperiale. Essi riceveranno allora la grazia dello Spirito Santo, come la ricevettero gli apostoli nella Chiesa primitiva, e poi daranno frutti nei discendenti sino alla fine del mondo. Federico re di Sicilia, figlio di Pietro d'Aragona, nuovo imperatore, e quel Papa santo che seguirà Bonifacio ucciso dall'imperatore, e nuovi re creati dal nuovo imperatore, dureranno fino alla venuta dell'Anticristo, che comparirà e regnerà in quegli anni. »

autore anonimo, La cattura di fra DolcinoCertamente il testo va purificato da tutti gli elementi faziosi che un personaggio come Bernardo Gui poté inserirvi, ma ciò non toglie che l'inquisitore abbia sintetizzato benissimo la predicazione di Dolcino, per quei tempi era veramente rivoluzionaria. In altro passo così parla:

"Questi che seguono sono gli errori di Gerardo Segarelli di Parma, eretico condannato e bruciato sul rogo e di Dolcino, della diocesi di Novara, suo successore, e dei loro seguaci (…)
1. Innanzitutto insegnarono, come principio indiscutibile (…) che tutta l'autorità conferita da Gesù Cristo Signore alla Chiesa di Roma si è dissipata totalmente e già da un pezzo è finita a causa della malvagità dei prelati, e che la Chiesa di Roma, che il Papa e i cardinali, i chierici e religiosi occupano e sostengono, non è la Chiesa di Dio, ma una Chiesa biasimata, senza frutto.
2. Che la Chiesa di Roma è quella meretrice che ha rinnegato la fede di Cristo, di cui scrive Giovanni nell'Apocalisse.
3. Che tutto il potere spirituale, che fin dall'inizio Cristo diede alla Chiesa, si è trasferito nella setta di coloro che si dicono Apostoli o dell'ordine degli Apostoli, setta che essi definiscono spirituale, mandata e prescelta da Dio in questi ultimi tempi; che essi soli, e nessun altro, possiedono il potere che ebbe l'apostolo san Pietro.
4. Che Gerardo Segarelli di Parma fu il fondatore di questa setta e - come dice e sostiene Dolcino - fu la nuova pianta di Dio, che produce germogli perché piantata sulle radici della fede (…)
5. Che soltanto essi, che si dicono Apostoli, appartenenti a detta setta o ordine, costituiscono la Chiesa di Dio e si trovano in quello stato di perfezione in cui vissero i primi apostoli di Cristo; e perciò non sono vincolati all'obbedienza verso alcun uomo, né al sommo pontefice né ad altri, poiché la loro regola, proveniente direttamente da Cristo, è libera e la loro vita è perfetta.
6. Che né il Papa, né alcun altro, può ordinare loro di lasciare quello stato così perfetto di vita, e neanche può scomunicarli.
7. Che ogni appartenente a qualsiasi stato ed ordine religioso può legittimamente passare al loro modo di vita, stato o ordine, sia egli religioso o laico; così che un marito senza il permesso della moglie e una moglie senza il consenso del marito, possono abbandonare lo stato di vita matrimoniale per entrare nel loro ordine. E che nessun prelato della Chiesa romana può sciogliere un matrimonio, mentre essi soltanto possono farlo.
8. Che a nessuno, appartenente alla loro vita o stato o ordine, è lecito entrare in altro ordine o sotto altra regola senza commettere peccato mortale, né sottomettersi all'obbedienza di qualsiasi uomo, perché ciò comporterebbe un decadimento da una vita più perfetta ad una meno perfetta.
9. Che nessuno si può salvare ed entrare nel regno dei cieli, se non appartiene al loro stato e ordine, poiché fuori dal loro stato o ordine, d'ora in poi, nessuno si salverà più.
10. Che tutti coloro che li perseguitano, peccano e si trovano in stato di dannazione e di perdizione.
11. Che nessun Papa della Chiesa di Roma può davvero assolvere qualcuno dai propri peccati, a meno che non sia tanto santo quanto fu l'apostolo san Pietro (...)
12. Che tutti i prelati della Chiesa di Roma, dai più alti ai meno importanti, dall'epoca di san Silvestro quando si allontanarono dal modo di vivere dei primi santi, sono prevaricatori e ingannatori, eccetto fra Pietro da Morrone che fu Papa col nome di Celestino.
13. Che tutti gli ordini dei religiosi, dei sacerdoti, dei diaconi, dei suddiaconi e dei prelati rappresentano un danno per la fede cattolica.
14. Che i laici non sono tenuti e non devono dare le decime ad alcun sacerdote o prelato della Chiesa di Roma, a meno che non sia tanto perfetto e povero quanto furono i primi apostoli; e perciò affermano che le decime non si devono versare se non a loro stessi, che si dicono Apostoli e sono i poveri di Cristo.
15. Che ogni uomo e ogni donna possono lecitamente, insieme e nudi, coricarsi nello stesso letto e lecitamente toccarsi l'un l'altra in ogni parte del corpo e scambiarsi baci senza commettere nessun peccato. E che non è peccato congiungersi sessualmente con una donna - se si è eccitati carnalmente - per far cessare la tentazione.
16. Che giacere con una donna e non accoppiarsi carnalmente con lei è un miracolo maggiore che far resuscitare un morto.
17. Che è vita più perfetta quella condotta senza voti che coi voti.
18. Che per pregare Dio una chiesa consacrata non è più idonea di una stalla per cavalli o di un porcile.
19. Che Cristo si può adorare cosi bene nei boschi come nelle chiese, o anche meglio.
20. Che per nessun motivo e in nessuna circostanza l'uomo deve prestare giuramento, a meno che non si tratti di articoli di fede o di precetti divini, e tutto il resto può tenerlo nascosto".

Nel tentativo di difendere ad oltranza questa loro fede, Dolcino e i suoi si asserragliarono il 10 marzo 1306 sul monte Rubello, in Valsesia, decisi a vendere cara la loro pelle. Dovettero ricorrere alle armi sia per difendere il loro credo, sia per rifornirsi di cibo, come ci racconta l'anonimo autore della "Storia di fra Dolcino eresiarca":

