Il Regno dell'Estate

Stavolta parliamo di re Artù, vi va?

Anzitutto: chi era veramente quest'eroe semileggendario ?

Ancora si discute se si tratti di una figura storica o di un eroe epico di fantasia. Chi crede nella prima ipotesi, ritiene che si tratti di uno dei capi bretoni che animarono la vittoriosa resistenza dei Celti della Cornovaglia contro la conquista anglosassone alla fine del V e all'inizio del VI secolo d.C. Chi crede nella seconda, fa notare come l'unica fonte contemporanea (lo storico gallese San Gildas) non lo citi mai, e i primi racconti su di esso siano di molto posteriori all'epoca in cui è collocata la sua vita (proprio come accade ad altri eroi leggendari quali Robin Hood e Guglielmo Tell). La prima fonte britannica che parla di Artù è un accenno del « Gododdin », testo del VI secolo dove è citato en passant come capo guerriero (abbiamo le prove che il nome Artù era effettivamente utilizzato nella Britannia postromana). Più tardi gli « Annales de Cambrie » del X secolo menzionano la vittoria di Artù a Mont-Badon nel 516 e la battaglia di Camlann in cui Artù e Mordret si uccisero a vicenda (537). La materia assume poi tratti epici nell'« Historia Brittonum », cronaca in latino di Nennius del X secolo, e nel « Roman de Brut » di Robert Wace (XI secolo) dedicato all'omonimo nipote di Enea, mitico avo dei Bretoni. Da tali testi il vescovo Goffredo di Monmouth trasse l'« Historia Regum Britanniae » (1135): l'opera mischia storia e tradizioni celtiche e cristiane, con l'intento di dotare i britanni di un eroe nazionale pari a Carlo Magno. Nell'Historia troviamo Merlino, Vortigern, Uter Pendragorn, Ginevra, ma nessun accenno a Parsifal, Lancillotto o al Sacro Graal, che entra nella saga solo nell'incompiuto poema « Perceval » (1190) di Chrétien de Troyes e nel « Parzifal » di Wolfram von Eschenlbach. In precedenza, gli eroi arturiani erano comparsi nei Lais di Marie de France (1167), poemetti amorosi e fantastici, e nei due Tristano di Béroul e di Thomas (1165-70). Nei poemi di Chrétien, di Wolfram e di altri contemporanei il calice è un vaso sacro dotato di mistici poteri. Solo nel poema di Robert de Roron Le Roman de « L'Estoire du Graal » (1202) compare il Calice del sangue di Cristo custodito da Giuseppe di Arimatea. A Roron seguì la monumentale « summa » arturiana costituita da Lancelot, La cerca del Graal, La morte di Artù, opera di più autori che, dalla metà del '200, ispirò poeti, musicisti, cineasti: dall'anonimo « Sir Gawain e il cavaliere verde » del 1360 alla « Morte di Artù » di sir Thomas Malory del 1485, fino alle opere di Wagner Lohengrin (1848), Tristano e Isotta (1865), Parsifal (1882); ma anche al film « I cavalieri della Tavola Rotonda » (1954) con Mel Ferrer, Ava Gardner e Robert Taylor, ed allo splendido lungometraggio Disney « La Spada nella Roccia » (1963).

Fin qui, quello che se ne sa. Vediamo ora di ricamarci un po' su.

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Dunque, Artù è figlio di Uter Pendragon, gran re di Britannia, e di Igerna, vedova del duca Hell di Cornovaglia. Nasce nel castello di Tintangel nel 458 d.C. e muore sul campo di battaglia di Camlann nel 537 d.C. Incomincia a regnare nel 474, a sedici anni, dunque il suo regno dura circa 63 anni. Le vicende dell'inizio del suo regno sono descritte nel poema "Il regno dell'Estate », opera di Taliesin, bardo del V secolo contemporaneo del leggendario gran re, sul quale anch'io mi baserò, come fece Manzoni con la sua proverbiale pergamena.

Il titolo di Gran Re era antichissimo in Britannia; risale infatti alla distruzione di Atlantide, avvenuta nel 9603 a .C., perché alcuni coloni di Atlantide in Britannia, una delle più ricche province dell'impero poseidonico, scamparono alla catastrofe e, orfani della madrepatria, crearono una federazione di città e di tribù, ognuna dotata di un suo re, ma con a capo un unico Gran Re, il cui titolo era elettivo e non ereditario. Neppure l'invasione romana da parte di Claudio del 51 d.C. pone fine alla tradizione del Gran Regno, che dura ormai da quasi 100 secoli, perchè i sacerdoti druidici considerano Gran Re l'imperatore di Roma, e tutte le tribù accettano di giurargli obbedienza, spinte dalla necessità di cercare la protezione delle legioni romane per resistere alle prepotenti scorrerie dei Pitti e degli Scoti. A questi, sul morire del IV secolo, si sommano le invasioni degli Juti e dei Sassoni, provenienti dalla penisola Scandinava. I britanni sono già cristiani, convertiti da San Patrizio e san Giorgio verso il 300 d.C., mentre i Sassoni sono ancora pagani (la loro divinità somma è ippomorfa, essi infatti vengono definiti "i popoli del cavallo"), e perciò sono temuti dai britanni quanto un vampiro teme l'acqua santa.

Il primo Gran Re romano era stato Claudio, mentre l'ultimo è Onorio, perché nel 410 d.C. l'inetto figlio di Teodosio il Grande è costretto a ritirare le proprie legioni dalla Britannia, peraltro mai completamente romanizzata, per difendere le Gallie e l'Italia dagli attacchi dei visigoti. Dopo un inutile appello a Roma, i re e i duchi dei Britanni, riunitisi in concistoro a Londinium, ex capitale della Britannia romana, decidono di eleggere in proprio un nuovo Gran Re: Caio Aurelio Liburno, l'ultimo governatore romano dell'isola, molto amato dai britanni per il suo buon governo. Questi peraltro ha sposato una britanna, considerata discendente dell'ultimo Gran Re locale prima della conquista da parte di Claudio.

Aurelio accetta il difficile compito, segnato dalla continua avanzata dei Sassoni, e muove loro guerra cingendo la spada druidica dei Gran Re antecedenti la conquista romana, che si diceva forgiata in cielo dagli dei (era infatti fabbricata con ferro meteoritico, non proveniente quindi da questa terra). Riesce a bloccarli ad Eburacum (oggi York) ma, nonostante abbia regnato saggiamente per 22 anni, dal 410 al 432, egli viene rovesciato ed ucciso dalla rivolta nazionalistica antiromana capeggiata dal fanatico Vortirgern, il quale non perdona ad Aurelio di non essere nato nell'isola. E' questa l'occasione dell'ultimo appello delle città britanniche a Roma, che chiedono protezione contro Vortirgern; naturalmente la città eterna, che langue sotto il malgoverno di Valentiniano III e sotto la minaccia degli Unni, non muove un dito, e così Vortirgern si impossessa facilmente del trono ed uccide tutti i figli di Aurelio, tranne i più giovani: Moin ed Uter. Questi riparano fortunosamente a Benoic nell'Armorica o Piccola Bretagna, regione della Gallia dove molti Britanni si sono rifugiati per scampare alla minaccia dell'invasione sassone, e dove i due transfughi di sangue reale sono ben accolti dal vecchio re cristiano Celidon, padre di Ban e Bohor, e discendente dal leggendario capo Nascien, che secondo la tradizione era stato convertito da Giuseppe d'Arimatea.

