Montjoie, Saint-Georges!

ovvero: i Plantageneti sul trono di Francia

di feder

Dedicata al nostro Comandante. Possa ogni giorno ispirarci a scrivere ucronie sempre nuove!

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La Guerra dei Cent'Anni fu certamente tra i più importanti conflitti dell'età medievale, e, forse, della storia intera. Quand'essa iniziò, le battaglie erano ancora decise dall'assalto di forza bruta e dalle cariche di cavalleria; per quand'essa finì, venivano già schierate le prime bombarde e gli eserciti erano costituiti perlopiù di coscritti in massa. Ma non solo guerra: lo stato costante di belligeranza tra Francia e Inghilterra infatti contribuì a dare forma ad entrambe le nazioni, perlomeno nelle caratteristiche per le quali le conosciamo (e apprezziamo?) oggi. Per i secoli successivi l'Inghilterra, sconfitta sul continente, abbandonò ogni proposito di espansione in terraferma, dedicandosi al mare; la Francia vittoriosa in battaglia, invece, si illuse di poter proiettare quest'influenza sull'intera Europa, perseguendo una politica di egemonia che avrebbe toccato il suo (effimero, c'è da dirlo) apice solo sotto Napoleone, a quasi quattrocento anni dalla conclusione del conflitto.

Instillare un punto di divergenza all'interno di questa magnitudinale serie di eventi è perciò una faccenda delicata, su cui, come forse sapranno i più dediti di voi, mi sono arrovellato per anni. La stessa storiografia è incerta sulle ragioni dell'esito del conflitto: perché un'Inghilterra che fino a quel momento aveva determinato il corso generale del conflitto vincendo, se non ad ogni accorrenza, quantomeno il grosso degli scontri, aveva potuto essere battuta da una Francia ridotta ai minimi termini, guidata da un sovrano debole, ostaggio dell'ingombrante partito armagnacco?

Certamente buona parte della responsabilità è da ricercarsi nella figura di Giovanna d'Arco (o, per dirla alla francese, la Pulzella) che gli storici romantici, in specie ottocenteschi, hanno individuato come artefice della c.d. riscossa morale della Nazione, la quale avrebbe indubbiamente condotto alla vittoria. Io mi trovo solo parzialmente d'accordo con questa interpretazione: se è vero che il valore dell'operato militare di Giovanna fu risibile, bisogna riconoscere che le più fondate ragioni della ripresa francese devono essere riconosciute nella sproporzione di uomini e mezzi messi in campo dalle corone dei due Paesi. A metà del secolo, il re di Francia, che pure ometteva di far pagare le tasse al clero e ai suoi nobili, poteva annoverare ben 17 milioni di sudditi; a suo confronto, l'isola d'Inghilterra, con appena 3 milioni di abitanti, impallidiva.

Un altro fattore, a mio giudizio più decisivo, della sconfitta inglese fu rappresentato dall'improvvisa morte, probabilmente causata dalla dissenteria contratta durante l'assedio di Meaux, del giovanissimo Enrico V. Tant'è vero che io mi ritengo convinto che, qualora la data della dipartita di Enrico V fosse allontanata di qualche decennio, in accordo con la durata naturale della vita di un individuo, questi, che ne aveva certamente la stoffa, sarebbe potuto diventare una delle figure di monarchi più decisive della storia inglese, quasi un rifondatore del Regno. Basti pensare a cosa accadde dopo l'incidente che ne causò la morte: con il figlio, Enrico VI, ancora in fasce, il potere venne spartito fra i suoi due fratelli: l'abile Giovanni di Lancaster, duca di Bedford, cui spettò la tutela del minore e la reggenza di Francia, e l'imbelle Goffredo, duca di Gloucester, cui andò il titolo di Lord Protettore d'Inghilterra. La moltiplicazione dei centri di comando, connessa alla litigiosità del consiglio di reggenza del piccolo Enrico VI, può essere individuata come una delle ragioni principali per cui gli Inglesi, da parte vincente, si trovarono di lì a poco a essere ributtati a mare senza troppi onori.

Proviamo a immaginare cosa sarebbe successo se nel 1422 Enrico V non avesse lasciato prematuramente questo mondo a Vincennes, vicino Parigi. Sicuramente la campagna contro il Delfino sarebbe continuata, con importanti successi: al momento della sua morte, il re era in viaggio verso la valle della Loira, di cui l'esercito inglese avrebbe disposto facilmente. Con gli inglesi che, approfittando dell'inverno, mettono a ferro e fuoco l'Angiò e il Maine, Giovanni VI di Bretagna non si sarebbe azzardato a disertare il campo borgognone, temendo la ritorsione del duca di Bedford, lasciato a governare le retrovie da Rouen. Un anno dopo, Enrico V ha espugnato Orléans. Subito prima di attraversare il fiume il re, che vuole assicurarsi di avere le spalle ben coperte, chiama a raccolta gli alleati di Borgogna e di Bretagna alla sua corte, con cui sigla gli accordi omonimi. Enrico V promette le più ampie libertà e garanzie; in cambio, egli si aspetta fedeltà. Nessuno poteva sapere che la pace di Orléans sarebbe diventata la pietra miliare del nuovo ordine in Francia.

Già, perché già l'anno successivo, con il passaggio della Loira, il Re sconfigge il Delfino in una durissima battaglia presso Vierzon, quasi una seconda Azincourt. Per gli armagnacchi le perdite sono altissime, e l'ostinata resistenza di Iolanda d'Aragona, la quale aveva fatto praticamente una propria creatura del non-fu Carlo VII, è risolta dal decisivo assedio di Bourges, con il quale il Delfino è finalmente preso prigioniero. I suoi tentativi di fuga sono rintuzzati dalla sorveglianza inglese. Enrico V rinuncia a metterlo sotto processo per tradimento e lesa maestà verso la persona del Re di Francia (!) com'era sua iniziale intenzione; egli invece scambia la vita di Carlo e della sua bella moglie Maria, figlia di Iolanda, con la resa di quest'ultima, capofila della fazione armagnacca. La famiglia Valois può continuare a vivere nei suoi feudi ereditari, prima fra tutti, ovviamente, la contea omonima, al confine con la Piccardia. Un trattato di pace è siglato ad Arras, nel 1425: segna la fine delle ostilità sul continente e, nel complesso, l'inizio del governo inglese sulla Francia.

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Il regno di Enrico V (1413-1442, dal 1422 come reggente di Francia)

Il passaggio di potere con i Valois fu rapido, ma non indolore. Prima di tutto, perché la fazione armagnacca era sì sconfitta, ma non distrutta. In particolare, Enrico V si trovò non poco da fare nel triennio 1428-1431, quando il potere inglese si trovò a fare i conti con un'agitatrice di popolo che passava sotto il nome di Giovanna, della famiglia d'Arco. Questa batteva l'Occitania, asserendo di aver ricevuto delle visioni da Cristo e di poter guidare i Francesi alla vittoria. Le sue predicazioni furono all'origine di un vasto movimento di rivolta, che per un periodo compromise seriamente l'egemonia inglese sul mezzogiorno della Francia. Fortunatamente, l'eretica (quasi sicuramente spalleggiata da Iolanda e da altri elementi della nobiltà ostili) decise baldanzosamente di marciare a nord, invece che fortificarsi nel sud, circondando la fedele piazzaforte di Bordeaux. Enrico V inviò suo fratello Giovanni ad occuparsene, che fece piazza pulita della rivolta. La Pulzella venne messa al rogo, con il beneplacito della Chiesa, che temeva il riaccendersi dell'eresia albigese. Per questo servizio, il re gli passò il titolo di duca d'Aquitania, con il compito di sovrintendere alla gestione della zona.

La strada per la ripresa era tuttavia lunga, e tutta in salita. Nondimeno, Enrico V la intraprese con rinnovata fedeltà. Per ripopolare le aree rimaste vuote dalla guerra, il re chiamò in Francia elementi della popolazione inglese (contadini, artigiani, ma soprattutto soldati arruolati), i quali si insediarono soprattutto in Normandia, contribuendo a cementificare il potere regio in loco. Re Enrico sistemò la propria corte a Parigi, dove aveva sede il consiglio di reggenza di suo figlio guidato dal cardinale Beaufort e dalla regina Caterina; in ogni caso, egli governava da Caen con il supporto dei suoi veterani, sovrintendo all'opera di colonizzazione e stabilizzazione. Così, anche se il grande esercito della conquista era stato disciolto, di quando in quando qualche nobile mostrava segnali di irrequietezza, il re poteva partire all'assalto, e stroncare la rivolta prima che questa diventasse seria. I nobili più riottosi si riunirono spesso in cosiddette leghe (la più famosa rimase quella del Bene Pubblico, sulla quale c'erano forti presunzioni di spalleggiamento da parte dei Valois di Piccardia e di Borgogna), ma Enrico V si dimostrò in grado di impiegare con fermezza lo scettro del sovrano, impedendo le derive centrifughe della feudalità francese.

Più in generale, Enrico V importò in Francia il modello di regno normanno, centralizzando l'amministrazione e imponendo una tassazione più egalitaria a tutte le fasce della popolazione; così facendo, il re si alienò il supporto di numerosi elementi della nobiltà, ma al suo posto guadagnò la fiducia della nascente classe borghese-mercantile. Il diritto franco fu naturalmente abolito in luogo di quello comune, ma l'utilizzo di quello romano, che aveva larga circolazione nel meridione, venne tollerato. Conoscendo le difficoltà di governare su un Paese diviso, il re abolì la divisione in cinque assemblee dei Parlamenti locali, che erano costituiti su base regionale, a favore di un'unica riunione permanente, convocata alla presenza del re a Parigi. In questa, il terzo stato (borghesi, avvocati, medici, mercanti, professionisti di vario genere) facevano la parte del leone. Anche l'Università di Parigi, cui fu demandato l'arduo compito di tradurre e adattare il complesso burocratico-amministrativo inglese alla Francia, fu ampiamente cooptata nel potere, avallando di fatto il cambio di dinastia. Fu l'atto di riforma degli Stati Generali, cui, pur subordinati alla supervisione del Parlamento inglese, Enrico V allocò la potestà di acconsentire (o meno) all'imposizione di nuovi tributi sul territorio del continente.

Enrico V sistemò anche l'ambigua questione con gli Stati "collegati" alla nuova monarchia franco-britannica. I primi pensieri del monarca si rivolsero ovviamente alla Scozia, sulla quale, profittando della persona di Giacomo I, che era cresciuto in Inghilterra come ostaggio, Enrico V tentò di stabilire una forma di larvato protettorato. Già dal 1425, quando il re di Scozia aveva intrapreso una forte politica punitiva nei confronti dei nobili, Enrico V si dimostrò compiacente ai suoi interessi, inviandogli il fratello Goffredo a comando di un esercito come braccio destro. La repressione regia sull'aristocrazia, ovviamente agita per mezzo degli Inglesi, fu feroce: intere famiglie, come gli Albany-Stuart, vennero decimate. Negli anni successivi importanti figure della resistenza incontrarono una tragica fine: prima di tutto, Murdoch Stewart, giudice di Scozia; tre anni dopo toccò ad Alessandro di Islay, conte di Ross, che venne preso in custodia in flagranza mentre attendeva ai lavori del Parlamento in Inverness. Archibald Douglas fu arrestato nel 1431, seguito da Giorgio, II conte di March, nel 1434. Pur tuttavia, nell'agosto del 1436 Giacomo fallì miseramente nell'assedio del castello di Roxburgh, e come conseguenza dovette fronteggiare l'inefficace tentativo di trarlo in arresto di fronte all'intero concilio ad opera di Robert Graham. Scampato a Graham, Giacomo venne comunque ucciso a Perth nella notte fra il 20 e il 21 febbraio 1437 per mano di un partigiano dell'indipendenza scozzese. Gli succedeva così il figlioletto Giacomo II, sotto la reggenza congiunta della madre e di Goffredo, longa manus di Enrico V che ombrava sulla Scozia.

Meno sanguinosi furono gli sviluppi della Francia. Nel 1435, a una nuova convenzione, il re ricompensò finalmente la duratura amicizia di Filippo il Buono, cui riconobbe le due regioni della Lorena e del Bar, oltre che la definitiva indipendenza dalla corona di Francia. Analogo provvedimento arrivò nei confronti di Bretagna e Provenza, nel secondo caso sottoponendo ovviamente il riconoscimento alla promessa della vecchia Iolanda di cessare le proprie interferenze nella politica interna del Regno di Francia. Sconfitti in Francia, gli Angiò si diedero perciò a consolidare la propria posizione in Italia: da una posizione di forte alleanza col Papa, che vedeva con preoccupazione la stretta inglese sul clero francese, Iolanda sovraintese alla succesione di suo figlio Renato sul trono di Napoli, al posto del fratello Luigi (III). La guerra contro Alfonso V vide la coalizione degli Angiò, di Genova e del Papa, oltre che la protezione eminente di Enrico V, che vedeva con favore lo spostamento del baricentro di interessi angioino dalla Francia all'Italia. Il re d'Inghilterra inviò una sostanziosa condotta nel meridione, che rintuzzò il tentativo di assedio di Napoli condotto da Alfonso V. Peggio ancora, la flotta francese si unì con quella genovese, sconfiggendo la flotta aragonese al largo di Palermo e bloccando il sovrano in Sicilia. A queste condizioni, l'Aragona fu costretta a siglare una pace, che vedeva il mezzogiorno, separato dall'epoca dei Vespri, finalmente riunito nella persona di Renato (fedele vassallo papale). Un matrimonio riappacificatore tra Giovanni II, figlio di Renato e duca di Calabria, e Maria, figlia illegittima di Alfonso V, venne celebrato. Il tutto mentre i I genovesi ricevevano, a titolo d'affitto, Stromboli, le Eolie, le Egadi, Pantelleria e Lipari, insieme a una vasta gamma di privilegi commerciali sulla Sicilia.

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Il regno di Enrico VI (1442-1454, 1454-1471)

Ma Enrico V non vide la fine della guerra, poiché si spense infine nel 1442, a seguito di una vita costituita da lunga serie di trionfi e successi. A comando della duplice monarchia gli sarebbe succeduto il figlio Enrico VI, debole e malato di mente. Uomo estremamente pio, Enrico VI era refrattario al potere, e soprattutto dilaniato, nell'esercizio della sua carica, dai contrasti fra la fazione gallicana (costituita dai suprematisti della corona di Francia) e quella anglicana (costituita dai suprematisti della corona d'Inghilterra). I secondi in particolare, guidati da Riccardo d'Aquitania (HL: York), succeduto al duca di Bedford nell'amministrazione del sud per nomina di Enrico V, e Goffredo di Gloucester, lord di Scozia, reclamavano l'ammorbidimento del sovrano nel controllo esercitato dagli Inglesi sulla Francia e il favore che il sovrano sembrava esercitare a beneplacito dei suoi nobili francesi. Gli animi si scaldarono ulteriormente quando il re annunciò di voler prendere in moglie Margherita d'Angiò, figlia del Re di Napoli Renato I, cosa che avrebbe certamente determinato il sopravvento della fazione gallicana su quella anglicana. Peggio ancora: in cambio del matrimonio, Renato pretese la restituzione dei territori atavici della famiglia, cioè la contea comitale d'Angiò (ovviamente a titolo di feudatario del Re di Francia).

Quando l'accordo venne alla luce, le cose degenerarono rapidamente. In un banchetto, Goffredo di Gloucester dichiarò pubblicamente che l'autorità del Re era compromessa dalla sua malattia, il che aveva causato il dilapidamento del patrimonio ereditato da Enrico V. La corte, ormai in mano alla fazione gallicana, reagì molto negativamente: scavalcando l'autorità del Parlamento inglese (nonché la legge scozzese con cui s'aprì un conflitto di diritto) nel 1447 il re, la regina e i loro fidi convocarono Gloucester dinnanzi agli Stati Generali di Francia, costituiti dal clero e dalla nobiltà del continente, vicini alle volontà del sovrano. Per avallare l'atto illegittimo, Enrico VI utilizzò le tesi dell'Università di Parigi, per le quali l'interpretazione del diritto suprema nello Stato era quella sancita dalla residenza della persona del sovrano (quindi, quella di Francia). Lo scandalo fu grande, ma alla fine il processo non si tenne, perché durante la sua traduzione in Francia Gloucester morì misteriosamente, non si sa se avvelenato o per cause naturali.

Al re sembrò di essersi liberato di in incubo. Ma fu un sollievo momentaneo, perché subito dopo la contesa si riaccese nella persona di Riccardo d'Aquitania, che alzò la posta in gioco, accusando la corte di aver orchestrato l'assassinio del Lord Protettore di Scozia. La situazione era poi aggravata dal fatto che, con la sua morte, scompariva anche la pesante tutela esercitata dagli Inglesi sul regno di Scozia, con Giacomo II che, seppur neutrale, rialzava la testa. Riccardo rincarò allora la dose, accusando il re di star lavorando per la rovina della corona d'Inghilterra; ma la sua fazione era allora in minoranza assoluta, e così il sovrano poté bandire il monarca in Irlanda, con il formale compito di combattere gli irriducibili nativi dell'isola.
Per gli angioini, l'esilio di Riccardo rappresentò un'occasione d'oro, dato che tutti i suoi possedimenti nel sud della Francia vennero espropriati e attribuiti alla famiglia, sempre più dominante a corte. In particolare, Margherita d'Angiò gestiva gli affari della corona, soprassedendo al debole marito e sotto la vigile supervisione del padre Renato I. Il passaggio di proprietà del mezzogiorno vide il concreto pericolo di costituirsi di un vero e proprio impero angioino nel Mediterraneo occidentale, governato da Napoli. Questo anche perché, forte dell'ascendente esercitato sulla duplice monarchia, re Renato dispose la ripresa della guerra contro Alfonso V, con lo scopo di rivendicare i diritti della madre Iolanda sul Paese. L'inconcludente scontro, stavolta agito perlopiù per via di terra, prosciugò buona parte delle energie e delle risorse di Enrico VI, svuotando il tesoro regio. Avendo imparato dalla sconfitta rimediata contro Enrico V, Alfonso V rifiutò di ingaggiare direttamente i navigli angioini, impiegandosi in una tattica mordi e fuggi che causò grossi danni alla Francia meridionale. Il re giunse a spingersi, con i propri raid navali, fino a razziare Tolone e bloccare il porto di Marsiglia, paralizzando di fatto il commercio francese nel Mediterraneo.

La crisi economica sortiva così i propri effetti, facendo il gioco di Riccardo. Nel 1450, l'irlandese Jack Cade, probabilmente d'accordo con il sopracitato esule, guidò un'importante rivolta nel Kent, che giunse perfino a prendere la sguarnita Londra. Dimostrando un'insolita energia, Enrico VI sbarcò in Inghilterra e riuscì a domare la ribellione, ma la liberazione della capitale fu soltanto l'ennesima occasione per inasprire i contrasti fra il Parlamento inglese e il sovrano, accusato di non aver disposto abbastanza risorse per difendere Londra, impegnato com'era a fare il gioco degli angioini. La situazione era già abbastanza grave, quando in Inghilterra giunse la notizia della sconfitta accusata dal capitano Talbot nella battaglia di Girona, che permise ad Alfonso V di catturare senza colpo ferire l'intera regione del Rossiglione. Enrico VI, già debole di mente, scelse di tornare in Francia, ma nemmeno gli odori di casa poterono riavere il monarca dal vero e proprio shock catatonico in cui era caduto. La regina Margherita, constatata l'incapacità d'intendere e di volere del re, chiese per sé la reggenza, ma il 3 aprile 1454 fu Riccardo d'Aquitania ad essere nominato Lord Protettore d'Inghilterra dal Parlamento, che Enrico V aveva stabilito come assemblea apicale della monarchia, ottenendo con ciò finalmente la posizione di peso che da tanto tempo desiderava.

Tanto fu trionfale il ritorno di Riccardo dall'esilio quanto dura la vendetta che egli distribuì sui gallicani. Innanzitutto, con i suoi veterani irlandesi che lo spalleggiavano, Riccardo revocò le concessioni di terra agli angioini, recuperando i suoi domini nel sud della Francia e siglando con Alfonso V un pace che gli riconosceva tutte le sue conquiste. La regina venne allontanata dal figlio e dalla corte, mentre i fratelli della regina, Luigi, detto l'Ardito, marchese d'Angiò, e Iolanda, detta la Cieca, principessa di Napoli (tutti, insomma, con l'esclusione di Giovanni, duca di Calabria, ed erede al trono di Napoli, allora in Italia) furono imprigionati; solo l'intercessione del padre, che restava un alleato chiave della duplice monarchia, poté salvarli dall'esecuzione. Il regno di terrore di Riccardo s'interruppe soltanto con il rinsavimento di Enrico VI, verso la fine di quell'anno.

Disperando di aver perso il potere, Riccardo si ritirò a sud, nei suoi possedimenti di Guascogna. L'anno successivo, forte di una nuova alleanza stipulata con il matrimonio di suo figlio Edoardo con Eleonora, figlia del re d'Aragona, Riccardo getta finalmente la maschera, rivendicando per sé e i suoi discendenti il trono franco-inglese. Enrico VI libera gli angioini dal carcere, rimandando Iolanda in Italia e insignendo Luigi del titolo di luogotenente di Francia, con il compito di debellare la resistenza aquitana. Così iniziava una volta per tutte la sanguinolenta guerra civile plantageneta, che sarebbe passata alla storia con il nome di Guerra delle Due Rose.

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La Guerra delle Due Rose: breve cronologia

1455: la marcia verso nord di Riccardo (II) si conclude con la prima battaglia dell'Angoulême, dove le forze regie tentano di sbarrare la strada per Parigi ai ribelli. La battaglia finisce con uno schiacciante successo per gli aquitani, che uccidono in battaglia Luigi, secondogenito di Renato I, fratello della regina, luogotenente generale di Francia e marchese d'Angiò. Il duca d'Aquitania riprende il titolo di Lord Protettore, stavolta esteso anche al regno di Francia, ma l'anno successivo viene scacciato nuovamente dagli intrighi della regina Margherita, che propaga sentimenti anti-aquitani a corte. La guerra riprende.

23 settembre 1459: battaglia di Bourges, vittoria aquitana.

12 ottobre 1459: battaglia del ponte di Tours, stavolta una vittoria angioina. Sfruttando il ristretto spazio del fiume, i militi del re riescono con successo ad arrestare l'avanzata aquitana e ributtare l'esercito nemico indietro. Sulla base di un'interpretazione molto estensiva di Levitico 25:23 propugnata dall'Università di Parigi (le terre non si venderanno per sempre; perché la terra è mia e voi state da me come stranieri e ospiti), la regina dichiara tutti gli atti compiuti da Riccardo (II), dalla sua famiglia o dai suoi alleati nulli, e le proprietà dei soggetti giuridici così individuati sono confiscate. Riccardo fugge per la seconda volta in Irlanda.

10 luglio 1460: l'esilio di Riccardo in Irlanda dà modo al pretendente di avvicinare la nobiltà delle isole, colpevolmente ignorata dalla corte che ha sede in Francia, e Riccardo finisce per stringere alleanza con Riccardo Neville, 16esimo conte di Warwick, in sostituzione di quella stipulata con Alfonso d'Aragona, morto due anni prima. Margherita spedisce il marito in Inghilterra onde arrestare l'avanzata nemica, ma si rivela una mossa sbagliata: a Northampton, gli aquitani vincono e prendono il sovrano ostaggio. Il crudele conte di Warwick fa massacrare tutti gli altri prigionieri. La regina sposta la sua corte da Parigi a Rouen, per seguire con maggiore attenzione gli eventi della guerra.

10 ottobre 1460: Riccardo di York ritorna in Inghilterra, dove viene dichiarato erede al trono dal Parlamento. Reciproca scomunica tra questo e gli Stati Generali, che rifiutano di riconoscere il dispositivo. In risposta, la regina fa sbarcare sull'isola un nuovo esercito, stavolta composto da francesi.

30 dicembre 1460: battaglia di Wakefield. Gli aquitani sono sconfitti e Riccardo, duca d'Aquitania, viene ucciso. Gli succede il figlio Edoardo, al momento governatore dei possedimenti di famiglia da Bordeaux, che tramite il suo matrimonio con Eleonora d'Aragona, riaccende i legami con la corona iberica. Giovanni II d'Aragona accetta di supportare la causa aquitana, nel tentativo di stornare da sé la minaccia angioina. Renato I ha infatti puntato da tempo la Sardegna, ma di fronte al pericolo corso dalla figlia accetta di posticipare i suoi piani, inviando in Francia mezzi e risorse. Senza che nessuno se ne fosse accorto, il conflitto ha rapidamente assunto portata europea.

2 febbraio 1461: battaglia di Tolosa, Edoardo vittorioso si spinge verso la Provenza.

17 febbraio 1461: battaglia di Nimes, una vittoria per la casa d'Angiò: con il supporto di Renato I Enrico VI è finalmente liberato. Pur tuttavia Renato, preoccupato da un tentativo di sbarco aragonese in Sicilia, paralizza la partita, prendendo in custodia il re per tenerlo al sicuro. Gli aquitani si trovano la via libera per Parigi.

