(da "La Nona Campana", dal febbraio 1983 al gennaio 1984)
Circa le origini della nostra parrocchia e la presenza dei primi sacerdoti, eletti dalla cittadinanza, le notizie sono molto poche, tanto che permettono solo di fare delle ipotesi, più che di delineare un quando preciso della situazione. Se però procediamo di qualche tempo, fino a giungere al 1567, possiamo trovare una fonte attendibile, anche se non ricchissima di notizie, negli Atti della visita pastorale che il Cardinale Carlo Borromeo svolse in quell'anno. (1)
Si tratta di una tappa importante nella storia religiosa di Lonate, soprattutto per la dignità di tale visitatore.
È giusto ricordare che Lonate fu il primo paese della pieve di Gallarate ad essere visitato dal santo arcivescovo che, recandosi nelle Valli svizzere attraverso il Ticino ed il lago Maggiore, volle sostare in questo luogo innanzitutto per effettuare la riforma dei monasteri, già da tempo meditata e studiata con i suoi collaboratori, e poi per dare alla parrocchia stessa quella spinta al rinnovamento di cui si era fatto promotore il Concilio di Trento.
Chi erano i sacerdoti che guidavano la comunità religiosa in questo periodo?
Reggevano le due parrocchiali di S. Ambrogio e di S. Nazaro, Ambrogio Piantanida e Domenico Venegono, ma non erano soli: ad essi si affiancavano ben 11 cappellani, il cui numero tanto elevato si spiega probabilmente facendo riferimento ai monasteri presenti sul territorio.
In un periodo di abusi e corruzioni abbastanza generalizzati per quanta riguardo la vita dei sacerdoti (ciò non toglie che l'esigenza della Riforma potesse partire proprio dal basso clero per poi raggiungere i vertici della Chiesa a testimonianza di una purezza di fede ancora viva e presente), la situazione dei preti a Lonate non era delle peggiori.
Infatti, se si ritengono costume diffuso la trascuratezza del proprio dovere, l'avidità circa l'acquisto dei benefici, una cattiva condotta morale poco rispettosa del celibato, l'uso inutilmente condannato di portare armi (che non trovava spiegazione nel bisogno di difesa, bensì nel desiderio di vanità), la non residenza con il conseguente abbandono a sé stessi di molti fedeli, l'ignoranza circa i contenuti della fede unita all'analfabetismo; le inadempienze e i difetti riscontrati nel nostro paese sono inferiori qualitativamente e quantitativamente.
Il curato Piantanida, che viveva nella casa parrocchiale accanto alla chiesa dal 1549 ed aveva con sé una domestica di buona fama, appariva nella sua vita spirituale abbastanza ordinato: è sottolineato negli Atti che si confessava due o tre volte al mese, possedeva tutti i libri richiesti dal Concilio Provinciale (tra cui il Vecchio e Nuovo Testamento, gli Atti del Concilio di Trento, il catechismo, le costituzioni vescovili, calendari, testi di omelie, ecc.), e inoltre molti testi di carattere religioso e di grammatica: segno che doveva essere un uomo colto, nonostante l'età avanzata. Unica nota negativa a suo riguardo: una certa negligenza, specie nel cercare un accordo con l'altro parroco. Per questo motivo il Borromeo ed i suoi vescovi ausiliari non mancarono mai di invitare all'affetto e alla fratellanza reciproca; e per non offendere i due curati ed i loro successori, mai presero provvedimenti per risolvere la questione delle due parrocchiali.
Domenico Venegono appariva molto preparato e diligente nello studio (come accertato dal controllo della sua ricca Biblioteca), e soprattutto esperto in casi di coscienza: il che ben si addiceva ad un pastore in cura d'anime. Non era privo di qualche difetto, per cui la severità del Borromeo lo invitava ad un maggior rigore morale sotto pena pecuniaria.
Questi sacerdoti dovevano talvolta risolvere problemi di tipo economico, segno che la vita non era per loro sempre facile. Il prete Antonio Tacchi doveva addirittura svolgere l'attività di falegname che non si confaceva alla dignità dei sacri ordini. Per questo motivo il Cardinale lo invitò a limitare questo tipo di lavoro e, se spinto dalla necessità, ad occuparsene in segreto. D'altra parte San Carlo fu molto sensibile alla miseria in cui versavano molti suoi pastori e fece di tutto per porvi fine. Ne fa fede una lettera che scrisse al card. Alciati quando, nel 1570, fece visita alla pieve di Gallarate:
« In questa mia visita vo scoprendo ben spesso delle simonie fatte per il in tempo che per gli abusi grandi che regnavano si avevano a pena per peccato ne' il preti che doveriano far la restituzione hanno il modo di farla per la povertà loro... ».
E lo prega di ottenergli dal papa la facoltà di assolvere i colpevoli e di conferir loro legittimamente altri benefici « la qual cosa mi saria assai di consolatione per veder questi poveri religiosi non fossero astretti a far spesa » (2).
Nel 1574 troviamo come parroco di Lonate il sacerdote Giovanni Setticelli, figura interessante soprattutto per lo stretto legame d'amicizia che lo univa al Borromeo. Non era originario del posto ma di Firenze; era stato poi in gioventù alla scuola romana di San Filippo Neri, i cui consigli guidarono tutta la sua vita. Venne a Milano nell'estate del 1570 per compiere gli studi ecclesiastici e fu ordinato sacerdote l'anno seguente. Inviato dapprima nelle valli svizzere, fu nel 1573 ad Inveruno e nel '74 a Lonate, dove rimase fino al 1579: lo avevano inviato qui per i bisogni della gente e dei monasteri. La salute continuamente minacciata (tanto che l'arcivescovo lo fece visitare dal suo medico personale) lo indusse poi a tornare nella terra d'origine dove il clima era più confacente. Qui gli scrisse Carlo Borromeo:
« Il ritorno vostro al servizio di questa chiesa mi saria stato taro; ma però approvo i rispetti che vi tengono costì e vi assicuro che in ogni luogo dove sarete continuerà in me quella affetione che vi ho sempre portato e che devo alla bontà vostra » (3)
Un'altra prova della retta condotta di questo parroco lonatese si trova in una missiva d'accompagnamento con la quale tornò dal pellegrinaggio romano per il giubileo, indirizzata da mons. Speciano al Borromeo:
« Ritorna a vostra Signoria messer Giovanni V. Setticelli di Lonate Pozzolo, il quale mentre è stato qui per pigliare il S. Giubileo ha alloggiato in S. Giovanni de' Fiorentini con quelli buoni padri et perché ho inteso che si è deportato come si conviene a buon sacerdote l'ho accompagnato di queste 4 righe, et con questo humilmente bacio le mani a Vostra Signoria Ill.ma. »
MONASTERI
Non è facile stabilire quanti fossero precisamente i diversi monasteri che esistevano sul territorio di Lonate perché il nome dei conventi variava nel corso del tempo e c'era la tendenza a sostituire quello della fondatrice con quello del Santo protettore. Non in tutti i casi si trattava di veri e propri monasteri: molto spesso erano case abitate da quattro o cinque giovanette dedite alla vita religiosa per una scelta paterna più che per volontà personale.