« Sopra Varallo spogliarono chiese, incendiarono diversi luoghi, tanto che in quel territorio per un raggio di circa dieci miglia pochi o nessuno osava abitarvi, la zona rimase deserta e la popolazione fu costretta ad emigrate in altri paesi vivendo di elemosine Se poi quei cani bastardi trovavano qualche cristiano, o lo uccidevano o ne chiedevano il riscatto. Procurarono danni alle persone e alle cose sia in diocesi di Vercelli sia in diocesi di Novara.
In seguito si trasferirono a Trivero, continuando le loro prave azioni. Alla fine si ridussero ad un tal stadio di inedia che mangiavano carne di topo, di cavallo, di cane e di altre bestie brute e fieno cotto col sego, anche in tempo di quaresima (…) Una volta giunti, discesero di prima mattina al paese e alla chiesa di Trivero, senza che gli abitanti se ne fossero affatto accorti e spogliarono la chiesa portando via calici, libri e altri beni e saccheggiarono diverse altre case, facendo anche prigionieri e portarono con sé sul monte Rubello, ora chiamato monte dei Gazzari o di fra Dolcino, tutto ciò che riuscirono ad arraffare (…)
Distrussero totalmente e bruciarono i paesi di Mosso, Trivero, Coggiola, Flecchia, numerosi borghi di Crevacuore e diverse case in Mortigliengo e Curino. Diedero fuoco alla chiesa di Trivero, imbrattarono affreschi e dipinti, divelsero le lastre di marmo dagli altari e amputarono un braccio ad una statua lignea della beata Maria Vergine; saccheggiarono libri, calici e arredi sacri; fecero crollare il campanile e spezzarono le campane; si impadronirono dei vasi sacri della comunità e dei beni del sacerdote. Tutte queste cose rapinate le portarono via e le ammassarono sul monte. »

Il vescovo Raniero di Vercelli organizzò un'imponente controffensiva per la primavera del 1307:

« Il successivo mese di marzo il Vescovo fece schierare contro i gazzari tutto il suo esercito, perché vedeva le sue terre quasi totalmente distrutte e gli uomini costretti a mendicare. Per questo, confidando nella clemenza divina e nell'aiuto di sant'Eusebio martire e di tutti i santi, volendo mettere alla prova la sorte, fece attaccare in forze i gazzari una e più volte durante la settimana santa. E il giovedì santo gli uomini che combattevano contro i gazzari presero il bastione che 
Si trovava sul luogo chiamato Stavello e nella pianura di Stavello la battaglia durò per quasi tutto il giovedì santo e gran parte di quei dannati fu uccisa e anche molti cristiani furono feriti, tanto che molti infedeli furono gettati in un ruscello, ora chiamato Carnasco, e si dice che l'acqua del fiume fosse rossa come sangue per i morti che vi furono gettati.
Finalmente il giovedì santo del 1307, 13 marzo, dopo lungo combattere e strenui fatiche, l'eresiarca fra Dolcino fu preso vivo sui monti di Trivero insieme con Margherita di Trento sua compagna e Longino di Bergamo, della famiglia dei Cattanei da Fedo o da Sacco, che erano dopo Dolcino i personaggi di maggior spicco della setta; e il Vescovo desiderava quanto mai averli vivi per rendere loro la pariglia, visto i danni che avevano arrecati. Molti altri perfidi furono catturati e fatti prigionieri. I fortilizi furono dati alle fiamme, distrutti e dispersi lo stesso giorno. E sempre nello stesso giorno più di mille furono avvolti dalle fiamme o dal fiume, come si dice, o morti di spada o di morte quanto mai atroce. »

Supplizio di Fra Dolcino e MargheritaLa sorte di Dolcino fu tremenda: la sua compagna Margherita di Trento arsa viva davanti ai suoi occhi.

"In seguito a disposizioni giudiziarie, fu crudelmente dilaniato con tenaglie roventi che gli strappavano le carni e gliele laceravano fino alle ossa, e fu condotto in tale stato per le contrade della città. (...) Lo si sarebbe potuto definire un martire, se fosse il supplizio a creare il martire e non l'intenzione volontaria di chi lo subisce.
Mentre poi veniva straziato fra i tormenti, di continuo esortava la sua Margherita ad essere costante, benché non fosse presente.
Costei, imbevuta dell'insegnamento di Dolcino, non venne mai meno alle sue esortazioni; anzi, si dimostrò più salda e costante di lui nell'errore, tenuto conto della naturale fragilità del sesso. Infatti, benché molti nobili la chiedessero in sposa, sia per la sua straordinaria bellezza, sia per le sue grandi ricchezze, non cedette in alcun modo. Per cui, sottoposta alla stessa pena del suo amatissimo Dolcino, straziata dal ferro e dal fuoco, coraggiosamente lo seguì all'inferno" (da Benvenuto da Imola, Commentum in Dantis Comoediam, in L.A. Muratori, Antiquitates Italicae Medi Aevi, I, Mediolani 1738 (rist. anast. Bologna 1965), coll. 1120-22)

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35 - GLI HUSSITI

Jan Hus nacque a Husinec, in Boemia, intorno al 1371. A vent'anni si trasferì a Praga, dove completò il corso di studi trovando i mezzi di sussistenza nelle vesti di "famulus", di un maestro ceco del Collegio Carolino.

Entrò ben presto in contatto con il movimento riformatore boemo sviluppatosi nella seconda metà del XIV secolo e, simpatizzando per queste idee, iniziò la sua opera di docente presso l'università di Praga (fondata nel 1348 da Carlo, re di Boemia).

I temi da lui trattati inizialmente riguardavano la necessità di rinnovamento nella vita del clero e della Chiesa, con fondamento sulle Scritture. Alla maturazione delle sue concezioni, ecclesiologiche, appaiono decisivi: l'incontro con John Wyclif (1324-1384) e il confronto dottrinale con altri teologi boemi, che però vedevano nel popolo, e non nel potere statale, lo strumento per attuare la riforma religiosa ed ecclesiastica.

Non meno importante fu la situazione al vertice della Chiesa cattolica, travagliata da una grave crisi con la contemporanea presenza di più di un Papa. Proprio il problema dei rapporti con le parti ecclesiastiche in lotta, provocò nel 1409 la definitiva rottura fra chierici e maestri tedeschi e quelli cechi, che spinse re Venceslao IV a proteggere il teologo di Husinec dall'arcivescovo e dal Capitolo di Praga, ma anche a chiedergli di interrompere la predicazione.

Nel 1412, tuttavia, Hus riprese a testimoniare la "libertà della Parola di Dio" in mezzo al popolo nella Boemia sudorientale.