Vortirgern regna per dodici anni, segnati da una dittatura sanguinosa e da continue vittorie riportate dai Sassoni, tanto che il tiranno è costretto ad abbandonare Londra agli invasori e ad asserragliarsi nel Galles. Sotto il suo regno si hanno le prime notizie di Merlino, astronomo e letterato, profondo conoscitore sia della cultura romana che di quella druidica, che nonostante la giovane età (ha circa trent'anni) diviene popolarissimo per la sua profonda sapienza, da lui tradotta in cure mediche dispensate gratuitamente a tutti, nobili e miserabili. Egli diventa così uno dei riferimenti dell'opposizione interna al regime di Vortirgern, che lo manda in esilio sull'isola di Man, dove egli approfondisce i suoi studi sulle stelle e sui poteri delle piante; per questo il popolo gli attribuisce poteri magici e lo considera un grande negromante, anche a causa dell'alone di mistero che lo avvolge. Difatti nessuno ha idea di quale fosse la sua famiglia o la sua città natale, tanto che inizia a correre voce che egli sarebbe figlio di una suora e di uno dei demoni che, secondo le credenze popolari, causerebbero gli incubi.

Nel 444, così come aveva predetto Merlino, i figli di Aurelio rientrano in patria assieme all'alleato Ban di Benoic, assediano l'usurpatore nella fortezza romana di Caer Leon (Caer = castello in gallese), ed egli muore miseramente, arso vivo nell'incendio della piazzaforte, poi ricostruita e trasformata nella nuova capitale britannica. Morto prematuramente Moin, Uter diventa l'unico erede del Gran Regno, e governa da solo dal 447 al 459 con il titolo di Pendragon ("figlio del dragone"), già appannaggio dei Gran Re preromani. Merlino diventa il suo fidato consigliere e gli consegna la spada di suo padre, su cui egli stesso ha fatto incidere le parole ENSIS C. A. LIBURNI (spada di Caio Aurelio Liburno) per rimarcare l'illegittimità del trono di Vortirgern.

Ma la Britannia non è affatto pacificata: i Sassoni premono anche sulla Cambria e sulla Cornovaglia, e fallisce la spedizione militare con cui Uter tenta di riconquistare Londra e la Britannia meridionale. E così egli deve affrontare una ribellione di re gallesi, scontenti per la mancata realizzazione delle profezie di Merlino, che parlavano di brillanti vittorie militari e della riconquista di tutta l'isola (tale profezia si realizzerà invece con Artù). Proprio per mettere al riparo il Gran Regno dai colpi di testa di qualche barone assetato di potere, Merlino si fa consegnare il figlio che Uter ha avuto da Igerna e lo mette al sicuro, affidandolo al nobile romano Oreste e a sua moglie, che lo cresceranno in compagnia del loro figlio Caio (colui che verrà chiamato Keu dai britanni e sarà siniscalco del Gran Re).

La nascita del bambino è avvolta nella leggenda. La voce popolare racconta che Uter, sposato infelicemente e senza figli con una nobildonna irlandese, impalmata nella speranza di ottenere aiuti dai fratelli celti dell'isola vicina, si sia innamorato di Igerna, la bellissima moglie del duca Hell di Tintangel, signore della Cornovaglia occidentale. Per soddisfare il desiderio di Pendragon, ed anche nella speranza che a questi nascesse finalmente un erede, Merlino avrebbe fatto assumere al re le sembianze del duca Hell, in modo che, una sera in cui questi non si trovava nel suo castello, Uter sarebbe penetrato indisturbato in esso, avrebbe raggiunto le stanze della duchessa, e per essere certi che il rapporto andasse a buon fine Merlino avrebbe fatto magicamente durare la notte per ben ventiquattro ore. Si tratta ovviamente di leggende popolari; l'unica cosa certa è che pochi giorni dopo Hell muore in uno scontro con ignoti sicari, secondo alcuni inviati dallo stesso Uter, timoroso che Hell scopra la sua tresca con la moglie. Questa è la goccia che fa traboccare il vaso, alimenta il malcontento nobiliare contro Uter e lo porta alla morte.

Infatti un anno dopo, presso il guado dell'Hysen, re Uter cade in un'imboscata tesagli dai suoi nemici; si difende con coraggio, ma alfine viene sopraffatto dal numero. Prima di cadere, conficca la propria spada in una fenditura della roccia viva, da cui nessuno riesce più ad estrarla. Merlino profetizza che solo il successore legittimo di Uter potrà riprenderla. Il popolo dei Britanni comincia ad attribuire quel segno alla magia dell'incantatore Merlino, e storpia ben presto la scritta ENSIS C. A. LIBURNI in EXCALIBUR, nome con cui la mitologica arma è passata alla storia!

Alla morte di Uter segue un lungo interregno, segnato da violenze e disordini causati dai nobili che guerreggiano tra di loro per il potere, dilaniando quanto resta del Gran Regno. Periodicamente si tengono Diete per tentare di imporre la pace, ma esse regolarmente si traducono in memorabili zuffe; spesso vengono indetti tornei o combattimenti simulati, ed il vincitore ha il diritto di tentare di estrarre la famosa Spada nella Roccia dalla sua vagina di pietra, perché la profezia di Merlino esercita una notevole suggestione sia sul popolo minuto che sui nobili britanni.

Il regno di Artù nel 501 d.C., disegno dell'autore

E si arriva così alla Pentecoste del 474 d.C., quando Oreste e suo figlio Caio si recano a Caerleon per prendere parte all'annuale giostra d'armi; il giovane Artù segue i due in veste di scudiero del fratello, maggiore di lui di quattro anni. Secondo la tradizione, Artù dimentica di prendere con sé la spada del fratello, e quando torna alla locanda a prenderla, essa è chiusa perché i locandieri sono andati anch'essi alla giostra. Impaurito per le conseguenze della propria sbadataggine, e timoroso dell'ira del padre e dei fratelli, egli fugge nel bosco, ma vicino al fiume Hysen scopre l'elsa di una spada che spunta dalla roccia; egli non sa che è quella miracolosa di suo padre, ma la afferra, la tira, la estrae e la porta al fratello: è questo il celebre episodio miracoloso della « spada nella roccia ». Quando Caio si accorge che quella spada è Excalibur, cerca di dare a bere al padre di averla estratta lui, ma Oreste non gli crede, si fa raccontare la verità, poi mostra a tutti i baroni che la spada è stata estratta e narra come il giovane che è riuscito nell'impresa non sia suo figlio, ma gli sia stato consegnato in fasce da Merlino in persona. Questi interviene, conferma la sua versione e rivela che in realtà Artù è figlio di Uter Pendragon. Secondo i romanzieri, Artù sarebbe stato riconosciuto immediatamente come Gran Re da tutti i nobili, ma in realtà le cose non stanno così. La stragrande maggioranza dei baroni infatti si rifiuta categoricamente di riconoscere come re uno sconosciuto, soprattutto, perché teme di perdere il potere ed i privilegi conquistati in un quindicennio di anarchia. Le prime battaglie che Artù deve affrontare sono proprio contro quegli stessi baroni che dovrebbero sostenerlo ed acclamarlo, ed esse lo tengono impegnato fino al 477, anno in cui la rivolta viene finalmente schiacciata. Sempre secondo la tradizione, Artù ed il suo principale rivale Leodegrant, re del Galles del nord, si sfidano a duello, il quale dura per ventiquattr'ore e si conclude con il nobile britanno che si ritrova Excalibur puntata alla gola. "È inutile, non riconoscerò mai come re uno scudiero!" grida in faccia ad Artù. Quest'ultimo ammette allora: "Hai ragione. Allora creami tu stesso cavaliere!" e gli mette Excalibur in mano. Dopo un minuto che sembra lungo un secolo, l'altro gli batte tre volte la spada sulle spalle, poi gliela restituisce: "Per Dio, per San Giorgio, per San Michele, io ti faccio cavaliere. Alzati, Artù Pendragon: ora riconosco in te il coraggio di tuo padre Uter!" e gli si inchina dinanzi. Comincia così il regno di Artù, destinato ad essere uno dei più lunghi della storia, e ad essere ricordato come il « Regno dell'Estate », cioè come l'epoca felice predetta dalle antichissime saghe celtiche risalenti addirittura all'epoca di Atlantide, e confermata da ultimo dal già citato bardo Taliesin.

