La parola « Pace » nelle lingue del mondo

Stendi la tua mano pia e paterna, o Dio di bontà, sul popolo che ti invoca; donaci di vincere il terrore della prepotenza umana, confortaci con la speranza della vita immortale e guida i nostri passi sulla via del Tuo Amore verso la gioia eterna. Per Cristo Nostro Signore
(dal Lezionario Ambrosiano dell'Ultima Domenica dopo l'Epifania)

"Pace" nelle lingue semitiche.

L’equivalente ebraico del termine pagano šālōm ci porta in un ambito concettuale e semantico assai diverso. Nelle lingue semitiche la radice è costituita dallo scheletro consonantico (nella grande maggioranza dei casi costituito da tre fonemi), partendo dal quale, attraverso la variazione delle vocali nel timbro e nella quantità, l’aggiunta di prefissi e suffissi, l’allungamento delle consonanti, si ottengono le varie forme. Nel caso specifico, la parola šālōm va ricondotta a una radice ŠLM il cui valore fondamentale è quello di ‘integrità (materiale e interiore)’. Insieme a šālōm vanno annoverati in ebr.: un verbo šālem ‘integer, incolumis, salvus fuit’, di uso non frequente nella coniugazione fondamentale (p.es. Is. 60, 20), ma largamente usato nelle coniugazioni derivate šillam, coi valori fondamentali di ‘portò a termine’ (p.es. un edificio, I Re 9, 25), ‘rese felice’ e ‘compensò, retribuì’, e hišlîm, che ha valori analoghi; un aggettivo šālem ‘integer, incolumis’; una serie di sostantivi, peraltro di uso non frequentissimo e tutti col valore di ‘retribuzione, compenso (materiale)’: šillem, šillumā, šillûm, šalmōnīm (hapax in Is. 1, 23); citiamo infine il termine tecnico šelem che indica un particolare tipo di sacrificio e che viene reso nei LXX con qusía eêrhnikÔ.

La radice ŠLM è largamente attestata e produttiva in tutte le lingue semitiche. Per limitarci all’arabo, essa appare nel verbo salima ‘essere sano, incolume, ineccepibile’ (con la preposizione min ‘da’ ha il valore di ‘essere indenne da’), con le coniugazioni derivate sālama ‘rappacificarsi’, tasālama ‘id.’, tasallama ‘ottenere’, istaslama ‘cedere, arrendersi’; nei sostantivi salm o silm ‘pace, tranquillità, quiete’; salām ‘incolumità, salvezza, integrità, pace, benessere, quiete’, e numerosi altri. Come si vede, il valore che emerge dall’esame di questi termini coincide quasi esattamente con quello riscontrabile nei termini ebraici, e ci riporta al significato fondamentale di ‘integrità’ da una parte e di ‘retribuzione’ dall’altra. La connessione della radice con l’ambito religioso è ben documentata da termini come islām ‘sottomissione, rassegnaziona alla volontà di Dio’, muslim ‘credente, musulmano’, o da espressioni come dār as-salām ‘paradiso’, dār al-islām ‘il mondo musulmano’ (in opposizione, p.es., a dār al-‛arb).

 

"Pace" nell’Antico Testamento

In ebraico i valori fondamentali di šālôm (שלום) si articolano in tre direzioni specifiche: 1. ‘salvezza, incolumità’ (sia come salvezza dei singoli sia come prosperità di poli e regni); 2. ‘pace’ (sia fra singoli sia fra popoli); 3. ‘pace come sommo bene divino’. Il termine per ‘pace’ ha nel mondo semitico una connotazione materiale quasi completamente assente nelle corrispondenti parole del mondo pagano. Per ripetere le parole di von Rad, "è difficile trovare nell’AT un altro concetto così trito e comune nella lingua quotidiana, e tuttavia non di rado carico di pregnante contenuto religioso e capace di elevarsi al di sopra del piano delle immagini comuni, come šālôm ... il significato fondamentale della parola è quello di ‘benessere’, con una chiara preponderanza dell’aspetto materiale" (art. cit., 195-196). La parola indica spesso la salute fisica e materiale o la soddisfazione che ne consegue. Questo suo valore ne favorisce l’uso nelle formule di saluto, di augurio e di benedizione ("Va in pace"). Cfr. p.es. Ps. 122, 6 ss. "Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi. Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: "Su di te sia pace!". Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene". In alcuni testi šālōm passa dal valore di ‘benessere (materiale e spirituale)’ a quello puro e semplice di ‘buon augurio’. Ad es. in I Sam. 16, 4 gli anziani di Betleem chiedono a Samuele le sue intenzioni dicendo: "è šālōm la tua venuta?" e Samuele risponde semplicemente "šālôm", che qui indica non tanto uno stato attuale quanto la prefigurazione di un’intenzione. Ancora più interessante Ier. 6, 14 "Essi curano la ferita del mio popolo, ma solo alla leggera, dicendo: "Bene, bene!" ma bene non va" (le parole in corsivo sono la traduzione di ebr. šālōm). A partire da questo valore si capisce il senso della formula ‘morire in pace (bešālōm)’, che ricorre p.es. in Ier. 34, 5; Gen. 15, 15 e altrove, ed è alla base dell’espressione formulare cristiana requiescat in pace.

All’interno della vasta gamma di valori di šālōm sta anche quello di ‘accordo fra due contraenti’, analogo insomma a quello riscontrato nell’equivalente latino, e col termine berît šālôm si indica il trattato che dà inizio alla pace: cfr. p.es. I Re 5, 26 "Fra Chiram e Salomone regnò la pace e i due conclusero un'alleanza".

È stato notato che questo uso del termine è minoritario e appare soprattutto in testi recenti, perché l’AT "non parla della pace tra gli uomini, ma della Signoria di Dio". Ma più che accordo fra gli uomini o scopo da raggiungere la pace è intesa nell’AT soprattutto come dono divino.

[Sono stati studiati con molto interesse i rapporti che esistono fra la concezione veterotestamentaria della pace e l’idea della pace che emerge nei testi egiziani o mesopotamici (si veda per esempio il capitolo iniziale di H. Schmid). In questi testi spesso la pace è intesa come "qualcosa di divino a cui è ammesso il mondo" (Schmid, p. 41). Nel testo sumerico in cui si descrive la costruzione di un tempo da parte del re Gudea, è il diretto intervento divino che porta a una condizione di pace, i cui contenuti specifici sono l’assenza di ostilità, il benessere materiale e lo stato di uguaglianza tra tutti i cittadibni, senz<a più distinzioni sociali. Tra i compiti del re vi è anche quello di assicurare pace al popolo. Nel prologo del suo codice Hammurabi scrive "io lo ho sempre governati in pace, sempre li ho protetti nella mia sapienza": ma al dovere di garantire benessere e sicurezza ai propri sudditi si contrappone la necessità di mostrarsi inflessibili coi nemici, ed è questa l’altra faccia dell’antico re orientale, che nelle iscrizioni spesso si presenta come "terrore dei nemici", sui quali non esiterà a scatenare la distruzione e dai quali riscuoterà pesanti tributi.]

Basti citare, fra i molti, I Re 2, 33

Su Davide e sulla sua discendenza, sul suo casato e sul suo trono si riversi per sempre la pace da parte del Signore.

Lo stretto collegamento che si ha nell’AT fra pace, benessere e giustizia appare da luoghi come i seguenti: Is. 32, 17 ss.

Effetto della giustizia sarà la pace, frutto del diritto una perenne sicurezza. Il mio popolo abiterà in una dimora di pace, in abitazioni tranquille, in luoghi sicuri, anche se la selva cadrà e la città sarà sprofondata.

o Is. 9, 5-6

Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.

o Ps. 72, 1-7

Dio, da al re il tuo giudizio, al figlio del re la tua giustizia; regga con giustizia il tuo popolo e i tuoi poveri con rettitudine. Le montagne portino pace al popolo e le colline giustizia. Ai miseri del suo popolo renderà giustizia, salverà i figli dei poveri e abbatterà l'oppressore. Il suo regno durerà quanto il sole, quanto la luna, per tutti i secoli. Scenderà come pioggia sull'erba, come acqua che irrora la terra. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna.