Era infatti costume del tempo destinare le figlie al convento per non dividere il patrimonio di famiglia spettante al figlio primogenito. Si trattava quindi in molti casi di ragazze di nobili origini che vivevano in una sorta di convento domestico. Questo fatto spiegò, tra l'altro, le inadempienze nel rispetto della regola da parte di chi non sentiva come propria tale vocazione.
Verso la metà del XVI secolo a Lonate i conventi ufficiali erano nove, affiancati sempre da qualche casa di beghine, ed appartenevano tutti, tranne una, all'ordine agostiniano.
l'esistenza delle Agostiniane si può riscontrare con esattezza solo dal 1401, quando Bonifacio IX concesse agli eremitani di S. Agostino la facoltà di istituire comunità con l'abito e i privilegi del loro ordine. Le monache erano divise in due classi: coriste e converse; le prime in genere sapevano leggere, le seconde no e si dedicavano al lavoro manuale della casa e dell'orto. Per fare la professione religiosa dovevano avere almeno dodici anni. La direzione del convento era affidata alla priora e nel governo della comunità aveva grande importanza il capitolo locale.
Erano dunque monasteri agostiniani:
Tale ordine ebbe particolari rapporti con S. Carlo che nel 1570 ne decretò la soppressione per il ramo maschile, dopo che i tentativi di riforma non raggiunsero i risultati desiderati.
Circa la sua origine le posizioni sono ancora discordanti tra gli storici. Se infatti per alcuni questo movimento pauperistico religioso è sorto innanzitutto come protesta sociale nei riguardi degli imprenditori e quindi affonda le sue radici nei ceti più bassi, nei poveri ambienti del proletariato cittadino, colpito da indigenza economica, che trovava in questa forma di associazione un modo per reagire contro i ceti più elevati; per altri l'origine ha motivazioni religiose e appare come la scelta di persone anche nobili che desideravano condurre una vita in linea con i consigli evangelici, per santificarsi attraverso la preghiera, il lavoro e l'aiuto al prossimo. Essi si impegnavano a vivere con il lavoro delle proprie mani, accontentandosi del necessario, dando il superfluo ai poveri e restituendo ciò che era stato guadagnato in modo disonesto. All'interno dello stesso ordine esistevano tre gruppi distinti secondo le condizioni dei componenti: quello dei canonici regolari, dei laici che vivevano in comunità e di quelli che restavano nelle loro case.
La situazione di tutti i monasteri, locali e non, ai tempi di S. Carlo non era delle migliori, sia dal punto di vista morale che economico. Da tempo era sopravvenuta una mitigazione della regola e in particolare del distacco dal mondo, casi che i rapporti con parenti e conoscenti diventavano sempre più liberi e frequenti. l'ingerenza di questi ultimi faceva sentire il suo peso specie in occasione di elezioni di badesse o priore oppure di aspiranti alla vita claustrale. Per questo motivo l'arcivescovo Borromeo decise di attuare ben presto le norme tridentine relative alla riforma dei monasteri. Sostenuto dal diligente lavoro di alcuni suoi collaboratori riuscì in breve tempo ad avere un quadro preciso della situazione.
Ancora a Roma, nel 1564, ricevette la seguente comunicazione:
« Mons. Ormaneto partirà domani per andare a Lonate Pozoldo a visitare alcuni monasteri di monache che ne hanno grandissimo bisogno, et lunedi sarà di ritorno. »
Nel settembre del 1566 fu la volta del visitatore Lionetto Chiavone che, come il suo predecessore, scrive di alcuni abusi e scorrettezze.
Finalmente nell'autunno del 1567 il Cardinale in persona venne a porre soluzione ai problemi delle nostre comunità religiose.
Egli, fatte convocare le badesse, stabili con il loro accordo di riunire tutte le religiose in tre soli monasteri (« ...quod non conveniunt tot monasteria in loco tam angusto... »), precisamente S. Maria, S. Gerolamo, S Pietro e di vendere all'incanto edifici e giardini dei monasteri soppressi, devolvendo il ricavato alle nuove comunità.
Per le monache umiliate il provvedimento fu differente: esse vennero infatti inviate al convento milanese di S. Maria del Cerchio, dove giunsero, dopo il viaggio lungo il Naviglio, prima che l'arcivescovo partisse da Lonate.
Sembra che S. Carlo fosse piuttosto soddisfatto dell'opera realizzata, e appena giunse ad Arona informò il sua stretto collaboratore, mons. Ormaneto:
« Ho visitato Lonate Pozoldo e ho fatta quella unione dei monasteri di monache, designata tempo fa, et tanto facilmente, che in due giorni me ne sono ispedito, havendo fatto fare la trasmigrazione delle robbe e delle persone, prima che io partissi di là: di nove monasteri son ridotti a tre, i quali saranno di quaranta e di cinquanta monache l'uno, dove staranno e con maggior osservanza e con più comodità quanto al vivere, che non facevano prima: una di essi, cioé quello dell'ordine degli Umiliati s'è mandato a Milano, nel Cerchio ».
A sua volta l'Ormaneto si rallegrava rispondendo:
« La fatica fatta a Lonate di quei monasteri è stata felicissima: la stia pur salda ne' suoi propositi, ché Nostro Signore Dio l'aiuterà. »
I tre monasteri supersiti col passare del tempo accrebbero le loro proprietà e si resero economicamente autosufficienti; sopravvissero fino al 1784-85 e vennero poi soppressi durante il governo di Giuseppe II. A testimoniare le loro raggiunte prosperità sia per i beni materiali, sia per il numero delle monache, restano le notizie riguardanti la vendita dei possedimenti.