4 marzo 1461: Edoardo d'Aquitania è unto re di Francia e d'Inghilterra nella cattedrale di Reims.

6 marzo 1461: seconda battaglia dell'Angoulême, stavolta combattuta a parti invertite. Edoardo vince, ma non ha le forze per assediare Parigi. La regina Margherita e il principe Edoardo, figlio di Enrico VI, raggiungono il re nel suo esilio di Provenza. Sono inaugurati i primi dieci anni di regno, sepppur contrastati, di Edoardo IV.

24 giugno 1465: Enrico VI è catturato sulla via per Parigi, entro la quale cercava di penetrare per guidarne la resistenza. Edoardo lo spedisce oltre Manica, come prigioniero della Torre di Londra. La tutela del rivale è affidata al vigile occhio del conte di Warwick, il quale frattanto ha governato l'Inghilterra per conto della fazione aquitana, in spregio alla volontà del Parlamento.

1 giugno 1470: dopo alcuni battibecchi con Edoardo, che gli ha rifiutato l'ufficializzazione della carica da lui ricoperta (il titolo di Lord Protettore d'Inghilterra) adducendo a pretesto l'ostilità dell'assemblea inglese, Warwick invita a Londra la regina Margherita e il figlio Edoardo, cui mette a disposizione un nuovo esercito. Il 13 ottobre dello stesso anno, Riccardo Neville cambia casacca, schierandosi con gli angioini; Enrico VI è restaurato sul trono d'Inghilterra.

14 marzo 1471: Edoardo d'Aquitania arriva in Inghilterra con le sue truppe per aver ragione del ritorno di fiamma angioino.

14 aprile 1471: battaglia di Barnet, vittoria per gli aquitani. Warwick è ucciso nella furia dello scontro.

4 maggio 1471: battaglia di Tewkesbury, rovina degli angioini. Il principe Edoardo viene trafitto da una freccia e muore, la regina Margherita è tratta prigioniera. Due settimane dopo, Enrico VI viene ritrovato cadavere nella Torre di Londra, forse suicida; tutto ciò che resta della fazione angioina è rappresentato da Enrico Tudor, conte di Champagne, che fugge in Italia sotto la protezione di Renato I. Gli aquitani dominano incontrastati su Francia e Inghilterra.

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Il regno di Edoardo IV (1471-1483) e di Riccardo III (1483)

Il regno di Edoardo IV rappresentò un parziale ritorno alla normalità, dopo quasi dieci anni di regno. Il nuovo re, il primo a governare da Londra da più di cinquant'anni, fece della supremazia dell'elemento inglese su quello francese il pallino della sua politica: egli rinvigorì la politica di ricolonizzazione della campagne, sostituì numerosi nobili francesi con altrettanti inglesi e tentò di ottenere una dispensa papale per includere il territorio del Regno di Francia sotto l'autorità dell'arcivescovo di Canterbury. L'Università di Parigi viene chiusa e i suoi studenti dispersi, tutto a favore di quelle di Oxford e Cambridge. Egli giunse al punto di concepire perfino l'ardito progetto di abolire gli Stati Generali di Francia, inviando i rappresentanti di quest'ultimo al Parlamento inglese.

Allo scopo di operare a pieno regime la centralizzazione da lui immaginata, Edoardo IV si circondò di valenti amministratori, fra cui spiccavano i suoi due fratelli: Giorgio, duca di Normandia, e Riccardo, duca di York, cui affidò rispettivamente il titolo di Lord Protettore di Francia e il comando della campagna contro la Scozia, agita con il pretesto di installare sul trono scozzese il pretendente Alessandro IV, fratello di re Giacomo III. La suddivisione del potere garantì una parziale ripresa della duplice monarchia, ma in ultima analisi, l'aver piazzato degli uomini così intraprendenti in posizioni chiave si rivelò una scelta pessima, giacché questi ultimi iniziarono (a loro volta) a coltivare ambizioni di potere.

Il primo ad agire fu Giorgio di Normandia. Egli, nella sua veste di Protettore di Francia, osservava con interessi gli sviluppi della potenza borgognone, che tentava al momento di espandersi a scapito degli angioini. Le trattative, comunque, furono lunghe e difficoltose, dal momento che il duca di Borgogna temeva il tentativo di un colpo sinistro da parte del Lord Protettore che mirasse ad annettere il suo dominio alla corona di Francia. Il tempo trascorso alla corte di Digione non fu esattamente tempo perso per Giorgio; questo perché, nel corso del patteggio, il nobile cavaliere ebbe occasione di conoscere ad amare (piacevolmente ricambiato) la giovane figlia del duca, Maria, che trascorreva allora la maggior parte del suo tempo immersa nelle romanze. Lo sviluppo, per il momento innocuo, sarebbe poi stato gravido di conseguenze.

Finalmente, nel luglio del 1474, Giorgio stipulò un trattato di amicizia perpetua con il duca di Borgogna, Carlo il Temerario, che lo impegnò nel preparare guerra a Renato I. L'anno seguente, nel luglio del 1475, il Lord Protettore di Francia invase la Provenza, sperando di vedersi riconosciuta la mano della figlia di Carlo, Maria, una volta che la moglie, Isabella Neville, già malata, fosse morta. La vecchia volpe di Renato, pur impegnato in guerra, seppe però offrire un accordo migliore: il re di Napoli concesse a titolo definitivo i tre ducati di Lorena, di Bar (a Carlo il Temerario) e di Angiò (a Giorgio di Normandia) per vedersi restituita la figlia, l'ex regina Margherita, e dichiararsi estraneo una volta per tutte alle vicende della duplice monarchia.

Stizzito dal tradimento, Carlo il Temerario, revocò la promessa di matrimonio, offrendo Maria a uno dei figli (Edoardo o Riccardo) di re Edoardo in persona, il tutto a patto che il sovrano accettasse di punire suo fratello Giorgio. Edoardo IV, rapito dalla prospettiva di far ereditare ai suoi figli il possesso del complesso di territori più ricco del continente (Lorena, Champagne, Fiandre) non se lo fa ripetere due volte, e dopo aver fatto passare una legge che disconosce la successione dei discendenti del fratello, il re sbarca in Francia. Però la spedizione punitiva, come l'aveva immaginata Edoardo, s'impantana rapidamente in una guerra di posizione, dal momento che Giorgio, deciso a non arrendersi, si ritira nel sud. Peraltro, la resistenza del Lord Protettore è aumentata dal supporto dei Francesi, i quali vedevano nell'aquitano la propria principale garanzia di autonomia.

Le cose per Edoardo, poi, peggiorano ulteriormente quando, inaspettatamente per tutti i convenuti, a soli due anni dallo scoppio della guerra, Carlo il Temerario muore nel corso di una battaglia da lui intrapresa in alleanza con l'imperatore contro gli Svizzeri. Il duca di Borgogna lascia una figlia giovane, senza alcuna direzione oltre che l'amore; è così che Giorgio, novello vedovo (la morte di Isabella a seguito di complicazioni da parto si colloca nel dicembre 1476), si reca a Digione per cogliere il fiore di Maria di Borgogna. I quasi tre anni di matrimonio (uno dei pochi, in età medievale, in cui la donna avesse realmente potuto esercitare libertà di scelta del partito) daranno importante frutto: due bambini, Filippo (nato nel 1478) e Maria (nata nel 1480) che resteranno al centro della storia della regione.

Le nozze, celebrate in fretta e furia, paiono invertire le sorti del conflitto: con il supporto dell'eredità borgognona, di gran lunga la più facoltosa d'Europa, Giorgio attinge infatti ad abbastanza pecunia da allestire un grande esercito per affrontare il fratello Edoardo in battaglia. I primi risultati sono tuttavia infausti: sfortunatamente i mercenari profusamente assoldati da Giorgio sul campo di battaglia restano nelle retrovie. Anche i suoi Francesi, a fronte del sistematico saccheggio operato da Edoardo IV, sono demoralizzati, e molti nobili iniziano a defezionare le fila del Lord Protettore. Nel 1479, un primo abboccamento a nord della Loira dà esiti inconcludenti, ma costringe le sfinite truppe di Giorgio a riunirsi nella fedele Caen, onde riprendere le forze. Col senno di poi, si rivelerà una scelta sbagliatissima.

Questo perché, poco dopo, Edoardo circonda Caen, tagliando fuori tutti i contatti della città con l'esterno. L'assedio è durissimo e si prolunga per un anno, causando grosse sofferenze alla zona circostante, ma alla fine il truce inverno del 1480 ha ragione della resistenza del Lord Protettore di Francia, che viene catturato e condannato a morte (la tradizione vuole che sia stato annegato in una tinozza di malvasia). Ovviamente, Maria di Borgogna soffre orribilmente, ma da sola non può nulla contro lo strapotere del re d'Inghilterra, e così, d'accordo con i sioi ministri, sigla un accordo di pace, che la vede costretta al matrimonio con uno degli eredi di Edoardo IV, Edoardo (V) o Riccardo. La povera Maria sarebbe poi morta per una caduta da cavallo, due anni dopo. Alcuni cronisti, forse di parte, sostengono che si fosse trattato di un evento per nulla accidentale, ma spinto dalla disfatta della Borgogna.

A questo punto restano solo Edoardo IV e suo fratello Riccardo, che da York si è spinto fino a sottomettere nuovamente la Scozia e regna sulla porzione settentrionale della corona inglese e sulle Highlands per conto di Alessandro IV (Giacomo III, che languisce in prigione, sarà poi liberato dai suoi nobili). Edoardo è però anziano, mentre i suoi figli sono giovani; egli decide così di avvicinare il fratello, assegnandogli la reggenza e il titolo di Lord Protettore di Francia e d'Inghilterra (che si vanno ad assommare a quello di Scozia). Mai decisione fu più sbagliata: con Edoardo IV sul letto di morte, Riccardo fa imprigionare e poi assassinare i principini Edoardo e Riccardo nella Torre di Londra, cosicché nessuno possa opporsi al suo potere. Edoardo IV muore solo per lasciar posto al fratello minore Riccardo, che si proclama re come terzo del suo nome.

All'apparenza, il potere plantageneto è all'apice della sua forza, come solo con Enrico V era stato, più di cinquant'anni prima. Ma in realtà, il trono di Riccardo III è tutt'altro che stabile, minato dalle voci sulla sua infedeltà e sull'assassinio dei principi della Torre. Nel 1483, una prima rivolta inglese è schiacciata. Ma quando nel 1485 il fuoco della ribellione si accende in Francia, Riccardo III, impegnato a regolare la questione della successione, non ha modo di intervenire immediatamente, e così è proprio Enrico Tudor, ultimo dei Plantageneti rivali, ad assumerne il comando. Tudor non è uno sprovveduto, e perciò durante la sua ascesa si circonda di nobili e soldati francesi, che possano spalleggiarlo nel suo tentativo di acquistare il trono. Come segno di buona volontà, Enrico fa sposare lo zio Gaspare con Anna di Valois, nipote di quel Delfino che i suoi antenati avevano spodestato e che aveva continuato la sua vita in una prigione dorata. Nel loro matrimonio, la Francia e l'Inghilterra sono ricongiunte in un'alleanza di comodo, a scapito dell'integrità della dinastia plantageneta. In un atto di aperta ribellione, Enrico Tudor riunisce illegalmente gli Stati Generali di Francia, da cui si fa proclamare monarca. La Sorbona, riaperta, avalla il passaggio di potere come favore divino.

Enrico Tudor sbarca nel sud del Galles, regione natia della famiglia, con un piccolo contingente di truppe francesi e successivamente marcia attraverso la regione, reclutando ulteriori forze. Le truppe di Enrico si scontrarono con quelle di Riccardo nella battaglia di Bosworth Field, combattuta a pochi chilometri da Leicester. Riccardo, al comando di una coraggiosa carica di cavalleria che avrebbe potuto alterare le sorti della battaglia, viene sciaguratamente accerchiato e ucciso (Un cheval, un cheval, mon royaume pour un cheva!). Lo scontro segna la fine della Guerra delle Due Rose e l'ascesa al trono della dinastia Tudor con Enrico, che prese il doppio nome di Enrico VII d'Inghilterra e IV di Francia, celebrando l'unione delle due corone.

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Il regno di Enrico VII e IV (1485-1509)

L'ascesa al trono della dinastia Tudor rappresentò, a conti fatti, la rivalsa dell'elemento francese, che dopo quasi un secolo tornava al potere. Questo perché Enrico VII e IV fu il primo monarca a stabilire a Parigi una volta per tutte la sede della corte, stabilendo il francese come lingua ufficiale di quest'ultima. L'inglese rimase nell'uso sull'isola, ma la lingua scomparve completamente dal corso legale, dato che tutti gli editti del re, le sentenze dei tribunali e l'amministrazione della giustizia erano redatti in francese. Fra gli organi di governo, solo il Parlamento inglese, sul cui regolamento interno il re non aveva autorità diretta, continuò ad utilizzare l'inglese nelle sue sedute, ma Enrico VII e IV seppe abilmente circuire il problema evitando di convocarlo. Il sovrano sistemò anche l'annosa problematica del rapporto di supremazia fra questo e gli Stati Generali di Francia, dichiarando ciascuna delle due assemblee sovrana ed autonoma dall'altra nell'ambito del regno da essa sovraintesa. La dichiarazionre era d'importanza notevole, dato che statuiva per la prima volta l'eguaglianza formale fra le due parti della duplice monarchia, unite nella sola persona del monarca; ma allora la faccenda passò sotto silenzio, dato che il re si preoccupò di governare con il supporto esclusivo di una pattuglia di parlamentari di entrambe le assemblee, che seguiva la corte e prendeva il nome di Camera Stellata. Enrico VII e IV cercò anche di realizzare il proposito del suo predecessore plantageneto, unificando le strutture ecclesiastiche francese e inglese sotto l'arcivescovo di Canterbury, ma dovette gettare la spugna dinnanzi al diniego del Papa. Il sovrano si vendicò, decretando l'estensione del sistema di diritto anglo-normanno all'intero territorio da lui governato, con l'abolizione pressoché totale del diritto romano-canonico. I giudici itineranti del re così cavalcavano la Francia, correggendo torti e togliendo ai potenti, come mai era accaduto sotto i dinasti capetingi.

Tale politica di stabilizzazione fu resa possibile anche da un'oculata gestione del fisco. Enrico VII e IV si dimostrò ricettivo all'antica tradizione burocratica dei suoi antenati, centralizzando l'amministrazione e distribuendo la tassazione, in modo tale da aumentare l'efficienza della stessa. Il maggior peso fiscale percepito, comunque, non fu esente da malcontento: soprattutto durante i primi anni del regno di Enrico, le occasioni di rivolte nelle zone rurali furono molte e dettagliate. In ogni caso, la fedeltà incondizionata del clan Valois, sempre più forte a corte e radicato nel territorio, si rivelò bastevole ad evitare che queste esplodessero fino a mettere in pericolo il potere Tudor sulla Francia. Altrettanto non si può dire dell'Inghilterra, dove, nel 1487, scoppiò una vasta ribellione di delusi e scontenti del nuovo ordine al comando di John de la Pole, importante nobile della leva aristocratica solo parzialmente gallicizzata, e che era stato dichiarato erede provvisorio al trono durante il breve regno di Riccardo III. John de la Pole (che con la sua famiglia parlava francese) innalzò il vessillo della libertà inglese contro l'oppressione del continente, giungendo al punto di schierare un falso Riccardo (IV), principe della Torre, come legittimo re d'Inghilterra. La rivolta giunse a prendere Londra, forse con l'implicito supporto del Parlamento, ma venne ugualmente schiacciata. Enrico VII e IV si dimostrò implacabile con i fedeli della causa aquitana: gli irriducibili vennero messi al carcere o uccisi sotto tortura, con le loro terre, espropriate, che andavano ad aggiungersi al crescente demanio reale. Lo strozzamento delle campagne, così favorito, si dimostrò cruciale nel raggiungere due obiettivi; il primo, togliere la base di potere ad eventuali future rivolte, venne pienamente raggiunto: ai primordi del XVI secolo il potere della corte di Parigi sull'Inghilterra era ferreo come non lo era mai stato quello di un monarca inglese dai tempi di Enrico Cortomantello. Il secondo, favorire l'urbanizzazione, incontrò solo un parziale successo: lo stato di pace interno ai due regni significò che ad incrementare fu più la migrazione di giovani e diseredati inglesi all'interno delle già ricche città di Francia, piuttosto che andare ad ingrossare le fila degli insediamenti urbani inglesi. Alcuni centri, comunque, come York, Norville (HL: Norwich), Bristóle (HL: Bristol) Cantorbéry (HL: Canterbury), Exeter, Noucastle (HL: Newcastle) ed ovviamente Londra rimasero di una certa importanza per la propria posizione strategica.

In ogni caso, la questione centrale del regno di Enrico VII e IV fu, molto prevedibilmente, quella borgognona. Nel 1482 Maria era morta, lasciando solo due figli piccoli, sulla cui eredità si appuntavano gli sguardi di tutta Europa. In primo luogo, comunque, gli interessati erano due: l'imperatore del Sacro Romano Impero Federico III e, ovviamente, il re di Francia e Inghilterra Enrico VII e IV; l'uno intendeva assumere il patronato del ducato, l'altro arrotondare i confini del suo dominio in modo da non dover più temere repentini attacchi su Parigi. La questione poi, assume ancora più importanza quando si prende in esame il fatto che i due bambini erano plantageneti, figli di Giorgio, Lord Protettore di Francia, e di conseguenza potevano vantare una pretesa al duplice trono ben più solida di quella che lo stesso Enrico possedeva.

Per il momento, comunque, la minaccia era inesistente: il piccolo Riccardo Filippo di Valois-Bordeaux (tecnicamente, un plantageneto e un capetingio) aveva solo quattro anni quando la madre morì, lasciando l'amministrazione del territorio in mano a un consiglio di reggenza composto dai maggiorenti del ducato, i quali comprendevano la necessità di venire a patti per evitare la guerra con il re d'Inghilterra e di Francia. Con il trattato di Arras (1482), dieci anni dopo confermato da quello di Senlis (1493), Federico ed Enrico stipularono un compromesso, spartendosi la tutela dei bambini (oltre che il territorio): una volta divenuto adulto, Riccardo Filippo, che spergiurava di mettere da parte ogni pretesa al duplice trono, sarebbe stato il solo a governare, con la qualifica di principe imperiale. Quello che era stato il territorio governato da Carlo il Temerario veniva ora elevato a regno di Lotaringia, realizzando, in un certo senso, per via postuma i sogni di gloria di quest'ultimo. In cambio, la piccola Maria Margherita sarebbe andata in sposa al delfino di Galles, Arturo, portando con sé una dote rappresentata dalla Borgogna propria (con Digione e Châtillon), Charolais, Mâcon, Nevers, Auxerre, Illes e Champagne.

Enrico VII e IV, capostipite della gallicizzante dinastia dei Tudor, sarebbe morto solo nel 1509, a termine di un proficuo regno che vide la ripresa della potenza anglo-francese in Europa. Più di vent'anni di sostanziale pace furono di grande aiuto per cementificare la presa della nuova dinastia sul popolo, e far digerire l'esilio dei plantageneti (o ciò che ne restava) in terra di Lotaringia, con grande beneficio per la stabilità di entrambi i regni. È anche per questa ragione che, quando Enrico VIII salì al trono, nessuno poteva prevedere l'assoluto scompiglio che avrebbe portato sul continente l'esplosione della riforma protestante, la quale avrebbe inaugurato nella duplice monarchia e nel mondo un'epoca di sconvolgimenti senza precedenti.

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Il regno di Renato I (1435-1480)

Ma per procedere con l'analisi degli effetti della riforma, è necessario soffermarsi in partenza sugli sviluppi che avevano condotto al mutare dell'Italia, cuore pulsante delle arti, della filosofia, delle scienze, della fede e del commercio medioevali, da centro della cristianità a penisola periferica, ma pur sempre scacchiere strategico primario. Di seguito sono, per l'ausilio di chi legge, riassunti gli eventi che hanno determinato lo svolgersi delle guerre d'Italia così come le conosciamo. Buona lettura.

1435-1480: lungo regno di Renato I il Buono, che respinge gli aragonesi, favorisce il commercio con i plantageneti e centralizza l'amministrazione su modello francese. Più che per tutto questo, comunque, Renato I sarà ricordato per essersi fatto autorevole interprete e grande attore delle vicende d'Italia, inaugurando un'epoca di pace che sarebbe culminata con la pace di Gaeta (1454).

1447: Niccolò V ascende al soglio di San Pietro. Il nuovo Papa, concentrato sul rifiorimento di Roma e sull'agevolazione della cultura, si stringe in una politica di stretta alleanza con il re di Napoli. In cambio della sua tutela, il Papa revoca la concessione del titolo regio di Corsica e Sardegna ad Alfonso V d'Aragona. L'isola, a lungo contesa sarebbe poi caduta definitivamente nelle mani genovesi-napoletane con la morte del loro rivale (1458).

1450: dopo una breve guerra civile, il condottiero Francesco Sforza ha ragione degli ambrosiani e prende il controllo di Milano. Da amico del re di Napoli (sua figlia Ippolita avrebbe sposato il nipote di Renato, Giovanni) egli riprende immediatamente la guerra contro Venezia. A Castiglione (1450) il grande militare egli arresta l'avanzata della Serenissima verso occidente; negli anni successivi, lo Sforza si spinge sino a Ghedi (1453), dove infligge una nuova, durissima sconfitta ai nemici della Lombardia. I veneti abbandonano tutti i loro possedimenti al di qua del Mincio, ripiegando a est.

1453: il terrore causato per la caduta di Costantinopoli conduce alla necessità di stipulare una pace generale nella penisola. Come già pronosticato, gli inviati di Francesco I, Cosimo de' Medici, Niccolò V e della Serenissima si incontrano l'anno successivo a Gaeta sotto il benestare del re di Napoli per siglare un accordo basato sul concetto di bilanciamento delle potenze. Renato I offre supporto a Venezia nel suo sforzo contro i Turchi, ma in cambio le conquiste dello Sforza (Bergamo e Brescia tornano all'ovile) sono riconosciute. L'atmosfera di pace è suggellata dalla promessa di matrimonio scambiata tra Giovanni III, principe di Taranto (8 anni) e Ippolita, secondogenita del duca di Milano (3 anni). Le condizioni di relativa tranquillità conducono a una rinascita dello scambio su grande scala; sulle stesse vie, viaggiano pittori, poeti e scultori.

1458: Alfonso V muore, quasi uno sconfitto della storia. Alla sua dipartita, le cortes rifiutano di riconoscere la successione di suo figlio illegittimo Ferdinando, elevando al suo posto il fratello dello scomparso Giovanni II, da subito preso nella guerra civile navarrina contro suo figlio Carlo, principe di Viana. Ferdinando, che rifiuta di riconoscere la legittimità della consegna di poteri, fugge sulle Baleari e se ne proclama sovrano con l'interessato supporto delle finanze napoletane. Anch'egli, tuttavia, non si rivelerà essere che l'ennesima pedina nella rete di alleanze che Renato I sta intessendo, finendo con lo sposarsi con Iolanda d'Angiò, figlia di quest'ultimo.

1459: congresso di Mantova, indetto dal nuovo papa Pio II contro la minaccia ottomana, a cui la duplice monarchia, impegnata nella guerra civile, non può prendere parte. Anche se l'imperatore Federico III, in polemica con le città-Stato italiane, sceglie di non partecipare, il supporto di Renato I spinge Milano, Venezia e Genova sullo stesso carro anti-turco. Solo Firenze (molto cinicamente) si sfila dalla nuova crociata, che verrà comunque detta "italica".

1460: grazie agli aiuti inviati da Renato I in qualità di (preteso) principe d'Achea, non cade il despotato di Morea, ultimo stato bizantino. Numerosi Italiani (in specie veneziani e napoletani) si installano al servizio dei Paleologi, formalmente imperatori romani, propagando la conversione dei Greci al cattolicesimo in accordo con il precedente concilio di Firenze. Renato I ottiene direttamente Corfù da Venezia, e in cambio le cede le importante piazzaforti di Mistrà e Malvasìa. Gli ottomani si rifanno distruggendo il regno di Bosnia, cui la sola tutela veneziana non giova. La Serenissima inizia a sentire il peso (e gli svantaggi) di condurre una politica estera pienamente indipendente.

1462: un tentativo di Giovanni II d'Aragona di sottomettere le Baleari viene frustrato dall'intervento della flotta genovese, opportunamente assoldata dalla longa manus del re di Napoli. Con l'apertura di un fondaco a Minorca (l'intera isola finirà per essere concessa alla Superba in modo da ripagare un largo debito), la Superba estende il predominio del suo impero commerciale all'intero Mediterraneo occidentale.

1463: apertura dell'Accademia platonica di Napoli, per volere del filosofo Marsilio Ficino e grazie alla protezione di Renato I d'Angiò. Il ruolo svolto da questo circolo sarà importantissimo nel passaggio delle idee classiche dall'Oriente in Occidente.