La giustizia, o addirittura la correzione del prossimo, come condizione necessaria per la pace è ribadita ad es. in Prov. 10, 10

Chi chiude un occhio causa dolore, chi riprende a viso aperto procura pace,

da cui la conclusione radicale che "non vi è pace per i malvagi" come afferma con forza Is. 48, 22, e anche Ps. 28, 3 avvertono: "Non travolgermi con gli empi, con quelli che operano il male. Parlano di pace al loro prossimo, ma hanno la malizia nel cuore". L’uomo di pace (šālōm) è l’esatto contrario dell’empio, e soltanto il primo ha un futuro, perché l’empio è inesorabilmente avviato verso la distruzione (Ps. 37, 37). Anche il collegamento fra pace e verità ha un rilievo importante nell’AT: la formula šālōm we-’emet s’incontra p.es. in 2 Re 20, 19; Is. 39, 8; Jer. 33, 6; Est. 9, 30. E poiché in ’emet è compresa l’idea della verità come cosa stabilita in maniera definitiva e stabile, nell’espressione šālōm we-’emet può affermarsi l’idea della stabilità anche materiale: con "pace e sicurezza" sono tradotte queste parole ebraiche nella versione italiana corrente.

Ancora, šālōm viene ad assumere un’importanza rilevante nel contesto messianico. Il patto tra YHWH e l’uomo viene definito come immutabile patto di pace: Ez. 34, 25 e 37, 26 usa il termine tecnico berît šālōm per indicare quest’alleanza fra Dio e l’uomo; Is. 54, 10 ("Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace; dice il Signore che ti usa misericordia") aggiunge all’espressione qualcosa di ancora più intenso affettivamente con l’uso del possessivo (berît šelômî ‘il patto della mia pace’). Principe della pace è il futuro Messia (Is. 9, 5 nel testo ebr. śar šālōm: come scrive von Rad, art. cit., col. 206, "il Messia, in quanto mandato da Dio, è il garante e custode della pace nel futuro regno messianico"), e "disciplina per la nostra pace" la sua passione (Is. 53, 4 môsar šelômnû nel testo ebraico, paideía eêrÔnhj nella versione dei LXX: un’espressione pregnante ed efficace, che purtroppo è andata completamente perduta nella versione italiana della Bibbia approvata dalla CEI: "Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà  salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti").

È stato osservato che nei libri dell’AT la cui redazione originaria è in greco eêrÔnh ha un valore più attenuato, e viene a significare solamente ‘assenza di guerra’. Si è pensato anche a un possibile influsso del pensiero ellenistico su questi testi, ma è più naturale pensare che le cose siano andate diversamente, e che si abbia a che fare con una serie incrociata di interferenze che ha agito sui due termini. Da una parte l’utilizzazione di eêrÔnh per tradurre šālōm rappresenta in qualche modo un ripiego, in quanto l’opposto di eêrÔnh nel parlante greco di epoca ellenistica è pólemoj, mentre l’opposto di šālōm è il male in tutte le sue possibili accezioni. Siamo insomma di fronte a un processo di calco semantico che porta ad ampliare considerevolmente la sfera di significati connessa originariamente con eêrÔnh. Ma se la sovrapposizione, peraltro non del tutto completa, fra le due parole ha finito per conferire al termine greco una serie di significati che non gli appartenevano in precedenza e che si svilupperanno pienamente nella successiva letteratura cristiana: d’altronde, non è possibile pensare che ei;rh[nh in ambienti di lingua aramaica (e soprattutto nelle sfere più colte di questi ambienti) sia servita esclusivamente per come riproduzione passiva di šālōm senza alcun rapporto con gli usi che la parola aveva in greco: si tratta di vicende del tutto comprensibili in individui e comunità linguistiche bilingui o plurilingui (ad esempio nelle opere di Filone l’uso di ei;rh[nh corrisponde pienamente a quello del greco ellenistico: cfr. Foerster, art. cit., col. 219). Il diretto riflesso di quest’evoluzione si coglie anche negli usi rabbinici di šālōm, che spesso viene a significare ‘assenza di discordia (fra individui o fra popoli)’: cfr. Foerster, art. cit., col. 215.

Nei testi giudaico-ellenistici eêrÔnh viene ad assumere un significato che tramezza fra quello di ‘perdono’ e quello di Þgáph ‘amore (che Dio ha nei confronti degli uomini)’, come appare dal seguente passo di un apocrifo dell’AT, il cosiddetto Enoch etiopico 1, 7 s.:

Tutto ciò che vi è sulla terra perirà, e vi sarà il giudizio di ogni cosa e (il Signore) porrà la pace sui giusti, e per gli eletti vi sarà il perdono e la pace, e per l ro vi sarà la pietà e tutti saranno di Dio e darà loro la sua benevolenza e tutti benedirà e ricambierà ogni cosa e ci aiuterà e apparirà loro la luce e opererà su di loro pace.

Per quanto fra idea della pace semitica e idea della pace greca si abbia l’impressione di cogliere qualche affinità, in realtà la distanza che le tiene separate è enorme. Per riassumere le conclusioni a cui perviene E. Bellini in un breve, ma penetrante esame dei due termini greco ed ebraico (nello scritto collocato in appendice, pp. 129 e ss., al vol. G. di Nazianzo, Teologia e chiesa, Milano, Jaca Book, 1971), due sono fondamentalmente i caratteri che li rende diversi: mentre per i Greci la pace è uno stato di tranquillità, e il benessere è visto come una sua filiazione, sia pure spontanea e naturale, nell’AT la pace è innanzitutto uno stato di benessere o addirittura di perfezione; ancora, mentre per i Greci la pace rappresenta una conquista dell’uomo, nell’AT la pane è un dono divino. Soprattutto potremmo aggiungere con von Rad (art. cit., col. 206) che "non si saprebbe indicar nessun testo in cui la parola šālōm designi lo specifico atteggiamento spirituale della ‘pace interiore’. Anzi si può constatare facilmente che šālōm vien riferito molto più spesso a più persone che non al singolo".

 

"Pace" nelle lingue indeuropee.

Uno sguardo al dizionario di Buck (p. 1376) chiarisce immediatamente come non vi sia, in quello che G. Devoto chiamava il "vocabolario compatto" dell’indeuropeo, un termine unico per "pace". Il fatto in sé è scarsamente significativo, in quanto non vi sono neppure termini comuni per "guerra" o per "esercito" o per "nemico". Più in particolare, i vari termini che il Buck registra si rifanno non solamente a radici diverse, ma anche ad ambiti concettuali differenziati. In estrema sintesi: la parola germanica comune (da cui ant. nordico friðr, ant. alto ted. fridu > mod. Friede, ant. ingl. friþ) si rifà alla radice che vale ‘amico’ (got. frijonds e termini collegati), ma anche ‘libero’ (got. freis e termini collegati); la parola slava (ant. sl. mirù; russo mir ecc.) è forse corradicale del lat. mītis; i termini indiani (sanscr. sam-dhi-), iranici (avest. āxti-), pur con formazioni diverse, accennano all’idea dell’accordo; i termini celtici (irl. sīd, ecc.) si rifanno all’idea della stabilità: a quest’ultima si rifanno anche altre voci di origine meno antica, come il boemo pokoj e il polacco pokój in rapporto con l’ant. slavo pokoj ‘tranquillità’. Come si vede, è impossibile stabilire un antecedente comune, sia sul piano formale sia sul piano semantico, per il termine greco e latino.

[In rapporto con l’ant. slavo pokoj era l’antico lituano pakajus¸che era nella fase precedente della lingua la parola usuale per ‘pace’, poi sostituita da taika, in relazione con termini che valgono ‘accordo, accordarsi’: cfr. taikyti ‘giungere a un accordo’, taikus ‘pacifico’].

Pace nel mondo greco

È molto difficile proporre un’etimologia per il gr. eirēnē, in quanto la parola ci si presenta in una quantità davvero sorprendente di forme diverse, per le quali è impossibile presupporre una forma originaria: ion.-att. e hom. eêrÔnh; dor. beot. e arc. êrana; cret. ërana (l’aspirazione iniziale è documentata dalla scrizione polemw cirhnaj); tess. êreina; delf., Pindaro e Bacchilide eêrÔna; greco del NO irana, eirana; inoltre troviamo a Sparta una forma verana e infine i grammatici segnalano l’esistenza di una variante con vocale breve eêrana. Anche escludendo queste ultime due (la forma spartana perché l’unicità nell’attestazione del digamma fa sospettare un ipercorrettismo, la forma attestata dai grammatici in quanto potrebbe trattarsi di un vocativo singolare), rimane comune l’impossibilità di sovrapporre le varie forme dialettali: sembra quindi da accettare l’ipotesi di una serie di imprestiti dalle varie aree dialettali, e, benché non dimostrabile, non è da escludere, in mancanza di una credibile base indeuropea a cui risalire, la provenienza del termine da una lingua di sostrato. La mancanza di un’etimologia credibile impedisce anche di definire l’esatta appartenenza del termine a un determinato ambito semantico originario: possiamo soltanto dire che certo eêrÔnh non appartiene originariamente né al lessico politico né al lessico diplomatico.