LE CONFRATERNITE
Lo studio sulla vita delle confraternite e certamente molto interessante per cogliere la vitalità religiosa dei secoli passati e qualcosa potremo certamente conoscere anche in relazione alla nostra comunità delle epoche passate.
Innanzitutto non bisogna confondere le confraternite che hanno una finalità religiosa con le associazioni profane, cioè le corporazioni dei mestieri e le gilde dei mercanti. Infatti, se nel Medioevo anche queste non escludevano completamente l'attività religiosa e caritativa, il loro scopo precipuo era l'interesse dei beni temporali. Invece, le confraternite miravano principalmente al benessere spirituale: « propter salutae animae ». Gli iscritti erano generalmente l'elite presente in ogni parrocchia che ricercava la propria santificazione nell'aiuto vicendevole. Al di là delle diversità di contenuti ideali ed attività, si ritrovano sempre una stessa sostanza umana e i medesimi scopi di fondo: garantirsi l'assistenza di un santo, della Vergine, ma anche di uomini in carne ed ossa, per superare felicemente le prove della vita, in particolare della malattia, ma anche della morte e del passaggio alla vita ultraterrena; assicurarsi una rete di solidarietà che dia respiro all'esistenza individuale e familiare; farsi sostenere da un insieme di obblighi personali e collettivi e dalla correzione reciproca in vista dell'approfondimento della propria vita di pietà e dell'accrescimento dei meriti spirituali. Perché tutto ciò si realizzi, i confratelli che sono tenuti a rispettare un codice civile e morale più esigente di quello seguito dalla massa, si riuniscono di tanto in tanto per le loro funzioni, le loro preghiere e la discussione di problemi di interesse comune e circa ogni anno eleggono i loro ministri.
A loro modo dunque vivono una esperienza di condivisione.
Le confraternite subirono nel corso dei secoli momenti di decadenza e di fioritura con formule nuove secondo le mentalità delle diverse epoche e trovarono nel XVI secolo un periodo di grande sviluppo ispirato da un rinnovato fervore religioso. Tanto che in alcuni luoghi manifestano una sorprendente capacità di resistenza seppure le odierne attività sono di modesto rilievo.
Anche a Lonate esistevano diverse confraternite laicali, alcune di antica origine, piuttosto ben organizzate e vive nelle loro attività e, nonostante la parrocchia sia solo una piccolissima tessera di un mosaico più vasto, quello che si rintraccia al suo interno lo si rileva più o meno uguale altrove.
I disciplini trovavano la loro origine nel movimento medievale dei flagellanti. Ad imitazione dei monaci benedettini che, in alcuni casi, per punizione volontaria, ricorrevano alla flagellazione, anche i laici adottarono una tale pratica, fustigandosi durante processioni collettive e in occasione di pubbliche calamità. La loro nascita è comunque fenomeno continuato ed è fatto che spesso sfugge ad una precisa indagine genetica, legato come, assai di frequente, a cause del tutto occasionali, alle più comuni contingenze locali, quanta alle più complesse vicende di nuovi orientamenti spirituali.
Dopo che il movimento si fu diffuso in tutta Europa, la conseguenza stabile fu la fondazione, in molte regioni d'Italia, di numerose confraternite con il nome di battuti, disciplinati, frustati, i cui membri laici si radunavano per praticare, secondo i loro particolari statuti, la disciplina, nelle proprie chiese o cappelle e dedicarsi ad esercizi di pietà ben definiti: elemosine in favore dei poveri, visite periodiche ad infermi e carcerati, accompagnamento e suffragio ai defunti; ed in questi uffici mettevano in comune lascite e rendite di beni loro affidati dalla generosità dei fedeli, per poi devolverli ai bisognosi. Sotto questo aspetto tali confraternite furono un tramite importantissimo della benificenza specie nel secoli XIII-XV. Speciale importanza ebbero pure gli ospedali da essi fondati.
A Lonate il consorzio dei disciplini, la cui origine non è databile con precisione, ottenne da San Carlo la chiesa di S. Pietro Martire, in seguito alla riforma dei monasteri, e venne nominato « dei Santi Pietro e Paolo ». Di tale edificio restano ancora tracce in via Oberdan, rimandiamo agli articoli del prof. Bertolli pubblicati nel '77: riferiamo alcune notizie ricavate come sempre dagli Atti delle visite pastorali. Lasciò scritto il cardinale Borromeo nel 1570 per questa confraternita:
« Non si tolleri in questa compagnia quelli che non s'emendano dalle blastemie et giochi, et lasciaranno a fatto li balli et di portar armi ed altre vanita simili » (4)
Questa esclusione dei bestemmiatori e dei fanatici del ballo e del gioco con le carte verrà poi ribadita dal visitatore ecclesiastico dell'anno 1583, segno che le cattive abitudini non si perdevano tanto in fretta. I disciplini di San Pietro erano 30 nel 1596 e nel 1622, quando li visitò il cardinale Federigo Borromeo, il loro numero era aumentato fino a 55: gli scanni del coro posto all'ingresso dalla loro chiesa non bastavano più.
I confratelli convenivano nel coro ogni giorno di fretta, di mattino e di pomeriggio, per la recita dell'ufficio della Madonna secondo il rito ambrosiano, e indossavano per l'occasione, così come nelle processioni, una veste penitenziale di canapa bianca, a foggia di sacco, con le insegne di San Pietro. Per regolamento erano tenuti a flagellarsi almeno ogni venerdì santo, ma risulta che usassero assai di rado il flagello. Era loro dovere anche far ricorso assiduo ai sacramenti, anche se, stando agli Atti della visita del 1596, i sacramenti nella stagione estiva passavano in sott'ordine rispetto al lavoro dei campi. Il gruppo era retto da un priore ed aveva vari altri ufficiali tutti a nomina annuale, denominati: maestro dei novizi, maestro del coro, cancelliere, tesoriere, fabbricere, visitatore degli infermi.
I proventi della confraternita all'inizio non erano molti poiché si fondavano esclusivamente sulle elemosine offerte dal popolo durante e fuori la messa e in occasione della raccolta di frumento, segale, miglio e lino: di cui il tesoriere doveva comunque render canto al vicario foraneo con l'opportuna documentazione. Però risulta che nel 1622 la compagnia fosse in possesso di vari beni immobili e, mentre cresceva il suo prestigio nel borgo, aumentavano pure i legati di culto da amministrare.
l'epoca dell'abbandono dell'oratorio di San Pietro è testimoniata in un manoscritto sul quale fra le confraternite soppresse da Giuseppe II figura quella lonatese dei Santi Pietro e Paolo: è l'anno 1787-88.