Sollecitato dal re e sotto la protezione dell'imperatore Sigismondo (1387-1437), sul finire del 1414 si recò a Costanza, sede di un nuovo Concilio Generale, per esporre e difendere le proprie dottrine e posizioni teologiche. Negli ultimi giorni di novembre, però, i cardinali lo fecero rinchiudere in prigione dove, rifiutandosi di rinnegare le proprie convinzioni, rimase fino al giorno 6 luglio 1415, nel quale venne arso sul rogo. Gli atti di quel Concilio riportano la condanna e le opinioni eretiche:

« Questo santo sinodo di Costanza, visto che la chiesa di Dio non ha altro da fare, abbandona Giovanni Hus alla giurisdizione secolare e stabilisce che debba essere consegnato al braccio secolare. »

Seguono gli articoli di Giovanni Hus condannati dal Concilio:

1. Vi è un'unica, santa chiesa universale, che è l'insieme lui predestinati (…)
4. Le due nature, la divinità e l'umanità, sono un solo Cristo (…)
7. Pietro non fu e non è il capo della santa chiesa cattolica (…) 
8. I sacerdoti che vivono in qualsiasi modo nel peccato, contaminano la potestà sacerdotale (…) 
9. La dignità del Papa ha avuto origine da Cesare; e il primato del Papa e la sua istituzione è emanazione della potenza di Cesare. 
10. Nessuno senza una speciale rivelazione può ragionevolmente affermare di sé o di un altro che è capo di una santa chiesa particolare. Neppure il romano pontefice può essere capo della chiesa romana. 
11. Non si è tenuti a credere che questo (chiunque esso sia) particolare romano pontefice sia il capo di qualsiasi santa chiesa particolare, se Dio non lo ha predestinato. 
12. Nessuno fa le veci di Cristo o di Pietro, se non ne segue i costumi (…) 
13. Il Papa non è il successore certo e vero del principe degli apostoli, Pietro, se vive in modo contrario a quello di Pietro. E se è avido di denaro, allora è vicario di Giuda Iscariota (…) 
14. I dottori secondo i quali chi è stato punito dalla chiesa e non vuole emendarsi, deve essere consegnato al braccio secolare, di certo seguono in ciò i pontefici, gli scribi e i farisei, i quali, poiché Cristo non volle obbedire loro in ogni cosa, lo consegnarono al tribunale secolare, con le parole: Noi non possiamo uccidere alcuno; essi sono più omicidi di Pilato (…) 
19. Con le censure ecclesiastiche della scomunica, della sospensione e dell'interdetto, il clero sottomette il popolo laico per la propria gloria; aumenta l'avarizia, nasconde la malizia e prepara la strada all'anticristo (…)
21. La grazia della predestinazione è il legame, che unisce indissolubilmente al suo capo Cristo il corpo della chiesa ed ogni suo membro (…) 
25. La condanna dei quarantacinque articoli di Giovanni Wicliff, emessa dai dottori, è irragionevole, ingiusta e malfatta (…)
28. Cristo reggerebbe meglio la sua chiesa mediante i suoi veri discepoli, sparsi sulla terra, senza questi capi mostruosi (...) 
30. Nessuno è signore civile, né prelato, né vescovo, se è in peccato mortale.

Hus muore dunque in situazioni drammatiche, in larga parte vittima delle contingenze politiche ed ecclesiastiche degli inizi del XV secolo.

Sul piano strettamente teologico, egli è da considerare come il meno rivoluzionario dei pensatori del movimento che da lui (in quanto martire) prende il nome.

Propugnava un modello di vita cristiana austero, senza ricchezze e mondanità, in particolar modo per gli ecclesiastici: Cristo appariva povero, umile e sofferente per la Sacra Scrittura, unica autorità in materia di fede. In una situazione storica prossima allo Scisma d'Occidente, caratterizzata dalla presenza di più Papi che si condannavano e si scomunicavano vicendevolmente, Hus richiamava all'umiltà e alla povertà evangelica in una prospettiva escatologica: la fine dei tempi era vicina, e l'Anticristo operava già nella storia.

La Chiesa era intesa come "l'universalità dei predestinati" e come "congregazione dei fedeli", unita nella fede, nella preghiera e nell'osservanza della legge di Dio. L'istituzione ecclesiastica del tempo era invece corrotta dalla simonia, dalle ambizioni politiche e dalla cupidigia delle ricchezze.

Il vero capo della Chiesa era Cristo e non il Papa, che era chiamato a coerenza evangelica.

La transustanziazione insieme con altre dottrine della Chiesa romana (come quelle relative ai sette sacramenti, il purgatorio, l'intercessione della Madonna e dei santi) erano conservate nel suo pensiero, che quindi si differenziava in questo da quello di Wyclif, anche se entrambi furono accomunati dalla condanna.

I continuatori della sua opera proposero il programma di riforma condensato nei "Quattro articoli di Praga", in cui si rivendicavano:

Jan Hus (1371-1415)Il movimento ebbe una corrente moderata, "gli utraquisti", che prendeva il nome dalla rivendicazione dell'uso del calice, concesso, poi dal Concilio di Basilea (1433) attraverso la locuzione latina "sub utraque specie".

Una seconda corrente fu quella "taborita", che nel 1420 provocò una vera e propria rivoluzione religiosa a Tabor, una collina nei pressi della città di Serimovo Ústí, nella Boemia meridionale, dove fu fondato un insediamento di contadini e nullatenenti:

Gli adepti erano, in genere, contadini, artigiani, le fasce più povere della popolazione; in una parola, il popolo minuto.

Il tentativo fu quello di organizzare sulla terra il Regno di Dio, in una prospettiva millenaristica, con la scomparsa della servitù della gleba, delle imposte e dei privilegi.

Un begardo proveniente dal Belgio fondò tra i taboriti la setta degli adamiti, che si attestò in un isolotto sul fiume Luznice. In realtà si trattò di una rilettura di idee già divulgate nel II secolo e di cui fanno menzione Epifanio, Teodoreto e Agostino. Il fondatore si autoproclamava Adamo e figlio di Dio, dicendo di essere chiamato a risuscitare i morti e a compiere le predizioni apocalittiche. Gli adamiti si consideravano incarnazione del Dio onnipresente, e credevano che presto il mondo sarebbe stato sommerso da un bagno di sangue. Su questa terra essi erano la "longa manus" di Dio, ed erano stati inviati a portare la vendetta e la distruzione per tutti i malvagi del mondo. Il perdono era considerato peccato. Essi uccidevano tutti senza distinzione, di notte appiccavano il fuoco a villaggi, città e persone, facendosi forti di una citazione biblica:

« nella notte si udì un grido » (Es 12,30)

Così a Prcic « massacrarono tutti, giovani e vecchi, e incendiarono il villaggio. »

Alle assemblee andavano nudi, credendo che solo in questo modo sarebbero diventati puri. Rifiutavano il matrimonio, ma ognuno poteva scegliersi quante donne voleva, bastava che dicesse: "Il mio spirito si è infiammato per questa". Secondo altre fonti tra loro regnava la più assoluta libertà sessuale.

« Chiamano il cielo "tetto" e dicono che non c'è Dio sulla terra, come non c'è diavolo all'inferno. »

Per ordine di Jan Žižka (1360-1424), cavaliere ceco e guida dei taboriti, gli adamiti furono sterminati.

Quando gli utraquisti prevalsero sui taboriti, le petizioni della riforma popolare trovarono un sostenitore in Petr Chelčický (1390-1460). Questi era un laico che aveva composto vari trattati di religione. Respingeva la violenza, negava ai credenti il diritto di difendersi con le armi, voleva seguire l'ideale della povertà evangelica, vietava il giuramento; affermava che il Papa era l'Anticristo.