Ma i guai per Artù sono appena cominciati. Infatti il gallo-romano Siagrio, guidando quella che viene giustamente definita « l'ultima legione », tenta nel 478 la riconquista della Britannia, approfittando del disordine in cui è caduto il Gran Regno a causa della rivolta dei baroni. Fortunatamente i nobili si stringono compatti attorno al Gran Re ed i romani sono ricacciati. Artù vede così consolidato definitivamente il suo potere, e pone la sua residenza principale nel castello di Camelot, variamente identificato dai moderni, ma probabilmente posto ai confini orientali della Cornovaglia. A questo punto, al Pendragon manca solo un erede, e per procurarselo cerca una politica di alleanze matrimoniali. Leodegrant, che si è distinto per valore nei combattimenti contro i romani, concede sua figlia Gweniweahr in sposa ad Artù, e questa è la famosa Ginevra della tradizione cavalleresca. Tra i doni di nozze di Leodegrant al suo sovrano c'è anche una famosa tavola rotonda che Artù fa porre nella sala delle udienze a Camelot; invita quindi a corte tutti i giovani rampolli dell'aristocrazia britanna e, per superare le antiche divergenze, li crea tutti Consiglieri della Corona. Il Consiglio si riunisce appunto attorno alla Tavola Rotonda per significare che anche il Re non è altro che il Primus inter Pares. Tra i campioni chiamati a far parte del Consiglio si annoverano Caio/Keu, nominato siniscalco del Re, Lionel, Gawain (il Galvano dei romanzi cavallereschi), Perceval (il Parsifal di Wagner) e soprattutto Lancelot, il Lancillotto di Chretien de Troyes.

Un'altra minaccia si profila però all'orizzonte: quella dei Sassoni, i quali verranno sconfitti a Monte Baedun (Mont-Badon) solo nel 489, dopo dieci anni di aspre guerre; essi vengono costretti da Artù a divenire stanziali, a convertirsi al cristianesimo e ad accettare la supremazia del Gran Re, cui sono costretti a pagare pesanti tributi. In tal modo tutta la Britannia viene riunificata sotto lo scettro di Artù. Ad essa va ad aggiungersi la Scozia, contro cui Keu ha guidato nel 487-88 una spedizione vittoriosa per punire Pitti e Scoti dell'aiuto fornito ai Sassoni; anche questi popoli sono costretti a divenire stanziali e a convertirsi al cristianesimo. L'Irlanda accetta il vassallaggio ad Artù per evitare un'invasione punitiva simile a quella che ha devastato le highlands scozzesi, e così il Regno di Artù diventa una grande potenza. Lot, re di Lothian e sposo di Morgana, sorellastra di Artù perché figlia di Hell e di Igerna, conquista inoltre la Scozia settentrionale e le isole Orcadi, assumendo così il titolo di « re delle Orcadi », mentre monaci irlandesi inviati da Artù scoprono e colonizzano le Shetland e le Faer Oer.

A questo punto, Artù si sente abbastanza forte per iniziare delle campagne sul continente. Infatti i Sassoni che vivono nella Germania settentrionale (oggi chiamata appunto Sassonia) hanno aiutato i loro fratelli emigrati in Britannia, e non cessano di incitarli alla ribellione e di compiere opere di pirateria contro le coste britanniche. E così, lasciato il Regno nelle mani di Merlino, Keu e Ginevra, nel 490 Artù varca la Manica e porta la guerra sul continente, sconfiggendo a più riprese non solo i Sassoni, ma anche tutti i loro alleati germanici. È la rivincita dei celti sugli invasori tedeschi. Tra il 490 ed il 501 egli si trattiene in Europa, tornando a Camelot solo per tre volte; il suo sforzo bellico è però coronato da successo, portando all'assoggettamento non solo dei Sassoni continentali ma anche dei Turingi, dei Baiovari e degli Juti. Siccome i Normanni norvegesi accorrono in aiuto dei fratelli Juti, Artù batte anche loro e li riduce all'impotenza, grazie all'aiuto dei Gauti svedesi, acerrimi nemici dei norvegesi. Tutti questi popoli diventano tributari di Artù nel quadro di un vasto impero romano-barbarico di religione cristiana.

I Franchi però si preoccupano dell'ascesa dei Britanni, e decidono di allearsi con i Sassoni per scacciarli dal continente. Clodoveo subisce una dura disfatta a Trouville-sur-Mer dove Artù ha unito le sue forze a quelle di Gondobaldo, sovrano dei Burgundi, ed a quelle del vecchio re Ban di Benoic, i cui reami venivano minacciati seriamente dall'espansionismo dei Franchi (499). Clodoveo conserva il trono ma deve riconoscere l'indipendenza dei celti d'Armorica e dei Burgundi, deve rinunciare ad uno sbocco sul mar Mediterraneo e deve accettare il vassallaggio ad Artù. Inutile dire che anche i Burgundi diventano satelliti del Gran Re, così come gli Svevi o Suebi che hanno invocato il suo aiuto contro l'espansionismo dei Visigoti di re Alarico II.