Negli Atti della visita di Federigo risulta attiva sul territorio del paese una seconda confraternita di disciplini, eretta da San Carlo nel 1572 presso la chiesa parrocchiale di San Nazaro. Anche qui gli iscritti si ritrovavano nella festività per la recita dell'ufficio portando un abito di tela di S. Gallo « cerulei coloris », con le insegne di San Giovanni Battista. Prendevano parte a processioni generali e particolari e seguivano le regole comuni. Una particolare nota sottolinea che questo gruppo non era legato a nessuna arciconfraternita romana avente il diritto di aggregarsi associazioni della stessa specie alle quali comunicare indulgenze e privilegi, il che, invece, era cosa assai diffusa. Forse con queste righe il cardinale Federigo voleva far intendere che un'eventuale richiesta di aggregazione sarebbe stata volentieri accolta e realizzata.
LE SCUOLE DEL SS. SACRAMENTO
La prima fra le ordinazioni che il Borromeo lasciò alla parrocchia di Lonate, a conclusione della sua visita nei 1567, concerne la costruzione di un tabernacolo di legno « bello e dorato », da collocare sopra l'altare, e l'acquisto di una pisside d'argento per conservare l'Eucaristia e distribuirla al popolo e ai malati.
È significativo questo interesse alle sacre specie che il Cardinale manifestò quasi sempre, onde ribadirne la centralità nella dottrina cattolica, contro le posizioni dei Riformati. A Trento infatti i Padri conciliari avevano approvato dieci articoli sull'Eucaristia in cui venivano definiti la presenza reale e il concetto di transustanziazione contestato dalla Riforma luterana.
Nonostante in molte chiese vi fossero trascuratezza e disordine nei riguaedi dell'Eucaristia, prima ancora del Concilio erano sorte le Scuole dei SS. Sacramento con lo scopo di avvicinare i fedeli alla comunione. Primi fondatori ne furono fra Bernardino da Feltre verso la fine dei '400 e papa Giulio II, che volle essere annoverato tra i confratelli. A Milano la prima confraternita dei SS. Sacramento fu quella fondata nella parrocchia di S. Giorgio in Palazzo; l'epoca è incerta, ma certamente risale al periodo tra il 1486 e il 1510.
Poche altre scuole di questo tipo vennero istituite in città durante la prima metà dei '500, il vero propagatore fu Carlo Borromeo.
Si trattava di organizzare istituzioni molto spesso gravate da oneri amministrativi e sovente dall'intera gestione fabbriceriale.
La cura per l'« ornatum Sacratissimi Sacramenti » si combina senza fatica con il compito di garantire il decoro dell'intera chiesa parrocchiale ed eventualmente delle chiese sussidiarie; ciò spiega come mai i deputati di tali scuole abbiano finito con lo svolgere un ruolo vitale.
In Gallarate la scuola era sorta probabilmente prima della visita del Borromeo del 1570 ma, come avvenne in diversi altri casi, il cardinale, vedendo che non possedevano l'atto ufficiale di fondazione, con la formula « ex nunc » la eresse di nuovo e canonicamente.
Nel nostro paese, dopo la fondazione ufficiale, sempre nel 1570, la scuola fu subito frequentata da un buon numero di fedeli che nella terza domenica del mese organizzavano una processione intorno alla piazza e raccoglievano le elemosine del popolo durante la messa, elemosine che servivano per la cura del Santissimo e per onorar l'altare. Nel 1596 gli iscritti erano 200, ma quando furono visitati da Federico Borromeo il loro numero era di molto aumentato, pur non avendo beni stabili e pochissimi redditi. Possedevano una cassa in chiesa per le offerte, ma da quanto risulta l'aspetto economico aveva poca importanza, l'essenziale era il fine spirituale chiaramente definito dalla regola; ciò non toglie che l'attività assistenziale realizzata con le eccedenze della gestione ordinaria, contribuisse in qualche modo ad alleviare i bisogni dei poveri.
I confratelli dovevano innanzitutto mostrare con le parole e con l'esempio l'onore e la riverenza per il Corpo di Cristo, e in particolare diffondere la buona abitudine di inginocchiarsi alla Sua presenza. Chi proprio ne era impedito doveva inginocchiarsi per riverenza e recitare un Pater e un'Ave. Gli iscritti inoltre erano tenuti a confessarsi e comunicarsi almeno una volta al mese, nella festa dei Corpus Domini e nelle solennità principali. Ogni terza domenica del mese spettava loro preparare la messa cantata. Se possibile gli iscritti avevano il dovere morale di correre in chiesa quando sentivano suonare per l'elevazione, così da adorare in ogni occasione L'Eucaristia. Loro compito specifico era però accompagnare il SS. Sacramento quando veniva portato agli infermi, con ceri in mano, dirigendosi verso la chiesa non appena sentivano suonare le campane.
Anche questa confraternita aveva una sua organizzazione all'interno che prevedeva un priore, persona degna che conservasse l'unità, l'amor fraterno e garantisse il rispetto della regola; un maestro dei novizi con il compito_ di presentare i nuovi confratelli al parroco e di istruirli; un cancelliere e un tesoriere per l'amministrazione; due infermieri che dovevano prestar cure spirituali ai confratelli infermi preoccupandosi di far ricevere loro il viatico. Per le elezioni di questi ufficiali si raccomandava di avere come unico scopo il bene della compagnia e non interessi privati che avrebbero dato adito ad ambizioni e vanità. I posti di maggior responsabilità venivano comunque occupati da un numero esiguo di famiglie, generalmente le più in vista dei paese; infatti fra gli uomini che ne hanno assunto il governo si individuavano facilmente ricchi proprietari terrieri, artigiani, commercianti.
Per quanto riguarda le processioni dei Corpus Domini, da connettere con le visioni della beata Giuliana di Mont-Cornillont, che ebbe dal Signore la missione di introdurle nella Chiesa, esse divennero di uso comune soprattutto dopo che i papi Martino V (1417-1431) e Eugenio IV (1431-1447) le ebbero arricchite di indulgenze.
Come in tutta la diocesi, anche a Gallarate la cerimonia si svolgeva in grande stile con la partecipazione dei clero e dei fedeli dei borghi vicini. In particolare il prevosto Besozzo aveva espressamente insistito perché ogni paese fosse presente per questa imponente celebrazione.