Si venne allora formando in Boemia una nuova comunità di taboriti e utraquisti, che seguiva il suo insegnamento. La diresse un certo Gregorio (morto nel 1473), nipote dell'arcivescovo utraquista di Praga. Egli promise l'unione dei "Fratelli moravi" (Unitas fratrum), che si effettuò nel 1467 in un sinodo al quale parteciparono Fratelli provenienti da tutte le parti della Boemia. I valdesi, che avevano già avuto molti rapporti con i taboriti, non si associarono all'Unitas fratrum; tuttavia trasmisero la successione apostolica (in senso spirituale) ai primi ministri della medesima, mediante la consacrazione da parte di un loro presbitero, in sostituzione del vescovo valdese Stefano di Basilea, allora in carcere a Vienna e morto sul rogo in quel medesimo anno.

Uno dei maggiori teologi dell'unitas fratrum fu Luca di Praga (morto nel 1528), che ebbe un atteggiamento più corretto nei riguardi dello Stato e della cultura. Egli organizzò l'Unione come Chiesa, con un Sinodo per autorità suprema, e un consiglio ristretto per il controllo amministrativo. Ogni comunità, diretta da un ministro, doveva avere un Consiglio di Chiesa. L'Unione raccolse circa 400 comunità. Poté beneficare di periodi di tolleranza e di pace nel paese, ma nel 1500 fu violentemente perseguitata dal re Ladislao II di Boemia (1471-1516). Luca di Praga nel 1522 si mise in relazione con Lutero: inviò infatti a Wittemberg due suoi legati, Jan Roh e Michele Weisse.

Il riformatore lodò la condotta e la disciplina ecclesiastica dei Fratelli Moravi, ma pensava che fossero troppo radicali nella loro dottrina eucaristica: anche l'insegnamento intorno alla fede e alle opere non gli sembrava impostato con la dovuta chiarezza evangelica. Temeva che la Legge finisse per prevalere sul Vangelo; inoltre respingeva il celibato dei loro sacerdoti, desiderava anche che fossero meglio istruiti nelle lingue bibliche. Nel complesso, però, approvava l'insegnamento dell'Unità, che egli trovava più evangelico che in qualsiasi altro luogo della cristianità.

Dopo la morte di Luca di Praga, i Fratelli Moravi divennero una chiesa evangelica indipendente. Essa non sentì solo l'influenza luterana, ma anche quella di Bucero e di Calvino, specialmente sulla dottrina della Cena. Nulla fu accettato passivamente, ma dal confronto con la dottrina riformata vi fu un ripensamento propositivo della propria fede.

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36 - L'INQUISIZIONE

È stato usato il termine al singolare per sgomberare il campo da qualsiasi equivoco: seppure l'inquisizione abbia usato modelli organizzativi diversi, dal suo sorgere (nel XIII secolo) alla sua scomparsa, essa è stata sempre una sola, perché anche i poteri inquisitoriali riconosciuti alla Corona spagnola e portoghese lo furono, in forma espressa o tacita, dal Papato stesso, e perché ecclesiastica fu la giurisdizione esercitata dagli inquisitori nei processi in materia di fede.

Si è soliti distinguere poi, in nome dell'evoluzione dei processi storici, fra:

Quando si parla di Inquisizione, normalmente, ogni persona dotata di buon senso esprime dei duri giudizi di condanna; occorre però, prima di seguire le sirene della propaganda anticlericale che hanno enfatizzato i fatti, informarsi doverosamente.

In primo luogo non è storicamente corretto esprimere, dall'alto della nostra cultura fondata sul rispetto dei diritti dell'uomo, una condanna sull'azione di uomini vissuti secoli fa, che vivevano in tutt'altra prospettiva storica, sociale e soprattutto culturale. Per converso non si può tacere di fronte ad affermazioni come quelle di san Pio V (vedi immagine sottostante) che, in una lettera a Filippo II di Spagna, così si esprimeva:

San Pio V, Papa dal 7 gennaio 1566 al 1 maggio 1572« Riconciliarsi mai: non mai pietà; sterminate chi si sottomette, e sterminate chi resiste; perseguitate a oltranza, uccidete, ardete, tutto vada a fuoco e a sangue purché sia vendicato il Signore; molto più che nemici suoi, sono nemici vostri. »

Qui sta tutta la spiegazione delle reiterate richieste di perdono della Chiesa moderna.

Prima di dare un giudizio, quindi, studiamo il caso. L'organizzazione generale dell'Inquisizione non mutò molto nel corso dei secoli. Il fulcro dell'azione era rappresentato dai tribunali. Ognuno di loro era presieduto da due giudici, solitamente domenicani o francescani, investiti di pari potere. A sostegno della loro azione furono pubblicati vari testi, come ad esempio la "Pratica Inquisitionis" di Bernardo Gui (1324).

Alla fine del 1233, nella Francia meridionale (Avignone, Tolosa, Carcassona...), dove esistevano forti contingenti di Valdesi e di Catari, furono istituiti i primi tribunali.

Tra i più famosi inquisitori emersero Guglielmo di Valenza, Pietro di Marseillan, Ferrier, soprannominato "Martello degli eretici", il domenicano Guglielmo Arnaud, il francescano Raimond Escriban, Roberto il Bougre e Bernardo Gui.

I sospetti in genere erano individuati dal parroco del loro luogo di residenza. Questo è già il primo elemento discutibile: il giudizio poteva essere influenzato da antipatie o peggio da interessi. Il rifiuto a comparire comportava la scomunica temporanea, che diventava definitiva dopo un anno.

Ricevuto l'ordine di comparizione, l'imputato doveva presentarsi, giurare di dichiarare il vero: purtroppo spesso, anche a causa della delazione di terzi, non era creduto, quindi subiva il carcere duro, la privazione del mangiare e del bere. La tortura, che eufemisticamente era detta "domanda", fu ufficialmente riconosciuta e applicata, per disposizione di Innocenzo IV, a partire dal 1252.

Terminato il processo era emessa la sentenza, previa consultazione di una giuria composta da religiosi secolari e regolari e da giureconsulti laici, nel corso di un'assemblea solenne, pubblica e ufficiale, chiamata "Sermo generalis", o "Auto da Fé" in Spagna.

L'Inquisizione nacque dunque verso la fine del Medioevo, come risposta della Chiesa agli eccessi dei movimenti ereticali, che non si limitavano a propugnare deviazioni di contenuto esclusivamente teologico (contrastati fino allora sul piano dottrinale e solo con mezzi spirituali), ma insidiavano mortalmente la società civile. La ferma riprovazione dei civili, contro le vessazioni degli eretici, costrinse le autorità ecclesiastiche a intervenire, anzitutto per controllare e per frenare una reazione nata dal popolo e gestita, non sempre con il necessario discernimento, dai tribunali laici, che si illudevano di risolvere il problema inviando con disinvoltura gli eretici al rogo.