1465-1468: come conseguenza dell'espulsione dei genovesi da Cipro, scoppia la quinta e ultima guerra genovese-veneziana (al contrario della storia reale, infatti, a causa dei recenti successi qui Genova si sente abbastanza forte da sfidare ancora Venezia). Per cinque anni le due marine si scontrano inutilmente al largo delle coste greche e nello Ionio, proprio sotto lo sguardo del re di Napoli; sarà proprio quest'ultimo, infine, a mediare la pace fra le due. Il possesso di Cipro viene riconosciuto a Venezia, che provvede a far sposare il figlio bastardo dell'ultimo re Lusignano, Giacomo (II), con una nobildonna veneziana, tale Caterina Cornaro; in cambio, viene verbalizzata la spartizione del Mediterraneo nelle reciproche zone d'influenza, con Genova (che ormai ha monopolizzato il commercio del vino francese, della stoffa inglese, del sale, dell'oro e del corallo africano) a Occidente e Venezia a Oriente. Sono gli Accordi del Re (30 luglio 1468).

1465: papa Paolo II (veneto) emette sua sponte una bolla che pone fine ai tentativi di conciliazione con gli hussiti, autorizzandone lo sterminio. Da vent'anni a questa parte, è il primo pontefice a tentare una politica estera senza l'esplicito appoggio dell'influente Renato I. Altrove, la congiura del Soderini ordita nell'ombra per impedire la successione di Piero de' Medici viene stroncata nel sangue da quest'ultimo.

1466: Galeazzo Maria, figlio di Francesco I Sforza, nonchè parente acquisito di Renato I tramite il matrimonio della sorella Ippolita con il nipote ed erede di quest'ultimo Giovanni III, succede al padre nel governo del ducato di Milano. Tirannico e crudele, si farà odiare dal popolino per la sua incompetenza. In compenso, il duca rafforza l'amicizia con Napoli: suo figlio Gian Galeazzo è fidanzato a Isabella Maria, figlia di sua sorella. Pochi anni dopo, egli giungerà al punto di assecondare le pretese di dedizione di Genova attribuite a Renato I, trasferendone la protezione al re di Napoli.

1467: battaglia della Ricciardina, combattuta presso Bologna. Lo scontro vede Sforza, Medici e Angiò coalizzati nello sbarrare la via di Firenze agli esuli guidati dagli ultimi fedeli del Soderini, spalleggiati da Venezia. Paolo II, da buon fedele di San Marco, non si sbilancia (c'è un emissario della Santa Sede a vegliare sulla baruffa), dunque l'esito è inconcludente. Firenze resta in mano ai Medici, con cui angioini e Sforza rinsaldano i propri rapporti.

1469: Lorenzo il Magnifico assume la signoria di Firenze, confermando la politica di pace e alleanza strategica con Napoli e Milano: più tardi egli sposerà la bella Clarice Orsini, alleandosi con la potente famiglia romana. In Spagna, il matrimonio tra Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona porta all'unificazione delle due corone; Renato I inizia a temere per la pressione aragonese sulle Baleari, e tenta di stringere ulteriormente la presa su queste ultime, inviando condotte genovesi a stabilirsi in diverse città portuali dell'emirato di Granada. Agli arabi, la cosa viene presentata come un male necessario alla difesa contro i re cattolici, ma intanto Renato I si è assicurato il passaggio dei suoi navigli verso l'Atlantico. Soprattutto, egli chiama alla sua corte i nipoti, figli di Iolanda, tra cui spicca Isabella (Renato I, comprensibilmente, teme che l'ipotetico figlio delle maestà cattoliche possa prenderla in moglie, annettendosi le isole). Ferdinando I, impotente come il padre Alfonso V, non può nemmeno tenersi l'erede omonimo: Alfonso II crescerà come condottiero italiano, al servizio delle guerre angioine.

1471: Paolo II muore. Al successivo conclave, il primo dopo il 1305 a disporre di un sistema funzionante con i due terzi della maggioranza costituita da cardinali italiani a causa dell'assenza di sei cardinali stranieri (perlopiù impiegati al seguito della guerra civile plantageneta), le due principali fazioni sono quella del cardinale Guillaume d'Estouteville, cardinale e abate francese (sostenuto, prevedibilmente, dai plantageneti) e quella di Latino Orsini, già vescovo di Conza, arcivescovo di Trani, amministratore apostolico di Bari e Polignano, nonché legato papale nominato a Napoli (e perciò ritenuto pericolosamente vicino a Renato I). La fazione di Orsini, in particolare, ottiene una grande vittoria preconclave riuscendo a convincere il resto del Collegio Cardinalizio a escludere i cardinali in pectore creati da papa Paolo II, in esplicito contrasto con l'ultimo volere e testamento del precedente pontefice. I due partiti citati sopra possono essere chiamati più specificamente dei pieschi (in riferimento ai cardinali creati da Pio II, perlopiù italiani ed amichevoli nei confronti del re di Napoli) e dei paoleschi (in riferimento ai cardinali creati da Paolo II, perlopiù stranieri e riassertori dell'autonomia del potere pontificio). Come nel conclavi precedenti, Basilio Bessarione emerge come il favorito della prima ora, solo per venire prevedibilmente escluso a causa dei pregiudizi sulla sua origine greca e la supposta (mai provata) cripto-ortodossia. Alla fine, Renato riesce a convincere il suo alleato Galeazzo Maria a convergere sul candidato Orsini (Lorenzo de' Medici, in qualità di marito di una Orsini, era già d'accordo), che così viene eletto Papa con il nome di Niccolò VI (in parte, come tributo a Nicola III, già papa Orsini. Ma poi soprattutto come segnale di continuità rispetto alla politica di collaborazione con il re di Napoli inaugurata da Niccolò V, che lo aveva anche elevato a cardinale e arcivescovo).

1472: rinvigorimento dei tentativi crociati contro gli ottomani. Galee pontificie, napoletane e veneziane conquistano Smirne, che viene affidata alla potestà del fratello di Galeazzo Maria, Ludovico. Renato fa così anche gli interessi del duca, che avendone forse subodorato la doppiezza, voleva allontanare il fratello dall'ambiente di corte. Come ricompensa, Galeazzo Maria garantisce alla coppia ereditaria (Gian Galeazzo e Isabella) il possesso di Pavia.

1473: come ricompensa per il servigio degli anni precedenti, Giuliano de' Medici, fratello di Lorenzo e già inviato fiorentino presso le corti di Milano e di Napoli, viene creato cardinale. Braccio destro del pontefice Orsini, Giuliano si rivelerà, per la sua bellezza, il suo carattere estroverso e la sua nobiltà di spirito, sempre più vicino al papa Niccolò VI. Per intanto, l'Orsini ne fa il suo legato a Venezia, con il difficile compito di gestire le burrascose relazioni con la Serenissima (dove, peraltro, Giuliano non era del tutto sgradito).

1476: congiura del Lampugnani, Galeazzo Maria viene assassinato sul sagrato della chiesa di Santo Stefano. Nuovo duca diventa il piccolo Gian Galeazzo Maria, sotto la tutela congiunta della madre Bona di Savoia e dello zio Ludovico, detto il Moro per le sue connessioni con la Turchia, che inizia da subito a intrigare per togliere di mezzo la duchessa madre.

1477: i soldati dell'Impero ottomano devastano Croazia, Slovenia e Carinzia, poi entrano in Italia varcando l'Isonzo e giungono fino al Piave. Per la prima volta, Venezia non ha la forza di arrestare l'esercito del Turco. Lo stesso anno, Niccolò VI muore, e Giuliano de' Medici gli succede senza problemi, assumendo il nome di Alessandro VI, come il mito dei suoi sogni cavallereschi.

1478: congiura dei Pazzi a danno di Lorenzo il Magnifico. Pur senza l'appoggio del Papa (qui il della Rovere è molto meno influente), l'assenza di Giuliano de' Medici, impiegato proprio presso come Santo Padre, fa sì che Lorenzo il Magnifico resti ucciso. La signoria di Firenze viene assunta dalla madre Clarice Orsini per conto del figlio Piero, che si trova in una posizione molto debole, accerchiata da sostenitori del regime repubblicano; ella di conseguenza accetta l'offerta di Renato I, che concede al piccolo Piero la mano di sua nipote Isabella in moglie. La tutela legale sul bambino, comunque, è spartita tra Clarice e papa Alessandro VI, che spartisce il suo tempo tra Roma e Firenze. La stretta relazione nata fra le due città favorisce, tra le altre cose, lo scambio di geni, artigiani e artisti.

1479: Venezia conclude la pace con gli ottomani, perdendo un gran numero di posizioni commerciali e possedimenti. La difesa della Morea, coadiuvata con i Paleologi e Napoli, diventa una priorità al fine di mantenere perlomeno un frammento di territorio greco.

1480: Bona di Savoia è estromessa dalla reggenza di Milano a favore dell'ambizioso Ludovico, che rinchiude il nipotino Gian Galeazzo nella gabbia dorata del castello di Pavia. Purtroppo, le inquietudini nutrite da Renato I a questo riguardo (Gian Galeazzo era pur sempre il promesso sposo di sua pronipote Isabella Maria) non hanno modo di concretizzarsi, stante la morte del sovrano, avvenuta verso la conclusione dell'anno alla veneranda età (per l'epoca era davvero straordinario) di 71 anni. Tanto a lungo aveva vissuto il sovrano, che si fece fatica a tracciare la corretta discendenza della corona: da Giovanni II, detto il Granduca poiché era stato duca di Calabria, e cioè erede al trono, per tutta la vita, l'investitura a succedere era passata al di lui figlio Giovanni III, principe di Taranto (il marito di Ippolita Maria, figlia di Francesco Sforza) e poi, con il decesso di quest'ultimo, al di lui fratello Carlo IV, ragionevolmente chiamato l'Improbabile. Renato convalidò il passaggio di cariche, autorizzando il nipote a sposare la moglie del fratello defunto, con la quale concepì anche un bambino, Luigi (V), che venne insignito del titolo di principe di Taranto. Purtroppo per lui, anche Carlo IV non sarebbe sopravvissuto al padre, lasciando questa valle di lacrime nell'anno del Signore 1473. A questo punto, Ippolita Maria era madre di tre bambini: Roberto e Isabella (figli di Giovanni III il Giovane) da un lato, Luigi V dall'altro, tutti pronipoti di Renato I il Buono e tutti egualmente validi nel diritto di succedergli. Dopo molte considerazioni e il parere di importanti giuristi (famoso, in questo contesto, rimase il contributo di Agostino Dati, filosofo e oratore lodato, fra gli altri, da Erasmo da Rotterdam), il re aveva deciso di accordare il proprio favore al piccolo Roberto, in accordo con la teoria della discesa della potestà regia esclusivamente per primogenitura. Rimane superfluo notare come, con un bambino sul trono di Napoli, il vero potere rimase nelle mani della madre, Ippolita, la regina che avrebbe in seguito ricevuto il soprannome di arbitra dei destini d'Italia.

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Il regno di Roberto II (1480-1496)

Il regno di Roberto II, o, com'era più spesso chiamato dai suoi sudditi, Robertino, coincise per una buona metà con la reggenza di sua madre, Ippolita, fine politica, nonché donna straordinariamente colta. Buona parte della prima azione politica di Ippolita si dedicò proprio al fine di riorganizzare e modernizzare l'apparato dello Stato, opera titanica, ma già iniziata con il ritorno al potere degli angioini. Già Renato I di Napoli, a suo tempo, aveva mirato a dissolvere il particolarismo feudale e fare del potere regio la sola leva di vita del paese. In questo quadro, lo scontro con i baroni era sorto inevitabilmente attorno al problema di una riforma organica dello Stato, i cui cardini erano la riduzione del potere baronale, lo sviluppo della vita economica e la promozione a classe dirigente dei nuovi imprenditori e mercanti napoletani. Strumento di questa politica fu la riforma fiscale, che affidava nuovi compiti alle amministrazioni comunali (molto incentivata fu la fondazione di nuove università), incoraggiandole a sottrarsi, per quanto possibile, al peso feudale. E in verità, è stato calcolato che allora nel regno del sud, su 2000 centri abitati, poco più di 200 erano assegnati al regio demanio, cioè alle dirette dipendenze del re e della corte, mentre tutti gli altri erano controllati dai baroni. Il che significava che il potere feudale nel suo complesso era il vero titolare delle risorse e delle finanze del Regno, e che la corte angioina nei fatti era resa subalterna all'organizzazione baronale. Ippolita era decisa a cambiare questo fatto, favorendo in ogni modo l'estensione numerica delle città demaniali, sottraendole al peso feudale e incorporandole alla propria diretta amministrazione. Ma l'impresa non era di poco conto: la feudalità era organizzata attorno al nome di poche potenti dinastie, a loro tempo chiamate dalla Francia per essere al servizio degli angioini e ora ossificate nel territorio. Questa ristretta classe dirigente si avvaleva dell'alleanza e del favore dello Stato Pontificio. Da tempi remoti ormai, il papa aveva costretto il Regno a considerarsi territorio a lui infeudato, e nessuno poteva aspirare al trono senza l'assenso esplicito e l'investitura formale del pontefice. Oltre a ciò, il papa vantava antiche pretese e vecchi privilegi su parecchie terre e città meridionali, e inoltre governava direttamente, attraverso vescovi e abati, tutta la Chiesa del Regno, fornita di propria e autonoma giurisdizione, di propri tribunali distinti da quelli regi e da quelli feudali, e di proprie finanze provenienti dalla fittissima rete di proprietà ecclesiastiche. Baroni e Chiesa si coalizzarono contro la regina madre, percepita come debole e isolata. Nel 1485, profittando anche del velato supporto di papa Alessandro VI, del resto connesso agli sviluppi di politica estera che affronteremo a breve, scoppiò una vasta ribellione della feudalità, conosciuta come Congiura dei Baroni. Ippolita reagì con inattesa energia: alternando profferte e minacce (tanto famosa quanto evanescente rimase la promessa della sua mano, e, in prospettiva, del trono), ella riuscì a spaccare il fronte unito degli elementi a lei ostili, reclutando anzi alcuni individui al suo servizio. Il temuto condottiero Roberto Sanseverino (alcuni sostengono, amante della regina) fu uno di questi: con il suo supporto, la sovrana riuscì a sconfiggere in diverse battaglie campali i del Balzo, gli Acquaviva, i Caracciolo, i Guevara (i Senerchia stavano, invece, col re) e, complice anche il riavvicinamento col Papa, domare la rivolta. Pregevole risultato dell'opera di centralizzazione operata dalla Sforza fu la creazione di un apparato burocratico capillare ed esteso, capace di radicare la volontà del re in ogni angolo del Regno. Alla fine del suo dominio, le casse di Napoli straripavano di denaro, e il monarca angioino poteva a buon diritto definirsi il sovrano più ricco del continente.

Strumento del predominio era anche un adeguato grado di prestigio. La regina madre, molto ricettiva agli stimoli che le provenivano dalla riscoperta dei classici, si spinse molto a questo proposito per trasformare la corte angioina in un ricettacolo di poeti e artisti non secondo alle altre città d'Italia, portando Napoli (ma anche Bari, che Ippolita amministrava per conto del fratello Ludovico) alle più alte vette della cultura rinascimentale. In particolare, Ippolita si dimostrò particolarmente ricettiva alle istanze esplorative presentate, fra gli altri, da Genova. Fu proprio merito dell'attenzione riservatole da Isabella, in effetti, se in quegli anni la città del dio Giano, rispolverato l'ordinamento degli otto capitani di libertà in luogo di quello dogale (in sostanza, otto patrizi cittadini prescelti dalla regina per governare in sua vece) si diede completamente al patrocinio del regno di Napoli, diventandone l'avanguardia sugli oceani. E dico oceani perché, in vero, a partire dalla metà del secolo, quando la contrapposizione con gli aragonesi si era fatta insostenibile, le galere genovesi avevano preso a spingersi sempre più lontano, prima stabilendo una presenza al di sotto del Marocco, poi sbarcando sulle coste di Capo Verde (dove, per mezzo di intermediari Wolof, gli italiani potevano commerciare in oro direttamente con l'impero del Mali, che ne era principale estrattore) e infine gettando l'ancora presso l'odierno Ghana. Antonio da Noli era capitano generale dell'amministrazione della Zenaga (Senegal), dove i genovesi avevano fondato il primo emporio stabile in Africa. Intorno agli anni '70-'80 del '400, il commercio con i nativi africani (ma per i genovesi si chiamavano möi, e il loro sovrano era il Bon Neigro) era ormai stato consolidato, portando grandi ricchezze a Genova e a Napoli. Pur tuttavia, il gran premio, raggiungere l'India, non era ancora stato conseguito. Fu proprio la regina a imporre una svolta significativa in questo senso: nel 1482, sfruttando la conoscenza acquisita nei viaggi precedenti, Ippolita inviò verso oriente il figlio di Antonio, Antoniotto detto Usodimare (abituato alla navigazione). Questi, partendo dallo Zenaga, prima aveva doppiato il Capo Tempesta, rinominato per l'occasione Capo della Buona Speranza, e infine era diventato il primo occidentale a raggiungere l'India, ritornando a Napoli con le famigerate e preziosissime spezie nel 1485. L'analoga iniziativa portoghese era stata battuta di due anni. Anche i veneziani erano allibiti: urgeva correre ai ripari.

E ai ripari gli avversari di Napoli corsero immediatamente. In effetti, non si può pensare che, in assenza di un sovrano forte, il dominio degli Sforza sui due lati della penisola mancasse di mandare in agitazione buona parte dei governanti d'Italia. La prima occasione buona per sfidare l'egemonia angioina nella penisola, capitò con la guerra del sale, appena due anni dopo che Ippolita aveva assunto la reggenza per Robertino. Papa Alessandro VI (Giuliano de' Medici), convinto che con la morte di Renato I si fosse finalmente dissolta la pesante tutela esercitata sul pontificato dai re del sud, mosse guerra a Ferrara, ardendo perfino di stipulare un'alleanza con Venezia. La manovra diplomatica era subdola: così facendo, il pontefice intendeva sfilare Roma dal precedente asse peninsulare anti-veneziano costruito tra Sforza, Medici e Angiò. In questo contesto, la lealtà dell'aristocrazia napoletana a un re bambino, pur sempre legata al pontefice da teorici vincoli di vassallaggio, era davvero dubbia. Allo stesso tempo, il potere di Ippolita (pur sempre una regina straniera) sulla feudalità meridionale era ancora troppo debole per rischiare di imporre una guerra al sud. Purtroppo per lui, la resistenza degli Este si rivelò avveduta e formidabile. In primo luogo, Ercole I, duca per concessione imperiale, si difese in campo giuridico, argomentando che siccome la città di Ferrara era feudo imperiale, un attacco portato portato dal pontefice rischiava di scaturire una rappresaglia da parte dell'imperatore. Una minaccia sottile, ma veramente infondata: come vedremo più avanti, infatti, a quel tempo Federico III era del tutto affaccendato in altre questioni. Un messo asburgico arrivò a Roma, agitando lo spauracchio di fantasmagoriche ripercussioni. Ma non se ne fece nulla, per cui Ercole I decise di rivolgersi al sovrano allora più potente d'Italia, cioè il dominus occulto di Milano: Ludovico il Moro.

In effetti, se l'obiettivo di Alessandro VI era quello di rompere la convergenza storica tra Sforza e Angiò, si può dire che in un certo senso ci riuscì, perché l'intervento di Ludovico il Moro, cui Ercole I aveva concesso la figlia Beatrice in moglie, a favore degli Este mise, per la prima volta dall'ascesa di Francesco Sforza al trono ducale, gli interessi di Milano e di Napoli su una rotta contrapposta. Come già detto, del resto, Ippolita aveva le mani legate; indi per cui Ludovico fece, a suo piacimento, il bello e il cattivo tempo sui campi di battaglia. Mentre le disorganizzate milizie papaline disperavano di non riuscire a prendere la munitissima Ferrara, il non-duca espugnò, partendo da Brescia, una ad una le località del Garda che Venezia aveva precedentemente conquistato: Desenzano, Sirmione, Peschiera, perfino Bardolino, risalendo la sponda est del lago. Da Bardolino, Ludovico si spinse su Verona, investendo la bella città di una pioggia d'artiglieria; in seguito, egli prese d'assedio Padova, e tentò di portare attacchi a Treviso, che resisteva strenuamente. In soli tre anni di conflitto, forte della neutralità napoletana, ma anche della macchina da guerra costruita nel tempo dal padre Francesco, Ludovico aveva completamente scardinato l'equilibrio di potenze inaugurato sotto Renato I. Il progetto del non-duca era quello di aggirare Treviso e dare fuoco a Venezia, cercando così di bruciare la flotta della rivale in porto, ma fortunatamente non ce ne fu bisogno, perché all'alba del 1485 i veneti avevano ormai completato la conquista delle paludi romagnole, e avevano circondato Ferrara minacciando di portare alla caduta della città. Ercole I, come capofila dello schieramento emiliano-lombardo, fu così costretto a sottoscrivere una pace che concedeva le saline in usufrutto ai veneziani, insieme con il possesso di Rovigo. Ludovico il Moro rientrava nei suoi confini senza grossi riconoscimenti, eccezion fatta per il divieto di navigazione sul Garda imposto ai veneziani e la restaurazione degli Scaligeri a Verona e dei Carraresi a Padova. Una clausola del trattato era importante, e garantiva a Ludovico di rientrare dalle spese della guerra: tutto il commercio veneto verso la Germania doveva passare attraverso una di queste città, le quali, poi, giravano a Milano una parte del ricavato in dazi.

Tuttavia, un non desiderato risultato della brillante performance milanese fu quella di spingere nuovamente i Medici nelle braccia degli angioini. La sconfitta duramente incassata aveva fatto invecchiare Alessandro VI prima del tempo, e il fratello del fu signore di Firenze cercava ora l'appoggio napoletano per vedere il suo pupillo, il nipote Giovanni, eletto al soglio di san Pietro. Ippolita fece pagare a peso d'oro questo ritorno all'ovile: il sacro pontefice doveva riconoscere al re di Napoli i titoli di Difensore della Fede e, soprattutto, Gonfaloniere della Santa Sede in perpetuo. La trasmissione dei summenzionati titoli era ereditaria; fu così che Robertino, ormai adulto, si trasferì a Roma, dove, nel 1486 conobbe e sposò la primogenita di Lorenzo il Magnifico, Lucrezia. La coppia regale di lì si sarebbe spostata prima a Viterbo e poi a Spoleto, agendo come una sorta di cappio al collo del Papa, e frustrandone pesantemente le capacità di condurre una politica estera pienamente indipendente.

Ippolita, sempre più spaventata dal trattamento che il fratello aveva riservato a suo nipote Gian Galeazzo, cercò anche, senza successo, di affrettarne il progettato matrimonio con la figlia Isabella, che si svolse, come da programma, nel 1489. La previdente regina, comunque, non visse abbastanza per vedere i propri timori realizzati: ella spirò nell'anno 1488, circondata dall'affetto dei suoi cari. Al suo capezzale non mancava il figlio; era persino presente il legato papale, che si preoccupò di somministrarle l'estrema unzione. Mancava, comunque, un inviato di Ludovico.

Quando la notizia della morte di sua madre lo raggiunse in Umbria, Robertino pianse. E questo non soltanto per ragioni d'affetto: Ippolita Maria aveva lasciato in eredità al figlio un regno più ricco e forte di quello che aveva trovato; il suo genio diplomatico e la sua valenza amministrativa erano virtualmente insostituibili. Però una cosa, Roberto II, aveva imparato a farla bene: la guerra. E fu proprio in questo ambito che il novello sovrano fu inizialmente impiegato: dal 1488 al 1494, subito dopo essere stato unto da papa Alessandro VI come legittimo successore di Renato il Buono e mentre suo fratellastro Luigi (V) governava Napoli con successo, il sovrano combattè contro numerose città (Perugia, Ancona, Bologna...) riottose a sottomettersi all'autorità pontificia. Roberto II sottomise numerose importanti famiglie, fra cui i Riario, i della Rovere, e i Bentivoglio. Il papa gongolava, ma in realtà quelle conquiste erano fatte a titolo proprio: col tempo, Roberto II iniziò a farsi chiamare duca di Spoleto, oltre che titolare della marca anconitana. Erano in molti, esterni all'alveo naturale del regno di Napoli, a chiamarlo loro signore; fra loro si annoveravano gli abitanti di Imola, Faenza, Rimini, Bologna e Forlì. Nel 1491, pur di evitare un duro assedio, i maggiorenti della repubblica di Ancona scelsero di dedicarsi al re di Napoli, seguendo una politica già inaugurata da Genova, e che comportava grossi benefici. Nel 1492 Roberto II intervenne perfino in Toscana, a sostegno dell'inetto figlio di Lorenzo il Magnifico, Piero, che col tempo aveva messo da parte i saggi consigli della madre Clarice e della moglie Isabella, per governare come un tiranno sopra Firenze. Il re sgominò l'effimera repubblica teocratica di Savonarola; con metodi brutali ma efficaci egli impose l'impiccagione del Soderini e dei suoi sodali, incrinando una volta per tutte le spinte sovversive dell'antica città. Il Medici divenne duca di Firenze per concessione angioina. In seguito, Roberto II seppe inserirsi abilmente nelle rivalità fra le città toscane, ricevendo l'infeudazione, fra le altre, di Pisa e Arezzo.