 

[Si veda per ulteriori informazioni Frisk, GEW, s. v. (vol. I, p. 467). La provenienza da una lingua di sostrato parrebbe indicata anche dalla terminazione della parola (-hnh come ŒAqÔnh, MukÔnh). La forma originaria potrebbe aver avuto, secondo un’ipotesi di Wackernagel ripresa da Frisk, una pronunzia originaria con [i:] molto aperta, resa in ionico e attico con [e:] e da qui passata agli altri dialetti. Non si tratta comunque di parola ereditata dalla fase indeuropea anche secondo K. Brugmann ("ist auch eêrÔnh kein Erbwort"), che pure cerca di spiegarne la formazione con elementi indeuropei. Il suo tentativo di far derivare la parola dalla rad. ie. *ar- ‘connettere’ (in Eirene. Eine sprachgeschichtliche Untersuchung, Leipzig 1916 = Berichte über die Verhandlungen der kgl. sächs. Ges. der Wissenschaften zu Leipzig 68, 3. Heft) è molto problematico sia dal punto di vista formale sia dal punto di vista semantico: comunque i collegamenti con altri termini greci (per la massima parte voci isolate o hapax) non contribuiscono a chiarire la storia della parola.]

In Omero eêrÔnh indica una situazione di pace durevole, e si contrappone a filóthj, che è invece il frutto di un accordo: nella prosa attica la contrapposizione è invece tra eêrÔnh e spondaí (cfr. p.es. Andoc., de pace 12). Benché spesso nei testi sia letterari sia epigrafici eêrÔnh sia usata semplicemente in contrapposizione a pólemoj ‘guerra’, all’idea della pace è saldamente associata l’idea del benessere materiale, come appare dal seguente passo dei Carm. popul., 1 D vv. 3-5:

Ricchezza abbondante infatti entra (nella casa), e con Ricchezza anche Benevolenza fiorente e la buona pace.

Una connessione fra pace e benessere si coglie anche in Omero, Od. XXIV 486 "essi tornino ad essere concordi come erano prima, siano bastevoli la ricchezza e la pace", in un passo comunque che ha tutta l’apparenza di un’aggiunta tardiva. In Omero il tema della pace ha uno spazio relativamente esiguo: il carattere stesso dei poemi impedisce che lo si affronti in modo profondo: nell’Od. la parola non compare al di fuori del passo già citato, mentre l’argomento dell’Il., poema risonante di battaglie e pieno di esaltazione dell’areté e del valore guerresco, non dà spazio a una riflessione sul valore di eirēnē: la parola compare nell’espressione æpŒeêrÔnhj ‘in tempo di pace’ (cfr. Il. II 797; IX 403 = XXII 156). Di qualche rilievo sono solamente i versi di Il. XVIII 490 ss. ove, all’interno della descrizione dello scudo di Achille, vengono raffigurate una città in pace e una città in guerra, e si insiste con un certo compiacimento nella descrizione delle opere della pace.

L’importanza assunta successivamente da eêrÔnh è mostrata dalla sua divinizzazione in Esiodo, Th. 902, ove Eirēnē è ricordata, insieme con Eunomiē e Díkē (Concordia e Giustizia), tra le figlie di Zeus e Temi. La superiorità della pace rispetto alla guerra è presente nelle tragedie di Eschilo: nei Persiani si ricorda con nostalgia il vecchio sovrano Dario, che (v. 769) "procurò pace a tutti gli amici", ed è chiaro che, essendo in questo contesto l’opposizione non tanto con l’idea della guerra quanto con quella del disastro e del lutto (Serse con la sua giovanile spavalderia ha portato il paese a una sconfitta rovinosa), nuovamente alla parola si collegano nella coscienza del parlante le idee di serenità e di benessere. Questo motivo viene poi ulteriormente sviluppato, con ben maggiore intensità, nelle opere composte durante gli anni angosciosi della guerra del Peloponneso: intere opere di Euripide e di Aristofane tendono a esaltare la pace o a descrivere in modo cupo e tormentato gli orrori della guerra. Ma vi è un passo di Erodoto che vorremmo chiamare come particolarmente significativo (I 87, 4). Sono le parole con cui Creso risponde a Ciro, che gli domanda quale follia lo abbia spinto a muovere guerra a lui e al suo impero, così più potente da non permettere nessuna illusione circa l’esito del conflitto:

Nessuno è così stupido da preferire la guerra alla pace: nella pace i figli seppelliscono i padri, in guerra invece i figli seppelliscono i padri: ma è piaciuto agli deì che così ciò avvenisse.

Eirene kai Ploutos (Pace e ricchezza), Museo Nazionale di München, copia di età romana da originale di Cefisodoto (ca. 370 a.C.)

Dunque, la pace come situazione di normalità, contrapposta alla guerra, che è invece situazione in cui si ha un rovesciamento dell’ordine naturale. Questa stessa superiorità della pace è affermata in un passo di Euripide (Suppl. 486 ss.), nel quale si colgono gli echi delle dispute sofistiche fra discorso maggiore e minore:

Invero tra i due ragionamenti noi tutti riconosciamo quello inferiore e il bene e il male e quanto per i mortali la pace è meglio della guerra: innanzitutto essa è amatissima dalle Muse e nemica alle Erinni e si rallegra per abbondanza di figli e gode di ricchezza: rifiutando tutto questo noi malvagi scateniamo le guerre e, uomini, rendiamo schiavo l’uomo, e, città, le città.

Ancora Filemone (fr. 71, CAF II, 496 s.) esalta la pace come il massimo dei beni, e condizione essenziale perché si possa godere di tutti gli altri:

nozze, feste, parenti, figli, amici, ricchezza, salute, cibo, vino, piacere, questa ce li dona

Tutto questo fa sì che sia da ritenere inadatta e limitante l’idea che eêrÔnh rappresenti all’origine semplicemente l’opposto di pólemoj ‘guerra’. Questo significherebbe attribuire alla parola una risonanza puramente negativa (non un valore in sé, bensì l’assenza di un male), spogliandola degli aspetti positivi che viceversa i testi esaminati evocano con evidenza. L’evoluzione verso il senso di ‘momento di pace (dopo una guerra)’ si comincia a cogliere nella prosa attica del V-IV sec. In Platone (Leg. 628 a-b) eêrÔnh viene contrapposta a pólemoj (la guerra contro i nemici esterni) e a stásij (la guerra civile), e nello stesso contesto (628 c) la pace e la benevolenza (filofrosúnh) reciproca vengono considerate come il bene supremo. È a partire da questa evoluzione che può giustificarsi la definizione di eêrÔnh come Ósucía ÞpŒ1cqraj polemikÓj, quale si trova nella raccolta di definizioni (hóroi) che la tradizione inserisce nel corpus delle opere platoniche (Ps.-Plat., def. 413 a). In Epitteto (diss. 4, 5, 35) eêrÔnh indica una situazione di concordia fra i popoli, e la parola rappresenta nell’ambito delle relazioni interstatali il parallelo di filía (la concordia nelle relazioni interpersonali) e di ñmónoia (la concordia all’interno dello Stato).

Nell’età ellenistica la parola indica non soltanto la situazione di pace, ma anche il trattato di pace. La speculazione ellenistica, sia epicurea sia stoica, mettendo sempre più in ombra il valore politico e sociale della parola (che era stato invece trattato nella Politica di Aristotele), conferisce a eêrÔnh un valore soprattutto spirituale, e la considera come una conquista dell’individuo: eêrÔnh è la condizione del sapiente che ritrova nel profondo di sé le condizioni per raggiungere la serenità o l’imperturbabilità.