Questi ultimi, così come gli Ostrogoti di Teodorico, per non fare la stessa fine dei Franchi pensano bene di venire a patti con il vincitore. Questi nel 500 decide di recarsi in pellegrinaggio a Roma in occasione del mezzo millennio dalla nascita di Gesù, e con lui va Lancillotto, inviato da suo padre nella capitale della cristianità: è questa l'occasione del primo incontro tra Artù e colui che diverrà il massimo campione della Tavola Rotonda. A Roma avviene l'incontro tra Alarico II, Teodorico ed Artù, patrocinato da papa Simmaco (498-514), dei quali i tre padroni dell'Occidente sono ospiti in Laterano. Essi si giurano pace perpetua, stipulando un vero e proprio patto di non aggressione, passato alla storia come « pace dei tre re ». Ostili all'alleanza restano il re dei Vandali Trasamondo, nemico giurato di Teodorico, e l'imperatore d'oriente Zenone, il quale teme che ad una coalizione celto-germanica potrebbe venire in mente di partire alla conquista di Costantinopoli. Il trattato entra immediatamente in vigore e così, quando un contingente bizantino sbarca in Puglia perché Zenone tenta di mostrare i muscoli ai suoi tre nemici, Artù invia subito un corpo di spedizione guidato da Lancillotto in aiuto di Teodorico. Il prestigio assunto da Artù dopo le sue leggendarie imprese spinge papa Simmaco ad incoronare Artù imperatore d'occidente; il Gran Re dei Britanni tuttavia è poco interessato a questo titolo, a differenza di Carlo Magno lo considera puramente onorifico, ed anzi riparte subito per la sua isola, dove gli è giunta notizia che Morgana sta tessendo un complotto alle sue spalle per rovesciarlo ed imporre come sovrano il marito Lot. Morgana riesce ad ottenere il perdono di Artù e, sempre secondo la leggenda, ha un rapporto incestuoso con lui dal quale nasce un figlio, Mordret. In seguito ad un secondo complotto contro di lui da parte della sorellastra, tuttavia, Artù la farà definitivamente incarcerare e decapitare nel 506. La sua fama di persona malvagia e senza scrupoli, forse in parte immeritata, farà sì che il popolo trasformi la sua figura in quella di una crudele fattucchiera, dedita a riti satanici e a losche trame contro il Gran Regno e contro la fede cristiana, tanto che Morgana viene creduta sopravvissuta al capestro e resa immortale grazie alle astuzie del demonio. A creare questo spaventevole alone di leggenda contribuisce Merlino, il quale proprio in quegli anni scompare nel nulla, dopo aver detto addio al suo sovrano ed essere partito per l'isola di Avalon, dove però nessuno riuscirà mai più a rintracciarlo. Il popolino credulone ritiene che egli sia stato imprigionato negli abissi da una rediviva Morgana, oppure che si sia sacrificato in una lotta con lei all'ultimo sangue, ma la sorte del saggio incantatore resta un autentico mistero.

L'Europa barbarica nel 501 d.C., disegno dell'autore

A partire dalla sparizione di Merlino comincia il secondo periodo del regno di Artù: la vera e propria saga dei cavalieri della Tavola Rotonda, che compiono imprese clamorose in ogni parte del mondo mentre il Gran Re non si muove più dalla Britannia, assorbito dalle cure del regno. L'eroe per eccellenza di questa saga é sicuramente Lancillotto del Lago. Ha 21 anni in meno di Artù, essendo nato nel 479 da Re Ban di Benoic e da Elena, detta la regina dei Grandi Dolori per le sofferenze che ha dovuto sopportare nella propria vita, dalla strage della sua famiglia ad opera dei Franchi, fino alla perdita dell'unico figlio. Infatti quando Lancillotto ha solo pochi mesi Ban deve affrontare un tentativo da parte di Clodoveo di annettersi la Piccola Bretagna, ed Elena si trova costretta alla fuga; lasciato per breve tempo sulla sponda del Lago Incantato, secondo la tradizione il bimbo viene rapito da Viviana, la Signora del Lago, che si dice abitasse in un castello subacqueo; Elena non regge al colpo e muore di dolore. Invece il Lago altro non è che un mare di nebbie, nella cui valle, protetta dalle brume e dalla cattiva fama, vive l'Incantatrice, famosa anche per i suoi amori con Merlino. Lancillotto ha comunque 18 anni quando Viviana lo riporta a Benoic da suo padre e lo fa investire cavaliere, in tempo per partecipare alla guerra contro gli odiati Franchi ed alla spedizione in Italia. Alla morte di Artù, avrà 54 anni. Epiche le imprese da lui compiute ed ingigantite dalla tradizione; tra queste ricordiamo:

a) il salvataggio del Gran Regno dall'invasione delle armate di Galeotto, signore delle Isole Lontane (identificabili con l'arcipelago danese), e la conquista dell'amicizia di lui, tanto che è Galeotto a mediare il primo incontro di Lancillotto con Ginevra (forse tale tradizione adombra un tentativo di invasione da parte dei Danesi, concluso felicemente con un matrimonio pacificatore);

b) la sua lunga prigionia nel Castello delle Pulzelle, di cui sconfigge poi la perfida regina, liberando i cavalieri che vi sono proditoriamente rinchiusi nell'oblio del mondo (forse la sconfitta di una tribù di Pitti a conduzione matriarcale);

c) l'avventura che ispirerà il celeberrimo romanzo "Il Cavaliere della Carretta", in cui si umilia per cortesia fino al punto di permettere di essere portato in giro legato su di una carretta, come si conviene ai felloni senza onore (impossibile rintracciare il nucleo storico alla base di quest'evento);

d) la celeberrima tresca con Ginevra, la sterile moglie di re Artù. Le cose vanno più o meno così: mentre Artù è impegnato in una battuta di caccia, Meleagant il Fellone rapisce Ginevra e pretende di sposarla per poter avanzare pretese sul Gran Regno, affermando di essere il discendente di altri Gran Re preromani. Lancillotto la libera dal castello di Meleagant, ma tra loro due nasce la passione. Entrambi sono divisi tra la fedeltà al loro re e l'amore reciproco, così si limitano ad un rapporto platonico (a quei tempi ogni cavaliere aveva la sua dama), ma nel 535 Mordret rivela al re la tresca, ed Artù ordina il loro arresto. Lancillotto fugge, ma Ginevra è catturata e condannata al rogo. È già legata alla pira quando Lancillotto irrompe sulla piazza con i suoi soldati, uccide Galvano in duello, libera Ginevra e la porta con sé nel suo regno in Armonica. Qui però Ginevra sceglie di ritirarsi in convento per fare ammenda dei propri peccati, e dunque la Tavola Rotonda ha cessato di esistere per un peccato che non è mai stato né sarà mai consumato: tragico scherzo del destino.

Certamente però, la più avventurosa tra tutte le epopee legate in qualche modo alla leggendaria figura di Artù resta quella legata al nome del prode Galahad ed alla ricerca del Sacro Graal, il calice in cui Gesù istituì il sacramento dell'Eucaristia la sera dell'Ultima Cena, e che fu poi usato dal pio Giuseppe d'Arimatea per raccoglierne il Preziosissimo Sangue stillante dalla Croce. Secondo una leggenda molto diffusa nell'isola, era stato lo stesso San Giuseppe d'Arimatea a portare il sacro vaso dalla Palestina nella Britannia, attraverso mille peripezie, mentre suo figlio Alano il Grosso aveva costruito il castello di Crobenic, d'intesa con re Nascien, da lui stesso convertito dopo essere stato miracolosamente guarito dalla lebbra al solo contatto con il Graal. Proprio da Nascien discende re Pelles, signore di Crobenic e custode del Graal, il quale inganna Lancillotto, partito alla ricerca del Sacro Vaso, convincendolo a giacere con sua figlia Elaine, detta « la portatrice del Graal » perché nelle cerimonie religiose era solita portare il Graal in processione reggendolo sopra la testa; da tale rapporto amoroso nasce per l'appunto Galahad, destinato a diventare il « cavaliere senza macchia e senza paura ». Come conseguenza, secondo la leggenda Pelles viene punito perché perde il regno, e sua figlia non può più portare il Graal, che da allora viene portato da mani invisibili; Lancillotto invece, non essendo più « senza macchia », perde la possibilità di conquistare il Graal, e può guardarlo solo attraverso un velo. In realtà il Graal era il calice in cui il sacerdote druidico, durante le solenni cerimonie religiose nella Britannia preromana, raccoglieva il sangue delle vittime sacrificate sull'altare. Com'è noto, il Cristianesimo non ha mai cancellato con un colpo di spugna le tradizioni preesistenti, ma si è integrato con esse, come testimonia la data del 25 dicembre, che nell'antica Roma segnava la festa dedicata al dio Sole, e per i cristiani divenne la festa della nascita del nuovo Sole, Gesù Cristo. Così l'antico calice della religione sciamanica era stato sì conservato, ma la tradizione ne aveva fatto il calice dove era stato raccolto il sangue della vittima per eccellenza, il Salvatore dell'umanità. Probabilmente Giuseppe d'Arimatea si trasferisce realmente in Britannia, dove tenta la prima evangelizzazione dell'isola, e Nascine è il primo sacerdote druidico ad accettare il sincretismo tra la vecchia e la nuova religione. Dunque Elaine è l'ultima discendente di una schiatta di sacerdoti di questa religione « mista », che adora Cristo attraverso i simboli dell'antica religione; e sappiamo che giacere con la sacerdotessa o « prostituta sacra » è una delle caratteristiche della religione sciamanica, visto che era praticato anche nella Palestina preisraelitica, perché i profeti si scagliano ripetutamente e terribilmente contro questa pratica. Ad essa non si sottrae neppure Lancillotto, che così concepisce un nuovo « druido cristiano », Galahad appunto. Ciò avviene probabilmente nel 515, quando Lancillotto ha 36 anni.