A mettere un freno alle tendenze espansionistiche di Napoli, che ormai aveva soggiogato l'intera Italia centrale, fu soltanto la smodata ambizione di Ludovico il Moro. Temendo che l'arrivo in età adulta del legittimo duca, Gian Galeazzo, potesse inficiare la sua presa su Milano, nel 1494 il signore de facto della Lombardia fa segretamente avvelenare il nipote, che così non uscirà mai da Pavia. I funerali si svolgono in un'atmosfera cupa: ai presenti, pure se di parte ludoviciana, risulta impossibile non notare la straordinaria coincidenza della dipartita. Peggiora la situazione anche l'incoronazione formale del Moro, che usurpando i diritti del figlioletto di Gian Galeazzo, Francesco, assume il titolo di duca. In tutto questo, resta viva Isabella, moglie del defunto e sorella di Roberto II, che ormai ragionevolmente certa del fatto che il Moro voglia togliere di mezzo lei e i suoi eredi, titolari di una pretesa al ducato ben più forte della sua, comincia a tessere una trama al fine di fuggire da Pavia. Nella notte tra l'Immacolata e San Siro, patrono della città, Isabella evade coi figli dal castello visconteo, attraversa i giardini con il favore del buio e si mette in viaggio per raggiungere il fratello, che al momento ha disposto la propria corte a Bologna, in attesa della bella stagione per riprendere le sue campagne. La principessa raggiunge la fedele Cremona, dove cinquant'anni prima si era consumato il matrimonio che aveva dato origine alla dinastia del marito; da lì valuta di oltrepassare il Po sul ponte romano, ma alla fine rinuncia per timore di venire scoperta e ricondotta a corte, dove sicuramente la attende una severa punizione. Allora Isabella decide di rivolgersi a un barcaiolo del fiume, che eccezionalmente devoto e stupito dalla storia raccontatale dalla duchessa, si offre di trasportarla fino a Ferrara, territorio estense. La scelta si rivela essere la più assennata, perché la navigazione fluviale è sicuramente più rapida del viaggio per via di terra; e così, prima ancora che sia passata una settimana, Isabella riceve asilo alla corte di Ercole I, presso cui si presenta inizialmente come inviata diplomatica. Il duca sbatte le ciglia (vedere una donna viaggiare da sola all'epoca è cosa rara) ma non può certo negare ospitalità a una principessa straniera, specie perché lui in primis era stato educato alla corte di Renato il Buono e sua moglie era la figlia di un importante vassallo napoletano, e perciò la accoglie in via provvisoria. Da qui Isabella si sente abbastanza sicura per decidere di inviare un messaggio al fratello tramite un servitore, che lo raggiunge prima del tramonto. Nel frattempo, Ercole I si è riuscito a mettere in contatto con Ludovico, che gli ha notificato lo status di fuggitiva da attribuire a Isabella, e finisce per rinchiuderla di nuovo. Ma ormai il danno è già stato fatto: Roberto II, già sospettoso per il corso degli eventi, viene alterato oltremodo quando scopre che sua sorella sta essendo illegalmente detenuta presso gli Este.

È il 21 dicembre 1494: per lo stress del viaggio sono morte sia Bianca, sia Ippolita, figlie di Isabella. Il re circonda Ferrara, intimando la consegna della sorella coi figli residui, Bona e, soprattutto, l'importantissimo Francesco, ora erede legittimo al ducato di Milano. Roberto II non perde tempo: mandando emissari a Roma, Venezia e Firenze, annuncia in fretta e furia la sua intenzione di invadere la Lombardia con la bella stagione. Risposta positiva proviene da Venezia, che intende approfittare dell'occasione per rioccupare Padova e Verona; silenzio invece da Alessandro VI e Piero il Fatuo, sostanzialmente impotenti. Frattanto, Ludovico il Moro è nel panico: anch'egli invia messi a Ferrara e Vienna, perfino a Parigi; egli giunge al punto di ipotecare il Ticino agli svizzeri, in cambio di una prestazione mercenaria. Ma anche stavolta l'imperatore, complice sempre l'interessamento a est, decide di restare fuori dalla partita. Analoga risposta proviene dalla duplice monarchia, dove Enrico VII e IV Tudor si è installato ancora da poco tempo, ed è contrario a nuove avventure militari. Il destino del Moro è praticamente segnato.

Nel corso dell'inverno, il re non resta fermo: egli si occupa di spazzare via qualunque resistenza sforzesca a sud del Po, stabilendo il proprio quartier generale a Piacenza. Non appena iniziano a sciogliersi le prime nevi, Roberto II passa il grande fiume inastando sia la bandiera della vipera viscontea, sia i gigli d'oro di Napoli. La marcia del re è inarrestabile: Cremona (già testimone della fuga di Isabella e che ora torna a ospitarla), Pizzighettone, Codogno aprono le porte al re. Sulla via di Milano, solo Lodi oppone una debole resistenza, ma Roberto II non si cura di assediarla, e così in meno di un mese avanza sino alla capitale. La mossa è rischiosa: stretta Milano d'assedio, le retrovie del sovrano sono infastidite da continue puntate offensive dei fratelli di Ludovico, che cercano di impedire al re di chiudere il cerchio intorno a Milano. Ma alla fine, è la stessa popolazione meneghina a insorgere, stufa del proprio tiranno: le porte della città sono aperte ai napoletani, e Ludovico si trincera inutilmente all'interno del castello sforzesco. Egli è tirato fuori dalla rocca per i capelli e sommariamente processato per omicidio di un parente, reato per cui sarebbe prevista la morte; ma Roberto II, che ha restaurato sua sorella sul trono, si dimostra clemente e commuta la pena in esilio al servizio dei cavalieri di Rodi.

Roberto II, stroncato dalle fatiche di una campagna fulminea, non vivrà ancora a lungo. Adorato dai sudditi, il re soldato, che un tempo era stato il re fanciullo, si spegnerà a Milano l'anno successivo (1496), sommerso dalle amorevoli cure della sorella e dei nipoti. Una vita in moto, trascorsa all'arme più che nel letto della moglie, ha privato il sovrano del piacere di essere padre. Un testamento redatto all'ultimo confermerà la volontà dell'angioino di lasciare ogni cosa al parente maschio più prossimo in vita, e cioè il piccolo Renato Francesco, figlio di Gian Galeazzo e Isabella.

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Il regno di Francesco I (1496-1512)

Come per lo zio, anche il regno di Francesco I trascorse per buona parte nella reggenza di sua madre Isabella. Conosciuto a Milano come il duchetto e a Napoli come il reuccio, nella persona del piccolo Francesco si assommava il dominio, esplicito o implicito, su tre quarti della penisola italiana: fuori dall'ombrello angioino restavano solo Venezia da un lato, e i Savoia dall'altro. Papa Alessandro VI, sempreverde, tentò a suo modo di sfruttare la reggenza, piazzando i suoi Medici in ogni dove: in particolare Rodrigo Borgia, protodiacono e vicecancelliere di Santa Romana Chiesa, assunse la carica di cappellano di corte. Isabella, che governava da Milano, lasciò fare, considerando come una politica di alleanza col papato avrebbe portato più benefici che altro. Ella allentò anche la presa sull'aristocrazia del sud, in modo tale da ottenerne l'appoggio per la successione di suo figlio, re proprio iure. Purtroppo per Francesco, egli non sarà mai incoronato.

Già, perché il precario equilibrio in cui è tenuta la penisola si scioglie con la morte di Alessandro VI, che spira a 50 anni nell'ottobre del 1503. Al conclave pare ovvio assistere all'elezione di un candidato favorevole al fronte angioino, molto influente nella curia. All'interno delle votazioni, però, la suddetta fazione si spacca: agitando la pretesa che il nipote di Giuliano de' Medici, Giovanni (figlio di Lorenzo il Magnifico) fosse troppo giovane per assumere la carica (poco conta se suo zio era diventato pontefice a soli 24 anni in accordo con la volontà di potenti stranieri), Rodrigo Borgia asserisce di far convergere i voti sul suo partito. Informata della divisione, la regina non sa che pesci prendere: se da un lato vorrebbe diminuire la pervasività del potente clan mediceo, ormai infiltrato in tutti i gangli fondamentali dello Stato, dall'altro non può rischiare di inimicarselo, per timore di pregiudicare la precaria posizione del figlio. Dalla rivalità fra il Borgia e i Medici approfittarono i nemici degli Angiò: organizzandosi con straordinaria rapidità, il cardinale Giuliano della Rovere, capo della fazione anti-angioina, riesce a vendere la propria candidatura al Borgia come un candidato di compromesso. Nel giro di tre votazioni, il della Rovere è eletto papa con il nome di Giulio II, consegnando alla Storia un risultato sorprendente.

Isabella tenta di stabilire relazioni amichevoli con il nuovo Papa, ma si tratta di un tentativo infausto, perché, una volta stabilito sul soglio pontificio, Giulio II mette subito in chiaro di non voler essere l'utile idiota della corte angioina. Anzi al Santo Padre, egli argomenta, spetta il compito di supremo arbitro delle contese d'Italia, e da questa posizione di rinnovata autorità egli ordina lo sgombero di tutte le guarnigioni napoletane dal territorio dello Stato Pontificio. Ma non basta: appellandosi al contratto feudale, egli dichiara di non riconoscere la successione di Francesco I al trono dello zio, sostenendo che la linea regia non può mai passare per via femminile. Così, egli chiama in Italia Ferdinando delle Baleari, lontano discendente di Renato I per via della figlia di quest'ultimo, Iolanda (notare la contraddizione con l'argomento addotto poco prima). Le pretese dinastiche di quest'ultimo sono poco solide, ma la sua forza è reale: nel 1504 egli sbarca a Napoli e si fa incoronare, con il supporto dei riottosi baroni, come Ferdinando (II, dato che la numerazione aragonese si fa discendere dal nonno Ferdinando, figlio di Alfonso il Magnanimo) re di Napoli, di Sicilia, delle Sardegna e delle Baleari; ad Isabella restano solo Milano, e l'ambigua fedeltà dei Medici. L'impero angioino è spaccato a metà.

La guerra totale che ne segue imperversa per cinque anni, caratterizzandosi come una sorta di scontro finale tra fautori degli angioini e loro oppositori. Giulio II s'annette una alla volta le piazzaforti napoletane nelle Romagne e Alfonso II devasta il sud, dato che non tutti hanno accettato pacificamente la sua conquista. In particolare la Sicilia, protetta anche dalla flotta genovese, resta un imprendibile bastione e una spina nel fianco per l'aragonese, che deve vedere i suoi porti costantemente razziati. Il declino del commercio che ne segue vale ad Alfonso II il supporto dei mercanti e della grande impresa meridionale; questi, se non vanno in esilio, nell'ombra si rivolgono alla regina Isabella, fornendole tutta la pecunia necessaria ad assemblare un vasto esercito. Tuttavia, la regina non si muoveva ancora, volendo assicurarsi anche l'amicizia dell'imperatore Massimiliano I, succeduto al padre Federico III dieci anni prima e da allora chiuso in un ostile silenzio nei confronti dell'Italia. Isabella promise a suo figlio Federico (IV) la mano della figlia Bona (gli stava, insomma, garantendo un posto di primo piano nella futura guerra di successione che sarebbe scoppiata alla sua morte). Insieme a questo, Isabella gli pagò in anticipo la strabiliante somma di 600.000 ducati come dote, convincendo l'imperatore ad aderire alla nuova Lega di Innsbruck (dove risiedeva il sovrano) in ottica anti-papalina. Anche Ferrara e Venezia, spaventate dalla possibilità di perdere terreno in Romagna entrarono a farne parte: così la calata del principe imperiale in Italia, coadiuvata dagli abitanti, non incontrò virtualmente nemici. Le forze di Isabella e Federico coalizzate scendono la penisola sul lato tirrenico, ottenendo una serie di trionfi. Il 6 gennaio 1505 l'Asburgo entra pacificamente a Roma, da cui il papa, spaventato si è ritirato dandosi alla macchia sulle montagne, e si fa incoronare imperatore da un diacono in Laterano. Sarà l'ultimo tedesco a riuscire nell'impresa. Successivamente, egli completa l'obiettivo della sua spedizione prendendo anche Napoli, che è sottoposta a saccheggio. Quando Ferdinando II ha notizia del sopraggiungere dell'imperatore, egli abdica e si ritira in un monastero, lasciando al figlio Alfonso (III) il compito di continuare la lotta.

Apparentemente, tutto sembra andare per il meglio per Isabella: suo figlio è stato restaurato sul trono, ed ella può continuare a fregiarsi del titolo di regina. Però, la rapidità della vittoria imperiale (e, soprattutto, la sua brutalità) spaventa gli italiani, e questa considerazione spinge a un ribaltamento delle alleanze. Giungendo a patti con Giulio II (sostanzialmente, uno status quo) la regina straccia il patto di fidanzamento della figlia, che invece promette ad Alfonso III. Un primo scontro avviene vicino Gaeta, dove papalini e napoletani tentano di sbarrare la via di casa a Federico IV, ma ha esito inconcludente. Così, per difendersi dalla vendetta imperiale, la regina chiama in Italia Enrico V e VIII (notare l'inversione dei numerali nell'aggiornata titolatura regia) nuovo sovrano della duplice monarchia: la promessa (non espressa, ma succinta) è quella della sua stessa mano. Le due grandi potenze si scontrano a Piacenza, su suolo italiano: dopo un sanguinolento scontro, Enrico V e VIII ha la meglio e il principe Federico è ucciso, privando Massimiliano della possibilità di ereditare Lombardia e Baviera in un colpo solo. A succedergli come imperatore sarà allora il secondo figlio maschio, Rodolfo, detto il PIo.

A questo punto la situazione per Isabella non è migliorata di molto, perché, se anche si fosse liberata di uno scomodo alleato (Massimiliano I è per giunta costretto a ripagare integralmente la dota già ricevuta), si è trovata in casa un nuovo e più scomodo inquilino. La regina madre fa appena in tempo a spedire Bona a Napoli per sposare Alfonso III (i due governeranno come coniugi, raccogliendo l'eredità degli Sforza, degli Aragona e degli Angiò) che Enrico V e VIII si installa nel Castello Sforzesco di Milano, da cui governa. Egli fa spedire il reuccio, Francesco, in Francia, dove il giovane morirà inspiegabilmente per una caduta da cavallo poco dopo (1512). Anche Giulio II lascia questo mondo, appena l'anno successivo. Al conclave seguente, lo scontro tra la fazione filo-francese e quella filo-italiana è tremendo, tanto più che si è ormai capito che Enrico V e VIII sta tenendo Isabella prigioniera in Milano in attesa che il nuovo papa gli conceda il divorzio da sua moglie, Maria di Lotaringia (il re se l'era presa col consenso paterno dopo che il fratello Arturo era premorto). Alla fine, vincendo il supporto dei cardinali di fede imperiale, che certo non possono accettare il predominio dei Tudor in Italia, ad emergere vittorioso è Giovanni de' Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, pupillo di Alessandro VI e signore di Firenze de facto. Il nuovo Papa si schiera immediatamente in opposizione ai francesi, concedendo l'incoronazione regia e la sua benedizione alla coppia costituita da Bona e Alfonso. Enrico V e VIII ovviamente non accetta di farsi da parte così facilmente: nel 1514, egli sposa forzosamente Isabella, proclamandosi duca di Milano e re del sud iure uxorio; in seguito, anch'egli manda un esercito verso Napoli al comando del duca d'Orléans, Luigi. Enrico deve però anche provvedere al fronte contro la Spagna, perché Bona e Alfonso hanno provveduto a promettere alla maestà cattolica Ferdinando II l'ipoteca delle Baleari, nonché una (a scelta) della loro prole ventura come sposa del nuovo regno unificato, quando, dal Trastàmara, la corona passerà agli Aviz per effetto della successione di Giovanna (da noi conosciuta come la Pazza, e qui, ovviamente, non ha avuto ragione di maritarsi col figlio dell'imperatore, ma ha invece sposato Manuele I del Portogallo).

La guerra contro i Tudor sarà lunga e sanguinosa. Nel 1515, la real coppia riesce per la prima volta a installarsi a Milano, però i due monarchi devono lasciare nuovamente la città appena tre anni dopo, perché nel 1516 Ferdinando II è morto e il suo successore, Manuele I il Fortunato, non ha nessuna intenzione di mettere in pericolo il suo controllo sulle neoacquisite corone di Léon, Castiglia e Aragona per venire in soccorso degli angioini. Una mossa intelligente sarà invece quella di supportare con l'oro delle banche italiane l'elezione del secondo figlio di Massimiliano I, Rodolfo II, a sacro romano imperatore; questi dimostrerà di saper ricompensare i suoi alleati, scendendo in Italia con un vasto esercito. Nel 1521, Bona e Alfonso rientrano finalmente a Milano, e questa volta sarà quella definitiva: nel 1525, Enrico V e VIII Tudor è sconfitto in una grande battaglia a Pavia, e giura di rinunciare per sempre alle sue pretese su Milano. Isabella è liberata dalla sua prigionia, e così, una donna rotta e rovinata dalle sventure della vita può vivere i suoi ultimi anni in compagnia della figlia, che realizza finalmente quel progetto unitario in Italia che era stato, a suo tempo, il sogno di Renato I, Ippolita e Roberto II.

L'interesse straniero nelle guerre d'Italia si concluse così con il trattato di Napoli, siglato nel 1526, che fra le altre cose confermava la Provenza come parte dell'assetto ereditario sforzesco-aragonese-angioino, ma ometteva di pronunciarsi sull'ambiguo destino dei Savoia, il cui duca Filiberto era reo di aver accolto e sposato Maria di Lotaringia, unica sorella del re Filippo IV. Però il conflitto non aveva ancora finito di martoriare la penisola, e questo a causa del nuovo papa, Clemente VII. Un Medici, figlio bastardo di Alessandro VI (in realtà, i suoi sostenitori argomentano di come il concepimento di Giulio de' Medici fosse avvenuto prima che suo padre Giuliano assumesse la porpora. Il dibattito è piuttosto interessante), Clemente VII optò per rilanciare la potenza medicea in Italia, colmando il vuoto di potere che le lotte dinastiche imperniate su Milano avevano lasciato a cavallo fra Marche e Toscana. A questo proposito, il Papa aveva concesso al parente Cosimo, del ramo Popolano, il titolo di duca d'Urbino. Il papa non aveva capito che erano finiti i tempi dei piccoli Stati regionali: al suo posto, in Europa dominavano le grandi monarchie, come quella di Enrico V e VIII (Francia e Inghilterra), Manuele I (Castiglia, Aragona, Léon e Portogallo) e Rodolfo II (Austria, impero, in prospettiva Boemia e Ungheria). Fra la real coppia e Clemente VII fu impossibile trovare un accomodamento: nel 1527 Alfonso III calò su Roma con un grosso esercito e la mise a sacco, prendendo il papa in ostaggio. A fronte della prospettiva di perdere tutti i suoi possedimenti, Cosimo I accettò di cambiare casacca, passando al lato regio e venendo confermato come granduca di Toscana al posto dell'estinto ramo di Cafaggiolo (negli anni successivi, si sarebbe occupato di sottomettere definitivamente Siena e Lucca con l'appoggio del trono). La resa di Clemente VII, abbandonato perfino dai suoi familiari, fece eco in tutta Europa. Non era la prima volta che un papa cedeva Roma, ma era la prima che la situazione sembrava mostrare tutte le premesse per diventare permanente.

Le trattative tra la real coppia e il papa furono lunghe e faticose. La monarchia accettò di concedere "in eterno" il possesso di Roma al pontefice, mentre il papa cedeva ogni pretesa temporale sui territori dell'Italia centrale. Il primo agosto 1530, alla presenza di Cosimo I di Toscana, dei Gonzaga, dei Paleologi del Monferrato e di quelli di Morea, degli Este di Ferrara, dei genovesi (ma non dei veneziani) il figlioletto di Bona e Alfonso venne incoronato, in spregio ai diritti imperiali, a Bologna re d'Italia da Clemente VII in una fastosa cerimonia. Ecco, di seguito, per chi se ne dilettasse, la lista di titoli detenuti dal giovane principe:

Giovanni Francesco (> Gianfrancesco) Maria CESARE I Renato, per volere di Dio RE D'ITALIA, di Napoli, di Sicilia, di Corsica e Sardegna, delle Baleari, di Cipro, d'Armenia e di Gerusalemme; duca di Milano, Genova, Urbino, Spoleto e Bari; marchese anconitano; conte di Pavia e Cremona; principe d'Achea; signore di Asti, Vercelli, Pisa, Arezzo, Perugia, Imola, Faenza, Bologna e Forlì; sindaco di Amalfi. In perpetuo Difensore della Fede e del Santo Sepolcro, Gonfaloniere di Santa Romana Chiesa, garante della Chiesa uniate e amministratore del demanio pontificio sotto il cielo.

 

(cliccare per ingrandire)

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Quando abbiamo parlato delle guerre d'Italia, abbiamo dovuto tenere in disparte le vicessitudini che interessarono i Savoia. A cavallo fra i due secoli era duca Filiberto II, detto il Bello. Questi aveva tenuto una politica ondivaga in merito alle invasioni anglofrancesi del ducato di Milano, concedendo il passo a re Enrico V e VIII, ma senza schierarsi apertamente a suo favore. Questa neutralità venne letta come abile mosse diplomatica da Filippo IV di Lotaringia, figlio di Maria e Giorgio di Normandia, il quale, già succube del potente ceto borghese fiammingo, aveva mantenuto una linea politica analoga nelle contrapposizioni tra duplice monarchia e impero che allora imperversavano in Europa. Fu così che, adempiendo alla clausola di piena equidistanza tra Parigi e Vienna per il soddisfacimento della quale era nato il regno, egli scelse allora di legarsi in matrimonio proprio con i sabaudi, dando nel 1514 sua sorella Maria Margherita in moglie al fratello del duca, Carlo III (i territori che avevano costituito la sua dote restano a Enrico V e VIII). Margherita e Carlo III furono assieme per tre anni, durante i quali venne generato un solo figlio. Emanuele FIlippo (HL: Filiberto). Si era allora nel pieno delle guerre d'Italia, e papa Leone X diede il suo assenso, convinto di come la creazione di un forte blocco di potere lotaringio al confine tra Francia e Italia (dal mare del Nord al mar Mediterraneo) avrebbe scampato ai due contraenti ulteriori guerre. All'epoca, insomma, sembrava essere la scelta migliore: Filippo IV era ancora giovane e in salute e, sebbene il registro delle sue precedenti attività sessuali non promettesse benissimo, poteva ragionevolmente sperare di concepire un figlio prima della fine dei suoi giorni.

Come è prevedibile, le cose non andarono così. Il re di Lotaringia morì improvvisamente a Bruges nell'ottobre 1516, forse di febbre indotta da tifo (anche se non manca chi ipotizza la tesi dell'avvelenamento). Il figlio di Carlo III e Margherita diventava allora l'erede presuntivo al trono, con l'ipotesi di creare un gigantesco Stato al confine tra Francia, Italia e impero. La questione non poteva essere risolta altrimenti che con la guerra: nel giro delle alleanze di allora, Carlo III compì una scelta obbligata, allineandosi con il re di Francia e Inghilterra, che avrebbe potuto, in caso contrario, soggiogare rapidamente il territorio lorreno. Contro di lui, si stagliavano la real coppia di Bona e Alfonso (per ovvie ragioni) ma, novità delle novità, anche l'imperatore Massimiliano, sommamente indispettito dalla possibilità che un soggetto enorme si costituisse in terra che giuridicamente apparteneva all'impero, e rischiando cioè in prospettiva di pregiudicare il dominio asburgico sulla Germania. La guerra si intrecciò con quella per il destino del ducato di Milano, combattendosi perlopiù in Italia, e come quest'ultima, fu costituita per la maggior parte da una serie di tira e molla. Il conflitto fu aggravato anche dalla necessità, per la parte imperiale, di fare fronte al divampare della Riforma, cui i sovrani occidentali stringevano pericolosamente l'occhiolino. Nemmeno lo spauracchio della mobilitazione polacca, cui Massimiliano era legato in virtù del suo matrimonio con Sofia Jagellone, poté cambiare lo stato di cose: i Polacchi erano lontani e poco interessati alle questione europee.