 

Pace nel mondo latino

Il termine pāx è certamente antico: lo prova la modalità della sua formazione: si tratta di un sostantivo radicale, vale a dire di un sostantivo nella quale la pura radice si presta ad essere usata come tema flessionale. Questo genere di formazioni sono da considerare dei relitti di una fase antichissima: in tutte le tradizioni indeuropee esse tendono ad essere sostituite con altre che presentano una flessione più comoda (in particolare temi in -o- o in -i-). La rad. di pāx ci riporta al ricco e produttivo gruppo di paciscor, pactum, pactio attestato in latino fin dall’epoca più antica: pertanto la parola vale ‘contratto, impegno preso fra due contraenti’. Tra le attestazioni più antiche del gruppo va ricordato il pakari nell’iscrizione del vaso di Duenos e il pacit, pacunt delle XII Tavole; tratto direttamente dalla radice è il sostantivo paciō, che, secondo l’attestazione di Festo (p. 296 L.) era usato dagli antichi in luogo di pactiō. Quanto alla radice della parola, la produttività e la ricchezza di derivazioni di *pāk- in latino è esattamente proporzionale al suo isolamento all’interno del territorio indeuropeo: al di fuori dell’Italia, l’unico termine che potrebbe essere in qualche modo richiamato è l’aind. pāśā- ‘legame’. Viceversa la radice di pāx si ritrova abbondantemente in attestazioni italiche e, cosa ancor più interessante, la sfera semantica della parola latina e dei suoi corrispondenti italici coincidono, avendo la parola la stessa risonanza religiosa che troviamo in latino. In umbro è attestato un ablativo paśe di un tema del tutto analogo a quello del sostantivo latino; in varie lingue è attestato un aggettivo *pakri- il cui valore pare simile a quello di lat. propitius. In umbro le due parole ricorrono in formule di preghiera dal colorito arcaico: p. es. Tabulae Igubinae: VI a 30 ss.:

futu fos pacer paśe tua ocre fisi tote iiouine erer nomne erar nomne

sii favorevole propizio con la tua pace all’arce Fisia, alla città Iguvina, al nome di lui, al nome di lei;

e VI b 61 ss.

fututo foner pacrer paśe uestra pople totar iiouinar, tote iiouine, ero nerus śihitir anśihitir, iouies hostatir anostatir, ero nomne, erar nomne

siate favorevoli propizi con la vostra pace al popolo della città Iguvina, alla città Iguvina, ai suoi magistrati in carica e senza carica, ai giovani in armi e non in armi, al nome di quelli, al nome di quella.

Verosimilmente, questa corrispondenza fra latino e lingue italiche non va proiettata all’antichità indeuropea: si tratta di una della tante convergenze che latino e lingue italiche mostrano nell’ambito del lessico sacrale e religioso: in molti casi le coincidenze lessicali fra questi due gruppi linguistici avvengono su parole o gruppi di parole completamente isolati, privi di un’etimologia indeuropea (come è il caso di sacer), o recanti comunque le tracce di innovazioni esclusive (come mostra l’uso della radice *dhēs- di fānum, fēriae, forse fās). Si tratta, in casi del genere, di fatti linguistici e culturali che hanno il loro punto di partenza nell’urbe e che si irradiano progressivamente nell’Italia centrale man mano che s’infittiscono le relazioni di natura culturale fra Roma e i popoli italici, intrecci che vedono comunque Roma in una posizione di superiorità, ancora prima che questa giunga ad accrescere la sua potenza militare e si proponga come potenza egemone in queste regioni.

Molti manuali collegano tutto questo gruppo di parole con la radice con la radice *pāg- ‘conficcare, fissare’ di pÔgnumi e di pālus (< *pagslos): con infisso nasale questa seconda forma si ritrova nel lat. pangere. Dal punto di vista semantico non vi sarebbero sostanziali obiezioni a questa etimologia, che anche dal punto di vista formale si potrebbe sostenere (sia pure con qualche incertezza), dal momento che oscillazioni fra sorda e sonora, soprattutto nella parte finale della radice, non sono ignote nelle lingue indeuropee (e la presenza di *pank-, attestato nel germ. *fanh-, da cui ted. fangen ecc., accanto a *pang- di pangere, avvalorerebbe questa possibilità): in tale caso pāx conterrebbe in sé l’idea della stabilità, e quasi della fissità. Secondo la Porzio Gernia i due gruppi vanno tenuti distinti, e questa conclusione ci sembra da approvare sul piano linguistico: da una parte avremmo una radice il cui uso è limitato all’espressione di nozioni appartenenti alla sfera materiale, dall’altra una radice "che esprime una sfera concettuale fondamentale dell’etica e della religiosità degli antichi Italici". È però da rilevare che la connessione fra i due gruppi era percepita dai parlanti antichi, come mostra l’uso di piantare un chiodo (pangere clavum) ogni anno alle idi di settembre sul lato destro del tempio di Giove Ottimo Massimo per impetrare la pace degli dèi: l’usanza era stabilita sulla base di una lex vetusta esposta in Campidoglio, secondo quanto afferma Liv. VII 3, 5 ss..

[In tal caso la radice andrebbe scritta, più esattamente, *pāk’-. Sul problema di umbro paca, termine di valore oscuro (postposizione con valore analogo a quello di latino causa? avverbio con valore di ‘rite’?), cfr. Porzio Gernia 1990, pag. 137, con ulteriori riferimenti bibliografici].

A differenza di eirēnē, lat. pāx ha inizialmente un contenuto concreto. La parola indica un accordo tra due contendenti, un accordo che permette il ristabilirsi di una situazione di tranquillità precedentemente incrinata. In ambito politico la pace è il frutto di un accordo tra due entità sovrane, e il fatto che sia il perdente a chiedere la pace (pacem petere) e il vincitore a concederla (pacem dare) implica che la disponibilità dell’accordo e della situazione di pace è nelle mani del più forte. Il valore prioritario di pāx come ‘trattato’ si coglie bene negli autori latini arcaici. In Ennio, Ann. v. 207, leggiamo orator sine pace redit regique refert rem, cioè ‘il messo (l’uso di orator nel senso di legatus è frequente nel latino arcaico) ritorna senza che vi siano proposte di accorde e riferisce al re la circostanza’, è più ancora nel seguente di Plauto (Persa 753) passaggio in cui la parola compare al plurale: hostibus victis, civibus salvis, re placida, pacibus perfectis. Oltre che nei rapporti tra stati, la parola si applica per indicare il realizzarsi di una pacificazione anche tra familiari: nel Mercator di Plauto, v. 953 ss., il protagonista, che sta operando per recuperare una situazione di pace tra i genitori, usa le seguenti parole: pacem componi volo meo patri cum matre, nam nunc est irata. E all’ottenimento della pace familiare il giovane dice: uxor tibi placida et placatast; cette dextras nunc iam: dal che si desume che pāx è semanticamente collegato con la sfera di placare, così come è spesso collegato, soprattutto nella terminologia politica, col termine concordia, che designa l’unità di intenti (propriamente l’avere insieme il cuore): cfr. già Ennio, trag. v. 342 III 342 Pacem inter sese conciliant, conferunt concordiam. Il collegamento di pax con tranquillitas si coglie invece nel seguente passo dell’Ampitruo (vv. 957 s.): Iam pax est inter vos duos? | Nam quia vos tranquillos uideo, gaudeo et volupest mihi

L’affermarsi di pāx come programma politico si ha nell’età di Silla, e poi, più fortemente, nei contrastati e difficili anni che seguono. La riflessione romana sulla pace ha come punto di partenza la riflessione delle scuole filosofiche ellenistiche, ma rivendica con maggior vigore l’importanza della pace come valore non solo individuale, ma anche statale. La pace è spesso indicata come obiettivo da perseguire, anche se la speculazione mostra maggior interesse per il problema del bellum iustum. Che la guerra debba essere affrontata come extrema ratio e che debba avere come obiettivo primario il ristabilimento di un diritto violato è affermato a più riprese dai vari autori: la formula con cui i fetiales proclamavano l’inizio della guerra contiene al suo interno l’espressione di questa esigenza, col suo richiamare la legittimità dell’azione romana e col suo fare appello al fās, cioè al diritto divino.

[La formula dei feziali è così riportata da Livio I 32: Audi, Iuppiter, audite, fines, audiat, fas. Ego sum publicus nuntius populi Romani: iuste pieque legatus venio verbisque meis fides sit ... si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier mihi exposco, tum patriae compotem me numquam siris esse ... puro pioque duello querendas censeo itaque consentio consciscoque.]