Contro le sue imposizioni abbiamo una lettera redatta dai curati di Lonate, i quali nei 1581 scrissero al Borromeo che, per la lontananza di Lonate dalla prevostura, non si era mai usato andare a Gallarate per la festa dei Corpus Domini, ma si faceva la processione in parrocchia. Invece l'attuale prevosto voleva ora costringerli, cosa mai fatta dai suoi predecessori.
Pare che il Cardinale, per ragioni di disciplina, accogliesse il ricorso dei lonatesi, così che essi poterono continuare a celebrare tale solennità sul proprio territorio.
Infine tra le altre pratiche sostenute dalla confraternita del SS. Sacramento si deve ricordare quella delle Quarantore che, celebrata inizialmente dal giovedì santo al sabato santo, fu propagata soprattutto per opera dei gesuiti e introdotta a Milano nel 1577.
La scuola dei SS. Sacramento è l'unica in parrocchia ad essere restata viva nei corso dei tempo, tanto che ancora oggi conta diversi iscritti. Sono cambiate certo le attività, ma non lo spirito che perdura nei secoli e, mentre ci lega in modo cosi concrete alla fede dei nostri antenati, ci ricorda l'Eucaristia come c cuore u della comunità.
LE SCUOLE DELLA CARITÀ
L'opera riformatrice del Borromeo toccò anche i consorzi laicali dediti ad opere caritative, anch'essi originari dell'epoca medioevale. Nel borgo di Lonate la presenza fin dai tempi lontani di tre scuole della carità testimonia l'impegno della popolazione in un settore cosi legato alla sensibilità cristiana.
Il dovere dell'assistenza è parecchio sentito e le istituzioni aventi tale fine risultano numerose ovunque, anche se il centro d'azione è soprattutto la città dove si organizza una fitta rete di attività in questo senso, mentre nelle campagne è più manifesta l'iniziativa privata e locale.
Nel medioevo i poveri hanno sempre costituito una moltitudine che, se da una parte suscitava preoccupazione e paura, dall'altra rendeva possibile l'elemosina che era considerata una delle condizioni essenziali per godere della Vita Eterna. La campagna specialmente abbondava di bisognosi che, non riuscendo a vivere con i loro piccoli appezzamenti, erano costretti a lavorare per conto d'altri dietro compenso con contratti generalmente di breve durata. l'ampliamento della proprietà rurale verso la fine del Medioevo aveva tolto a molti contadini le loro terre, quindi costoro spesso non avevano altra scelta che il servizio militare o il farsi mendicanti e briganti, attratti dalle città che ne diventavano il centro di raccolta. Fornire e organizzare i soccorsi ai bisognosi era compito di istituti di beneficenza e in primo luogo degli ospedali che spesso amministravano lasciti ed offerte di ricchi benefattori: la carità era quindi resa pubblica e realizzata secondo moduli stabiliti. Anche gli statuti delle singole arti definivano forme di assistenza ai membri in difficoltà, ma durante le annate di carestia o di epidemia bisognava ricorrere a misure eccezionali con la collaborazione di autorità secolari e religiose. Nel sec. XIV alcune confraternite tendono ad acquistare quella fisionomia per la quale nel secolo seguente assumeranno il nome di luogo pio. Hanno come noto distintiva di non dipendere direttamente dall'autorità ecclesiastica, anche se le sono sempre ossequenti soprattutto per godere dell'assistenza spirituale.
Del consorzio più antico di Lonate, quello di S. Maria, si hanno notizie in un documento rinvenuto nell'archivio comunale e risalente al 1333. Esso contiene lo statuto, l'elenco dei beni, le tavole degli amministratori di questa istituzione eretta presso la chiesa di S. Maria degli Angeli. Ogni socio risulta che dovesse versare alla cassa 20 soldi terzuoli per l'iscrizione e poi 2 denari ogni mese, con l'impegno di recitare 25 Pater noster e 25 Avemarie. Il consorzio s'impegnava a sostenere durante la malattia gli iscritti economicamente bisognosi e a distribuire ogni anno per l'Ascensione 5 moggia di segale e miglio in elemosina ai poveri. Eventuali contrasti venivano risolti dai consoli dei consorzio che avevano anche facoltà di multare gli indisciplinati. Quando un socio moriva, gli altri recitavano per lui determinate preghiere e partecipavano ai funerali con due grossi ceri, funerali annunciati da un particolare suono di campane i cui rintocchi si susseguivano fino all'inumazione dei cadavere. I consorziati morti in povertà fuori paese nel raggio di 10 miglia venivano trasferiti nel cimitero locale a spese dei consorzio. Dal 1341 questa Scuola è affiancata da altre due, una dedicata a Sant'Ambrogio, l'altra a San Giovanni Battista.
Il cardinale Carlo Borromeo, la cui opera di assistenza per Milano e dintorni è ampiamente documentata, dopo la presa di visione nel 1567 delle tre scuole della carità esistenti sul territorio lonatese, volle nel 1570 fonderle in una sola associazione per unificarne il lavoro e l'impegno al fine di un'azione più incisiva:
« Erigiamo ex nunc la Scola della Carità con l'osservanza delle regale generali e stampate, e ex nunc parimente di consenso ancora delli scolari, incorporiamo in questa scola le altre tre, cioé Sant'Ambrogio, Santa Maria, San Giovanni e vi entrino anche delli gentiluomini. Gli officiali che mancano si accreschino infin al numero prescritto nelle regole della carità stampate. Gli officiali si eleggano tutti al presente di nuovo, e così ogni anno: vogliamo che messer Steffano Guido perseveri nell'officio per un altro anno prossimo. L'entrate tutte si distribuiscano in elemosina, ne possino spender circa la Fabrica e ornamenti della Chiesa Parochiale, ma faccino tutte le elemosine ai poveri, come qua abasso. Non si distribuisca l'elemosina ad alcuno, quale non habbia la fede sottoscritta dal curato, e dalli visitatori dei poveri, eccetto che in caso di necessità possa dare fino alla somma di un reale e alla prima Congregatione ne dia conto al capitolo, e le polize si metteranno tutte in filza, scrivendole nel libro per render conto insieme di tutta la sua amministrazione nelle mane delli nuovi officiali. »
Seguono indicazioni circa i documenti da presentare e il tipo di affitto dei beni che non deve essere in denaro, ma in grano, secondo criteri d'indole pratica. Generalmente il povero riceveva pane; ceci cotti o vino: l'offerta in natura era forse più consona alle esigenze dei miseri.