Come suo padre, Galahad viene allevato da Viviana nella roccaforte del Lago, essendo Elaine morta prematuramente e sepolta in una tomba ancor oggi mostrata ai turisti, sulla costa della piccola Bretagna (dentro i confini, dunque, del regno di Lancillotto); il giovane cavaliere viene presentato da Viviana alla corte di Artù all'età di 19 anni, e muore a soli 21 anni in Terrasanta, dove si è recato alla ricerca del Graal, nell'anno 536. Sempre secondo la tradizione, tale decesso avviene nella città di Sarras, dopo aver guardato dentro il Graal, dove ha potuto vedere la Ragione, il Principio e la Fine di tutte le cose. Che la storia sia stata deformata dal mito ce lo dice il fatto che da Sarras discenderebbe il nome Saraceni, in un'epoca (quella dei regni romano-barbarici) in cui i Saraceni e l'Islam non esistevano ancora. In realtà il Graal rimane in Britannia, e solo per giustificare il fatto che se ne sono perse le tracce, verrà inventata la leggenda secondo cui lo spirito beato di Giuseppe d'Arimatea lo avrebbe portato con sé in Paradiso assieme all'anima di Galahad. In realtà esso verrà distrutto dai Sassoni dopo la loro conversione al cattolicesimo, un po' perché simbolo pagano (si sa che i neofiti sono sempre degli integralisti), ed un po' perché parte dell'odiata cultura dei rivali celti.

Ed arriviamo così all'ultimo capitolo della saga, immortalato da sir Thomas Mallory ne « La morte d'Arthur ». Artù è infatti l'ultimo dei Grandi Re, giacché secondo la tradizione Ginevra non gli ha dato figli (questo sarebbe il prezzo pagato alla sua grandezza come sovrano); egli ha avuto bensì un figlio, Mordret, ma questi, approfittando del disordine in cui è caduto il regno dopo la ribellione di Lancillotto e la guerra tra i campioni della Tavola Rotonda, gli si ribella e cerca di rovesciarlo con un complotto. Infatti nel 537 Artù, che porta ancora in testa l'alloro di imperatore d'occidente, decide di rispondere all'appello dei romani che, schiacciati sotto la dittatura di Teodato, il quale ha fatto imprigionare e strangolare Amalasunta, sovrana legittima e figlia di Teodorico, morto nel 526, ne invocano l'intervento per liberarli e ripristinare l'antica repubblica romana. Nonostante abbia già 79 anni, Artù decide di partire per Roma, ma le sue navi hanno appena lasciato la Cornovaglia, che Mordret ed i baroni suoi alleati, decisi a vendicare Morgana, occupano il regno imprigionando tutti i cortigiani. Artù torna indietro e si scontra con l'esercito del figlio a Camlann, oggi Camelford, il 17 luglio del 537 d.C. Lì padre e figlio si uccidono a vicenda. Per ordine di Artù, Excalibur viene gettata in mare affinché nessuno possa rivendicare legittimamente il Gran Trono. Lancillotto prende il comando delle operazioni belliche e sconfigge i ribelli, ma non riesce a farsi riconoscere Gran Re, perché subito si scatena una violenta guerra civile per la successione. I Sassoni ne approfittano per riconquistare l'indipendenza, i Franchi pure (anzi, inizia la loro irresistibile ascesa), e l'impero di alleanze e di vassallaggi creato da Artù sul continente, come era accaduto a quello di Alessandro e come accadrà a quelli di Tamerlano e di Napoleone, si sfascia senza lasciare alcuna traccia. Al gran regno di Britannia succede il più modesto Regno di Galles, ultimo ridotto dei celti contro lo strapotere dei Sassoni, che riescono ad instaurare il loro predominio sulla Britannia con la nascita dell'Eptarchia, i « Sette Regni », poi unificati dal Wessex nel nono secolo. Tale predominio durerà incontrastato fino alla battaglia di Hastings nel 1066, e all'arrivo delle truppe normanne di Guglielmo il Conquistatore.

E dei protagonisti dell'epopea arturiana, che ne è? Keu è già morto da alcuni anni, Galvano è caduto in battaglia contro Lancillotto, Ginevra si è ritirata in convento dove muore in odore di santità, Galahad è caduto nella cerca del Graal, mentre Lancillotto, dopo aver vendicato la morte di Artù cui é rimasto sempre fedele, a dispetto dei tradimenti amorosi, si ritirerà in un convento sconosciuto, l'eremo di Saumar, dove vivrà monaco fino a 90 anni, si dice come premio per la sua conversione alla vita contemplativa: morirà dunque nel 569, e farà in tempo a vedere la Britannia spartita fra i sette regni sassoni. Piuttosto, che Artù, dopo 79 anni di vita, non abbia mai avuto neppure un erede, non è credibile: probabilmente ne aveva uno stuolo. E allora, come mai la tradizione non ne fa cenno? La risposta è semplice. Questi figli furono indegni del padre, o perché si schierarono con Mordret, o perché dopo la morte di Artù guerreggiarono tra loro all'ultimo sangue per accaparrarsi il trono, lasciando così campo libero ai conquistatori Sassoni, che distrussero il Gran Regno calpestandolo sotto gli stivali. E così, la tradizione li ha scartati, facendo cenno al solo Mordret per metterne in risalto la fellonia, ed ha esagerato le gesta dei cavalieri della Tavola Rotonda, i veri « figli spirituali » del Pendragon, oscurando le imprese dei figli legittimi di Artù. Ma, come fa notare Montanelli nella sua « Storia di Roma », gli eroi spuntano solo negli eserciti battuti, per cercare di mettere in ombra la sconfitta ed esaltare le imprese dei singoli a discapito della rotta generale. Gli eserciti vittoriosi non hanno bisogno di eroi, ed infatti Giulio Cesare nei suoi Commentarii non ne cita nessuno. Ma, sorprendentemente, è proprio l'indegnità dei figli carnali di Artù a farci pervenire un'epopea così splendida: non avendo avuto un seguito, l'impero dei Britanni resta nella fantasia come modello di un'epoca felice e splendida, segnata dalle imprese cavalleresche di personaggi indimenticabili, ben degni di dare compimento alla profezia secondo cui quello di Artù sarebbe stato il solo ed unico Regno dell'Estate.