 La stessa problematica è ripresa e approfondita su basi teoriche da Cicerone in de republ. III 34 ss.; e tuttavia non si può semplicisticamente definire pace una situazione in cui non si realizzano atti di ostilità né di fronte a nemici esterni né all’interno dello Stato: non si può confondere tra pace e schiavitù, come lo stesso Cicerone rileva con vigore in passi della II e della XII Filippica. E anche in de officiis I 35 Cicerone osserva che pace e giustizia sono due idee che si compenetrano: la guerra è una situazione da affrontare a malincuore e con sofferenza, e la si affronta solamente nella speranza che da essa scaturisca una pace migliore, e anche l’ottenimento della superiorità militare e della vittoria non esime che detta le condizioni di pace dal rispettare elementari regole di giustizia e di equilibrio nei confronti dei vinti, come fecero, nella loro lungimiranza, i Romani primitivi.Un particolare dell’Ara pacis Augustae

Il raggiungimento di una pace stabile e duratura è elemento programmatico della politica augustea: l’attività militare con cui Roma attraverso secoli di combattimenti ha esteso il suo dominio su tutto il bacino del mediterraneo è reinterpretata come opera di pacificazione dei popoli all’interno di un grandioso progetto civilizzatore. La politica imperiale di Augusto fa uso dell’idea di pace con evidenti fini propagandistici. Nel 9 a.C. L’imperatore fa erigere nel Campo Marzio l’Ara Pacis Augustae, con rappresentazioni mitologiche che mostrano allegoricamente il benessere e la felicità di un mondo pacificato dalle armi romane per opera della lungimiranza e della generosità del principe. Sincero e ispirato interprete sia dell’ansia di pace che percorre il mondo romano, dopo decenni di violenze e lotte pressoché ininterrotte, sia di alcuni motivi dominanti della politica augustea è Virgilio in versi famosi (Aen. VI 847 ss.):

... Excudent alii spirantia mollius aera | (credo equidem), vivos ducent de marmore voltus, | orabunt causas melius caelique meatus | describent radio et surgentia sidera dicent: | tu regere imperio populos, Romane, memento | (haec tibi erunt artes) pacique imponere morem, | parcere subiectis et debellare superbos.

 

Appare dalla parte finale del brano citato che altra caratteristica del pacifismo augusteo è la connessione tra pāx e clementia L’atteggiamento di disponibilità alla clemenza è affermato da Augusto nel suo memoriale (Monumentum Ancyranum), che afferma testualmente: victor omnibus veniam petentibus civibus peperci. Externas gentes, quibus tuto ignosci potuit, conservare quam excidere malui), e di questa concezione si fa interprete anche Orazio nel carme secolare (vv. 49 ss.): quae que vos bobus veneratur albis | clarus Anchisae Veneris que sanguis, | impetret, bellante prior, iacentem | lenis in hostem ("e quelle grazie di cui vi prega col sacrificio di bianche vacche l’illustre discendente di Anchise e di Venere, le ottenga, lui superiore al nemico che combatte, mite col nemico prostrato a terra"). Nell’epoca imperiale il richiamo alla pace diverrà consueto, e sarà normale per gli imperatori fare coniare monete con l’immagine della dea Pace.

Le descrizioni dell’età dell’oro, numerose nell’età augustea, hanno tutte come denominatore comune la pace, intesa sia come assenza di conflitti sia soprattutto come assenza di indigenza, di avidità, di frode, di necessità di lavoro (perché la terra produce spontaneamente ciò di cui l’uomo ha bisogno e nei fiumi scorrono latte e miele): in qualche caso l’idea della pace è considerata nella sua accezione più radicale, vale a dire non solo come pace fra gli uomini, bensì come pacificazione di tutta la natura, tanto che le pecore non avranno più da temere gli assalti vespertini degli orsi contro l’ovile. Nell’età di Augusto sembra che ci si stia avviando a una rinnovata età dell’oro: è il sogno a cui dà voce Virgilio nella IV Ecloga. Quanto questa aspirazione fosse utopistica appare per esempio dalla lettura delle Elegie di Tibullo, ove l’aspirazione individuale a una vita pacifica ha scarse possibilità di realizzarsi in un ambiente e in un’epoca in cui l’acquisizione di meriti militari è uno dei modi più consueti per consentire all’individuo di emergere nella società.

Qualche spirito critico, come Tacito, potrà rilevare che questa pace porta con sé una limitazione della libertà di parola, o farà rilevare da un capo straniero che sotto questo nome pace si nasconde in realtà una politica espansiva e di spoliazione sistematica:

Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.

Se altri, come Seneca, preferirà insistere sulla serenità del sapiente, è ancora Tacito a farci sapere che la pace proclamata e conclamata dalla propaganda non corrisponde in realtà a un’esigenza pienamente avvertita e vissuta: lo dimostra, se non altro, la disavventura capitata all’intellettuale Musonio Rufo, la cui propaganda pacifista non solo non trova nessuna accoglienza nella truppa, ma addirittura viene messa a tacere con modi bruschi e violenti:

Miscuerat se legatis Musonius Rufus equestris ordinis, studium philosophiae et placita Stoicorum aemulatus, coeptabatque permixtus manipulis, bona pacis ac belli discrimina disserens, armatos monere. Id plerisque ludibrio, pluribus taedio; nec deerant qui propellerent proculcarentque, ni admonitu modestissimi cuiusque et aliis minitantibus omisisset intempestivam sapientiam.

Ma per valutare appieno il valore di pāx sarà utile richiamare non tanto il suo uso nel linguaggio politico o filosofico o giuridico, quanto il suo ricorrere nel linguaggio religioso nell’espressione pāx dīvom. Con questa si esprime propriamente la normalità dei rapporti fra l’uomo e il dio, dei quali la parola pāx segnala la natura fondamentalmente formale e giuridica. Nelle preghiere arcaiche la richiesta agli dèi della pāx è accompagnata spesso dalla richiesta di beni specifici o materiali, come appare, fra i tanti, dal seguente teso di Plauto:

Apollo, quaeso tu ut des pacem propitius, | salutem et sanitatem nostrae familiae.

Di particolare interesse per valutare il valore dell’espressione il passo dell’Eneide (IV 56 ss.) in cui Didone e Anna chiedono agli dèi il consenso per l’amore che di cui ormai la regina è preda:

... delubra adeunt pacemque per aras | exquirunt.

Didone sa che il suo consenso a questo amore costituisce un venir meno al precedente proposito di univirato: non si tratta di una colpa nel senso tecnico del termine, ma il tutto può costituire una turbativa nel rapporto fra lei e le divinità: è quindi necessario ottenere il consenso di queste, e questo si può fare appunto con un nuovo patto (pacem ... exquirunt) che sostituisce il precedente, ormai superato dai fatti.

Un’analisi più fortemente centrata sulle formule umbre in cui ricorrono gli equivalenti italici di pāx conduce la Porzio Gernia (Il lat. pāx nella storia linguistica dell’Italia antica, cit., p. 124) ad affermare che *pak-s è la risposta del dio alla richiesta dell’uomo. È certo la ‘benevolenza, la buona disposizione’ ma, come indica l’etimologia fondata sull’analisi intratestuale della preghiera e su quella comparativa con le altre lingue indoeuropee, il nucleo semantico profondo è il concetto di ‘unione’. Quindi ‘sii favorevole con la tua unione’, o meglio tenendo conto del contesto, ‘con la tua riunione’ con l’uomo purificato. Se *pak-s è l’unione, pacer, l’aggettivo derivato, indica la qualità di chi è disponibile all’unione e la concede". Più in generale, in latino pāx indica quell’equilibrio instabile nei rapporti uomo-dio, che può essere di continuo compromesso o turbato per iniziativa, anche unilaterale, dei due contraenti. La mancanza, anche involontaria, da parte dell’uomo provoca l’īra deōrum. Il concetto dell’ira divina non è solo romana, bensì generale: per rimanere nell’ambito delle tradizioni indeuropee, di divinità adirate, di ammissioni di colpa da parte dell’uomo, di riti appropriati per placarne la collera sono pieni tanto i poemi omerici quanto i testi ittiti o germanici quanto i Veda: in quest’ultimo testo è presente con maggior vigore e più radicata consapevolezza la conclusione imbarazzante che la collera divina può colpire anche l’innocente. Il processo che porta al ristabilirsi dell’equilibrio originario prende il nome di venia deorum. La parola ha finito per perdere gran parte della sua carica iniziale e per divenire spesso un semplice concorrente di pāx: ma il suo valore primitivo si coglie nei testi in cui esplicitamente si invoca dagli dèi la venia come momento di cessazione dell’ira precedente. Citiamo ad es. Livio III 7, 8 (matres) veniam irarum caelestium finemque pesti exposcunt oppure Ovidio, Met. XI 132 da veniam, Lenaee pater, peccavimus, o ancora Seneca, Med. 595 parcite, o divini, veniamque precamur, o, ancora più nitido e significativo, il seguente passo di Virgilio (Georg. IV 534 ss.), in cui compaiono tutti e tre i termini in questione:

... tu munera supplex | tende petens pacem et facilis venerare Napaeas: | namque dabunt veniam votis irasque remittent.