La Scuola della Carità non ebbe però, almeno all'inizio, un'attività ben organizzata ed ordinata, soprattutto non procedeva bene nell'amministrazione delle sue entrate. A ciò cercò di provvedere, durante la visita del 1575, il visitatore apostolico mons. Regazzoni. Egli constatato il fatto diede questa ordinazione:
« Rendano questi confratelli ogni anno reale et diligente conto dell'entrate sue al Vicario foraneo sotto pena dell'interdetto dalla chiesa alli ufficiali et altre pene a giuditio di mons. ill.mo Ordinario et medemamente dei cinque anni passati; et oltre alla quarta parte delle sue entrate applicata da mons. ill.mo Ordinario alla fabbrica della Parrocchiale di S. Ambrogio di detto luogo ubbidisca all'infrascritto mandato. Girolamo; vescovo di Famagosta, Visitatore Apostolico. In essecutione della bolla di N. S. pubblicata l'anno 1572, addì 30 di Gennaro, commettiamo a voi confratelli di S. Maria, S. Giovanni, S. Ambrogio di Lonate Pozzolo siccome anco vi siete obbligati per istromento pubblico, rogato per m. Gio. Pietro Reposso sotto il 25 di giugno passato, che dobbiate ogni anno nel mese di Novembre incominciando l'anno corrente 1575, mandare a quel povero monastero di S. Maria moggia 12 di mistura e a quell'altro di S. Michele moggia 8 di mistura, cioè segalla e miglio. E ciò infino a tanto che i detti monasteri si saranno rispettivamente ridotti a quel numero di monache che possino vivere, con le' sue entrate et elemosine ordinarie... »
Dunque un ulteriore impegno per l'associazione che prevedeva il soccorso ai conventi riformati da S. Carlo, ma ancora gravati da problemi economici.
Nel 1622 i redditi di questa Scuola ammontavano circa ad un migliaio di libbre, di cui la terza parte era devoluta alla fabbrica, il resto ai poveri. Troviamo due deputati, Stefano Piantanida per la parte superiore dei borgo e Giulio Locati per quella inferiore: interessante questa suddivisione, motivata forse da un certo spirito campanilistico all'interno della comunità o dal desiderio di una migliore conoscenza dei bisogni dei paese. La quantità di ogni offerta veniva stabilita con il parroco dopo che quest'ultimo si fosse consultato con il vicario foraneo, generalmente comunque corrispondeva a 30 soldi.
Una particolare occasione per la raccolta di offerte era il pellegrinaggio al Sacro Monte, durante il quale ogni famiglia, e in particolar modo gli iscritti. alle confraternite, affidavano al Sacerdote l'elemosina per i più miseri della parrocchia.
LE SCUOLE DELLA DOTTRINA CRISTIANA
Nel periodo da noi considerato, i fedeli che partecipavano alla vita della parrocchia, pur dimostrando quel fervore religioso che si rendeva manifesto nell'adesione alle diverse confraternite, avevano bisogno, come e ancor più del clero, di una corretta istruzione riguardante ogni aspetto della fede che professavano. L'ignoranza del popolo era grande e dovuta in gran parte ai venir meno di un'attività di predicazione che avrebbe dovuto coinvolgere in prima persona vescovi e sacerdoti. Tale settore della pastorale veniva invece trascurato per una inadeguata preparazione degli stessi religiosi e per interessi mondani più coinvolgenti. La fede delta gente era semplice, intatta nella sostanza, ma esposta da una parte ai rischi della superstizione, delle credenze magico-religiose, dall'altra agli influssi della Riforma Protestante.
1 deputati del Concilio di Trento discussero il problema soprattutto nelle sessioni V e XXIV e, prendendo spunto dal fatto che per la formazione teologica del clero non esistevano né norme obbligatorie né istituzioni particolarmente destinate a questo scopo, vollero istituiti corsi di lezioni sulla Bibbia nelle cattedrali, negli studi degli ordini, negli istituti superiori. Resero inoltre obbligatorio a vescovi e parroci il compito della predicazione e dell'istruzione catechistica tutte le domeniche e giorni festivi.
Se la situazione era tale, non fa meraviglia constatare che
nei decreti delle visite pastorali, dalla seconda metà del '
Per quanto riguarda Gallarate e pieve, già il P. Leonetto Chiavone nel 1564 aveva raccomandato di spiegare la dottrina cristiana tutte le feste e nella chiesa principale, a sottolinare l'importanza di questo momento: « Doctrina cristiana singulis festis legatur in ecclesia majori » (5).
Carlo Borromeo nel 1567 a Lonate aveva personalmente stabilito quali sacerdoti dovessero dedicarsi a questo compito separatamente per donne e fanciulle e per uomini e ragazzi. È facile pensare che scelse chi aveva trovato più idoneo per la preparazione ed il comportamento corretto che teneva.
Il Borromeo aveva dato nel suo apostolato un posto preminente al ministero della Parola di Dio e portava la massima stima per l'ars bene dicendi. Gli stava cuore prendere la parola durante gli itinerari nella diocesi e, poiché di giorno era oberato da tante occupazioni, dedicava parte della notte a preparare la predica da fare al popolo. Questa doveva essere a sua avviso biblica, catechistica (i parroci dovevano sforzarsi di farla comprendere) morale (doveva insistere sull'odio per il peccato e sul miglioramento della propria condotta); non doveva limitarsi alle generalità, ma citare in giudizio i difetti e le imperfezioni più comuni.
La sua azione più incisiva in questo campo fu la diffusione delle scuole della dottrina cristiana, che, sebbene sorte diversi anni prima, trovarono in lui il propagatore più accanito. Tali scuole furono per tutto il XVI e XVII secolo l'organizzazione scolastica probabilmente, più importante della diocesi di Milano, le sole che frequentasse il popolino, le uniche che godessero della speciale protezione del governo spagnolo.