Oggi è difficile immaginare il profondo malessere suscitato nella cristianità dalla diffusione del catarismo che, sotto il fascino esercitato dall'apparente austerità di vita dei suoi proseliti, nascondeva un'ideologia sovversiva. Il pericolo era rappresentato soprattutto dalla condanna del mondo materiale, che implicava il divieto assoluto di procreare e, come culmine della perfezione, il suicidio rituale, e dal rifiuto di prestare giuramento, che comportava il dissolvimento del legame feudale, uno dei capisaldi della società medievale. Considerata l'omogeneità religiosa della società del tempo, dunque, l'eresia costituiva un attentato non solo all'ortodossia ma anche all'ordine sociale e politico. Lo storico protestante Henry Charles Lea (1825-1909), pur poco benevolo nei confronti dell'Inquisizione, scrive che, in quei tempi, "la causa dell'ortodossia era quella della civiltà e del progresso".

L'autorità temporale e quella spirituale, dopo aver agito a lungo separatamente (la prima con i suoi tribunali, l'impiccagione e il rogo, la seconda con la scomunica e le censure ecclesiastiche), finirono per unire i loro sforzi in un'azione comune contro l'eresia.

Questi giudizi, nel complesso sereni, derivano dallo studio delle fonti.

L'Inquisizione fu certamente un'istituzione sanguinaria, ma non come l'hanno descritta molti studiosi illuministi ed anticlericali. Esplorando in questi ultimi anni l'imponente documentazione archivistica, gli storici si sono trovati con stupore al cospetto di tribunali dotati di regole eque e di procedure non arbitrarie, di corti giudiziarie pronte a sconsigliare l'uso della tortura o a scoraggiare denunce infondate e delazioni, di organismi più miti e indulgenti dei tribunali civili del tempo.

Sebbene certa propaganda insista sul carattere ideologico e totalitario dell'Inquisizione, è sempre più evidente l'abisso esistente fra i suoi metodi e i sistemi di controllo delle persone e di manipolazione delle coscienze messi in atto negli Stati moderni, specie nella Germania nazista o nell'Unione Sovietica di Stalin.

È falsa, dunque, l'immagine dell'Inquisitore feroce e ignorante: gli inquisitori erano, in genere, persone dotte, di costumi irreprensibili, certamente poco tolleranti, molti sanguinari, ma pronti anche ad accordare il perdono al reo e a farlo rientrare in seno alla Chiesa.

L'immaginario secondo cui i tribunali inquisitoriali erano teatro di raffinatissime scene di crudeltà, di modi ingegnosi di infliggere l'agonia e di un'insistenza criminale nell'estorcere le confessioni, è l'esito della propaganda illuminista, laica e anticlericale.

L'Inquisizione perseguiva lo scopo di difendere la Chiesa dall'errore, ma anche di correggere e di riavvicinare l'eretico alla fede; a questo scopo gli Inquisitori imponevano penitenze di ordine spirituale, che davano al reo la possibilità di emendarsi, attenuavano le pene più gravi quando ravvisavano in lui indizi di ravvedimento e abbandonavano al braccio secolare, cioè alla morte, i recidivi che, essendo tornati ai loro errori, facevano perdere ogni fiducia nella loro conversione e nella loro sincerità.

Dall'esame degli archivi risulta per esempio che nella seconda metà del secolo XIII gli inquisitori di Tolosa pronunciarono condanne a morte nella misura dell'1 % delle sentenze emesse. Dei primi mille imputati che comparvero dinanzi all'Inquisizione di Aquileia-Concordia (Veneto) dal 1551 al 1647, non più di cinque furono condannati al rogo.

Insomma, è senza dubbio esagerato attribuire all'Inquisizione molte milioni di vittime. La verità storica impone una revisione del processo a questa istituzione, anche se la morale implica solo la condanna. Uccidere nel nome di Dio è quanto di più satanico si possa perpetrare!

Che ci siano state esagerazioni strumentalizzate, è dimostrato da un altro fatto. Gli studiosi hanno completato lo spoglio dei processi inquisitoriali di Bernardo Gui (?-1331), il domenicano di cui si parla molto male nel romanzo "Il nome della rosa", di Umberto Eco (1980), constatando che su novecentotrenta imputati solo quarantadue furono rimessi al braccio secolare, mentre centotrentanove furono assolti e gli altri condannati a pene minori.

In questo specchietto diamo dei risultati sufficientemente attendibili, invece, dell'opera dell'Inquisizione romana e spagnola fra il 1481 e il 1808.

Data

Bruciati vivi

Bruciati in effigie
(in contumacia)

Sottoposti a penitenza

dal 1481 al 1517

16376

9901

178382

dal 1517 al 1551

6254

4722

50736

dal 1556 al 1597

3990

1845

18450

dal 1597 al 1621

1840

692

10716

dal 1621 al 1665

2852

1428

14080

dal 1665 al 1700

1632

540

6512

dal 1700 al 1746

1600

760

9120

dal 1746 al 1759

10

5

170

dal 1759 al 1788

4

0

56

dal 1788 al 1808

0

l

42

In tutta l'Europa cristiana, in 350 anni, si stima che furono mandate a morte 500.000 persone. Per quanto riguarda il nuovo continente, i problemi sono più complessi: lì si scatenò un vero genocidio, ma non tanto per motivi legati alla fede, quanto piuttosto per il controllo delle nuove ricchezze da parte della Corona spagnola e portoghese. La responsabilità di ciò, quindi, non può essere completamente attribuita alla Chiesa cattolica, sebbene essa abbia certamente collaborato.

Premesso, come detto, che anche solo una persona uccisa nel nome di Cristo costituirebbe uno scandalo, rimane altrettanto vero che parliamo di massacri perpetrati da uomini con la cultura e la sensibilità umana di cinquecento anni fa, non dell'inizio del secolo.

Lo stesso storico Luigi Firpo, esponente di rilievo della cultura laicista, uno dei pochi studiosi che ha avuto accesso anche ai documenti riservati del Sant'Uffizio, intervistato dallo scrittore Vittorio Messori, si è espresso così:

« Sono sicuro che l'apertura di quell'archivio, sinora assai limitata anche per esigenze organizzative, gioverebbe molto all'immagine della Chiesa. Aprendo a tutti gli studiosi quelle carte, cadrebbero altri pezzi dell'abusiva leggenda nera che circonda l'Inquisizione. »

Papa Benedetto XVINei tempi moderni il sacro tribunale è stato riformato da San Pio X (1903-1914) con la costituzione "Sapienti consilio" del 29 giugno 1908, quindi da Papa Paolo VI (1963-1978) con il motu proprio "Integrae servandae" del 7 dicembre 1965, che ne ha anche mutato il nome in "Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede". La riforma ha modificato le procedure ma ne ha confermato il compito primario: "tutelare la dottrina riguardante la fede e i costumi di tutto il mondo cattolico" (n. 29), soprattutto mediante la promozione della sana dottrina.