La somiglianza formale con veneror ha creato un rapporto privilegiato tra queste due parole, e ha fatto praticamente divenire formula fissa l’espressione veniam veneror (cfr. p.es. Liv. III 7, 8; Macr., Sat. III 9, 7): diversi indizi, tra cui l’analisi etimologia e comparativa (che esclude un rapporto diretto fra venia e Venus veneror) e il comparire di veniam poscere in qualche testo (p.es. Liv. VII 40, 4 veniam supplex poposci), consigliano l’ipotesi che l’espressione veniam veneror sia recente e abbia preso il posto di un più antico veniam poscere, che sarebbe così l’equivalente e il parallelo di pacem poscere (cfr. Liv. VII 2, 1 pacis deum exposcendae causa).

[Per un’analisi più approfondita dell’etimologia e della storia di venia (esclusa dal carattere della presente esposizione) rinviamo a M. Morani Dal lessico religioso latino, Aevum 57 (1983), pp. 44-50].

 

"Pace" nel Nuovo Testamento

L’uso di eêrÔnh nei Vangeli è di particolare interesse. Coerentemente con quanto abbiamo visto per i Settanta, qui la parola in parte mantiene valori propri dell’uso ellenistico (eêrÔnh come generica mancanza di guerra o di discordia) in parte assume sfumature d’impronta nettamente semitica che la portano a indicare il benessere materiale. Come esempi dei luoghi in cui la parola non esorbita dal valore comunemente assunto in greco dalla parola ed ha un valore generale che non dà adito a particolari rilievi (p.es. Lc. 14, 32 "mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace"); anzi in Lc. 11, 21 "quando un uomo forte, ben armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni stanno al sicuro" si percepisce nella parola il valore tipicamente greco di ‘assenza di conflitti o di turbamento’ in senso materiale. Come documento dell’influsso semitico stanno viceversa le formule di saluto (p.es. Mc. 5, 34 "la tua fede ti ha salvata. Va in pace e sii guarita dal tuo male"; cfr. anche Lc. 7, 50; 8, 48; ecc.; Ioh. 20, 26 "Venne Gesù ... e disse "Pace a voi"; cfr. anche 20, 19; 20, 21; ecc.).

[È singolare, per esempio, che in Act. 16, 36 il carceriere di Filippi congedi Paolo con la formula di saluto semitica ("I magistrati hanno ordinato di lasciarvi andare! Potete dunque uscire e andarvene in pace "): Luca può essere stato qui influenzato dal comune ricorrere di questa formula di congedo, a fronte dell’estrema rarità di quella romana consueta (che ricorre solo in Act. 15, 29 e 23, 30), estendendola anche a luoghi dove essa non poteva essere stata pronunziata]

Nelle riprese dei passi messianici del VT eêrÔnh è naturalmente la traduzione corrente di ebr. šālōm (cfr. p.es. Lc. 1, 79, ripresa di Is. 9, 5). Alla persona del Cristo è collegata di continuo l’idea della pace, dall’annunzio degli angeli in Luca 2, 14 ("Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama") al saluto rivolto a Gesù nel momento del suo ingresso a Gerusalemme (Lc. 14, 38 "Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!"). Immediatamente dopo il suo ingresso a Gerusalemme Gesù si rivolge alla città con parole di compianto e di rimprovero: il passaggio iniziale è il seguente (Lc. 19, 42): "Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi." Strada e modalità per ottenere la pace, cioè il bene più grande nel quadro messianico, sono l’accoglienza piena di Gesù, senza riserve: il non aver compreso questo sarà per Gerusalemme fonte di rovina. In sostanza, la duplicità di uso sana l’apparente contraddizione che aveva costituito il nostro spunto iniziale: Gesù non è venuto a portare la pace nel senso ellenistico del termine: né la tranquillità individuale propria del sapiente che si isola e si colloca al di sopra dell’umanità comune né una situazione di assenza di conflitti, più o meno temporanea: è venuto a portare una pace diversa, che è pienezza anche nell’ordine umano. Questa duplicità di prospettiva è la chiave di lettura di I Thess. 5, 3 ss. "E quando si dirà: ‘Pace e sicurezza’, allora d’improvviso li colpirà la rovina, come le doglie una donna incinta; e nessuno scamperà. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro: voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre". La pace dei figli delle tenebre (vale a dire l’eirēnē nel senso riduttivo di cui sopra) non ha nessuna reale consistenza e non procura salvezza: solo la conversione mette in condizione di godere della vera pace.

Questo modo d’intendere il termine riappare, ulteriormente precisato, negli altri libri del NT. Iddio ha mandato agli uomini attraverso Gesù una "buona novella di pace" (Act. 10, 36), e Dio è definito in più di un passo come "il Dio della pace".

[Per la precisione, questa definizione ricorre cinque volte: Rom. 15, 32 Il Dio della pace sia con tutti voi; 16, 20 Il Dio della pace stritolerà ben presto satana sotto i vostri piedi; Phil. 4, 9 il Dio della pace sarà con voi!; I Thess. 5, 23 Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione; Hebr. 13, 20 Il Dio della pace che ha fatto tornare dai morti il Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di un'alleanza eterna, il Signore nostro Gesù.]

In San Paolo, oltre a confermare esplicitamente il carattere unico e straordinario della pace cristiana, di cui solo Gesù può essere autore ("Egli è la nostra pace" Eph. 2, 14), e il respiro cosmico di questa pace, l’idea della pace è strettamente connessa con quella della vita e della gioia (cará chará), come appare da passi quali i seguenti: Rom. 8, 6 "i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace"; la pace è gioia e benessere completo della persona, superiore quindi al benessere che si ottiene dalla sola sfera materiale: Rom. 14, 17 "il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo ... Diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole"; Gal. 5, 22 "il frutto dello Spirito Santo invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé". La pace e la grazia divina sono generalmente invocate sui destinatari delle lettere nelle formule di apertura e chiusura. Di particolare interesse Rom. 15, 13 "Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo": la definizione "Dio della speranza" ricorda da vicino la definizione "Dio della pace": pace e speranza sono qualità intrinseche della perfezione divina e nel contempo rappresentano doni che la sovrabbondanza dell’amore divino concede agli uomini: cfr. II Thess. 3, 16 "Il Signore della pace vi dia egli stesso la pace sempre e in ogni modo". Il carattere speciale della pace cristiana è vigorosamente sottolineato in Phil. 4, 7, quando si afferma che questa supera ogni possibilità di comprensione umana: "la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù". Nello stesso tempo il cristiano è impegnato per realizzare con pienezza la pace (e naturalmente questa pace): II Tim. 2, 22 "fuggi le passioni giovanili; cerca la giustizia, la fede, la carità, la pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro". Il concetto riappare poi p.es. in Hebr. 12, 14 "Cercate la pace con tutti e la santificazione, senza la quale nessuno vedrà mai il Signore", o I Petr. 3, 11 "eviti il male e faccia il bene, cerchi la pace e la segua", o I Jac. 3, 18 "un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace" o altrove ancora. Opposto della pace è il disordine (Þkatastasía akatastasíā), a partire innanzitutto dal disordine della Chiesa (I Cor. 14, 33): "Dio non è un Dio di disordine, ma di pace".

 

Per ulteriori informazioni sull’argomento rimandiamo a Foerster, art. cit., col. 219 e ss. (la trattazione è divisa in cinque parti: 1. eirēnē nel senso più ampio di normale condizione di tutte le cose; 2. eirēnē come salute escatologica dell’uomo nella sua totalità; 3. eirēnē come pace con Dio; 4. eirēnē tra gli uomini; 5. eirēnē come pace dell’anima) e alla bibliografia che ivi si cita.