La situazione cambiò lungo il corso degli anni '20, quando al trono imperiale ascese Rodolfo II, figlio secondogenito di Massimiliano, il quale si fece protagonista di una politica più conciliatrice verso l'Italia. A seguito della stessa battaglia di Pavia che decretò la fine delle guerre d'Italia, Rodolfo II autorizzò Alfonso III a invadere il Piemonte, sottraendo ai Savoia il marchesato e liberando i loro vassalli dall'obbligo di adempienza. Nel frattempo (1530), l'ultima discendente dei Valois-Plantageneti ancora in vita, Margherita era morta, e le città e contee della Lotaringia si dimostravano riottose ad ubbidire agli ordini di Carlo III. Era chiaro a tutti i contendenti che serviva una tregua, se non altro per riprisrinare le forze in attesa dello scontro finale.
Con il trattato di Cambresis, Carlo III rinunciava ai suoi possedimenti in Italia, che passavano alla real coppia di Bona e Alfonso, ma veniva garantito con i suoi discendenti sul trono di Lotaringia. L'unico a bocca vuota rimase, come sempre, Enrico V e VIII. Col senno di poi, non stupisce dunque lo strappo che egli decise di prendere con la Chiesa e l'Europa; ma non corriamo troppo.

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Scoperte geografiche e pulsioni religiose: un riepilogo

1491: con la benedizione di Enrico VII e IV, Anna di Bretagna, ultima erede al ducato, sposa Carlo di Valois, figlio di Luigi il Ragno, grande alleato del re. Il potere Valois sulla corte si espande.

1492: caduta di Granada, i re cattolici completano la riconquista della penisola iberica. I genovesi però mantengono lo sbocco all'atlantco tramite i loro possedimenti nel sud dell'Andalusia; più tardi, lo stesso anno, Cristoforo Colombo scopre le Americhe per conto della Superba.

1493: nella bolla papale Inter Caetera, Alessandro VI dichiara che tutte le terre 100 miglia nautiche più a ovest delle Azzorre sono da considerarsi italiane (la pretesa, assurda già all'epoca, sarà poi contemperate da successive negoziazioni con gli spagnoli).

1495: la tipografia di Aldo Manuzio inizia la sua attività a Venezia, trasformando la città in uno dei maggiori centri a livello europeo per la produzione di libri e libelli. Enrico VII e IV rilascia la patente di esplorare per suo conto le nuove terre a Giovanni Caboto.

1496: Cristoforo Colombo termina la sua seconda visita nell'emisfero occidentale, durante la quale ha pesantemente ipotecato il controllo dell'isola di Italica, aprendo numerosi empori per il commercio con i nativi Taino.

1497: Giovanni Caboto è il primo europeo a mettere piede in America settentrionale. Lo stesso anno anche Amerigo Vespucci, che naviga per conto della regina di Castiglia, parte da Cadice per le Americhe.

1498: dato che in questa TL Caboto parte da Nantes (più vicina al centro di potere Tudor) e non da Bristol, egli non incappa nella tempesta che storicamente gli costò la vita, lasciandolo disperso in mare. Invece, mentre Colombo sta insediando l'isola di Trinità e la bocca dell'Orinoco nel sud del continente, Caboto prende contatto con gli Aztechi, aprendo una lucrosa via di commercio di cui per il momento i Tudor mantengono il monopolio.

1499: Vasco de Gama ritorna a Lisbona, completando il primo periplo portoghese dell'Africa con rotta in India. I genovesi, concentrati sulle Americhe, perdono terreno.

1500: con il supporto di navigli greci e napoletani stanziati in Morea, i veneziani riescono ad impedire la disfatta della seconda battaglia navale di Lepanto. Modone e Corone restano nelle mani della Repubblica; i Paleologi conservano il despotato. Sulla fine dell'anno una flotta mista italo-veneta riesce perfino a portare un contrattacco, riconquistando l'isola di Cefalonia (aggiunta al demanio regio). La dominazione ottomana sul mare non è totale.

1501: gli Spagnoli scoprono il Brasile, i Portoghesi scoprono l'Isola dell'Ascensione e pongono una pesante ipoteca sul controllo dei traffici europei con l'India grazie alla loro miglior posizione. Dopo un inizio brillante, i genovesi restano bloccati in Guinea.

1502: Cristoforo Colombo parte per il suo quarto e ultimo viaggio, nel corso del quale mappa l'intera costa americana dalle estreme propaggini dell'impero azteco alla bocca dell'Orinoco, scopre l'istmo di Panama e vi lascia un insediamento. Scavalcando l'autorità degli otto capitani di libertà, Isabella lo nomina Ammiraglio del Mare Oceano e governatore generale di tutti i territori che ha conquistato. Intanto i genovesi, piccati per essere stati estromessi dall'India, riparano iniziando a importare schiavi neri dall'Africa a Italica. Il monopolio sul commercio dei nativi, insieme con la concessione regia di gestire l'intero commercio italiano con le Americhe, faranno la fortuna della città nel secolo a venire. Nel frattempo, a Parigi, muore il giovane principe Arturo Tudor, lasciando campo libero (e la moglie lorrena) al fratello Enrico.

1503: la regina Isabella di Castiglia proibisce l'uso di violenza contro i nativi. Intanto, un enorme numero di marranos è espulso dalla Spagna, e va a popolare i possedimenti spagnoli nelle Americhe.

1504: nel contesto degli accordi con Alberto IV, primo duca della Baviera riunificata, l'imperatore Massimiliano cede i diritti ereditari sulla Baviera di Sidonia di Baviera, figlia più anziana di Alberto IV, per conto del principe Federico (IV), che le era fidanzato. La morte improvvisa di Sidonia, l'anno successivo, tronca sul nascere questi progetti, e spinge il giovane e ardimentoso principe a lanciarsi nella campagna d'Italia, con la promessa della mano di Bianca Maria Sforza. Sarà poi suo fratello Rodolfo a ereditare, con la mano della sorella di Sidonia, Sibilla, la patente del padre per ereditare il trono. Nel frattempo, Cristoforo Colombo torna a Genova, dove viene eletto Doge (uno dei pochissimi nel '500; titolo ormai onorifico); lascia il controllo sulle colonie al figlio Alfonso. Anche Venezia si dimostra attiva sul fronte delle esplorazioni, non volendo restare indietro: nel contesto delle trattative che mettono fine alla guerra col Turco, infatti, la Serenissima suggerisce per la prima volta di costruire un canale a Suez. Il debole Egitto resta comunque considerato terra neutrale.

1505: i Portoghesi prendono il controllo del commercio con l'Africa orientale, espellendone gli intermediari arabi. Più tardi, la regina Giovanna ascende al trono di Castiglia in luogo di sua madre Isabella. Ella regna insieme con Manuele I del Portogallo.

1508: Amerigo Vespucci è nominato navigatore in capo di Spagna per conto di Ferdinando II d'Aragona. L'anno precedente, il suo nome è comparso per la prima volta su una mappa in correlazione con il nuovo continente. Sfondando il limite simbolo dei 10.000 abitanti, Portoricco (HL: Puerto Rico) diventa la più popolosa colonia italiana (ed europea) nelle Americhe. Ad abitarla sono perlopiù schiavi d'Africa; altri sono italiani che scappano dalle guerre che insanguinano la penisola.

1509: battaglia di Diu, una flotta islamico-veneta tenta di opporsi alle prevaricazioni portoghesi, che intendono sloggiare i veneziani dall'India. L'esito è inconcludente: anche se i Portoghesi fanno più vittime grazie alla superiore qualità delle loro navi, la coalizione conta un maggior numero di legni e può quindi resistere con moderata efficienza. Per la Serenissima è comunque un segnale di pericolo: i loro rivali si permettono di attaccare impunemente gli agenti di commercio veneti all'estero. L'anno seguente, comunque, i Portoghesi in ritirata occupano Goa.

1511: la Marie-Rose, nave ammiraglia di Enrico V e VIII fortemente desiderata da quest'ultimo, prende il largo da Caen con a bordo l'intraprendente sovrano. Il re coltiva grandi sogni di espansione, nel Vecchio e nel Nuovo Mondo. Intanto i portoghesi sottopongono a brutale saccheggio la città di Malacca.

1512: leggi di Tortona. La corona italiana soppianta definitivamente l'autonomia genovese nella gestione della condotta dei coloni nelle Americhe.

1514: Selim I sconfigge le forze persiane a Chaldiran. Bloccati dalla contrapposizione italiana a occidente, i Turchi finiranno per inglobare l'Iran.

1515: primo congresso di Vienna, grande successo per la politica imperiale di avvicinamento agli Jagelloni perseguita da decenni (Massimiliano I stesso è sposato a una delle figlie di Casimiro IV, Sofia). Un doppio matrimonio è svolto per celebrare gli accordi: Luigi, unico figlio di re Ladislao d'Ungheria, sposa Elisabetta d'Austria, figlia di Rodolfo e nipote di Massimiliano I; il fratello di Maria, Rodolfo Federico, sposa la figlia di Ladislao, Anna. Anche l'altro fratello di Rodolfo Federico, Massimiliano, finirà per sposare una Jagellone (Anna, figlia di Sigismondo I).

1516: dopo aver conquistato l'ultimo beilicco indipendente in Anatolia, il sultano turco si rivolge all'Egitto, in contravvenzione con i patti stipulati con Venezia anni e anni prima. Ad Aleppo, i mamelucchi sono sconfitti, però sull'istmo l'Egitto riesce, con l'aiuto di Venezia, a montare un'adeguata difesa e a resistere. Come ringraziamento, l'intera penisola del Sinai è ceduta alla Serenissima, che provvede a fortificarla e costruire il suo canale. Venezia ha trovato finalmente la sua tanto sospirata finestra sull'India.

1517: Lutero appende le sue 95 tesi alla porta della chiesa del castello di Wittenberg, in Germania. Egli recrimina alla struttura ecclesiastica la diffusa corruzione, la simonia e il nepotismo, ma adduce anche motivazioni teologiche. La morte di Ferdinando II conduce finalmente all'unificazione della Spagna nelle mani di Giovanna e Manuele.

1518: Federico il Saggio rifiuta di consegnare Lutero ai messi papali, proteggendo il monaco. L'ultimo degli Abbasidi consegna il titolo di Califfo al sultano ottomano.

1519: Ulrico Zwingli predica a Zurigo. Pier Terrayl, signore di Bayard (più facilmente ricordato come chevalier Bayard), conquista l'impero azteco e lo governa col titolo di duc de Mexique per conto di Enrico V e VIII. Inaugurata l'epopea degli chevaliers (conquistatori) nelle Americhe. Gli Italiani fondano Panama, concentrandosi sul possesso dello Stretto, e occupano le Isole Barbare (HL: Barbados). Rodolfo II è eletto imperatore contro la candidatura del re franglese grazie al supporto delle banche italiane.

1520: papa Leone X scomunica Lutero. Questi, per tutta risposta, afferma di non accettare l'allontanamento del "cappellano del re di Napoli", e brucia la bolla pontificia in pubblica piazza, dinnanzi a una folla di astanti. Cristiano II di Danimarca, sposato con la figlia di Rodolfo II Cunegonda, sottomette la Svezia, di cui inizia la lunga resistenza.

1521: Lutero compare di fronte alla dieta imperiale di Worms e rifiuta di abiurare. In reazione, Rodolfo II fa passare l'editto di Worms, dichiarando Lutero un bandito e un nemico pubblico e rendendo illegale possedere suoi scritti. Il monaco deve fuggire rocambolescamente dalla Germania meridionale. Suo nuovo centro di attività diventa Lubecca, in rotta con l'imperatore per la preferenza da questo accordata alla Polonia. Nel contesto della contrapposizione tra veneziani e Spagnoli per il commercio delle spezie, questi ultimi mettono a segno un colpo da maestro quando Magellano, circumnavigando il mondo, scopre le isole Giovannine (HL: Filippine) dal nome dell'erede al trono.

1522: da Panama, i primi navigatori italiani si addentrano nel Pacifico sulle scie di Magellano. Nel 1534, su modello veneziano, la real coppia darà ordine di tagliare l'istmo, in modo da poter competere per il commercio con l'Oriente.

1523: Lubecca e la Lega Anseatica si uniscono alla Svezia nella lotta contro la Danimarca. Cristiano II è costretto ad abdicare in favore dello zio Federico, che si converte al protestantesimo su modello anseatico. Per reazione, la nuova Svezia indipendente diventa ostinatamente cattolica.

1524: massiccia sollevazione dei contadini tedeschi, infiammati dalla predicazione protestante. L'anno successivo, nasce ufficialmente il movimento anabattista, che si espande nella regione del Münster (Germania nord-occidentale). Giovanni da Verrazzano, al servizio di re Carlo III di Lotaringia, esplora la baia di New York.

1525: Lutero tiene la prima messa in tedesco. La sua traduzione del Nuovo Testamento intanto si espande in ogni dove.

1526: battaglia di Mohács, gli ottomani sconfiggono e uccidono re Luigi II d'Ungheria. La conquista comunque non è integrale, perché Rodolfo Federico, figlio ed erede dell'imperatore, estende il suo potere su Buda, subentrando come sovrano del Paese iure uxorio.

1529: seconda dieta di Worms. Alcuni nobili tedeschi iniziano a disobbedire agli ordini di Rodolfo II, agitando come pretesto la nuova fede protestante. Nel frattempo, il sovrano, tutto affaccendato in altre questioni (nello stesso anno, i Turchi assediano per la prima volta Buda) non può intervenire.

1530: la Confessione di Augsburg, testo fondante del movimento dissidente, viene presentata a Rodolfo II nella dieta omonima, sollevando critiche e dissapori.

1531: formazione della Lega di Smalcalda per la difesa della religione luterana. S. Cecilia (Chichen Itzà) è proclamata capitale della colonia di Enotria (Yucàtan) dagli eredi di Colombo.

1532: compromesso di Norimberga per la pace religiosa. Rodolfo II concede la libertà di predicare contro la rinnovata fedeltà dei suoi feudatari. Alfonso III, insieme con il suo ammiraglio Andrea Doria, guida una spedizione contro i pirati barbareschi che infestano il Mediterraneo e occupa Tunisi e Algeri, poi girate all'ordine dei Cavalieri Ospitalieri, i quali erano stati scacciati da Rodi dall'impeto dell'avanzata turca. Lo chevalier Cartier, in competizione con i Bayard, conquista il Texas e si spinge nelle sue scorribande sino all'estuario dell'Esprit-Saint (HL: Mississipi).

1533: a seguito della pretesa di vedere il proprio matrimonio con Anne de Bolenne (dopo Maria Margherita di Lotaringia e Isabella d'Angiò, sua terza moglie) annullato per l'incapacità di questa di dargli figli maschi, Enrico V e VIII è scomunicato da papa Clemente VII. Trattato fra i Turchi e gli Asburgo: a Rodolfo II vanno Croazia e Ungheria propria, la Transilvania è governata dal voivoda Giovanni Szapolyai sotto patrocinio del sultano.

1534: Atto di Supremazia: Enrico V e VIII si dichiara unico capo delle Chiese di Francia e Inghilterra. Subito scatta la persecuzione ai danni dei cattolici. L'imperatore Rodolfo II interviene in Danimarca, scacciandone l'erede del re Federico (accusato di aver scatenato il malcontento con la sua conversione) e ripristinandovi Cristiano II, che ha solo figlie femmine. Si progetta di annettere il regno alla sua morte.

1536: Enrico V e VIII permette la traduzione della Bibbia in francese (e non in inglese) La Lotaringia accoglie il protestantesimo. Cartier fonda una colonia Tudor alla foce dell'Esprissaint (>Esprit-Saint). Il ribaltamento delle alleanze tra Svezia e Impero conduce alla cacciata di Cristiano II dalla penisola dello Jutland. Cristiano III, figlio di Federico, è re, ma tradisce la promesse fatte agli svedesi reintroducendo il luteranesimo. Nel quadro delle guerre contro gli Asburgo, Enrico V e VIII stipula un'alleanza con il Turco che non sortisce alcun effetto pratico, ma ha ampio scalpore (empia alleanza).

1538: Solimano il Magnifico scaccia gli italiani dall'Africa; solo i Cavalieri Ospitalieri restano strenuamente sul posto. Però il sultano deve cedere ulteriore terreno in Ungheria alla controffensiva asburgica. Il voivoda di Transilvania accetta di lasciare le sue terre a Rodolfo II con la sua morte.

1539: le città di Brema e Lubecca si convertono ufficialmente al luteranesimo. Per reazione, l'imperatore li priva dei loro privilegi commerciali. Enrico V e VIII annette Cuba.

1540: l'istituzione della Compagnia di Gesù (i gesuiti) è confermata da papa Alessandro VII (Alessandro de' Medici, HL: primo duca di Firenze), pronipote di Lorenzo il Magnifico e ultimo del ramo di Cafaggiolo. Siracusa è saccheggiata dai corsari barbareschi.

1541: il concilio di Bruges, indetto dal papa con il supporto dell'imperatore e del re di Lotaringia Carlo III, tenta una mediazione fra cattolici e protestanti, ma fallisce. Verona intanto, da sempre riottosa alla Serenissima, diventa protagonista di una primavera religiosa: il teologo Lelio Sozzini proclama la sua "città di Dio". Navigatori veneziani intanto stabiliscono un contatto diretto con le isole delle Spezie.

1542: passando per il nuovo canale di San Marco, i veneziani stabiliscono una presenza in Eritrea in aiuto del regno cristiano d'Etiopia. I musulmani che periodicamente assediavano l'acrocoro sono ributtati indietro. Intanto Padova apre le porte ai sociniani.

1543: prima persecuzione bandita da Cesare I Renato contro i protestanti, benedetta anche dai genitori. Nella repressione subiscono ingiurie anche i valdesi. Venezia, impegnata su larga scala oltremare, rinuncia a tentare un assedio di Padova. Incapacitata ad agire contro il socinianesimo che si espande a macchia d'olio, la Serenissima tollera la predicazione della nuova fede nei suoi territori.

1544: su spinta di Cristiano III di Danimarca, la Norvegia dichiara il luteranesimo religione di Stato. Apice della contrapposizione fra blocco italo-imperiale e anglo-francese: Savoia, Turchi e Tudor attaccano simultaneamente l'impero approfittando della morte di Rodolfo II, ma suo figlio Rodolfo Federico fa leva sull'alleanza del re d'Italia, che contrattacca invadendo la Francia orientale. Alla pace di Crépy, resa possibile grazie all'atteggiamento accomodante del nuovo imperatore, Enrico V e VIII, preoccupato dal problema della successione (egli ha solo un erede maschio, il malaticcio Edoardo II e VI) accetta di chiamarsi fuori dal conflitto. Invece, la guerra tra Cesare I Renato e Carlo III continuerà fino alla morte di quest'ultimo, dato che il Savoia non accetta di perdere le terre ancestrali della sua famiglia in Piemonte. Esploratori veneziani si insediano a Formosa (Taiwan).

1545: concilio di Trento, nasce il catechesimo ufficiale della Chiesa come strumento di contrapposizione al dilagare dell'eresia. Gli italiani affondano la sparuta flotta sabauda, giunta nel Mediterraneo con rinforzi dalle Fiandre. Cesare I Renato afferma il predominio della penisola sul mare.

1546: il conte palatino si fa protestante. Come parziale compensazione, viene finalmente firmata tra Loraringia e Italia, basata sul principio dell'uti possidetis. Carlo III, indebolito dal conflitto, deve consentire alla diffusione del calvinismo nelle sue terre.

1547: la Lega di Smalcalda è sbaragliata dall'imperatore. Il conte palatino è catturato e costretto all'esilio. Con il favore del nuovo re Edoardo II e VI, fervente protestante, gli ugonotti (calvinisti francesi) si espandono dalla Lotaringia alla duplice monarchia, radicandosi soprattutto nel nord dell'Inghilterra, in Aquitania e in Normandia (centri protagonisti del nuovo commercio con le Americhe).

1548: Primo utilizzo documentato delle armi da fuoco in Giappone (presumibilmente importate dai veneziani, che da Formosa controllano tutto il traffico della regione). L'anno seguente, anche se lo scambio non regolato avveniva da tempo, il bailo veneto di Formosa inizia a inviare regolari missioni commerciali alla corte dell'imperatore Ming.

1550: Fausto Sozzini, nipote di Lelio, scrive il Consensus Tigrinus nel tentativo di unificare il suo dogma con quello dello zio. Rodolfo Federico elimina la pena di morte per tutti gli eretici all'interno dell'impero. Altan Khan, signore dei mongoli, oltrepassa la Grande Muraglia e brucia le periferie di Pechino, segnando il declino della dinastia Ming.

1551: i Cavalieri Ospitalieri evacuano Tunisi, ritornata sotto potestà ottomana. I Turchi saccheggiano impunemente Malta e le altre isole del canale di Sicilia. Grandi carestie in Henan (Cina).

1552: ultima guerra scatenata da Carlo III di Savoia contro l'imperatore, che per mezzo dell'abile figlio Emanuele Filippo ottiene uno strabiliante successo. In Lorena, Rodolfo Federico è quasi fatto prigioniero, impedendo ulteriori sviluppi della Controriforma in Germania; la valle del Reno si conferma cuore pulsante dei riformati, contribuendo ad accentuare la spaccatura con l'Europa orientale.

1553: la morte di Edoardo II e VI di Francia e Inghilterra segna il punto di non ritorno nella contrapposizione fra diverse fedi nella duplice monarchia. Battaglia di Sievershausen: Emanuele Filippo, in alleanza con le forze protestanti, sconfigge definitivamente l'esercito cattolico della Lega di Norimberga, ma deve arrestare la sua avanzata perché suo padre Carlo muore di lì a poco, aizzaando gli animi dei riottosi fiamminghi. Da questa posizione Emanuele Filippo, convertitosi al calvinismo onde venire incontro alle pretese di buona parte dei suoi suddit, accetta di scendere a trattative, ma chiede in cambio una patente imperiale per la libertà di culto nel suo regno.

1554: inizio delle guerre di religione tra calvinisti, cattolici e gallicani nella duplice monarchia.

1555: pace di Augsburg, che garantisce ai luterani eguali diritti all'interno dell'impero. L'anno dopo, Rodolfo Federico abdica e si reca in esilio in un monastero sulle montagne della Slovacchia. Gli succederà il figlio Federico IV, che governa su un impero diviso.

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La politica religiosa di Enrico V e VII, il regno di Edoardo II e VI (1547-1553) e l'inizio delle guerre di religione (1553-1589)

Enrico V e VIII di Francia e Inghilterra morì nel 1547, lasciando un'eredità controversa. Se da un lato, infatti, il suo governo aveva segnato l'inizio dell'espansione Tudor oltremare, con la conquista dell'impero azteco che aveva portato ai due regni enorme ricchezza, dall'altro la sua epoca era stata una di guerra su vasta scala, combattuta dilapidando il patrimonio accumulato dal padre per una ricompensa davvero misera. Nell'ordine, Enrico V e VIII aveva coltivato l'ambizione di: farsi promotore di una nuova crociata, conquistare l'Italia, soggiogare la Lotaringia supportando l'ascesa sabauda e infine farsi eleggere sacro romano imperatore. In tutti questi obiettivi il re fallì, anche se molto spesso perse di poco (per esempio, l'elezione di Rodolfo II vide una maggioranza di 4 voti a 3; la concreta possibilità di un impero Tudor esteso a tutta Europa resta il sogno di molti ucronisti franglesi). Alla fine del suo regno, Enrico V e VIII era un uomo rotto, distrutto nelle sue speranze di potere e sogni di gloria, preoccupato soprattutto dal problema della successione.

La prima e ostinatissima moglie di Enrico V e VIII era stata Maria di Lotaringia, figlia di Maria di Borgogna e Giorgio di Normandia, ereditata (come il diritto di successione) dal defunto fratello Arturo, delfino di Galles. Alle prime, il rapporto fra i due poteva dirsi quantomeno cordiale, se non proprio rispettoso: Maria non era certo innamorata dell'ambizioso Enrico come lo era stata del cavalleresco Arturo, ma capiva le necessità per il fratello Filippo IV di Lotaringia di combinare questa unione, e così acconsentì al matrimonio. Le cose iniziarono a cambiare quando, dopo dieci anni di unione, Maria si dimostrò incapace di generare figli che raggiungessero l'età adulta. L'unica era stata Maria, poi detta la Cattolica, ma per regnare sulla duplice monarchia serviva un erede forte, ruolo che una donna certamente non poteva ricoprire. Enrico V e VIII iniziò così a concepire l'ardito progetto di ripudiare la moglie e cercare nuovo partito, che egli individuò in Isabella d'Angiò, regina e duchessa madre di Napoli e Milano. Dopotutto, il re di Francia vantava antiche pretese sull'Italia, che datavano indietro fino a Carlo Magno; e allo stesso tempo, papa Giulio II, tenace oppositore degli angioini, si dimostrava possibilista a questo riguardo, non volendo pregiudicare l'alleanza con la duplice monarchia.