Da notare che il Santo Padre Benedetto XVI, prima di essere eletto al Soglio, era stato per 24 anni proprio a capo della Congregazione per la Dottrina della Fede!

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37 - LA STREGONERIA

La religiosità popolare medievale non poté prescindere dalle varie forme di magia che presero piede, almeno inizialmente, in ambiente pirenaico e alpino.

In occasione della Crociata contro gli Albigesi, gli inquisitori si accorsero dell'esistenza ben dissimulata delle prime manifestazioni di stregoneria. Tentarono di ottenere da Roma giurisdizione su questi casi, ma fin dal 1257 Papa Alessandro IV (1254-1261) respinse ogni pretesa, perché tutti gli antichi canoni negavano l'esistenza delle streghe.

A poco a poco però, di fronte all'insistenza domenicana, il Papato dovette cedere, in particolare durante la cattività avignonese, e grazie all'operato di due Papi originari della Linguadoca, Giovanni XXII (1316-1334) e Benedetto XII (1334-1342). Proprio lo spostamento in Francia della sede apostolica aveva contribuito ad una più seria presa di coscienza del problema, che incominciò ad impensierire per vastità, capillarità e perché, come sostenevano gli Inquisitori, direttamente legato all'eresia catara e valdese.

Non a caso a Lione le streghe erano chiamate "waudenses", e i loro convegni "valdesia", mentre sui Pirenei erano dette "gazarii" o "catare".

Inizialmente la caccia alle streghe avvenne nelle regioni pirenaiche, per poi spostarsi anche sulle Alpi. Il riconoscimento ufficiale di questo fenomeno si ebbe nel Concilio di Basilea in occasione della sessione XV (26 novembre 1433), dove deliberando sul ruolo dei concili provinciali e sinodali si affermò:

« La preoccupazione principale del vescovo nel Sinodo sia quella di vigilare e di usare i dovuti rimedi perché nessuna dottrina eretica, erronea, scandalosa, offensiva per orecchie delicate, o sortilegi, divinazioni, incantesimi, superstizioni, e ogni altra diabolica invenzione, contaminino la sua diocesi. »

Si può notare che non si parlò espressamente di stregoneria, ma si preferì sottintenderla a partire dalle pratiche che comunemente si pensava fossero tipiche delle streghe.

Nel frattempo, intorno al 1437, un puntiglioso inquisitore domenicano, Johann Nyder, pubblicò il primo saggio divulgativo sulle streghe, che portava il titolo di "Formicarius" e si basava sulle confessioni estorte in Svizzera a presunte streghe. Intorno al 1480 fu pubblicata invece l'opera–madre, il manuale per eccellenza, il "Malleus maleficarum" di Henricus Institoris e Jacob Sprenger, cui fece seguito nel 1470 il "Flagellum malleficorum" del teologo francese Pierre Mamoris.

Molto interessante fu il cambiamento d'orizzonte operato dalla Chiesa in questi secoli: se prima era considerato eretico colui che credeva ai racconti delle donne che sostenevano di seguire in volo Diana, che divinavano e preparavano pozioni magiche, ora diventava eretico lo scettico, colui che non credeva alle streghe!

Negli anni a seguire un vasto gruppo di Inquisitori operò nelle regioni alpine, Gerolamo Visconti e Bernardo di Como furono tra i più attivi. In occasione di un'epidemia scoppiata a Como nel 1485, ben 41 streghe furono bruciate in quanto ree confesse di aver avuto rapporti sessuali con "incubi" e "succubi" (!).

Il fatto che questo fenomeno si fosse sviluppato in ambiente montano aveva un senso decisivo. La povertà, la fame e l'ignoranza furono le coordinate che influenzarono gli avvenimenti. Doversi sfamare con quanto la natura offriva significava esporsi al rischio di ingestione di allucinogeni naturali. È il caso del giusquiamo (Hyoscyamus niger), le cui foglie, la radice e i semi contengono alcuni alcaloidi come la iosciamina e la scopolamina, usati ancor oggi in farmacologia; della belladonna (Atropa belladonna), le cui bacche contengono iosciamina, atropina, apoatropina, belladonnina, e dello stramonio (Datura stramonium), comune in tutti i terreni incolti dell'Europa occidentale.

Impiccagione di una "strega" a SalemAltra pianta, di cui si pensava facessero uso le streghe era la segale cornuta (Claviceps purpurea), protagonista di un celebre episodio di povertà, emarginazione e morte. A Salem, nel Massachusetts, fu istruito nel 1692 uno dei più famosi processi contro le streghe. Accusate da un pastore puritano di nome Cotton Mather, cinquantacinque donne furono torturate e venti di loro uccise. Il processo fu immortalato da un pittore locale. Nel suo dipinto si nota che queste povere donne, durante l'istruttoria, tenevano in mano dei pani rossi: la prova, secondo i tribunali protestanti, di pratiche occulte legate all'adorazione di Satana.

In realtà, come è stato dimostrato da alcuni botanici moderni, si trattava di pane fatto con segale cornuta che dà luogo, nell'uomo, all'ergotismo, una patologia che si presenta in due forme distinte:

« una forma convulsiva, caratterizzata da crampi muscolari e, negli stadi finali, da convulsioni e una forma gangrenosa con disturbi circolatori e poi gangrena secca agli arti (fuoco di sant'Antonio). La forma acuta si manifesta con dolori, prostrazione intensa, formicolii, vertigini, seguiti da confusione mentale e convulsioni » (Enciclopedia Universale Rizzoli-Larousse)

Questi pani erano stati preparati con ciò che le povere donne avevano trovato nella campagna, e gli effetti allucinogeni dell'ergotossina avevano convinto i giudici della loro connivenza con il demonio. Di qui la condanna. Questo caso ci permette di capire come il più delle volte la strega fosse una donna povera, spesso vedova, emarginata, stravagante: diretta conseguenza dello stato di degrado psicofisico in cui viveva.

Osservare queste donne, raccogliere bacche e radici per sfamarsi, o legna nel bosco, anche di notte, o erbe con le quali curarsi, era comune, come comune era sentirsi da loro apostrofare quando ci si avvicinava troppo o le si spiava di nascosto.

È altrettanto certo che molte di loro conoscevano gli effetti allucinogeni di certe piante e ne facevano uso per lenire dolori, solitudine e quant'altro; da qui ad accusarle però di rapporti sessuali con il demonio e di malefici contro i bambini, ne passava.