È singolare, per esempio, che in Act. 16, 36 il carceriere di Filippi congedi Paolo con la formula di saluto semitica ("I magistrati hanno ordinato di lasciarvi andare! Potete dunque uscire e andarvene in pace "): Luca può essere stato qui influenzato dal comune ricorrere di questa formula di congedo, a fronte dell’estrema rarità di quella romana consueta (che ricorre solo in Act. 15, 29 e 23, 30), estendendola anche a luoghi dove essa non poteva essere stata pronunziata.

 

Dalla letteratura cristiana antica a oggi

Per capire l’evoluzione di pāx nel latino tardo e medievale ci si deve rifare agli usi cristiani. Oltre ai valori già visti, la parola viene impiegata dai Cristiani nel senso specifico di ‘libertà dalle persecuzioni’, inoltre si diffonde l’uso dell’espressione in pace dormire (v. anche la sezione dedicata a Pace nell’AT per quanto riguarda l’origine dell’espressione medesima) per indicare il sonno della morte. In alcune iscrizioni pax viene a indicare il riposo eterno dell’anima cristiana e si contrappone alla cura temporale, il saeculum. Il valore molto particolare e per così dire imprevedibile di ‘bacio’ che pāx assume risulta da un’abbreviazione dell’espressione osculum pacis o osculum sanctum, nome che si dava al bacio di pace e di riconciliazione che i credenti si scambiavano durante la liturgia della messa. Da qui la specializzazione della parola in questo senso molto particolare nel termine provenzale (semidotto) pais: anche al di fuori del mondo romanzo la parola è assunta con questo valore, ad es. in territorio celtico nel prestito irlandese pōc o nell’inglese moderno peace. Più a monte, l’espressione liturgica date vobis pacem (nella traduzione italiana attuale scambiatevi un segno di pace) è un calco del gr. eêrÔnhn didónai o poieî}n, che a sua volta si rifà a un’espressione rabbinica. Vale la pena osservare che queste formule (fare pace, mettere pace) sono divenute molto popolari anche al di fuori dell’ambito liturgico e religioso.

[Nell’evoluzione verso le lingue romanze la parola rimane come termine vivo e vitale in tutto il territorio: abbiamo così come diretti continuatori del termine l’it. pace, il rum. pace, il sardo page, il fr. paix, lo spagn. e il port. paz, il prov. patz. Il verbo derivato pacare si è ben presto allontanato dal valore originario e si è specializzato in quello odierno di ‘pagare’ (it. pagare, fr. payer, prov., cat., spagn., port. pagar, ant. rum. păca): in ant. spagn. e ant. port. il participio pagado ha ancora mantenuto il valore di ‘in pace, tranquillo’; prossimo al valore originario il composto italiano appagare. Le continuazioni di pax e di pacare sono registrate dal REW rispettivamente ai nn. 6317 e 6132. Trascuriamo alcune continuazioni di uso molto particolare, come p.es. pugliese pače ‘tipo di pane con incisa l’immagine di Gesù bambino’. Altri derivati di pāx nelle lingue romanze sono il fr. apaisenter < *ad-pacentare; sp. apaciguar, cat. apayabagar < ad-pacificare]

Non possiamo qui seguire l’evolversi della concezione di pace nel pensiero occidentale, anche perché una problematica del genere esulerebbe dai fini della nostra esposizione, orientata all’esplorazione dei contenuti semantici del termine. Ricorderemo solo che molti pensatori moderni e molti movimenti hanno richiamato al valore della pace nel corso dei secoli, dal medioevo a oggi, sia sul piano religioso con appelli alla pace come valore universale sia sul piano politico (con richiami o riflessioni sulle possibilità e i metodi di una prassi pacifica nei rapporti interstatali e con la proposta di creare organismi sovranazionali destinati ad arbitrare le controversie di natura politica). Ancora meno è possibile qui richiamare i nomi di grandi leader religiosi e politici, occidentali e orientali, che hanno fatto del richiamo alla pace il nucleo principale della loro azione o del loro pensiero. Il tutto non ha impedito il protrarsi delle guerre, fino alle grandi catastrofi dei due conflitti mondiali del XX secolo.

Senza entrare nei particolari, per ovvie ragioni di spazio, e limitandoci all’ambito italiano, noteremo soltanto che nell’epoca moderna si assiste a una progressiva desemantizzazione di pace. Il Dizionario del Battaglia così definisce la parola: "Condizione normale dei rapporti bilaterali fra i vari Stati ... caratterizzata come elemento minimo ed essenziale dall’assenza dello stato di guerra ... e dal reciproco rispetto di sovranità, indipendenza, integrità territoriale". Anche per il Vocabolario Treccani pace è fondamentalmente la "condizione di normalità di rapporti, di assenza di guerre e conflitti, sia all’interno di un popolo, di uno stato, di gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi, ecc., sia ell’esterno con altri popoli, altri stati, altri gruppi". A conclusioni più o meno simili conduce l’esame di altri strumenti lessicali di uso corrente, come il Devoto-Oli o lo Zingarelli. Certo nell’uso odierno si percepisce pace nel senso di ‘assenza di conflitti armati’: è quindi comprensibile la scelta dei lessici che, rifacendosi innanzitutto all’uso moderno, privilegiano questa accezione. Meno comprensibile una scelta del genere da parte di un’opera che, come il Battaglia, dovrebbe dare maggiore risalto alla dimensione storica della lingua. Dire che pace da un punto di vista storico-etimologico significhi ‘assenza di guerra’ è di già di per sé inesatto: ma le ulteriori specificazioni che il Battaglia adduce fanno parte di un modo moderno di concepire le relazioni fra Stati, e risulta quindi anche inadeguato per eccesso. Che l’uso primitivo del termine comprendesse anche i valori indicati dal Battaglia mi pare indubbio: che la coscienza del parlante li percepisse come primari è quanto meno problematico. Del resto, una scorsa anche veloce all’articolo mostra che pochi degli esempi recati per questo primo valore appartengono ad autori dei primi secoli della nostra storia letteraria, mentre per alcune delle accezioni successive gli esempi recano testimonianze di autori arcaici in misura assai più nutrita. Per limitarsi alla Divina Commedia, è assai dubbio che delle trentasei occorrenze di pace nell’intiero poema (5 Inf.; 17 Purg.; 14 Par.) più di tre al massimo si potrebbero inquadrare (e non senza sforzo!) nella definizione del Battaglia.

Sarebbe interessante, ma non può essere fatto in questa sede, seguire le vicende della moderna concezione della pace: nel XIX e XX sec. ci si è ulteriormente allontanati dalla concezione primitiva, e all’idea di pace tipica della tradizione occidentale si sono sovrapposte modo di pensare che hanno la loro origine nella concezione indiana della non-violenza (ahiṃsā). L’idea che la pace possa essere un valore assoluto, del tutto sganciato da qualsiasi considerazione di etica o di giustizia, è stata diffusa fa una propaganda martellante: la parola pacifismo, giunta in Italia dalla Francia nei primi annidel sec. XX, che all’inizio veniva usata connotazione apertamente dispregiativa, ha assunto col passare del tempo valore positivo. Pacifista indicava in origine chi si adopera per il raggiungimento di una pace che risulta favorevole a una potenza straniera: assumendo successivamente un significato fondamentalmente positivo, la parola ha finito in anni recenti per prendere il posto del preesistente pacifico, termine della tradizione cristiana che indica chi non solo si adopera per diffondere un messaggio di pace, ma anche vive il valore che si impegna a predicare.

[Cfr. NT Mat. 5, 9 "Beati gli operatori di pace (eêrhnopoioí, pacifici), perché saranno chiamati figli di Dio". Nella tradizione giudaico-ellenistica eêrhnopoiój (ed eêrhnofúlax) è Dio, in quanto difende il popolo dai nemici (Filone, spec. leg. 2, 192). Cfr. anche Foerster, art. cit, coll. 241-243 (si deve risalire al rabbinico ·sh šlwm, "che indica l’opera di chi stabilisce concordia e pace fra gli uomini")].