Come sappiamo, la discesa in Italia, inizialmente incontrastata, non si dimostrò, sul lungo periodo, favorevole per il re di Francia e Inghilterra. Gli angioini, nelle persone di Bona Sforza e Alfonso III d'Aragona dimostrarono di avere sette vite, alternando la temporanea ritirata nelle loro roccaforti meridionali con l'alleanza con l'impero, che non desiderava certo confinare con la monarchia Tudor su tre lati. Il clima per una possibile unione peggiorò ulteriormente quando, in barba al diritto ecclesiastico, Enrico V e VIII prese in ostaggio Isabella a conclusione di uno dei ripetuti assedi di Milano, portandosela prigioniera in Francia. Inizialmente, papa Leone X, alleato degli angioini, argomentò (e come dargli torto?) che il rapimento poteva difficilmente definirsi legittimo presupposto per un matrimonio, tanto più che Maria di Lotaringia era ancora viva e vegeta. Però, con la guerra contro la duplice monarchia che peggiorava, il Medici fu costretto a riconsiderare le sue posizioni. Leone X accettò il matrimonio con Isabella come valido e consentì sì alla dissoluzione dell'unione con Maria di Lotaringia (il matrimonio venne anzi considerato non consumato), al solo scopo di assecondare i progetti di Filippo IV, che da sua moglie Caterina d'Aragona aveva avuto una sola figlia, Maria, poi andata in moglie a Emanuele Filippo. Logicamente, Enrico V e VIII morse il freno, ma conservò la speranza di ottenere la dissoluzione della nuova unione, che ormai aveva perso del tutto il suo scopo politico, dal nuovo papa Clemente VII, promotore di una politica di autonomia della Santa Sede rispetto agli angioini. Il tentativo, come sappiamo, fu vano: Clemente VII era sì nemico del predominio della real coppia in Italia (condotta che determinò il truce sacco di Roma), ma anche un fautore della superiorità assoluta del pontefice in campo temporale, risultando, insomma, fuori tempo massimo. L'astio fra Parigi e Roma raggiunse livelli così elevati, come non lo erano stati dallo schiaffo di Anagni, tre secoli prima. Però nel 1525, dopo quasi tredici anni di infelice unione, Isabella d'Angiò, che non era nemmeno più alla corte del re, finalmente morì, liberando il campo perché Enrico V e VIII si trovasse una nuova sposa.

Questa fu individuata dal re nella persona di Anne de Bolenne, giovane esponente della noblesse inglese appena francesizzata. Il matrimonio, durato appena sei anni, finì di botto quando il re si rese conto che nemmeno l'inglese riusciva a dargli il tanto sospirato erede maschio, avendo partorito una sola femmina, Elisabetta. Fu allora che le pretese di ottenere l'annullamento del matrimonio divennero ancora più insistenti: la Bolenne infatti, era giovane e sana, e non c'era ragionevole speranza ch'ella sarebbe morta di lì a poco. Papa Alessandro VII, però, tutto preso nella sua opera di rilancio della Chiesa universale, non se la sentì di concedere un tale sgambetto alla dottrina cristiana. La risposta Tudor fu tanto eclatante quanto tremenda: con l'Atto di Supremazia, il re staccò forzosamente Francia e Inghilterra dal resto della comunità ecumenica, poi, in virtù del nuovo titolo di capo della confessione gallicana, si concesse l'annullamento desiderato. La Bolenne venne imprigionata, processata e decapitata per tradimento e cospirazione contro il sovrano (crimini infondati). Il re era ora libero di sposare chi avesse preferito. Ben due mogli spagnole, le sorelle Isabella e Beatrice, al ritmo di una all'anno (e pensare che erano figlie del re di Spagna, Manuele I!), si succedettero nell'arduo compito di fornirgli prole, tutte fallendo miseramente (e patendo una brutta fine; c'è chi sostiene che per le le loro fortuite morti non si trattò di coincidenze). Il re era disperato.

Fu a tal punto che si fece avanti Francesco, capo della potente casata dei Valois, il cui predominio era recentemente passato per estinzione del ramo principale ai cadetti d'Orléans. Egli aveva sposato Maria d'Aragona, figlia di Ferdinando II il Cattolico, determinando il ritorno della casata, dopo uno iato di quasi secoli, all'interno dei grandi giochi internazionali. Suo zio, Luigi, era stato un valido comandante e gradito aiuto al sovrano durante le guerre d'Italia, e opportunamente ricompensato con la mano di Anna di Bretagna, ultima erede del ducato. Alla sua morte, le sue figlie erano rimaste nubili e senza tutore. Enrico V e VIII decise di fare un tentativo, e scelse la più giovane, Renata (Reneé), convinto com'era che avesse la maggior probabilità di portare al concepimento di prole sana. E in effetti, così fu: salutato con immensa gioia e tripudio, nel 1537 nacque finalmente Edoardo III e VI, subito insignito del titolo di delfino di Galles. Ancora una volta, il clan Valois venne ricompensato grandemente: Francesco d'Orléans e suo figlio Enrico salirono agli onori più alti della corte, e iniziarono a prendere attivamente parte ai consigli di governo, insieme con la regina Renata. Questa era, con ogni probabilità, l'unica donna che Enrico avesse mai amato.

Enrico V e VIII morì vecchio nel 1547; Francesco d'Orlèans lo avrebbe seguito di lì a poco. Come previsto, il piccolo Edoardo III e VI gli successe come sovrano, venendo incoronato, nell'ordine, re di Francia e Inghilterra. Egli era un bambino giovane e cagionevole, cresciuto all'insegna della religione gallicana che il padre aveva voluto creare per suo fine. Con l'Atto di Uniformità del 1549, per esempio, il pio re dodicenne dichiarò per la prima volta un'unica liturgia della messa per la sua nuova Chiesa, che andava assumendo tratti sempre più filo-protestanti. Sotto la sua guida, Enrico d'Orléans si sentì infine abbastanza forte da gettare la maschera, e dichiararsi apertamente calvinista, venendo ricompensato con il titolo di Lord Protettore (di Francia e d'Inghilterra). La regina madre Renata, formalmente unica reggente e che molti accusavano di cripto-cattolicesimo, vedeva tutto questo fervore con ansia e sospetto, temendo che il procugino volesse soffiargli il potere sul figlio, e con esso, sul regno. Con l'Orléans che fa firmare condanne a morte e sentenze di carcere a vita per tutti gli oppositori del nuovo regime, inasprendo la persecuzione contro i cattolici, la contrapposizione fra i due Valois si fa sempre più pesante. Il 10 marzo 1550, la congiura di un gruppo di cavalieri cattolici reduci delle guerre continentali guidata dal principe di Jean du Barry, amante della regina, e tesa a rapire il giovane re viene scoperta. La repressione è feroce: centinaia di persone, ritenute "inescusabilmente consapevoli" (notare la formulazione!) del complotto, sono messe a morte dal duca d'Orléans. Intanto, incoraggiati dal potere, fra gli estremisti protestanti si iniziano a diffondere i primi episodi di iconoclastia, che continuano indisturbati per quasi due anni. In tutti e due i regni, per ben tre anni, in più di quaranta grandi chiese sono distrutte od oltraggiate statue e immagini sacre, provocando la reazione della folla, che cerca di catturare e linciare i responsabili. Mentre la prima seduta bilaterale del Parlamento inglese e degli Stati Generali di Francia convocata dal sovrano si dimostra inutile nell'arrestare la spirale di violenza, il fondamentalismo religioso, propagato anche dalla stampa, diventa un avvistamento comune fra i due regni.

Per la porzione di Paese che era rimasta (segretamente o meno) cattolica, era chiaro che questo stato di cose non poteva continuare. La situazione, se possibile, diventava ancora più intollerabile considerando come Edoardo III e VI, pur circondato dalle migliori cure sia di Enrico, che di Renata, era soggetto a frequenti malattie. Il 6 luglio 1553, dopo solo sei anni di disastroso regno, Edoardo III e VI morì, lasciando vuoto il trono che suo padre aveva lavorato tanto per assicurare a un erede maschio. Nel suo testamento, il devoto re indicava come successore la nobildonna inglese Jeanne Seymoure, bisnipote di Enrico IV e VII, scavalcando le sue due sorelle Maria ed Elisabetta. La ragione ufficiale, addotta nel documento, era lo sfrenato zelo protestante di questa (comunque presente); quella reale è da attribuirsi alle manovre di Enrico d'Orléans, che già frequentava la donna da tempo. Nella mattinata del 10 luglio 1553 Jeanne assumeva il trono; il giorno seguente, la regina convolava a nozze con Enrico, il quale prese il nome di Enrico VI e IX di Francia e Inghilterra. Frattanto, era Renata a fuggire dalla corte, dichiarando di conoscere il vero contenuto del testamento di Edoardo III e VI, il quale faceva della tanto cara madre la sua erede. Anche Maria la Cattolica, col marito Luigi di Beja, fratello del re di Spagna Giovanni III, si proclamò a sua volta regina, supportata in ciò dal Parlamento inglese. Fra tutti i contendenti, solo Elisabetta non si muoveva.

La guerra civile che si andava delineando aveva perciò tre parti: da un lato i cattolici di Maria Tudor, che governavano sull'Inghilterra; dall'altro i calvinisti ugonotti, che regnavano da Parigi: titolari della posizione giuridicamente più debole, ma anche della più popolare nei due regni erano invece i gallicani, guidati dalla convenzione di interessi di Renata con Francesco, duca di Guisa (cattolico), e che avevano la loro roccaforte nella Francia centro-meridionale. Questi in particolare si rendono protagonisti delle politiche più efficaci, rimuovendo le peggiori misure prese in sfavore del cattolicesimo, ma senza arrivare a un clima di piena tolleranza. L'editto di Caudéran (quartiere di Bordeaux), del resto, conferma il diritto ai protestanti (ugonotti compresi) di praticare messa pubblicamente fuori dalle città, e di pregare privatamente all'interno delle loro case. Però Maria la Cattolica, che si considera la legittima regina, dimostra di non accettare nessun compromesso. Fra il 1553 e il 1557 si combatte la prima guerra di religione, che vede i suoi inglesi sbarcare in Normandia come più di cent'anni prima e mettere a sacco la zona. Enrico VI e IX, consapevole della sua inferiorità numerica (i calvinisti sono solo tre milioni tra Inghilterra e Francia), rifiuta lo scontro diretto. Due assedi di Parigi sono tentati e respinti, mentre Jeanne Seymour muore di parto, avendo messo al mondo la bellezza di dieci figli Orléans, tre dei quali saliranno al trono. In ogni caso, Enrico VI e IX non può concedersi tempo per il lutto, perché nel frattempo Renata e Francesco di Guisa conquistano posizione dopo posizione. Fra il 1558 e il 1559 due eventi cambiano la sorte del conflitto, finora inconcludente: dapprima muore Maria, senza aver dato figli al principe di Spagna; con lei si chiude l'intervento degli Spagnoli nella guerra civiile, già malvisto da Giovanni III di Spagna. Nel frattempo anche Enrico VI e IX muore: nel testamento nomina come tutrice dei suoi figli Renata d'Orléans.

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La reggenza di Renata d'Orléans (1559-1563), i regni di Francesco I e I (1559-1560), Carlo I e IX (1560-1574)

Il Parlamento inglese agisce immediatamente, e proclama erede al trono la protestante Elisabetta, la quale per il momento tenta il famoso gioco della sposa, prospettando alla reggente Renata d'Orléans di sposare il piccolo Francesco I e I, figlio di Enrico VI e IX, ma senza procedere con l'operazione, in maniera tale da salvaguardare l'indipendenza dell'Inghilterra. Di lì a poco, però, ci si mettono i Guisa di mezzo, la cui influenza è tale da necessitare di un bilanciamento; così, sotto gli auspici dei cattolici, il secondo nella linea al trono, il delfino Carlo, viene fidanzato a Maria di Scozia, già promessa sposa di Edoardo II e VI, per allora sotto la reggenza di Maria di Guisa. Ciononostante, Renata d'Orléans iniziò il suo periodo al governo sotto i migliori auspici di riconciliazione; politica della quale fu esempio luminoso l'estensione dell'editto di Caudéran a tutto il territorio dei due regni. La regina madre convocò anche una seconda seduta plenaria del Parlamento e degli Stati Generali, nel tentativo di instaurare un dialogo fra le parte protestante e quella più strettamente gallicana del Paese. Il tentativo fallì, perché il Parlamento inglese si considerava ormai un organismo autonomo dal potere regio e rappresentativo delle istanze della sola isola nebbiosa; però il biennio di Francesco I e I sarebbe ugualmente stato ricordato come un felice periodo di intermezzo tra due sanguinose guerre.

Il compromesso, comunque è fragile. Questo perché Francesco, duca di Guisa, si era ormai reso conto che, contrariamente alle sue aspettative, la vittoria di Renata non significava affatto un ritorno in auge del cattolicesimo, anzi. Sebbene le misure più restrittive dei tempi di Enrico d'Orléans fossero state abolite, i cattolici restevano sudditi di serie B in Francia e Inghilterra, tanto da far patire una serie di importanti limitazioni politiche proprio a quella fazione dei duchi di Guisa che aveva consentito a Renata di vincere la guerra in partenza. Fu così che, approfittando del nuovo dominato di Carlo IX e I, da cui chiese e ottenne la nomina a Lord Protettore del regno, il duca di Guisa iniziò a soffiare sul fuoco delle faide religiose. Nel 1562, sfidando apertamente l'editto di tolleranza promulgato dalla regina, i Guisa si gettarono su di una folla calvinista che stava innocentemente predicando la messa, menandone strage. Si tratta del tristemente famoso massacro di Vassy. Il precario equilibrio si infrange nel momento in cui il cagionevole Francesco I e I muore (1560), lasciando la strada aperta per il giovane e irruento Carlo IX e I. Qui si prospetta per qualche tempo che la reggente Renata ribalti gli accordi matrimoniali presi in precedenza, in modo tale da salvaguardare la presa della monarchia sull'Inghilterra; però l'influenza della fazione cattolica sulla corte è talmente forte che Renata si trova con le mani legate. Capendo che la corte è in mano ai Guisa, e il matrimonio di Carlo e Maria rischia di pregiudicare la sicurezza stessa dell'Inghilterra, a maggioranza protestante, il Parlamento inglese reagisce alla morte di Francesco I e I dichiarando Elisabetta una volta per tutte unica regina: è la secessione, agita in nome del popolo e della Nazione (prima volta che questi lemmi entrano nel discorso politico in questo connotato) per mezzo del proclama di Westminister. Come prima cosa, gli Inglesi invadono la Scozia con il supporto del partito protestante e mettono a morte Giacomo Hamilton, reggente precedente a Maria di Guisa ed apostata del calvinismo (era stato lui stesso leader della fazione filo-inglese, prima di convertirsi al cattolicesimo dietro la ricompensa di un ducato che aveva costituito la dote della giovane). Il Parlamento inglese assume il potere sulla Scozia, decretando l'imprigionamento di Maria nel castello di Edinburgo; così si forma una Chiesa nazionale scozzese su impronta calvinista. Elisabetta I sposa Giacomo Stuart, figlio illegittimo di Giacomo V di Scozia e fratellastro di Maria di Scozia, nonché nuovo capo dei calvinisti: insieme avranno una sola figlia, anch'essa Elisabetta, erede protestante ad ambo i troni.

Maria degli Scoti si salva soltanto perché il Parlamento non osa toglierla di mezzo, temendo che un suo omicidio possa fungere da miccia per la rivolta degli Scozzesi. Per manifestare il suo dissenso contro l'occupazione del suo Paese (ma in realtà, si dice, in spregio al lusso dimostrato da Elisabetta I) Maria inizia a vestirsi di una tonaca candida che ricorda quella monacale, venendo soprannominata la Regina Bianca (nelle parole dei suoi nemici, Elisabetta I Tudor è, ovviamente, la Regina Rossa). Nel giro di tre anni, le sue guardie di palazzo sventano ben tredici tentativi di assassinio, con ogni probabilità mandati da Elisabetta. Però la sua prigionia significa che la fanciulla, regina di diritto, non può consumare il matrimonio siglato con Carlo IX e I. In effetti, anche se gli ugonotti si stavano già riorganizzando da anni sotto la leadership di Luigi, principe di Condé, la guerra diede pretesto alla fazione calvinista per controbattere, oltre che il nutrito supporto finanziario dell'Inghilterra. Un gruppo di nobili capeggiati dalla casa di Borbone dichiarò come il loro intento fosse quello di liberare il giovane re dai cattivi consiglieri, e a questo scopo fece divampare una grossa ribellione, che acquistò lo stesso anno il controllo di Orléans. Il loro esempio fu seguito da diversi gruppi di protestanti estremisti all'interno dei due regni, che presero il controllo di Neucastle, York, Angers e Tours. In poco tempo, si era formato un nocciolo duro di resistenza calvinista attorno alla valle della Loira. Era proprio quello che Guisa desiderava: di fronte al rapido deterioramento della situazione interna, la corona fu costretta a ritirare l'editto di Caudéran, facendo il gioco dei cattolici. Il Lord Protettore dei regni venne inviato a incontrare in battaglia i ribelli, ottenendo una serie di vittorie schiaccianti. Però negli scontri militari si verificò un decesso eccellente: per un colpo di pistola, il Guisa in persona trovò la morte (al tempo si vociferò di un tentativo di assassinio). L'assenza del carismatico Lord Protettore consentì alla corona di mediare momentaneamente la pace fra le due fazioni avverse, con la regina che ripristinava le condizioni previgenti, solo leggermente modificate a favore dei cattolici (editto di Amboise).

Era comunque una pace armata. Renata tentò di unire le anime opposte del Paese nello sforzo di rioccupare Calais, che era stata ripresa dagli Inglesi nel caos dovuto alla guerra civile, ma molti nobili si rifiutarono di reclutare reggimenti sui propri territori, facendo risultare il tutto in una bruciante sconfitta. Nel 1563, finalmente, il re Carlo IX e I esce dalla reggenza: egli può condurre una politica pressoché autonoma, perché, come già detto, il duca di Guisa è morto negli scontri che vedevano quest'ultimo opposto al principe di Condé. Sua priorità è ovviamente liberare la promessa sposa: al comando di un grosso esercito, Carlo IX e I sbarca in Inghilterra (notare l'inversione di ruolo rispetto alla guerra dei cent'anni!), dove viene incontrato in battaglia da Giacomo Stuart, che rimedia una sonora sconfitta. Carlo IX e I cattura numerose importanti città, tra cui Londres, però egli trova un Paese composto da contadini ostili che lo accusano di essere un fiancheggiatore del Papa e vanno a ingrossare le fila della guerra partigiana mossagli da Elisabetta. Il conflitto infuria per anni, senza ottenere grossi risultati, dato che gli Inglesi sbarrano al re la via per la Scozia, e per giunta la monarchia è continuamente funestata dalle rivolte che si accendono un po' dappertutto in Francia, animate dagli ugonotti. Temendo che la guerra contro l'Inghilterra costituisse una prova di forza dei gallicani, molte città si dichiararono in favore dei protestanti, espellendone le guarnigione regie. Poco aiutava la terribile figura di Enrico, fratello del re, che, da cattolico, si era fatto fama di sanguinario persecutore degli eretici. In maniera piuttosto ammirevole, il re tentò di venire incontro a queste ribellioni, dimostrando che aveva intenzione di governare alle stesse condizioni dell'editto di Amboise. Tuttavia, la tregua fu solo temporanea, perché sul finire del 1568 emerse nuovamente la figura del principe di Condé, il quale ammassò un notevole esercito, attingendo proficuamente ai finanziamenti messi a sua disposizione dall'Inghilterra (terza guerra di religione). Anche questa volta, comunque, gli andò male: incontrato in battaglia da Enrico, Condé perse la vita. Con lui gli ugonotti perdevano il loro più importante condottiero; la guida della fazione passò allora a Enrico di Borbone, familiare del Condé nonché (in iure) re di Navarra. Ancora una volta, la guerra in Francia si concluse con un nulla di fatto, che stabiliva una tregua tra ugonotti e gallicani.

Nel 1570 la situazione per gli Inglesi, che hanno speso un ingente ammontare di risorse nella speranza di portare la guerra in Francia tramite il principe di Condé, è deteriorata a tal punto da richiedere sforzi disperati. Con il tacito supporto del Parlamento che spera così di concludere le ragioni stesse del conflitto, i lord protestanti di Scozia prendono d'assalto il castello di Edinburgo, rapendo Maria, che viene molto probabilmente violentata e uccisa. Al contrario delle speranze inglesi, questo esacerba ulteriormente il conflitto, perché la Sorbona, vicina agli ambienti cattolici, proclama questo evento un regicidio, criminale sotto la legge di Dio e degli uomini, e per questa ragione i sudditi inglesi svincolati da ogni dovere di obbedienza a Elisabetta. A seguire è il turno di Giacomo Stuart, che viene ucciso da una freccia vagante durante l'assedio di York, e con lui si spegne ogni resistenza inglese: Elisabetta e sua figlia omonima fuggono con gli ultimi fedeli a Dublino, dove l'ex regina morirà presto di dolore. È il 24 gennaio 1573, un mese dopo Natale, quasi dieci anni dopo lo sbarco di Carlo IX e I in Inghilterra: si è conclusa un'altra fase delle guerre di religione e il re dichiara pacificato l'intero suo dominio, esteso alla Scozia. Il Parlamento inglese è disciolto, la sua giurisdizione annessa agli Stati Generali di Francia, che ora ammettono deputati anche dall'isola. Il fratello del re, il cattolico Enrico, è creato duca di Vessais (HL: Wessex) e viene posto dal re come Lord Protettore d'Inghilterra e Scozia. Egli sovraintende a una politica di brutale soppressione dell'eresia e sistematica ritorsione dei vincitori sui vinti.

Però qualcosa iniziava a cambiare. Innanzitutto perché, eccezion fatta per il duca di Vessais, con la disgrazia dei Guisa era finito anche lo strapotere dei vecchi nobili cattolici sulla monarchia, e più in generale la confessione era entrata in declino, trasformando lo scontro tripartito in una, molto più solvibile, lotta a due. Carlo I e IX decise di utilizzare a questo fine la diplomazia: nel 1572, egli sovraintese al matrimonio tra sua sorella Margherita ed Enrico di Borbone, con l'intento di pacificare il regno. Solo due anni dopo, il re veniva trovato morto nel suo letto, senza aver generato prole. Unico erede legittimo diventava, allora, il duca di Vessais, che assunse la corona col nome di Enrico VII e X. Con un cattolico sul trono, era chiaro che la guerra, lungi dal finire, potesse ora solo raggiungere l'apice: Enrico VII e X, deciso a restaurare l'ortodossia, chiamò al suo fianco tutto ciò che restava della casata di Guisa, nonché l'alleanza del papa e del re d'Italia Cesare I Renato, tenace difensore della fede, di cui sposò la figlia Alfonsa. Dall'altro lato, per la prima volta gallicani e ugonotti si trovarono a combattere insieme, proclamando Francesco (II), fratello minore del re, come re legittimo in opposizione a Enrico.

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Il regno di Enrico VII e X (1574-1589)

Dal 1576 al 1580 si combattono, tra cessate il fuoco e grandi spargimenti di sangue, tre diverse guerre di religione, che in aggiunta agli scontri finali del regno di Carlo I e IX portano il totale delle suddette a sette (gli storiografi non sono sempre d'accordo, comunque). I gallo-calvinisti hanno la meglio sul territorio, però Enrico VII e X può contare sul bacino di risorse quasi inesauribile rappresentato dalle finanze italiche, che continuano a carburare la macchina da guerra cattolica. Un compromesso sembrò vicino a essere raggiunto sul finire dell'anno, quando Enrico di Borbone scelse di accettare il predominio del suo omonimo qualora quest'ultimo avesse riconosciuto il fratello minore Francesco, gallicano, come erede al trono. Pur di ottenere la pace, Enrico VII e X accettò. Tuttavia, la guerra riprese qualche anno dopo, quando anche Francesco morì, lasciando Enrico VII e X come unico rappresentante dell'anticamente onnipresente clan Valois. A questo punto, i diritti in esame sul trono erano due equivalenti: l'uno dell'esiliata Elisabetta II Tudor, per discendenza diretta da Enrico V e VIII; l'altro proprio di Enrico di Borbone, per matrimonio con Margherita di Valois. Entrambe le scelte erano ugualmente spiacevoli per il re cattolico: l'una era una gallicana, peraltro estranea alla dinastia; l'altro era uno zelota calvinista. Di fronte all'indecisione del re, si mosse la città di Parigi (dichiarata eternamente cattolica con l'espulsione del clero gallicano nel 1576 e la purga di tutti i calvinisti nel 1580), che scoppiò in tumulti e invocò l'intervento della Lega Cattolica, costituita dagli ultimi Guisa con il supporto dell'Italia. Enrico di Guisa, che aveva ereditato dal padre Francesco il fanatismo, marciò così dentro la città, costringendo il sovrano a un'umiliante capitolazione, nel quale dichiarava, per via di alcuni antichi diritti, suo unico erede lo zio Carlo Guisa (peraltro cardinale al momento), annullando le pretese sia di Enrico di Borbone, sia di Elisabetta II Tudor. La comune ostilità della corona scaturì l'alleanza di questi ultimi, che si legarono nello scatenare un nuovo conflitto di religione (1585-1589, l'ottavo). La coppia visse lontano per qualche tempo: a Enrico di Borbone serviva il matrimonio con Elisabetta II per guadagnare il supporto dell'Inghilterra, e così acconsentì a lasciarla governare da Londres, mentr'egli sovrintendeva allo svolgimento della guerra contro la Lega Cattolica.