Le primissime furono erette a Milano per iniziativa di Castellino da Castello nel 1536, il quale dedicò tutta la vita a questa attività tanto che, ormai cieco, nel 1550 arrivò a Varese per aprirvi la scuola nella chiesa di San Lorenzo. Preso possesso della diocesi San Carlo ordinava a tutti i curati e pastori d'anime « che ogni domenica e festa comandata convocassero dopo il desinare con un segno di campana tutti i figlioli della parrocchia e che essi gli insegnassero in Chiesa la Dottrina Cristiana » (6). Come per le altre confraternite il Cardinale scrisse di persona le Costituzioni e Regole, modello esemplare di legislazione catechistica, la cui diffusione elevò il numero delle scuole da 15 a 750 nel corso del suo episcopato.
Anche Federico Borromeo si interessò a questa istituzione, volle promuoverla ed incoraggiarla. Nel 1622 egli trovò a Lonate una scuola ben avviata, fondata prima delta fine del '500, e riguardo ad essa rilasciò un giudizio positivo, in quanto ebbe modo di constatare che la dottrina cristiana era abbastanza frequentemente insegnata dai parroci e la compagnia contava « un buon numero di ufficiali e soprattutto pescatori che raccolgono i fanciulli vaganti e li conducono in chiesa » (7).
Ci si può a questo punto chiedere quali fossero i contenuti di fede maggiormente insegnati al popolo: il testo più diffuso fino alla metà del 500 era stato quello del Canisio, che contava ben 400 edizioni.
Dopo il Concilio di Trento il cardinal Bellarmino compose i suoi due celeberrimi catechismi che il cardinal Federico volle adottare per le sue scuole. Non bisogna però dimenticare che accanto ad essi sbocciò ben presto tutta una fioritura di catechismi popolari che nella chiarezza dello stile e dei contenuti si diffusero anche nelle più piccole parrocchie di campagna.
Note:
(1) Archivio Curia Milanese, sez. X, vol. III.
(2) Biblioteca Ambrosiana F 132 inf. Lettera 153.
(3) Biblioteca Ambrosiana F 132 inf. Lettera 137 e F 92 inf. Lettera 115.
(4) Archivio della Pieve di Gallarate, vol. 1.
(5) Archivio Piebe Gallorote, vol. 1.
(6) Acto Ecclesioe Mediolanensi, pog. 54.
(7) Archivio Curia di Milano, sez. X, vol. 20.
ALTRE VISITE DI SAN CARLO A LONATE
Prima e dopo la visita pastorale del 1570, San Carlo Borromeo passò e venne altre volte a Lonate. D'altronde nel territorio di Lonate c'era (e c'è) l'inizio del Naviglio Grande, che potremmo ritenere per quei tempi l'autostrada di Milano. Chi sa quante volte l'illustre arcivescovo vi passò nei suoi molti viaggi per raggiungere le terre dei suoi parenti Borromeo sul lago Maggiore, o le pievi ambrosiane della Confederazione elvetica che erano particolarmente esposte al pericolo di infiltrazioni protestanti, o la regione novarese in direzione del santuario, a lui carissimo, di Varallo Sesia?
Era poco più che ventenne quando, nominato arcivescovo, fece il suo ingresso ufficiale a Milano nel settembre 1564. Nipote e segretario di papa Pio IV Medici, aveva lavorato perché il concilio di Trento, iniziato nel 1545 e poi rimasto interrotto, riprendesse le sessioni e arrivasse a conclusione: cosa che avvenne nel 1562. Fatto arcivescovo, il Borromeo si comportò da diligente interprete delle direttive del concilio, e agì con premura e solerzia per la riforma del clero, dei monasteri, del popolo. Anche nei confronti della realtà lonatese, bisognosa come tante altre di essere aggiustata.
Nel mese di novembre del 1564 mandò a Lonate il suo delegato, monsignor Nicolò Ormaneto, per esplorare la situazione dei numerosi monasteri femminili. AI delegato che stilò una dettagliata relazione, rispose con una lettera di ringraziamento datata 11 novembre 1564, in cui si legge: « Veggo che questa vostra gita era necessarissima per raffrenare il corso di molti disordini et circa i rimedi più gagliardi et efficaci che dite esser bisogno. »
Nel novembre del 1566 passò in territorio di Lonate un altro suo delegato, monsignor Cermenati, prevosto di Desio. Costui, mentre compiva la visita della pieve di Dairago, vide l'antica chiesa di San Giovanni in Campagna, così malconcia che, a parer suo, meritava di essere distrutta, ed anche la chiesa di Tornavento, tenuta in buono stato dai nobili Della Croce ma ancora soggetta (come da secoli) alla parrocchia di Magnago.
Per la riforma dei monasteri venne personalmente a Lonate alla fine di settembre del 1567. Li ridusse da dieci a tre: concentrò le monache nelle tre sedi più importanti di San Michele, Sant'Agata e Santa Maria, e fece da loro approvare le concentrazioni mediante stesura immediata di atti notarili.
Dell'operato diede notizia all'Ormaneto con lettera da Arona datata 7 ottobre 1567, mentre era in viaggio verso i Cantoni Svizzeri. « Ho visitato Lonate Pozzalto ed ho fatto quell'unione di monasteri di monache designata tempo fa ... et la cosa mi è riuscita tanto facilmente che in due giorni me ne sono ispedito, havendo fatto fin la transmigratione delle robbe et delle persone. » In quell'occasione, a Lonate deve aver alloggiato, lui nobile, nella casa del nobile feudatario Coriolano Visconti, in piazza Santa Maria, cosi come nella visita pastorale che compì nel mese di giugno del 1570, dopo la quale emise decreti, ovvero disposizioni importanti per la chiesa parrocchiale di Sant'Ambrogio, ricostruita dalle fondamenta nel 1508 ma non ancora perfetta.
L'arcivescovo dispose che si facesse un nuovo battistero di marmo, il coro dietro l'altare, un uscio per collegare il coro alla casa parrocchiale (della casa rimane un pezzo sul lato sud dell'attuale via San Fortunato), che si ponesse una inferriata separatrice tra l'altare maggiore e l'aula dei fedeli, che si finisse di dipingere la cappella di San Bartolomeo (il dipinto finito rimane) e si dipingessero le nicchie delle altre cappelle minori (di quella di San Pietro Martire rimane il dipinto, datato 1572), si inserisse nell'arco della cappella maggiore il trave (allora già approntato) con il crocifisso sopra, che si completasse il cornicione esterno alla chiesa, che senza licenza arcivescovile non si aprissero nuovi sepolcri all'interno della chiesa e infine che, appena possibile, si perfezionasse la porta d'ingresso (non c'erano ancora le due portine laterali), si alzasse un campanile vero e proprio, si impiantasse l'organo.