Lo stesso "Malleus maleficarum" descrive alcuni comportamenti che erano attribuiti normalmente, alle streghe:

« Bisogna notare qui che questa iniquità ha inizi poveri e modesti, come sputare per terra, o chiudere gli occhi, o borbottare parole vane al momento dell'elevazione del corpo a Cristo. Conosciamo una donna, ancora in vita grazie alla legge secolare, che quando il prete, durante la celebrazione della messa, benedice il popolo dicendo: Dominus vobiscum, aggiunge sempre tra sé parole in volgare. Oppure dicono qualcosa in confessione dopo aver ricevuto l'assoluzione, o non confessano tutto, specialmente i peccati mortali, e così lentamente per gradi sono indotte al totale rinnegamento della Fede e all'abominevole professione del sacrilegio. »

In altre parole queste donne erano veramente eretiche agli occhi dei contemporanei, pronunciavano oscenità in chiesa o inveivano contro i sacramenti, rifiutavano il segno di croce ecc. a causa della loro stravaganza, di malattie mentali o dell'uso d'allucinogeni.

L'ignoranza della popolazione, poi, che prima emarginava e quindi stanava queste "figlie e mogli del demonio" era la terza causa del fenomeno.

Un noto studioso del fenomeno, Hugh Redwald Trevor–Roper (1914-2003), scrisse:

« Quando leggiamo le confessioni delle streghe cinquecentesche e secentesche, siamo spesso disgustati dalla crudeltà e dalla stupidità con cui esse sono state estorte e che a volte, indubbiamente, hanno imposto a quelle confessioni una determinata forma Siamo tuttavia costretti ugualmente ad ammetterne la fondamentale "realtà soggettiva". Per ogni vittima la cui storia è palesemente frutto totale o parziale della tortura, ve ne sono due o tre che vi credono sinceramente. Questo dualismo c'impedisce di accettare un'unica spiegazione razionale complessiva. Il "razionalismo" dopo tutto, è relativo: relativo alla generale struttura culturale dell'epoca. Gli ecclesiastici e i giuristi cinquecenteschi erano razionalisti: credevano in un universo razionale, aristotelico, e dall'analogia, fin nei minimi particolari, tra le confessioni delle streghe deducevano logicamente la loro verità obiettiva. Ai difensori delle streghe, i quali sostenevano che costoro erano persone "vecchie dal cervello debole", la cui natura psicopatica era sfruttata dal diavolo, il reverendo William Perkins poteva rispondere con sicurezza che, se così fosse stato, ognuna avrebbe avuto un'allucinazione diversa, in realtà, invece, uomini eruditi avevano dimostrato che "tutte le streghe di tutta l'Europa hanno un contegno e un comportamento analoghi nei loro interrogatori e nelle loro convinzioni". Questa "coerenza" internazionale, egli sostenne, era una prova evidente dell'esistenza di un'organizzazione centrale e dell'autenticità delle testimonianze. »

In realtà il reverendo Perkins si sbagliava di grosso. Era lo stesso inquisitore che contribuiva a creare "l'universo culturale delle streghe". Questo fu l'errore più grave dell'Inquisizione che operò contro la stregoneria, più di quello di mettere a morte tanta gente.

La struttura religiosa medievale che aveva provocato traumi nelle coscienze, condannando le paure che lei stessa aveva materializzato scomodando Satana, senza rendersi conto, condannava se stessa!

L'inquisitore nella lotta ad oltranza ed isterica contro ogni eterodossia finiva per creare una vera e propria mitologia, il cui protagonista era Satana. La Chiesa discente scorgeva, ad ogni manifestazione apparentemente irrazionale del reale, la presenza del demonio, portata agli onori della cronaca dall'Inquisitore stesso. L'Inquisizione in questo caso aveva creato le basi di una cultura che provvedeva poi selettivamente ad eliminare. Una procedura satanica!

Secondo gli Inquisitori domenicani, autori del "Malleus", il demonio poteva contare su una fervida fantasia per causare sciagure agli uomini:

« Hanno sei modi diversi di nuocere all'umanità. Il primo è di suscitare un amore impuro nell'uomo per la donna o nella donna per l'uomo. Il secondo è dì seminare tra gli uomini odio o gelosia. Il terzo è di stregarli cosicché l'uomo non possa compiere l'atto sessuale con la donna o viceversa, o con mezzi svariati procurare l'aborto. Il quarto è causare una malattia che attacchi qualunque organo. Il quinto togliere la vita all'uomo. Il sesto privarlo della ragione. »

Leggiamo, allora, alcune testimonianze. Dai verbali di interrogatorio del processo a carico di Orsolina la Rossa, redatti fra il 14 maggio e il 13 giugno 1459, possiamo percepire in che clima questi interrogatori erano condotti.