E tale esso resta anche agli occhi di noi, uomini del XXI secolo, perché le leggende, a differenza degli uomini e dei regni, non muoiono mai.

William Riker

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Stimolato da questa lettura, anche Alessio Mammarella ha voluto proporre la seguente discussione:

E se Re Artù fosse...

Valentiniano III?
Lo so, la figura di Re Artù la associamo immediatamente alla Britannia, e quindi è fra i personaggi di quel paese che cerchiamo chi possa essere il leggendario sovrano. Proprio non pensiamo che possa essere stato un Imperatore romano. Vi presento qui una serie di elementi che ho raccolto ultimamente.

Costantino III e Costante II
Tutto nasce dallo scoprire (nel quadro di un approfondimento sulla storia degli usurpatori nel Tardo Impero) che l'usurpatore Costantino III, vissuto all'inizio del V secolo sia considerato uno dei re leggendari della Britannia. Costante II, che era suo figlio, viene menzionato e la sua figura "leggendaria" sembra corrispondere in vari dettagli al Costante "reale", ad esempio di ambedue le figure si riporta che avessero abbracciato la vita religiosa, poi interrotta per seguire il padre e le sue ambizioni.

Geronzio (Vortigern?) e Costanzo III (Uther?)
Secondo la leggenda, Costante fu assassinato a tradimento dal perfido Vortigern poi eliminato per volere di Uther Pendragon. Il Costante reale fu assassinato in Gallia dal generale Geronzio (pare almeno all'inizio alleato di Costantino) che morì suicida mentre la sua casa veniva data alle fiamme dagli uomini di Flavio Costanzo (poi Augusto col nome di Costanzo III). Nel film "L'ultima legione" tratto dall'omonimo romanzo di Manfredi, si vede per esempio Vortigern morire più o meno allo stesso modo, tra le fiamme.

Igraine (Galla Placidia?) e Ataulfo (il Duca di Cornovaglia?)
Parte della leggenda arturiana fra le più note, Uther Pendragon fece assassinare il Duca di Cornovaglia e nel sposò la moglie Igraine. Se abbiamo individuato in Costanzo III il valoroso Uther, non possiamo non notare che sposò Galla Placidia subito dopo la morte del re visigoto Ataulfo.

Valentiniano III (Artu?) e sua sorella Onoria (Morgana?)
Valentiniano III ed Artù restano orfani presto, ma poi le loro esistenze sembrano diverse: Valentiniano cresce a corte, non con una famiglia comune. Tuttavia, quest'ultimo potrebbe essere anche un artificio narrativo (per accostare la figura di Artù a quella del biblico Davide). Sua sorella Onoria era, proprio come Morgana, un personaggio pericoloso. Dopo aver avuto una relazione illegittima, con un figlio del quale non si è mai saputo nulla, Onoria chiese aiuto ad Attila, provocando una guerra fra lui e Valentiniano.

Licinia Eudossia (Ginevra?), Flavio Ezio (Lancillotto?), Gaudenzio (Galahad?)
Se Valentiniano fosse Artù, sua moglie Licinia Eudossia sarebbe Ginevra. Le cronache non riportano notizie sulla vita privata della coppia imperiale, non si parla di presunte infedeltà. Esisteva, tuttavia un condottiero a corte che surclassava lo stesso Augusto, ed era chiaramente Flavio Ezio. Ambizioso, abile stratega, "uomo di mondo"... non ci sono ragioni per cui il generale non avrebbe potuto essere un amante dell'imperatrice, e forse questo potrebbe spiegare ancora meglio la rapidità con cui Valentiniano si liberò di lui dopo aver allontanato il pericolo rappresentato da Attila. Peraltro, secondo la leggenda Lancillotto aveva un figlio di nome Galahad, uno dei migliori cavalieri della Tavola Rotonda. Durante la ricerca del Graal, Galahad scomparve. Ebbene, Ezio aveva un figlio di nome Gaudenzio, che insisteva per fidanzare con la figlia dell'Imperatore Valentiniano. Dopo la morte di Ezio, Gaudenzio non fu toccato, ma poi, nel successivo saccheggio di Roma da parte dei Vandali, fu rapito e di lui si persero le tracce.

Pelagia (Elaine?)
Pelagia, moglie di Flavio Ezio e madre di Gaudenzio, era di origine visigotica. Nella leggenda arturiana, Lancillotto sposa una delle figlie del Duca di Cornovaglia (quindi un'altra sorella di Artù e Morgana). Se il Duca di Cornovaglia fosse Ataulfo, re dei Visigoti, anche in questo personaggio del tutto secondario c'è una corrispondenza.

Clodione (Claudas?) e Meroveo (Claudin?)
Al di fuori del "core" incentrato su Artù, le leggende arturiane parlano anche della Gallia, e in particolare della lotta di Lancillotto ed altri cavalieri contro Claudas. Ecco, qui potremmo avere un'altra conferma della corrispondenza Lancillotto-Flavio Ezio, perché quest'ultimo era inizialmente Magister Militum Galliae e si batté probabilmente contro Clodione, capo tribale (forse non ancora re vero e proprio) dei franchi. Nella leggenda si dice che il figlio di questi Claudas, Claudin, divenne un cavaliere pio e valoroso. Potrebbe essere Meroveo, padre del famoso Clodoveo e fondatore dell'omonima dinastia.

Petronio Massimo (Mordred?) e Maggioriano (Parsifal?)
Il cattivo della saga arturiana è Mordred, che però in alcuni casi viene descritto come guerriero, in altri casi come cortigiano infedele. Fatto sta che Mordred causa la morte di Artù, e quindi se Artù fosse Valentiniano, Mordred non potrebbe che essere Petronio, senatore che dapprima convinse Valentiniano ad eliminare Ezio (compatibile con lo "scandalo" del tradimento svelato di Lancillotto e Ginevra) e poi due unni devoti verso il generale a vendicarsi assassinando l'Imperatore. Dunque il "peccato" di Valentiniano/Artù sarebbe stato quello di assassinare il suo più grande generale Ezio/Lancillotto per una questione di gelosia e su istigazione del perfino Petronio/Mordred.
Ecco, a differenza della leggenda, Petronio sopravvive ai suoi nemici ma per pochissimo: i vandali arrivano dall'Africa a saccheggiare Roma ormai indifesa (le congiure hanno determinato un terribile vuoto di potere) e Petronio, mentre fugge dalla città, viene centrato da una sassaiola. Muore lapidato, dunque, come un empio.
A questo punto l'ultimo personaggio importante che manca all'appello è Parsifal, e io credo che potremmo relazionare questa figura a quella di Maggioriano. Come il leggendario Parsifal, Maggioriano si suda la reputazione sul campo, e questo lo porterà un giorno ad essere Augusto. Questo però accadrà dopo e non sarà raccontato dalla leggenda arturiana, che si conclude nel momento di massima desolazione.