Meno importanti le disposizioni che il Borromeo dettò per le altre chiese: per tutte porre "stamegne" (cioè carta o tela cerata) alle finestre, per san Nazzaro sistemare battistero e pavimento, per San Giovanni in Campagna l'altare, per la chiesa di Tornavento il soffitto. Nello stesso anno con decreti separati aveva assoggettato Tornavento alla parrocchia di Lonate.
Per "riformare" il popolo promosse la nascita di confraternite. Anche Lonate ebbe quelle più care al vescovo: della Dottrina Cristiana, del Santissimo Sacramento, dei Disciplini o flagellanti. A quest'ultimo sodalizio, esclusivamente maschile, assegnò la chiesa del soppresso monastero di San Pietro Apostolo in via Oberdan (rimangono gli affreschi voluti dal sodalizio negli anni immediatamente seguenti). Un'altra compagnia di Disciplini fu istituita nella chiesa di San Nazzaro, alleggerita sempre più delle funzioni, precedentemente assolte, di chiesa parrocchiale. Numerosissimi gli iscritti, maschi e femmine, alle altre due confraternite o, come si diceva allora, scuole. La Dottrina Cristiana, organizzata per gruppi (uomini e donne, fanciulli e fanciulle), mirava a combattere l'ignoranza nelle materie religiose, riflesso nel popolo dell'ignoranza del clero. La confraternita del Santissimo Sacramento mirava a porre al centro della vita dei cattolici l'eucaristia, che era denigrata nella concezione protestante.
Quanto al clero, quello di Lonate non era forse il peggiore. Ma il fatto che nella seconda metà del Cinquecento i curati di Lonate (il borgo ne aveva due) durassero in carica pochi anni, con intervalli di "cura vacante", non depone bene. Tra il 1560 e il 1580 nella prima porzione curata si succedettero Ambrogio Spezia, Domenico Venegoni, Giovanni Maria Frotti; nella seconda Ambrogio Piantanida, Francesco Galli, Giovanni Setticelli, Teofilo Cimilotti.
II curato Frotti doveva avere qualche buona qualità se l'arcivescovo diede soltanto a lui e al curato di Cardano nella pieve di Gallarate, oltre beninteso al prevosto, la facoltà di assolvere in confessione dai "casi riservati".
II curato Setticelli rappresenta un dono dell'arcivescovo Borromeo alla comunità di Lonate. Setticelli era fiorentino, era uno di quei preti che aveva seguito il Borromeo impegnato nelle opere di riforma della Chiesa italiana. Con quanto amore lo avesse servito, ce lo rivela la lettera del Setticelli al Borromeo, datata 25 giugno 1579. A quella data il sacerdote di Firenze si sentiva necessitato dalla malattia a "deporre il peso" della parrocchia che aveva portato "quasi per to spatio di anni sei". Capendo egli scrisse "che queste anime patiscono del cibo spirituale et che io manco del debito mio", concludeva: "Nostra Signoria Illustrissima voglia riacceptare il dono et benefitio che gratuitamente mi dette". A fare quel passo si diceva consigliato da persone sagge e autorevoli tra cui san Filippo Neri, che aveva incontrato probabilmente a Roma o a Firenze durante il rientro in Toscana, fatto per consultare medici. Anche costoro gli avevano consigliato di lasciare la cura parrocchiale che gli costava "troppe fatiche alla testa". Egli, per stare alle sue parole, quasi non riusciva più a confessare, ragionare, cantare, leggere, studiare. All'arcivescovo chiedeva che mandasse a Lonate, al suo posto, "qualche persona che visiti li monasteri et la cura".
Nel 1584 Carlo Borromeo fece le ultime puntate nella parte occidentale della sua vasta diocesi, dopo essere stato a Torino a venerare la Sindone, a Vercelli per risolvere un contrasto tra il vescovo e i canonici, a Masserano (Biella) ai funerali di un parente, al santuario di Varallo per una settimana di esercizi spirituali. Nella seconda metà di ottobre, nonostante fosse stanco e febbricitante, andò per motivi diversi ad Arona, ad Ascona, a Cannobio e di nuovo ad Arona. Il 2 novembre per la prima volta gli mancarono le forze per celebrare la messa. Allora il nipote conte Renato Borromeo lo fece collocare in un letto entro una barca per Milano. La barca lasciò il lago Maggiore, scese le rapide del Ticino, entrò a Tornavento nel Naviglio Grande, arrivò a Milano alle sette di sera. In arcivescovado i medici constatarono la gravità irreversibile del male. Il malato passò le ore seguenti, le ultime della sua vita, alternando prostrazioni e riprese, e morì alle otto di sera di sabato 3 novembre all'età di 48 anni soltanto, sfinito dal lavoro intensissimo e dalle continue penitenze. A Lonate i Cavalieri del Fiume Azzurro, qualche anno fa, hanno posto sulla Casa del Genio Civile, all'inizio del Naviglio, una lastra a ricordo dell'ultimo passaggio del santo vescovo verso la città ove sarebbe morto.
La lapide posta dai Cavalieri del Fiume Azzurro all'incile del Naviglio Grande
Quali altre memorie devote Lonate ha attivato per ricordarlo? A san Carlo la comunità di Lonate non ha dedicato né chiese né cappelle: pare che non abbia nutrito particolare attenzione a questo santo, se tutto quello che resta si riduce a due figurazioni negli stendardi e nei bastoni processionali ottocenteschi, e ad una vetrata del 1965 nella chiesa parrocchiale. A Lonate dipinti stradali con il santo o statue in suo onore non si conoscono. Ma è possibile che altre testimonianze esistessero che, logorate dal tempo, non sono giunte fino a noi.
San Carlo si prodigò molto durante la peste del 1576-77, e a rievocare una sua visita al lazzaretto di Milano ci ha pensato, tra gli altri, anche un artista che a Lonate alla metà dell'Ottocento ha lavorato come architetto (sua la ristrutturazione interna della parrocchiale) ma che per professione era pittore: Mauro Conconi. Costui dipinse nella parrocchiale di Origgio San Carlo al lazzaretto e l'affresco, ancor oggi esistente, meritò nell'Ottocento di essere riprodotto in una bella calcografia del tipografo Vassalli.
Se volete maggiori informazioni, rivolgetevi alla Pro Loco di Lonate Pozzolo, indirizzo via Cavour 21, telefono 0331/301155.
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