Nel frattempo, re Enrico VII e X viveva segregato nel suo palazzo, ostaggio della Lega Cattolica. Dalle sue finestre, dai suoi balconi, il sovrano poteva vedere il suo acerrimo nemico Enrico, duca di Guisa, aver ormai pienamente assunto il comando della fazione cattolica, a suo scapito. Gli stessi ambasciatori stranieri, quando arrivavano a corte, non si recavano a corte, bensì nell'ala dell'edificio riservata ai Guisa. Il re tentò di fare arrestare il duca, però, non appena la notizia si sparse nel popolino, i parigini iniziarono a innalzare barricate, chiedendo la fine delle ostilità fra confratelli di fede. L'umiliazione sarebbe stata troppo grande per qualunque monarca: fu così che, presi segreti contatti con Enrico di Borbone ed Elisabetta, nel 1588 il sovrano fuggì dalla capitale, rifiutando i ripetuti richiami della Lega Cattolica per il suo ritorno. Appellandosi alle ultime briciole della sua autorità, Enrico VII e X convocò una nuova seduta degli Stati Generali con il fine di ottenere una tregua a Blois, dove si era rifugiato. Enrico di Borbone ed Elisabetta dichiararono di ottemperare alla chiamata, per spirito cristiano; così, anche il duca di Guisa non poté esimersi dal prendervi parte. In realtà, si trattava tutto di un piano del sovrano: all'incontro, ripieno di guardie armate, si presentarono solo Enrico di Guisa e il fratello, erede presuntivo al trono, il cardinale di Guisa. Il re ammazzò il rivale con le sue stesse mani, e prese in custodia il cardinale Carlo, gettandolo in carcere.

L'eco delle gesta del re si sparse rapidamente in tutti e due i regni, generando spavento. Enrico di Guisa era infatti popolarissimo (perlomeno tra i cattolici) come un eroe della causa dell'ortodossia, e ora diveniva un martire per i papisti. Risultato ne fu che gli Stati Generali di Francia, ormai stabilmente riuniti su modello inglese, procedettero a lanciare sanzioni penali sul re, osando di dare mandato alla Lega Cattolica per catturare Enrico VII e X portarlo a giudizio. Anche la Sorbona, in una famosa udienza, dichiarò che era legittimo e giusto per qualunque suddito dei regni di Francia e Inghilterra commettere l'assassinio di un sovrano tirannico. Di conseguenza il re, temendo per la sua vita, si rifugiò presso il cugino Enrico di Borbone, invocandone la protezione. Egli abbandonava la capitale e tutta la porzione settentrionale e orientale del Paese, che erano in mano ai cattolici, capitanati dal duca di Mayenne, fratello del duca di Guisa. Egli fece del cardinale di Guisa il suo fantoccio sul trono, proclamandolo re con il nome di Carlo II e X. Però la fuga di Enrico VII e X non durò a lungo: ormai egli era troppo odiato, accusato da tutte le fazioni di crudeltà e codardia. Nel 1589, il re venne avvicinato da un frate domenicano, che lo ferì gravemente. Sul suo letto di morte, l'impopolare maestà cattolica affidò il diritto di succedergli in via esclusiva a Enrico di Borbone, posto che quest'ultimo si convertisse perlomeno al gallicanesimo. La religione fondata dai Tudor, infatti, sembrava essere l'unica via di mezzo, capace di riunire le anime più disparate dei due regni.

Di fronte alla possibilità di vedersi riconosciuto il trono, il Borbone accettò, venendo riconosciuto come Enrico VIII e IX di Francia e Inghilterra (per venire incontro agli inglesi, il re di Navarra accettò di rimuovere il numerale risalente a Enrico d'Orléans e suo figlio, quando, giuridicamente, sovrane elette dal Parlamento inglese erano state Maria ed Elisabetta). Elisabetta II fece buona accoglienza a questa mediazione, finendo per acconsentire alla loro promessa unione di Enrico di Borbone (sacrificata sull'altare della convenienza politica fu la povera Margherita di Valois, ultima della sua casata, che venne ripudiata in quanto sterile). Nel 1590, le forze combinate di gallicani e ugonotti riuscirono d'impeto a conquistare Parigi, e nel biennio successivo Enrico di Borbone riuscì a liberare l'intera Francia nord-orientale dalla presenza cattolica. La guerra sarebbe continuata ancora per qualche tempo contro l'Italia, che supportava le pretese indipendentiste di alcune zone dei due regni rimaste ostinatamente cattoliche (una fra tutte, l'Irlanda, ma anche Linguadoca e Bretagna furono attraversate da moti simmili). Tuttavia, si trattava di una resistenza, in ultima analisi, futile. La nascita del primo bambino della coppia Tudor-Bourbon, chiamato molto significativamente Luigi (ormai erano più di due secoli che la Francia non aveva un sovrano con quel nome), rappresentò il ritorno alla concordia e alla normalità per buona parte dei sudditi. Nel 1598, appena terminata la riconquista della Bretagna, Enrico VIII e IX promulgò l'editto di Nantes: i cattolici rimanevano nemici numero uno della monarchia gallicana, però la pace fra protestanti (gallicani e ugonotti e altri gruppi) era favorita in ogni modo. Di lì a poco, anche il re di'Italia, ora Carlo III il Grande, gettò la spugna: l'unione franco-inglese era stata riconfermata, più forte che mai, e la Controriforma aveva ricevuto il suo primo, serio smacco, dall'apertura del Concilio di Trento in poi.

Fino a qui ci siamo soffermati sulle liti religiose in voga allora entro i confini della duplice monarchia, è ora necessario ampliare un poco la vista sul mondo, in modo tale da capire appieno i successivi rivolgimenti di cattolicesimo e protestantesimo in tutto il mondo. Prima della lettura, ci tengo a sottolineare di aver significativamente rivisto le parti precedenti in luce delle critiche che mi erano state mosse dagli amici, che ho accolto e integrato nel testo al meglio delle mie capacità. Anche il precedente saggio sulle genealogie ha avuto la sua influenza, conducendomi a riscrivere per intero gli alberi dinastici di intere famiglie (li ho salvati da qualche parte, se voleste leggerli). Gli avvenimenti geopolitici hanno mantenuto più o meno il loro precedente risultato, però alcuni particolari (l'indipendenza di Svizzera e Baviera; l'area di diffusione del protestantesimo; i nomi di molti sovrani asburgici e angioini) sono cambiati. Credo insomma di aver fatto un buon lavoro di revisione, e vi consiglio di rileggere, anche rapidamente, le parti precedenti, che il Comandante ha pubblicato sul sito, in maniera tale da non restare confusi. Buona lettura

1556: Rodolfo Federico abdica dal trono imperiale, lasciando spazio a suo figlio Federico IV, che governa con l'assistenza del fratello Massimiliano. Con lui falliscono i tentativi di sradicare l'eresia calvinista (Lotaringia), anabattista (Westfalia) e luterana (Hansa), così come il tentativo di sottomettere i Savoia del regno di Bruges. Nel frattempo, a Venezia si verifica al potere l'ascesa della famiglia emergente dei Priuli, accresciutasi grazie al commercio con l'Oriente e vicina agli ambienti del socinianesimo. Il colto Lorenzo Priuli, da doge, si fa mecenate di Fausto Sozzini. Con il patrocinio del doge, egli stende il nuovo catechismo della dottrina, che rigetta i dogmi della Trinità, dell'onniscienza divina e del peccato originale.

1557: alla battaglia di San Pietro (dal nome del patrono della città di Colonia) la Lega Cattolica subisce una tremenda sconfitta per mano di Emanuele Filippo, detto il Testa di Ferro (tête de fer) per la sua caparbietà nel resistere al cattolicesimo; i lorreni avanzano fin quasi al Reno. In Aquisgrana, il Testa di Ferro celebra la sua incoronazione solenne come Filippo V, e si dedica poi a rifondare lo Stato all'insegna della nuova epoca, stabilendo la prima capitale permanente a Brussels e la sede del governo all'Aja (prima la corte circolava largamente tra Brussels, Mechelen, Dordrecht, Amsterdam e Bruges), incrementando enormenente il commercio e la colonizzazione nelle Americhe, fondando la borsa dell'Aja, incrementando il numero delle banche e in totale favorendo l'elemento germanico-protestante a scapito di quello latino-cattolico, fin'ora dominante. Intanto, i veneziani fondano il loro primo emporio a Macao.

1559: pace di Pont-à-Mousson, che sancisce una tregua generale in Europa (la duplice monarchia, consumata dalla guerra civile, se ne chiama fuori). In particolare, viene sancita una volta per tutta la posizione dei Savoia, cui sono tolti i loro possedimenti in Italia ma vengono largamente ricompensati in Germania, incorporando gli arcivescovati di Liegi, Colonia e Treviri, oltre che le città di Amburgo e Cleves. Il re d'Italia e il re di Lotaringia si riconoscono giuridicamente vassalli dell'imperatore, e sono ricompensati con il titolo di elettori (in sostituzione dei sopracitati arcivescovi, ora scomparsi). Nei fatti, però, l'autorità imperiale sui principi tedeschi è stata severamente indebolita, e ognuno di questi conduce una politica pressoché autonoma.

1560: sotto l'influenza diretta della regina d'Inghilterra (Maria degli Scoti è imprigionata a Edinburgo e Giacomo Stuart occupa Leith) il Parlamento scozzese delibera l'adesione del Paese alla Riforma, adottando una propria Chiesa nazionale dal credo prettamente ugonotto. Queste condizioni, all'epoca sfavorevoli per la monarchia, porteranno col tempo all'esodo di molti calvinsti francesi in Scozia, dove assumono posizioni di potere, preparando il terreno per l'annessione. A Djerba, le forze italiane di Cesare I Renato distruggono quelle dei pirati barbareschi, stabilendo una forte presenza su tutta la costa tunisina; pochi mesi dopo, però, l'arrivo di rinforzi ottomani costringe il re a sloggiare, mantenendo il possesso di poche piazzaforti costiere.

1561: Napoli supera per la prima volta Milano in quanto ad abitanti (80.000), aggiudicandosi il titolo di terza città d'Europa per grandezza dopo Costantinopoli e Parigi; dall'epoca della sua proclamazione come capitale d'Italia la sua popolazione è quasi raddoppiata. L'anno successivo, gli ultimi discendenti dei Paleologi firmano il Privilegium Italicum, con il quale il re d'Italia si assume in perpetuo il compito di difendere la Morea (fatte salve le città venete e la libera repubblica di Monemvassia, eretta da immigrati sociniani) da futuribili aggressioni turche. Di fatto, la penisola entra a far parte dell'impero coloniale angioino, conducendo a una rinnovata ostilità con la Serenissima.

1562: viaggiando sotto copertura (la leggenda vuole, mimando la parlata veneta), i primi mercanti italiani riescono a oltrepassare il canale di San Marco, portando alla corte safavide la proposta di un'alleanza, sfortunatamente poco proficua, anti-ottomana. Epoca d'ora della pirateria inglese: i bucanieri (perlopiù figli di coloro che risentono il predominio francese) seminano il terrore nei Caraibi, facendo la cattiva sorte di navigli angioini e Tudor.

1563: scoppio dell'inconcludente prima Guerra del Nord tra Danimarca-Norvegia da un lato, Svezia e Polonia dall'altro, l'unico effetto pregevole della quale è la spartizione dell'Hansa, realizzata seguendo le linee confessionali tracciate negli anni precedenti.

1565: grande assedio di Tunisi, i cavalieri ospitalieri resistono con ogni mezzo prima di venire soccorsi da una flotta guidata dal viceré italiano di Sicilia, Marcantonio II Colonna, il quale verrà creato Gran Maestro dell'Ordine per questo merito. L'anno successivo, è posta la prima pietra della città di Colonna, nell'isola di Gerba (Djerba), opportunamente fortificata dagli italiani e affidata ai cavalieri. Nelle Americhe, esuli francesi cattolici fondano il forte di Saint-Augustin, colonizzando la Florida.

1566: nuova invasione turca dell'Ungheria, onde riparare alla sconfitta incassata precedentemente a Tunisi. L'anno seguente, sfruttando l'amicizia con la corona protestante di Inghilterra e Francia, i lorreni fondano le prime città in Carolina (dal nome dell'erede di Filippo V), a ridosso del confine con la Florida.

1567: dopo una serie di dogi simpatizzanti (Lorenzo e Girolamo Priuli), Pietro Loredan è il primo doge di Venezia a convertirsi esplicitamente al socinianesimo, scatenando le ire di Cesare I Renato, che invade il territorio della Serenissima e per tre anni mette a ferro e fuoco il Veneto.

1568: con l'umiliante trattato di Adrianopoli i turchi impongono un tributo agli Asburgo, estendendo la loro presa su tutta l'Ungheria: massima estensione del sultanato ottamano sul continente.

1570: l'ascesa di Alvise I Mocenigo, già ambasciatore veneto presso la corte regia e la Santa Sede, significa la necessità riconosciuta dall'aristocrazia lagunare di siglare una pace in vista della riscossa ottomana. L'intervento di Cesare I Renato dunque apparentemente ripristina la supremazia del cattolicesimo. Non solo: Venezia deve installare guarnigioni regie a Verona, Padova e nella patria friulana, però in cambio stringe un'alleanza con l'Italia che le consente di fermare i turchi in mare presso Lepanto. Fondamentale, in tale contesto, è il contributo della flotta veneta di Sebastiano Venier. Cipro occupata militarmente dal Turco, viene liberata, e posta sotto un protettorato congiunto italo-veneto: Cesare I se ne incorona Re, ma l'amministrazione dell'isola torna perlopiù in mano veneziana.

1571: i cavalieri ospitalieri trasferiscono la loro capitale da Tunisi a Colonna, intensificando l'attività di penetrazione in Africa. Un tentativo turco sulla Morea viene frustrato presso l'istmo di Corinto, e nel contrattacco gli italiani si spingono fino alle Termopili, liberando Atene. Nel tentativo di avvicinarsi alla Polonia, Federico IV garantisce ai suoi nobili la libertà di culto.

1572: Sigismondo II di Polonia muore senza lasciare prole. Essendo Enrico di Valois già impegnato in Francia, a succedergli è direttamente la sorella Anna, che sposa Massimiliano d'Asburgo, zio di Federico IV. È inaugurata la dominazione asburgica sulla Polonia.

1574: prendendo atto delle sconfitte incassate in Grecia, il successore di Selim II, Murad III, si sbarazza del potente gran visir Mehmet Sokollu, rimanendo un burattino nelle mani della madre, Nur-Banu. A questo punto, Nur-Banu (che, ricordiamolo, è la veneziana Cecilia Venier-Baffo, rapita in gioventù da Corfù) cambia radicalmente la politica turca nei confronti dei veneti: temendone la potenza nei mari e tenendo soprattutto conto del fatto che nell’Impero Ottomano sono sempre mancati grandi operatori commerciali (a maggior ragione ora che la Grecia era caduta in mano italiana) ella comincia ad appoggiarsi alla Serenissima, garantendole grandi privilegi economici e commerciali, e concedendole ufficialmente il diritto di passaggio attraverso il canale di San Marco. Costantinopoli spera così di dividere il campo cristiano. Dal canto suo, Mehmet III cambia la direzione dell'espansionismo turco: nel corso di dodici lunghi anni di guerra (1578-1590) il nuovo sultano sottomette l'Iran, spingendosi fino alle frontiere con l'India.

1576: pacificazione di Treviso. I mercanti sociniani di Venezia, ormai maggioranza della classe dominante, dichiarano di non accettare il predominio dell'aristocrazia cattolica, incarnata dal doge Loredan, e marciano fino alle porte della laguna. Dopo un breve assedio in cui i Veneziani inviano disperate richieste di aiuto al re, la contrapposizione è risolta dall'intervento dei maggiorenti senatoriali. Infatti il nuovo Consiglio, spaventato, elegge doge proprio il capo della rivolta, il bellicoso Sebastiano Venier, già vincitore a Lepanto. Da questo evento sorgono le premesse per lo scontro indipendentista con il regno d'Italia.

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Il regno di Cesare I (1550-1577) e la rivolta veneta

Fra tutti gli scontri che separarono cattolici e protestanti nel corso del XVI secolo, quello che vide per protagonista la Serenissima è forse il più meritevole di un approfondimento, sicché esso significò, al pari delle guerre di religione in Francia, la (ri)creazione di una nazione nell'accezione comunemente intesa del termine. E questo perché, prima dello scoppio del conflitto, agli occhi dei contemporanei il Veneto non era una regione poi troppo diversa dal resto di quelle della penisola. Certo, re Cesare tollerava l'esistenza di un autogoverno nella persona del Doge e del Maggior Consiglio, però nel quadro di un regno della prima età moderna questo stato di cose era la normalità, e specialmente in Italia, laddove quasi ogni città aveva una lunga e dettagliata storia di animosità con il potere di uno Stato centrale. Quasi sempre, la monarchia italiana aveva scelto la via maestra del compromesso, tollerando l'esistenza di queste franchigie al di fuori della base di potere dei re (il sud): la città di Genova era solo il più fortunato esempio di questa pratica antica. Altrove governavano i feudatari locali (Este, Medici, Gonzaga...) cui il re lasciava pressoché ogni libertà nella scelta di come condurre i propri territori. A Milano e Torino, patrimonio regio, aveva sede un governatore, mentre in Sicilia e Sardegna avevano sede due viceré, ai quali facevano rispettivamente capo i possedimenti italiani in Africa (prima di tutto, l'ordine dei Cavalieri Ospitalieri; ma poi anche Algeri, Tunisi, Orano e altre piazzeforti, comprese le lontane colonie dello Zenega, del Marocco e della Costa d'Avorio) e nel Mediterraneo occidentale, con le Americhe (le Baleari, i possedimenti sulla costa andalusa, l'isola di Italica, l'Enotria, l'Esperia e molto altro ancora).

Questo modello amministrativo, collaudato a lungo con un certo successo, incominciò a incontrare i primi problemi con la dedizione di Costantino XII Paleologo alla corona italiana. Infatti Cesare I Renato, preso atto dell'acquisto della Morea, volle insediare un suo viceré a Mistrà, cui affidò l'intesa sopra tutti i traffici italiani con l'Oriente. Inizialmente tale provvedimento era stato diretto a salvaguardare quei pochi possedimenti, perlopiù genovesi, che il Regno aveva ereditato nell'Egeo e nel Mar Nero. Però, man mano che il commercio con l'Estremo Oriente cresceva, il vero affare era diventato passare per il canale di San Marco, in modo tale da trafficare in sete persiane e spezie indiane. I veneziani, comprensibilmente restii ad accettare tale penetrazione nella loro sfera d'influenza, furono costretti ad aprire tutti i loro porti all'installazione di empori italiani dalla necessità di fare fronte comune contro la minaccia ottomana, che per la fine del secolo aveva scippato Cipro al dominio del Serenissima. Così, il quadro politico della regione, già complicato, si era fatto invivibile. I Greci infatti, se ortodossi mantenevano per concessione di Cesare I il proprio diritto ("la legge dell'imperatore") e regolavano in privato le controversie che sorgevano fra loro. I sudditi cattolici invece, perlopiù di origine italiana ma anche convertiti locali, adivano il tribunale generale di Mistrà perché il viceré li giudicasse in base agli editti regi ("la legge del re"), che in via eccezionale potevano prevalere sulle antiche disposizioni imperiali, quando la lite aveva come convenuto un Greco, ed essere applicate anche in territorio della Serenissima. I veneti, infine, pretendevano di essere giudicati sotto l'autorità del bailo veneziano più vicino (Creta, Negroponte, Cipro o Corfù) o addirittura del Doge quando la lite aveva ad oggetto una controversia sorta sul mare. Tutti questi soggetti dovevano, ovviamente, fare applicazione delle norme della Repubblica ("la legge del doge"). I conflitti fra le tre leggi si erano poi ulteriormente acuiti dal momento in cui a viaggiare verso l'Oriente erano diventati in maggioranza i sociniani, sovrarappresentati nella classe mercantile, dato che Girolamo Priuli, sotto l'influenza di Fausto Sozzini, aveva decretato la piena libertà religiosa all'interno dei territori della Serenissima (laddove in Italia, invece, il reato di apostasia era passibile di morte).

Era chiaro che bisognasse fare qualcosa, perché le continue diatribe religiose, peraltro inficiate dalla Chiesa di Roma che voleva inglobare la struttura ecclesiastica ortodossa, sottraevano legittimità all'autorità di entrambi i contendenti. Eppure né il re, né i dogi, timorosi di guastare i necessari rapporti che si erano instaurati col tempo, si muovevano. In particolare fece scalpore il martirio del rettore della fortezza di Famagosta, il sociniano Marcantonio Bragadin, che venne catturato a conclusione dell'assedio del sultano e crudelmente scorticato dai turchi. Fu così che la palla passò agli estremisti di entrambi gli schieramenti, che iniziarono a darsi battaglia per le vie e nelle piazze (le prime memorie di scaramucce sono del 1566), accusandosi reciprocamente di essere la causa della disarmonia che attanagliava allora il fronte cristiano. Come risposta, il viceré di Morea, l'umanista Cristoforo Moretti, chiamò in Grecia il marchese di Pescara e del Vasto Francesco Alfonso d'Avalos, che si mise a capo di una larga forza armata, costituita perlopiù da mercenari reduci delle guerre che avevano contrapposto Italia, Lotaringia, impero e Francia nei decenni precedenti. Il d'Avalos iniziò una politica di sistematico sterminio dei ribelli, il cui culmine fu la conquista della libera repubblica di Monemvassia, eretta dai sociniani. Gli Italiani si ritirarono, ma la rocca della città venne distrutta con l'obbligo che non venisse ricostruita (1572).

In tutto questo, dato che il doge, il cattolico Alvise I Mocenigo, non sembrava avere intenzione di muoversi, gli esiliati di Monemvassia si rivolsero al capitano generale della flotta da mar, vincitore di Lepanto e sociniano, Sebastiano Venier, che ormeggiava per allora a Cerigo. Il focoso guerriero, agendo di propria iniziativa, tentò una prima operazione per ricatturare Monemvassia, ma fallì. Fu così che il capitano da mar si dedicò a una politica di sistematica occupazione e saccheggio dei villaggi sulla costa della Morea, minacciando il nuovo viceré, Avalos marchese del Vasto succeduto a Moretti per premio del re, fautore della linea dura contro i protestanti. Agli ordini di Cesare I Renato, cui egli prospettava una situazione grama, il Vasto tentò di sterminare tutte le manifestazioni di eterodossia religiosa (che fossero di derivazione greca o veneziana) e abolire tutti i privilegi dell'aristocrazia e delle città locali, aumentando il peso fiscale. L'abolizione della legge dell'imperatore rappresentò la proverbiale goccia che fece traboccare il vaso: nel 1573, la maggior parte della Morea era entrata in aperta rivolta contro il dominio italiano, ed andata a ingrossare le fila di Venier, al punto di spingere il Vasto a impegnarsi in una nuova campagna di repressione su larga scala che raccolse misti successi. L'impossibilità di venirne a capo in proprio, comunque, convinse il re a rimuovere d'Avalos, accusato d'incompetenza, dall'incarico, conducendo a una situazione di stallo.

Dal canto suo, Cesare I Renato cercò di snodare il groviglio di guerriglia che era diventata la Grecia interpellando direttamente Venezia e il suo doge Mocenigo, ch'egli credeva subdolo complice delle violenze: tra il 1573 e il 1575 arrivò per la Serenissima la punizione, nella forma di un crudele saccheggio imposto alla Terraferma, persino nelle città di provata fede cattolica e che, negli scontri di potere, tendevano a favorire gli Italiani. Alvise Mocenigo si trova così in una pessima posizione, con la gran parte del Consiglio dei Dieci favorevole a dichiarare la guerra aperta contro il Re d'Italia, anche a costo di svuotare le casse dello Stato. La gente della laguna, sobillata dai predicatori sociniani, voleva il sangue. Persino l'aristocrazia lagunare si spaccò a metà, con alcune importanti famiglie (prima di tutto, i Mocenigo, che avevano ottimi legami con la curia; ma poi anche i Morosini, Foscarini, i Giustinian) che si dicevano "di parte italica", ma la maggior parte dei maggiorenti, in specie quelli che si erano arricchiti nel periodo più recente grazie al commercio oceanico, che s'erano fatti numi tutelari della libertà religiosa della Serenissima (i Priuli, sopra a ogni altro; se ne aggiunsero in seguito altre come i Contarini, i Corner, i Loredan, e soprattutto i Venier) ed erano spregiamente detti dagli avversari "di parte evangelica". Nel dibattito politico che animava la città, la parte evangelica era in maggioranza, però tutte o quasi le leve del potere, non ultima la carica dogale, erano in mano agli italici, che deliberarono una scelta di neutralità assoluta negli scontri del Veneto e della Grecia. Cesare I Renato osservava con interesse questi sviluppi. Questo anche perché il suo obiettivo era prendere la città per via diretta, in modo tale da terminarne l'indipendenza e debellare il protestantesimo, però nel 1574 era fallito il suo tentativo, arrestato dall'assedio della fedelissima Treviso. Così, approfittando dal favore accordatagli dalla parte italica, il Re ne approfittò per ritirarsi con il bottino, lasciando intatta la Città propria.