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Riepilogando (provo a ricostruire l'intera vicenda usando in nomi "presunti reali" invece di quelli arturiani.
Costantino si ribella all'imbelle Onorio, e dopo aver assunto il controllo della Britannia arriva in Gallia. Il figlio Costante, che viveva in un monastero, viene richiamato dal padre per seguirlo e sostenerlo. Nelle complesse vicende che seguono (i rapporti tra Costantino ed Onorio sono altalenanti, perché sono gli anni della guerra contro Alarico con il drammatico epilogo del sacco di Roma), Costantino muore ed il valoroso Flavio Costanzo inizia a riprendere il controllo della Gallia. Nel farlo deve occuparsi anche dei barbari che hanno appena superato il limer renano. Per questa ragione combatte contro Clodione. Nel frattempo, l'ambizioso Gaudenzio assedia Costante, lo cattura e lo mette a morte.
Gaudenzio s'insedia tra l'Aquitania e la Spagna, ma deve vedersela sia con i barbari invasori sia con le forze legittime guidate da Flavio Costanzo. Gaudenzio viene infine catturato e muore. Flavio Costanzo torna in patria con la fama di grande condottiero, e riporta indietro anche Galla Placidia, sorella dell'Imperatore Onorio che durante il sacco di Roma era stata rapita ed era poi diventata la moglie del re visigoto Ataulfo. Dall'unione tra Flavio Costanzo (che prende il nome di Costanzo III e viene associato ad Onorio sul trono) e Galla Placidia nascono Onoria e poi Valentiniano, futuro Imperatore.
Costanzo III muore ancora giovane, e quindi la successione al trono per il Valentiniano, ancora infante, non è affatto automatica. Il giovane si trasferisce a Costantinopoli ed attende che un altro Imperatore successo a suo padre venga deposto in suo favore. Tornato in Italia, Valentiniano deve scendere a compromessi con il braccio destro del predecessore, Flavio Ezio. Quest'ultimo entra a corte e diventa ben presto egemone per le sue indubbie capacità. Combatte in Gallia (anche lui contro Clodione) e poi, forse, diventa amante della regina Licinia Eudossia, scelta da Valentiniano come moglie.
Il problema principale per Valentiniano però non è il fatto che il valente generale lo surclassi in pubblico ed in privato, (elemento forse ripreso poi anche in ambito "nordico" con la storia di Sigfrido e Gunther? Certo che se Sigfrido fosse ispirato a Flavio Ezio...) bensì sua sorella Onoria, che dapprima dà scandalo a corte e poi addirittura fomenta un'invasione da parte del barbaro Attila. In ogni caso, Valentiniano ed Ezio riescono a superare la minaccia. Tra le schiere dell'esercito romano comincia intanto a farsi luce anche il giovane Maggioriano.
Sembra che Roma sia pronta a tornare quella di un tempo, ma a quel punto l'ambizioso senatore Petronio svela il tradimento di Ezio e Licinia. A questo punto Valentiniano si lascia prendere dall'istinto di vendetta e, frase citata anche sui libri di storia "con la mano sinistra si tagliò la destra". Questo proprio quando l'ambizioso Ezio stava cercando di convincerlo a far sposare i rispettivi figli, così che suo figlio Gaudenzio diventasse erede di Valentiniano. La situazione degenera, come in una tragedia shakesperiana: due unni fedelissimi di Ezio vendicano il loro vecchio comandante assassinando Valentiniano, e Petronio arriverà ad essere Imperatore ma solo per una manciata di giorni prima di essere lapidato dal popolo infuriato, alla vigilia del saccheggio da parte dei vandali.

Ecco, questa potrebbe essere la radice storica delle leggende arturiane, alle quali però dovremmo aggiungere tutti i personaggi magici (non vediamo ad esempio i personaggi di Merlino e della Dama del Lago, che potrebbero anche essere ispirati a personaggi reali, ma non "pubblici" come nel caso di sovrani, condottieri, regine). Mancano anche oggetti come Excalibur ed il Graal (che potrebbero essere stati aggiunti in seguito per colorare la storia).
Su Excalibur, direi che sia un simbolo dell'alleanza tra Ezio e Valentiniano. Nella leggenda, infatti, sia Lancillotto sia la spada sono legate alla figura della Dama del Lago. Forse la leggenda è una metafora del fatto che Ezio mise la sua capacità di combattimento a disposizione di Valentiniano, seppure lui fosse superiore ed avrebbe meritato il potere più di Valentiniano. Ma quest'ultimo era Imperatore perché figlio del valoroso Costanzo III: dunque la spada (ossia il potere) spettava a lui per diritto dinastico e non a Ezio, il quale del resto non aveva un cuore sufficientemente puro e dunque non sarebbe stato un re migliore per la sola capacità guerresca.
Più complicato capire cosa rappresentasse il Graal, forse qui c'entra la chiesa, che finora non abbiamo nominato. Il Graal è una reliquia che compie miracoli, e in quegli anni il "miracolo" fu la scelta di Attila (flagello di Dio) di ritirarsi dall'Italia. Ciò avvenne per l'appunto poco tempo prima che la storia che stiamo considerando arrivasse al suo epilogo. Forse la ricerca ed il ritrovamento del Graal sono una metafora della guerra contro Attila, che per i contemporanei avrebbe potuto assumere toni apocalittici. Dunque la ritirata di Attila viene addotta al prodigioso rinvenimento del Graal, solo che gli uomini non hanno un cuore puro e dunque, nonostante quel miracolo, tutto è andato ugualmente a rotoli. Il Graal aveva potuto salvare Roma da Attila ma non dall'ambizione di Ezio, dalla gelosia di Valentiniano, dagli intrighi di Petronio. E se fosse banalmente questo il messaggio?

Nota: Quello che ho pensato io è che quel tronco di storia, nel quale si conclude l'ultima dinastia dell'Impero d'Occidente (e lo stesso Flavio Ezio è stato da qualcuno chiamato "l'ultimo condottiero romano") sia rimasto nella memoria perché ha tutti gli ingredienti che hanno reso celebre anche la storia della guerra di Troia: amore, guerre, tradimenti... Chiaramente coloro che hanno tramandato questa storia oralmente l'hanno "localizzata", dunque un Imperatore romano è diventato il re dei britanni, i nomi sono stati tutti "celtizzati" e sono stati innestati nella storia degli elementi magici per renderla più affascinante. E' rimasto qualche riferimento ai franchi (leggero e secondario rispetto alla storia principale) mentre sono spariti del tutto quelli a visigoti, romani, unni. In particolare non esiste in questi racconti la figura di Attila, che, se la mia intuizione fosse giusta, sarebbe stato smaterializzato diventando la carestia/malattia di Artù che può essere guarita solo con il Graal. Scelta narrativa completamente diversa rispetto alle saghe nordiche, dove Attila è presente. Questo può dipendere molto dal punto di vista locale. In Armorica e Britannia di Attila era arrivata solo la fama, mentre i germani avevano conosciuto direttamente il condottiero unno.

Alessio Mammarella

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Dario Carcano ha voluto dire la sua in proposito:

Innanzitutto, uno dei motivi per cui questo dibattito è così vivace e da decenni infiamma gli storici britannici è che non si sa quasi niente su ciò che è successo in Britannia dopo la partenza dei romani, e non si sa nemmeno come e perché i romani, a un certo punto all'inizio del V secolo, abbiano deciso di abbandonare la Britannia e se sia stato davvero un abbandono.