« In Chrìsti nominem amen. Anno nativitatis eiusdem 1539 in ditione 12, die 14 Maij.
Questo sia un processo contra Ursolina dicta la rossa molgiera che fu de Pelegrino de Saxo rosso, facto contra de lei per lo inquisitor della heretica pravità. In p.o. lei a confessato in mano del R.do dom Herculo de Monte, cuculo preto secularar protonotario apostolico et comisario substituto della eretica pravità. In p.a interrogata se lei è solita andar in corso o vero in striazo (sabba) respose che s
Interrogata da quanto tempo va al dicto corso respose da quaranta ani vel circa.
Interrogata quel che la fa quando la va over quando la vole andar al dito corso vel striazo, Responde: Io pilgio dello unto del mio Boselo et unzo una verga de sanguinela et dico "Sopra foia et sotto vento dellà dal mare ghe el parlamento dove volgio andare anchora io".
Interrogata de che cosa se fa quel unguento, Responde de sonza de porco, et de anadre.
Et qual comisario intendendo le cose sopradette et sapendo quella essere bugiarda et non dir la semplice veritade per li constituti de Agnesa sua filgiola: comandò quella Ursolina esere ligata er portata apresso al foco et così cun il carbon affogato apresso delle piante delli piedi la deta Ursolina la qual così stando et sentendo ardor del foco dixe queste parole: Tolite via il foco che volgio dire la verità. Remosto che fu il foco et avisata che dica la verità sopra le cose predecte.
La qual disligata che fu dixe queste parole: io pilgio lo mio unguento et me ungo le palme dele mani et li polsi delle bracie et le piante deli piedi et le corde del colo, et dapoi unge la bacheta et sconzuro il dìavolo in questo modo dicendo: Io renego Christo e la vergine Maria et li soi sancti, et che dio et la vergine maria non volgio abbia mai parte in me ne in lanima mia, et che il diavolo sia in mia balia et io in sua signoria et sbatto della bacheta in terra domandando tre volte il diavolo in questo modo: o diavolo, vien per me, o diavolo vien per me, o diavolo vien per me. Et così allora se apreserà il diavolo trasformato in uno bricco (montone), et li monto a cavallo et vado al corso soto lombra dello noce dove sono molti strioni et lo unto prefato e de grasso de cristiano et de folgie de oliva et de ligno de nuce e carbone.
Interrogata per il preffato comisario apostolico che cosa faceva al deto corso, Responde, io vago a cavallo al brico. Et quando io giongio al corso, io ritrovo molti altri strioni et lì mangiamo deli bovi et balavamo insieme et poi se usa carnalmente col diavolo desonestamente a tutti i modi, et depoi che habiamo facto queste cose predecte ritorniamo a casa, et dixe quando torno a casa facio deme scongiuratione, et negatione, et guasto deli puti se io ne ritrovo.
Interogata se la sa altri che vadano al corso sive in strazo como lei fa. Response, Io so delli altri li quali se tase per il melgio.
Interogata chi li ha dato quel unguento o vero se lei la facto. Respose che lei non la facto quello unguento ma che li a dato una donna domandata Domenica Torrisella la qual semilmente va al corso o vero striazo dicando la me ha anchora dato del grasso de cristiano et così Polo boia da Saxo rosso me ha dato del ditto grasso.
Interrogata como fa a malaficiar li putti responde. Io li sugo il sangue sotto le ungie delle mani o vero delli pedi o vero le labra, et quel sangue sputo sopra il fugolar tracta prima la cenere da canto et ne facio una cresentina per che il se prende il ditto sangue et poi lo conservo.
Conduta la seconda volta al loco della tortura per che non a voluto confessare la verità fu levata da terra per un bratio, et interrogata se mai la usata in mala parte lostia consecrata: Respose che solo una volta ha habuto una ostia consecrata da uno certo preto Matheo de Monte restino cum il qual riaveva commertio per le incantationi le quali exercitava il predecto preto.
Interogata che cosa fece de quella bostia consecrata. Respose che la dete alla sua filgiola (…).
Item dixe che una volta circa 14 de esse strige introrno in una casa acompagnate dal diavolo il qual li aperse la porta, la qual casa era in un loco adimandato Mesola apresso Mochogno dala qual casa cavorno fora un puto, il patre et la matre dil qual non cognosco et primamente li cizorno il sangue, dopoi gravemente il percossero cum una virga et per questo morse, doppoi il divisero in pezzi et il mangiorno non dimeno dice essa constituta non avere mangiato carne, ma cizato il sangue et dice che alcuni de quella casa advertendo che il puto non li era incominciorno a seguitare le predete strige (…).
Interogata per che non bavesse amazato più homini delli sopradeti response che più ne haveria amazato se havesse possuto: ma molte volte li parenti svilgiati et loro temendo fugevano ma tuti quelli che ritrovavano senza custodia pilgiavano nel tempo che andavano in striaz li quali o amazavano o malleficiaveno. »

Analizzando il testo, possiamo notare come la confessione riguardi almeno tre aspetti: l'aver coperto in breve tempo grandi distanze (o cavalcando il demonio o volando al suo fianco; sono i "viaggi" dei tossicomani metropolitani), l'essersi unita carnalmente a Satana, l'aver prodotto nocumento e morte a bambini.

Relativamente al primo aspetto ci fornisce una buona spiegazione il "Malleus maleficarum":

« Sebbene quelle donne immaginino di cavalcare con il diavolo, che assume un nome simile e getta un incantesimo sui loro occhi (…) l'atto del cavalcare per l'aria può essere puramente illusorio, perché il diavolo ha poteri straordinari sulla mente dei suoi seguaci, cosicché quello che commettono soltanto con l'immaginazione credono di aver fatto veramente e materialmente con il corpo. »

I processi a donne accusate d'essere streghe, però, non sempre seguivano questa procedura. In molti casi gli atti a nostra disposizione dimostrano che la tortura non era necessaria, bensì la confessione era liberamente data dall'imputata. È il caso ad esempio di Françoise Fontaine, di professione collaboratrice domestica, interrogata dall'Inquisitore di Normandia Loys Morel. Gli atti furono pubblicati integralmente nel 1883 e dimostrano che la donna non fu per nulla torturata, ma che rilasciò una confessione vera e propria, dopo essere stata convinta con molta pazienza. Dichiarò di essere stata posseduta dal demonio, entrato dalla finestra nelle sembianze di un uomo vestito di nero, con una folta barba, che gli promise potere in cambio di una notte di follie!

Il visconte di Moray, nell'introduzione al testo, già nel 1883 sosteneva che all'ospedale di Parigi alcune donne dichiaravano le stesse cose, e concludeva attribuendo i fatti ad una forma di isterismo sessuale.

La strega Nocciola, personaggio dell'universo DisneyLo stesso "Malleus" riconosceva in verità che la medicina poteva aiutare, nei casi in cui si sospettava che la strega fosse stata una psicopatica:

« I diavoli non possono alterare la materia corporea a loro piacimento, ma solo provocando la confluenza di agenti attivi e passivi (...) Nello stesso modo un oggetto materiale può causare nel corpo umano una disposizione che lo rende suscettibile alle operazioni demoniache. Ad esempio, secondo il parere dei medici, la mania predispone fortemente gli uomini alla demenza e conseguentemente all'ossessione demoniaca: perciò se, in un caso simile, l'agente passivo che induce la predisposizione viene rimosso, ne seguirà che l'afflizione attiva provocata dal demonio sarà guarita. »

Queste patologie mentali però, secondo il "Malleus", erano possibili solo con il concorso del peccato, di una vita votata al disprezzo per Dio:

« Come risulta chiaro dalle parole di Sant'Antonio, il demonio non può in alcun modo entrare nella mente e nel corpo di un uomo né ha il potere di penetrate nei suoi pensieri, se tale persona non s'è prima spogliata di tutti i pensieri santi ed è del tutto cieca, privata di contemplazione spirituale. »

La Riforma portò con sé una nuova ondata persecutoria, e questa volta non solo per mano della Chiesa cattolica, ma soprattutto grazie a quella protestante. Nella sola Ginevra, in sessant'anni, Calvino fece bruciare 150 presunte streghe, e nei 125 anni successivi all'introduzione della Riforma furono intentati più di 500 processi di stregoneria. A Chambéry nel 1577 fu permesso ad una pattuglia di polizia cittadina di sparare a vista contro ogni sospetto. Da questi frammentari esempi, possiamo già comprendere che Ginevra, centro del calvinismo e più in generale della Riforma, non fu certo migliore della demoniaca nuova Babilonia, Roma.

La Chiesa invece che mai si macchiò di queste barbarie fu quella Ortodossa. La presenza del demonio era percepita, il contadino greco vi credeva al pari di quello savoiardo, celebrava e dedicava a Satana riti propiziatori, ma la gerarchia non intervenne, tollerando e provvedendo al massimo a svolgere un'intensa opera catechistica. In questo modo non rischiò mai la condanna da parte della società moderna e, più in generale, della storia.


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