[Sulla problematica del pacifismo si veda, oltre alla bibliografia citata nella premessa, per una disamina del pensiero e dell’attività pacifista da un punto di vista istituzionale e politico nel XX secolo, la voce Pacifismo in Enciclopedia Italiana, Appendice 2000, L’eredità del Novecento, Roma 2000. Per la parola francese pacifisme, falsa costruzione da pacem e facere – ci saremmo aspettati pacificisme – si pone come data di nascita il 1901; per le corrispondenti parole italiane pacifismo e pacifista il DEI pone come data di prima utilizzazione rispettivamente il 1905 e 1908. Da un punto di vista meramente linguistico, noteremo che l’atteggiamento di sostanziale discredito con cui furono guardati i movimenti pacifisti nella prima metà del sec. XX portò all’uso della parola pacifondaio, coniata secondo guerrafondiaio, e panciafichista, deformazione dispregiativa di pacifista, termine coniato dal giornalista Vamba e poi ampiamente utilizzato soprattutto dalla propaganda mussoliniana. Rinviamo al Battaglia per un profilo più esauriente di queste due parole, oggi peraltro uscite dall’uso]

Unica voce dissonante rispetto a questa semplificazione interessata della cultura odierna è quella della Chiesa. In ogni circostanza e in tutti i momenti, anche i più tragici, della vita moderna, la Chiesa non ha cessato di far sentire la sua voce che richiamava o implorava la pace, e il ruolo centrale della pace nell’insegnamento cristiano è ribadito da importanti documenti della Chiesa apparsi nel corso del XX secolo, quali le encicliche Populorum progressio o Pacem in terris.

[Molti interventi sulla pace dei vari Pontefici del XX secolo da Leone XIII a Paolo VI possono essere letti nel fascicolo antologico La Chiesa e la Pace, con prefazione del card. G. Colombo, Milano s.d. (ma 1969)]

Ma una voce di grandissimo rilievo che con inesauribile vigore, negli ultimi decenni, ha richiamato ai valori della pace è quella di Giovanni Paolo II, che in più occasioni durante il suo pontificato ha esaltato la pace, sottolineando però nel contempo che non è possibile disgiungere i valori di questa dai valori di giustizia e di libertà: non è pace quella che non comporta un rispetto per l’altro (nazione o individuo) e non gli consente di esprimere e manifestare liberamente la sua personalità. Numerosi sono gli interventi che si potrebbero citare a questo proposito: ci limitiamo a un paio di passi, che ci sembrano particolarmente significativi. Nella prima enciclica di Giovanni Paolo II, la Redemptor hominis, leggiamo fra l’altro queste parole (p. III, cap. 6):

In definitiva, la pace si riduce al rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo – opera di giustizia è la pace –, mentre la guerra nasce dalla violazione di questi diritti e porta con sé ancora più gravi violazioni di essa. Se i diritti dell’uomo vengono violati in tempo di pace, ciò diventa particolarmente doloroso e, dal punto di vista del progresso, rappresenta un incomprensibile fenomeno della lotta contro l’uomo.

E nel discorso alle autorità polacche del 2 giugno 1979 (n. 3):

La pace e l’avvicinamento fra i popoli si possono costruire soltanto sul rispetto dei diritti oggettivi della nazione, quali: il diritto all’esistenza, alla libertà, ad essere sogetto socio-politico ed altresì alla formazione della propria cultura e civilizzazione.

Più recentemente, nell’omelia pronunziata durante la celebrazione della Giornata della Pace (1 gennaio) del 2001, il Papa, rifacendosi a un suo precedente intervento che definiva la pace "obiettivo primario di ogni società e della convivenza civile e internazionale", ha esplicitamente dato rilievo ai valori della solidarietà, della giustizia, della difesa della vita, che sono i contenuti essenziali e ineliminabili di una vera cultura del dialogo e della pace.

Rinnovo oggi, in questa suggestiva cornice liturgica, ad ogni persona di buona volontà l'invito accorato a percorrere con fiducia e tenacia la via privilegiata del dialogo. Solo così le ricchezze specifiche, che caratterizzano la storia e la vita degli uomini e dei popoli, non andranno disperse, ma, al contrario, potranno concorrere a costruire un'era nuova di fraterna solidarietà. Sia sforzo di tutti promuovere un'autentica cultura della solidarietà e della giustizia, strettamente "collegata con il valore della pace, obiettivo primario di ogni società e della convivenza nazionale e internazionale" (Messaggio per la Giornata mondiale della Pace, 18).

Ciò è ancor più necessario nell'attuale contesto mondiale, reso complesso dalla diffusa mobilità umana, dalla comunicazione globale e dall'incontro non sempre facile tra culture diverse. Al tempo stesso, va con vigore ribadita l'urgenza di difendere la vita, fondamentale bene dell'umanità, giacché "non si può invocare la pace e disprezzare la vita" (Ibid., 19).

All’inizio dell’anno successivo, in una situazione internazionale particolarmente difficile, e di fronte a un’opinione pubblica mondiale ancora scossa e disorientata da recenti fatti di terrorismo assolutamente privi di raffronto con qualunque azione terroristica mai prima compiuta, non solo per l’esito tragico ma anche per la dovizia di mezzi materiali e per la capacità organizzativa di cui i gruppi terroristici avevano dato prova, il Papa riprendeva e ribadiva il suo precedente insegnamento, ampliandone ulteriormente l’orizzonte, con un discorso significativamente intitolato Non c’è pace senza giustizia. Non c’è giustizia senza perdono. Dopo aver richiamato le tragiche vicende del settembre 2001 (fu perpetrato un crimine di terribile gravità: nel giro di pochi minuti migliaia di persone innocenti, di varie provenienze etniche, furono orrendamente massacrate. Da allora, la gente in tutto il mondo ha sperimentato con intensità nuova la consapevolezza della vulnerabilità personale ed ha cominciato a guardare al futuro con un senso fino ad allora ignoto di intima paura) il Papa esortava con forza a una visione cristiana che percepisce la speranza del bene come comunque prevalente rispetto alla presenza del male (la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l'ultima parola nelle vicende umane). Ancora, il Papa richiama sulla necessità di coniugare giustizia e perdono, due termini che non devono essere visti come contrapposti o tali da elidersi a vicenda, e richiama in modo nuovo e sintetico l’insegnamento dei Padri e della Chiesa sull’argomento. 

Ma come parlare, nelle circostanze attuali, di giustizia e insieme di perdono quali fonti e condizioni della pace? La mia risposta è che si può e si deve parlarne, nonostante la difficoltà che questo discorso comporta, anche perché si tende a pensare alla giustizia e al perdono in termini alternativi. Ma il perdono si oppone al rancore e alla vendetta, non alla giustizia. La vera pace, in realtà, è « opera della giustizia » (Is 32, 17). Come ha affermato il Concilio Vaticano II, la pace è « il frutto dell'ordine immesso nella società umana dal suo Fondatore e che deve essere attuato dagli uomini assetati di una giustizia sempre più perfetta » (Costituzione pastorale Gaudium et spes, 78). Da oltre quindici secoli, nella Chiesa cattolica risuona l'insegnamento di Agostino di Ippona, il quale ci ha ricordato che la pace, a cui mirare con l'apporto di tutti, consiste nella tranquillitas ordinis, nella tranquillità dell'ordine (cfr De civitate Dei, 19, 13).

La vera pace, pertanto, è frutto della giustizia, virtù morale e garanzia legale che vigila sul pieno rispetto di diritti e doveri e sull'equa distribuzione di benefici e oneri. Ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com'è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati. Ciò vale tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale ed anche internazionale. Il perdono non si contrappone in alcun modo alla giustizia, perché non consiste nel soprassedere alle legittime esigenze di riparazione dell'ordine leso. Il perdono mira piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità dell'ordine, la quale è ben più che una fragile e temporanea cessazione delle ostilità, ma è risanamento in profondità delle ferite che sanguinano negli animi. Per un tale risanamento la giustizia e il perdono sono ambedue essenziali.

Il carattere specifico, costituzionalmente diverso, della pace cristiana è ribadito con forza nell’augurio che chiude il documento del Santo Padre e nel quale vengono ripresi sinteticamente gli spunti centrali del documento stesso:

In questi tempi burrascosi, possa l’umana famiglia trovare pace vera e duratura, quella pace che solo può nascere dall’incontro della giustizia con la misericordia.

[Il discorso di Giovanni Paolo II può essere letto integralmente, insieme con altri recenti documenti sullo stesso tema, nel sito ufficiale della Santa Sede.]

In conclusione l’insegnamento della Chiesa, e di Giovanni Paolo II in particolare, non soltanto addita valori che sembrano perduti nell’orizzonte culturale contemporaneo, ma anche si manifestano come l’unica voce che autenticamente interpreta la tradizione dell’Occidente raccogliendo quanto essa ha espresso di positivo e stabilendo col patrimonio culturale ed etico del nostro passato un legame che solo può permettere di affrontare i problemi del presente in modo non parziale o riduttivo.


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