Col senno di poi, si rivelò una mossa sbagliata. Reputando i possedimenti della Serenissima nel Levante ormai sicuri, Sebastiano Venier ne approfittò per ritornare immediatamente da quello che era di fatto un esilio eteroimposto nell'Egeo. Sbarcato a Venezia nel 1576, venne osannato dalla popolazione, che gli fece adito tra due ali di folla salutandolo come il vincitore di Lepanto e il salvatore della Città. Temendo per il suo potere, il Mocenigo ne ordinò il repentino allontanamento dalla laguna. Però il capitano dimostrò di avere sette vite: da Treviso, città già protagonista della resistenza all'invasore italiano, Sebastiano Venier chiamò a raccolta le armi protestanti, proclamando la pacificazione della Terraferma sotto il suo potestato. Dalla sua, il capitano aveva il supporto incondizionato dei Priuli e dei Loredan, oltreché l'obbedienza della flotta; fu così che, per poco tempo, Venezia fu messa sotto assedio dai veneziani. Nel 1577, sono gli stessi maggiorenti cattolici a mettere da parte il dominio del Doge, accusato di essere la ragione di tutti i conflitti che animavano la Repubblica, e facendo rientrare il Venier in città. Nel corso dell'anno, si celebra un processo farsa contro Alvise Mocenigo, che viene giustiziato in pubblica piazza. Subito dopo, in una votazione quasi unanime, Sebastiano Venier venne eletto a portare il corno ducale. Egli si proclamava Doge, Podestà, Signore del Levante e Capitano generale del Mare, oltreché vescovo secolare della Serenissima con effetto diretto su tutti i tuoi territori. Inutile dire che così il socinianesimo diveniva, finalmente, confessione di Stato.

Il nuovo ordine protestante non mancò di usare la forza contro quelle forze che avevano sorretto il vecchio regime cattolico. L'intero anno di regno di Sebastiano I, assurto a una specie di dittatore militare della Repubblica, fu speso nel sistematico tentativo di sopprimere e sradicare i fautori della parte italica. Primo provvedimento in ordine di importanza fu quello di sloggiare le guarnigioni italiane insediate da Mocenigo, che non mancò di attirare su Venezia le ira angioine. Vittima eccezionale fu il patriarca del Friuli, imprigionato contro le guarentigie riconosciutegli dal diritto canonico, sottoposto a sommario processo ed espropriato di tutte le sue proprietà, direttamente incamerate dallo Stato (sorte, questa, che toccò a molte larghi possedimenti ecclesiastici). Ma anche la gente comune soffrì: larghe fette di popolazione delle campagne, perlopiù rimaste di fede cattolica, furono deportate in Oriente, con la scusa di fortificare le posizioni veneziane contro il Turco. Le perscuzioni decimarono buona parte dell'antica aristocrazia lagunare, con i maggiori esponenti delle famiglie di parte italica costretti alla fuga per scampare alla pena capitale. Però il regno di sangue del tiranno non durò a lungo: nel 1578, forse in seguito a un colpo apoplettico (i suoi avversari dicono, preso dall'ira del Signore), Sebastiano Venier morì, lasciando un enorme buco nella struttura di potere sociniana. A succedergli fu, dopo una lunga e complicata elezione che comportò la necessità di ben 44 scrutinii (la più lunga nella storia della Serenissima) l'ottuagenario Niccolò da Ponte, anticlericale e sociniano, ma moderato e conservatore. La sua elezione rappresentò una vittoria ai punti della fronda conciliatrice, che anelava a una composizione pacifica delle ostilità con l'Italia. Purtroppo per loro, le cose non andarono così. Già sul finire dell'anno, gli esiliati si radunarono a Peschiera, appena oltre i confini con il Regno, eleggendo, sotto la protezione del nuovo re Carlo III, a Doge il senatore Niccolò Mocenigo, fratello del defunto Alvise I e in evidente continuità con quest'ultimo. Così, nella prima volta durante la sua millenaria storia, Venezia si ritrovava ad avere due dogi, per avventura del medesimo nome, ma in realtà tenaci rivali: la guerra civile fra cattolici e sociniani non poteva essere evitata.

Da luglio 1577 (un mese dopo l'esecuzione di Alvise Mocenigo) a gennaio 1579, gli esuli, coadiuvati da un ampia condotta italiana al comando di Alessandro Farnese, duca di Parma, passarono di vittoria in vittoria, avanzando le loro posizioni stabilmente fino alla riva sinistra dell'Adige e oltrepassando il fiume Brenta in più punti. Verona, isolata, resisteva strenuamente, però la cattura di San Bonifacio e Valdagno da un lato, oltreché quella di Monselice, Bassano, e Castelfranco dall'altro comprometteva gravemente le capacità della Serenissima di rifornire le proprie città, strette d'assedio. La battaglia di Cittadella (1578) fu una devastante sconfitta per i veneziani, a maggior ragione perché la morsa italica si chiudeva ora su un'altra città (Vicenza). Il morale era basso, e molte famiglie iniziarono a considerare la possibilità di medizzare, tanto più che il Farnese assicurava un reintegro sicuro nelle fila cattoliche. Anche il fondamentalismo dei sociniani allontanava i veneti dal predominio dei veneziani, sicché, nel caos generale scaturito dal conflitto, molte città avevano sollevato il proprio provveditore inviato dalla Serenissima, e s'erano affidate a un governo emergenziale retto perlopiù da fanatici religiosi (un esempio a questo fine fu proprio quello della libera repubblica di Verona, dove, intorno al centodiciottesimo giorno, un frate che si diceva discendente degli Scaligeri rovesciò il potere costituito e diede fuoco alle case dei cattolici, accusati di tenere per sé il cibo e collaborare con gli Italiani). Nel 1579, gli sforzi diplomatici di Alessandro Farnese sbocciarono finalmente in un grande successo: le città di Verona, Vicenza e Rovigo, con l'intero loro contado accettarono di passare di parte italica, riconoscendo il doge Niccolò Mocenigo come proprio sovrano (va senza dirlo: sotto l'alta autorità del re d'Italia). Due anni dopo, nel 1581, scoppiò una larga rivolta dei cattolici nel Friuli, cui Farnese cercò di connettersi forzando il Piave. La situazione, per i sociniani, era davvero disperata.

Però, la riconquista del Farnese si arrestò nel 1585, dopo la caduta di Belluno e l'offertà di fedeltà (diretta, questa, al re) del Friuli. Questo per due ragioni: da un lato, perché i ripetuti tentativi di infiltrarsi nella laguna circondando Treviso o Padova erano sempre stati frustrati dal pronto intervento veneziano; dall'alto, perché con la scomparsa di Cesare I Renato, le priorità del Regno erano cambiate. Suo figlio Carlo III era infatti maggiormente preoccupato dagli sviluppi della duplice monarchia, dove ormai rischiava di salire al trono il protestante Enrico di Borbone. Fu così che il portentoso duca di Parma fu spedito in Provenza, a combattere una lunga e inconcludente guerra contro gli ugonotti, in alleanza con la Lega Cattolica. I veneziani ebbero così modo di recuperare: il nuovo doge Pasquale Cicogna strinse alleanza con Savoia e Borbone, che arrivarono a finanziare la resistenza veneta. Re Carlo Emanuele I di Lotaringia inviò suo figlio secondogenito, Emanuele Filippo, per guidare la riscossa della parte evangelica. Tra il 1588 e il 1593, il duca di Lorena riportò il fulcro della guerra in Grecia, dove riuscì quasi interamente a conquistare la Morea, in spregio al Privilegium Italicum, e poi addirittura in Egitto, respingendo due attacchi turchi e un ottomano. È in questo periodo che il potentato mamelucco diviene totalmente suddito dei voleri veneziani. Nel 1591, quando Cicogna morì, al principe calvinista venne addirittura proposta la carica di Doge, ma egli rifiutò, venendo nominato provveditore speciale da mar. Forte del nuovo titolo (a cui molto spesso si aggiunse la potestà straordinaria di comando sopra tutti i possedimenti di Terraferma della Serenissima), egli procedette anche in Veneto a numerosi attacchi, che riuscirono a puntellare e consolidare la strenua difesa della laguna e garantirono al Savoia la fama di miglior stratega d'Europa, tanto che per molto tempo i confini della Repubblica furono definiti nel solco delle sue campagne. Nemmeno il Farnese, richiamato alle armi vista la malaparata in Francia, poté vincerlo in campo aperto: lo scontro tra i due terminò in pareggio. Contro tutte le speranze dei veneti, però, Emanuele Filippo si spense nel 1605, all'interno di una delle numerose fortezze da lui inaugurata (per la precisione, quella di Palma). Le sue vittorie avevano scongiurato la scomparsa di Venezia, e una tregua armata di tredici anni. Non era ancora la fine del conflitto (la Repubblica e il Regno avrebbero combattuto ancora nel secolo a venire), però la nazione veneta, in origine vicina all'annichilimento, aveva finito per essere rinsaldata e confermata dalla guerra.

Al contrario, in Italia la tregua veniva salutata come una tragedia nazionale, inaugurando sotto i peggiori auspici il regno di Carlo III. E questo perché sotto Cesare I Renato l'Italia aveva raggiunto l'apice della sua potenza come egemone del Continente: in quel periodo, ovunque si combattesse, in Europa o sul mare, non mancava il coinvolgimento italiano, fosse esso diretto o meno. La miglior generazione di condottieri italiani (non ultimi, i citati d'Avalos, Doria e Farnese) avevano diretto sul campo gli sforzi della Controriforma tesi a sopprimere i protestanti sulla base di compagnie mercenarie sempre più professionali, oltreché il primo nucleo di esercito permanente. I mercanti italiani, eredi di una grande tradizione borghese, avevano iniziato ad espandere le proprie reti commerciali in tutto il mondo, attraverso le nuove vie commerciali inaugurate dagli architetti di San Marco e Santa Cecilia (anche detta Santa Lucia) a Panamá; le loro galere riportavano in patria un enorme fiume di merci provenienti dalle Americhe, dalla Cina, dall'India. Del resto, Bona Sforza doveva presentire bene questi sviluppi, avendo scelto di chiamare suo figlio con un nome profetico; in parte, perché era nato a luglio. Ma soprattutto, perché il classicismo allora imperante, derivato dalla conquista della Grecia, imponeva un nome che fosse di estrazione antica e suggerisse un'immagine di grandezza.

Tuttavia, nonostante l'incrementale ammontare di benessere prodotte dalle sue città, Cesare I non fu in grado di sopprimere il protestantesimo, di reprimere la ribellione veneta o di restaurare il cattolicesimo in Francia. Tale politica estera fu certamente ispirata da un forte zelo religioso, che portava il re a considerare la difesa dell'ortodossia cattolica come uno dei suoi principali obiettivi. Per tale motivo Cesare I adottò un approccio estremamente rigido nei confronti dei ribelli, da lui assimilati ai turchi ottomani, riuscendo peraltro a impedire la diffusione del protestantesimo nei suoi domini in Italia e Grecia e a restaurarlo nel Veneto occidentale, l'odierna regione orientale della penisola. Altrettanto importante fu la sua lotta senza quartiere per la difesa del Mediterraneo dal dominio turco, di cui la battaglia di Lepanto del 1571 fu il più fulgido esempio, insieme agli aiuti da lui forniti sei anni prima agli ospitalieri nel grande assedio di Tunisi; non è un caso se gli storici dell'800 fecero risalire a Cesare I i primi germi della dominazione italiana in Africa.

In questo senso, già molti contemporanei tra i suoi devoti vassalli ebbero ragione di credere che il fondamentalismo cattolico di Cesare I non fosse soltanto motivato da una spinta mistica. Tramite la fede, egli cercò con ogni mezzo di garantire l'unità del regno d'Italia, creatura di recente formazione, e a tale scopo diede carta libera per l'operato dell'Inquisizione papalina. Egli, sbandierando la superiorità delle università italiane, proibì agli studenti lo studio in paesi stranieri o tramite libri vietati dalla censura, giungendo al punto di incarcerare per 11 anni l'arcivescovo di Milano, Gaspare Visconti, per la pubblicazione di alcuni suoi scritti giudicati dal re come eccessivamente vicini all'eresia, e in realtà, per la difficoltà di vestire le scarpe della successione a san Carlo Borromeo, anima della Controriforma italiana. Cesare I, che era un grande sovrano, non riuscì ugualmente ad annichilire il potere delle banche, delle famiglie, delle grandi corporazioni di arti e mestieri, che anzi avevano accresciuto a dismisura il proprio potere a corte durante la sua vita, fallendo dunque nell'obiettivo di costruire una monarchia veramente assoluta, cioè totalmente sciolta dal perseguimento degli interessi della collettività. Nota d'onore è che sotto il suo regno, così come sotto quello dei suoi genitori, fiorirono le arti e la letteratura. Suo figlio Carlo avrebbe poi contribuito alla fondazione dell'Accademia della Crusca, con il compito di raccogliere e sistemare il canone della lingua italiana.

In ultima analisi, Cesare I Renato fu il più potente monarca europeo in un'epoca di conflitti e guerre religiose. Alla luce di ciò, la sua figura è divenuta un controverso argomento storico. Infatti, come fanno notare alcuni studiosi, anche prima della sua morte i suoi sostenitori avevano cominciato a tessere un'immagine del re gentiluomo, ricco di virtù e animato da una sincera pietà cristiana, quanto i nemici lo avevano dipinto come un mostro fanatico e dispotico. Tale immagine nei secoli si sviluppò ulteriormente fino a creare una vera e propria dicotomia tra la Leggenda Nera francese e la Leggenda Bianca italiana, di cui lo stesso Cesare fu in parte responsabile, poiché vietò ogni racconto biografico e comandò alla sua morte di bruciare la sua corrispondenza, impedendo qualunque investigazione nella sua vita privata. L'autore, astenendosi da ulteriori valutazioni, vuole qui lasciare ai suoi lettori il non facile compito di tracciare un riepilogo della figura di Cesare I, sia sul piano pratico, sia su quello morale.

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Il regno di Carlo III il Grande (1577-1608) e l'Invitta Armata
Uno dei successi di Cesare I di cui non abbiamo fin'ora avuto modo di parlare in maniera esaustiva fu la politica matrimoniale, condotta con sagacia al fine di legarsi in alleanza con i più tenaci oppositori della duplice monarchia. Cesare stesso aveva sposato Cristina d'Asburgo, figlia del deposto Carlo II d'Asburgo e di Cunegonda, figlia di Federico Rodolfo; la sorella di Cesare, Giulia (anche qui, il pararellismo con l'antichità è voluto ed evidente) era invece stata mandata in Spagna, a contrarre matrimonio con Giovanni III, re della casata d'Aviz. Al contrario di quello con Cesare, però, quello di Giulia e Giovanni era stato un matrimonio molto più triste: di dieci figli nati, solo uno, Giovanni Manuele visse abbastanza per contrarre a sua volta un'unione con Alfonsa (in alcuni fonti detta Alfonsina), figlia di Cesare I e Cristina. Dalla loro unione nacque un figlio, Sebastiano, presunto erede al trono iberico; tre anni dopo, il vecchio Giovanni III spirò, avendo mantenuto per tutto il suo regno una politica di benevolente neutralità negli scontri religiosi che squassavano l'Europa, eccezion fatta per l'alleanza con l'Italia e il limitato intervento nella successione alla casata Tudor. Due terribili donne, la zia Giulia e sua nipote Alfonsa si scontravano per la reggenza: il conflitto, che inizialmente tentò di essere ricomposto dalle cortes del Portogallo, divenne molto rapidamente insanabile, e il Paese inviò messi a Napoli perché con la sua autorità Cesare I ricomponesse lo scisma. Il re decise di mediare in favore della sorella, che aveva già dimostrato notevoli abilità al governo, richiamando la propria figlia in Italia. Alfonsina avrebbe finito i propri giorni in un convento.

Attorno alla figura della reggente Giulia, due volte regina madre, crebbero molto rapidamente le dicerie. Questo perché, nonostante la regina governasse con saggezza ed equità, erano in molti a disprezzare le sue politiche di larga apertura verso i mercanti della penisola, cui concesse numerose postazioni commerciali, che prima erano state portoghesi, in giro per il mondo. Giulia d'Angiò cercò di legittimarsi come una discendente degli Aragona (cosa che fattualmente era, anche se per via illegittima), ma i tentativi in questo senso furono sistematicamente frustrati dall'introduzione di numerosi ingombranti funzionari e stravaganti personaggi italiani a corte. Il tutto non era reso più facile dal suo carattere: Giulia, donna pragmatica, dalle sfaccettature complesse, ma decise, giustificava il suo agire con l'obiettivo di preservare il nipote Sebastiano e la discendenza d'Aviz, identificati con il benessere della Spagna. Eppure, il fanatismo religioso da lei importato in Iberia dall'Italia, che si tradusse nell'espulsione massiccia di migliaia di mori ed ebrei convertiti, non riscosse molto successo. Quando i suoi oppositori, guidati dalla nobile famiglia dei Pérez, che erano stati segretari particolari del monarca sotto gli Aviz iniziarono a farle opposizione, ella autorizzò le attività dell'Inquisizione italiana nel re, che prese prigioniero il padre, Gonzalo; Antonio Pérez, invece, avvertito per tempo, riuscì a scappare in Francia, meditando vendetta. Intendiamoci: che a metà del '500 un sovrano europeo, al pieno del processo di formazione delle monarchie assolute, facesse arrestare e processare gli antagonisti al suo potere non era poi così strano. Bizzarra invece venne ritenuto a titolo universale la strana morte di Gonzalo, rinvenuto cadavere nella sua cella poco prima che se ne cella la mattina in cui egli sarebbe stato ammesso a parlare in sua difesa nel tribunale ecclesiastico imbastito da Giulia. Cosa non si disse allora sui famosi veleni, sulle misteriose trappole, sugli assassini segreti che la regina avrebbe tenuto a sua disposizione! I suoi detrattori iniziarono a dipingerla come circondata, ad ogni ora del giorno e della notte, da streghe e fattucchieri, spesso di origine italiana, alle prese con pozioni e specchi magici: si tratta di insinuazioni completamente infondate.

Era pur vero che la regina stessa aveva interesse a che queste voci trovassero spazio nell'opinione pubblica, nell'esuberante tentativo di impedire sollevazioni contro di lei. Fu una mossa che, con il tempo, si rivelò sciocca, rivolgendosi contro di lei, che ne era stata la prima perpetuatrice. Nel 1577, a meno di un anno dalla morte di Cesare I che ne era stato il burattinaio occulto, i maggiorenti di Spagna insorsero, richiamando Pérez dall'esilio e imponendo alla regina di abbandonare la reggenza in favore del fratello del re Giovanni, il cardinale Enrico: posta con le spalle al muro, Giulia d'Angiò cercò di resistere, paventando il pericolo (peraltro concreto) che senza la sua figura il fronte unito della nobiltà si sarebbe spaccato; però il segretario Pérez, animato da vendetta, non volle sentir ragioni e la spedì via. Il re d'Italia Carlo III, da poco succeduto al padre e che non aveva in particolar simpatia la zia (egli a ragione la accusava di aver rovinato la vita della sorella Alfonsina), acconsentì alla manovra, pur imponendo la figura di un suo messo a corte onde mantenere un certo grado di influenza sulle azioni del giovane re Sebastiano I. L'intrigante Giulia d'Angiò, machiavellica regina madre di Spagna (o, come la ricordano gli spagnoli: la reina serpiente) venne così messa da parte, finendo i suoi giorni in esilio nel castello di Málaga, sotto l'attenta protezione della flotta genovese.

Il regno di Sebastiano I non fu comunque duraturo. Cresciuto all'ombra del mito di Cesare I e della sua lotta forsennata contro i nemici della fede, il sovrano adolescente volle da subito imitarlo, organizzando una grande spedizione in Africa con l'obiettivo di sottomettere il sultano del Marocco. Questa iniziativa, scoraggiata dagli spagnoli che vedevano in pericolo la vita dell'unico esponente maschile della casata d'Aviz ancora in vita, venne invece sostenuta ad armi spianate dagli italiani, da sempre interessati a conquistarsi l'apertura di un punto di passaggio tra il Mediterraneo e l'Atlantico che non fosse sotto il totale controllo dei re d'Iberia. Nella primavera del 1578, lasciato senza troppi pensieri il governo del regno allo zio Enrico, Sebastiano I si imbarcò da Almeria con il supporto di navigli inviati dal re d'Italia, per sbarcare successivamente in Marocco. In estate, si combattè la battaglia decisiva: incurante della propria inferiorità numerica, re Sebastiano lanciò i propri cavalieri spagnoli alla carica contro i fucilieri saraceni, che ne menarono strage. Peggio ancora, divenne subito molto chiaro che all'interno della calca il re di Spagna era scomparso. Le ricerche durarono ore, senza fortuna. Non aiutava il fatto che, mentre gli spagnoli cercavano di reggere l'urto dell'ondata marocchina, molti italiani si dettero alla fuga, una volta compreso che non c'era speranza di vincere la battaglia. Di trentamila soldati che erano partiti, alle fortezze italo-portoghesi sotto il controllo cristiane site sulla costa ne tornarono meno di mille, generando un grandioso tumulto di isteria popolare in Spagna. Lo zio Enrico venne costretto in fretta e furia ad abbandonare il berretto cardinalizio, nel tentativo di ottenere prole. Ma fu tutto inutile, perché appena due anni dopo, nel 1580, il re-cardinale si spense, avendo infranto a vuoto i suoi voti di castità. Le cortes di Castiglia, Léon e Portogallo, riunite straordinariamente in una sessione comune, deliberarono di individuare un successore nella figura dell'infanta Caterina di Aviz, figlia di un fratello di Enrico I, e sposata con il duca di Braganza Giovanni. Quest'ultimo venne conseguentemente incoronato re con il nome di Giovanni IV, e l'annoso compito di difendere il regno dalle mire espansionistiche del re d'Italia. Già, perché un altro possibile pretendente al trono era Ranuccio Farnese, figlio del grande duca di Parma e di sua moglie Maria, sorella di Caterina. Il Farnese venne eletto re dagli aragonesi, sotto la pesante influenza dei mercanti napoletani, fiorentini e genovesi, che ormai in Catalogna erano di casa. Alessandro, ottenne la protezione del re Carlo III per suo figlio, che inviò l'Invitta Armata per prendere possesso Barcellona, ma nell'ottusità del sovrano fu costretto a restare in Francia, da cui gestiva lo sforzo congiunto della Lega Cattolica contro Elisabetta II ed Enrico di Borbone. In realtà, il re d'Italia agiva secondo un preciso disegno, e cioè evitare che il duca Farnese, installatosi in Aragona, potesse da lì sottomettere l'intera Spagna, acquisendo così un rango paritetico rispetto a quello del suo sovrano feudale, cioè la corona angioina. Dal canto loro, Caterina e Giovanni sapevano di non potere accettare battaglia contro un nemico così soverchiante contro la corona italiana, e così acconsentire a una spartizione dei territori che avevano costituito l'impero degli Aviz. L'Africa, così come l'Atlantico venne divisa grossomodo a metà, tra una settentrionale di pertinenza italiana a nord e una meridionale di pertinenza spagnola a sud. Le Giovannine, opportunamente ribattezzate Caroline, passarono all'Italia, che era interessata a guadagnare una posizione ravvicinata all'Oriente in modo tale da poter competere con i veneziani nel commercio con la Cina; le merce indiane, invece, restarono agli spagnoli, anche se ormai erano lontani i tempi del monopolio, dato che veneziani, franglesi e lorreni avevano preso a interessarsene. Notevole fu, in questa sede, il duplice riconoscimento dell'indipendenza inca: nel corso del secolo precedente, l'impero andino, sotto l'eminente protezione del re d'Italia, era andato riformandosi sempre più, adottando il culto di Cristo in luogo di quello del Sole. Nel novembre del 1588 il gesuita pugliese Michele Ruggeri, inviato da Roma, da consigliere privato dell'imperarore Túpac Amaru divenne il primo arcivescovo del Pirù (come lo chiamavano gli italiani), con ampio potere di evangelizzazione del territorio. Michele Ruggeri fece venire sacerdoti dall'Aragona e dall'Italia, imbastendo un sistema diocesale dal nulla; egli bandì la sparuta pratica dei sacrifici umani, rivitalizzò l'attività edilizia andina con la costruzione di numerose strade romane e chiese barocche, e soprattutto salvaguardò la lingua piruviana, tramite la trascrizione di un catechismo. Con la sua morte, vent'anni dopo, l'impero del Pirù stava ormai risalendo la china, a seguito del disastroso contatto con gli europei, che era valso agli andini due guerre civili e lo sterminio portato dalle malattie.

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feder

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