Peter Heather nella sua opera sulla fine dell'Impero Romano d'Occidente, di cui non raccomanderò mai a sufficienza la lettura, si azzarda a fare un interessante parallelo tra la Britannia e un'altra regione periferica e relativamente isolata dell'Impero, il Norico. Secondo Heather, l'osservazione di come nel Norico il potere imperiale si sia eclissato attraverso lo studio di un opera più o meno contemporanea ai fatti, la vita di San Severino Abate scritta all'inizio del VI secolo dall'abate Eugippio, può fornire delle indicazioni su cosa sia successo in Britannia dopo la partenza dei romani.

I limitanei di frontiera, una volta che smisero di arrivare i soldi delle loro paghe, si riciclarono nelle milizie cittadine che le città romane della zona organizzavano per difendersi. Proprietari terrieri abbastanza ricchi per permetterselo formarono degli eserciti privati, arruolando gruppi di ex soldati romani e/o bande di mercenari germani, e fortificarono le proprie proprietà (creando quelli che nella moderna Austria sono chiamati Fliehburgen). In tutto questo, le comunità romane erano intenzionate a restare romane e continuare a vivere come romani; uno sforzo che però aveva probabilità di successo molto basse, perché nel territorio non c'era quell'élite di grandi proprietari terrieri che poteva esigere la protezione di ciò che restava dell'Impero, o usare le proprie risorse economiche per trovare un accordo di lungo termine coi sovrani germani, come invece avvenne in Gallia e in Spagna.

"Fino al 400 circa la potenza militare dell'Impero Romano aveva protetto l'area tra le Alpi e il Danubio, escludendone con determinazione le forze stanziate a nord del fiume. Ma quando esso si dissolse la regione non poté continuare a esistere come unità autonoma capace di reggersi da sola e la sua popolazione divenne una potenziale risorsa per i soggetti politici che agivano quello scenario. Gli insediamenti del Norico non avrebbero conservato per sempre la propria indipendenza (nemmeno grazie ai Fliehburgen); anche gli schemi più consolidati della vita provinciale romana erano condannati a sparire, vuoi con la violenza, vuoi con forme di reinsediamento meno aggressive.
Tutto ciò avvenne in un lasso di tempo piuttosto lungo. San Severino morì il 5 gennaio del 482, e in quel momento c'erano ancora varie città romane lungo la linea del Danubio; ma molte altre erano cadute e nuove forze erano al lavoro per trasformare l'intera regione in un mondo sostanzialmente non romano. Stando così le cose, quello del Norico può essere considerato un caso da manuale: una sorta di modello per ciò che accadde alla romanitas locale in tutte quelle zone in cui la presenza militare romana deperì lentamente per mancanza di fondi. I provinciali non erano affatto inermi e la romanitas non scomparve dalla sera alla mattina, ma lo stile di vita cui erano affezionati dipendeva dalla continuità del flusso di potere che, emanato dal centro dell'Impero, continuava a manifestarsi fin dentro alle loro esistenze locali: quando questo si interruppe definitivamente, anche il vecchio stile di vita fu condannato all'estinzione. Il Norico dunque è un modello plausibile per comprendere anche ciò che accadde in Britannia, dove un'altra popolazione subromana lottò a lungo per sopravvivere senza senza ricevere aiuto dal centro imperiale, utilizzando in un primo momento quelle stesse bande armate di germani che poi dovette combattere. Tutto ciò non accadde in un giorno solo, ma alla fine le ville e le città romane furono distrutte e la popolazione costretta a servire i nuovi padroni: non più gli imperatori d'Italia, ma nel Norico i Rugi (quando i locali non erano rapiti e deportati altrove) e in Britannia i vari sovrani Anglosassoni."
(Peter Heather, La caduta dell'Impero romano, p. 498)

Tornando all'argomento principale della discussione, secondo me Re Artù è una figura originatasi da quel processo che nella psicologia dei sogni e nella psicoanalisi si chiama condensazione. Una condensazione in cui figure diverse della Britannia romana e postromana si sono fuse in un'unica figura dai caratteri leggendari: ai racconti orali ispirati alle gesta dell'ufficiale di cavalleria Lucio Artorio Casto, comandante di un'ala di cavalleria sarmata attivo nella Britannia del II secolo, si sarebbero unite nel corso dei secoli le storie popolari sull'usurpatore Magno Massimo, che sbarcò in Gallia dove sconfisse e uccise l'imperatore Graziano, e su Ambrosio Aureliano, capo romano-britanno vissuto nel V secolo citato da Gildas nel "De Excidio Britanniae", oltre alle leggende e ai racconti orali su altri imperatori e generali romani del IV secolo e capi romano-britanni del V secolo; forse ha contribuito al mito anche Costantino I, che (non dimentichiamolo) era figlio illegittimo di suo padre ed è stato acclamato imperatore a Eboracum (la moderna York). Queste storie orali, tutte incentrate sulla figura di un grande capo romano, nel corso dei secoli si sarebbero fuse in un racconto organico su un'unica figura, Re Artù e i suoi cavalieri, fino a quando nel XII secolo Goffredo di Monmouth mette per iscritto questa leggenda fissandola nella forma che conosciamo oggi.

Quindi secondo me non è esistita una sola figura storica identificabile come Re Artù, ma piuttosto sono esistite molte figure storiche le cui gesta hanno contribuito a plasmare il mito arturiano nella forma che conosciamo oggi.

Questo processo che ho descritto non è niente di particolarmente eccezionale se si conosce la facilità con cui le storie orali si possono corrompere nel tempo, e faccio su questo un esempio molto più recente, ossia la leggenda della corsa di Staten Island e come è stata smontata dallo youtuber CGP Grey.

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Tommaso obietta:

Non sono d'accordo con voi. Il regno di Re Artù non fu affatto un mito. Un po' più travagliato di quanto dicano le leggende, ma tutto sommato un età dell'oro...

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Invece Lord Wilmore si mostra d'accordo con Dario:

Re Artù, come narrato da Chrétien de Troyes, è un personaggio da romanzo come Aragorn. Ogni cenno storico che parla di lui è posteriore di secoli alla presunta epoca del suo regno. Siccome non sappiamo quasi nulla della Britannia dopo la ritirata delle legioni romane, il sospetto è che qualcuno, forse al tempo di Edoardo II, abbia fuso tra loro alcune figure storicamente accertabili (Lucio Artorio Casto, Carausio, Magno Massimo, Ambrosio Aureliano, Riotamo, alcuni re gallesi come Owain Ddantgwyn) con varie divinità celtiche dell'Età del Bronzo per riempire un vuoto e creare un mito fondativo della nazione inglese, analogamente a Clodoveo per i Franchi, Sigfrido per i Norreni e Alboino per i Longobardi. Come per Mosè, Giosuè, Romolo, Licurgo e altri leggendari fondatori, dunque, sono esistiti MOLTI Artù poi confluiti in un'unica figura mitologica, nessuno dei quali però ha compiuto le imprese che gli attribuisce Sir Thomas Mallory (Ginevra, Lancillotto, la Spada nella Roccia e il Santo Graal non ci sono in Goffredo di Monmouth, e sono tutti prodotti della fervida fantasia di Chrétien de Troyes). L'unico pesonaggio certamente storico della saga è, paradossalmente, Tristano, essendo citato anche nel Mabinogion e in altre opere del folklore gallese con il nome di Drystan.

Insomma, temo che lo splendido regno di Re Artù altro non sia che un mito, esattamente come l'età vittoriana, la "Fēlīx Ăustrĭă", i favolosi anni sessanta, e così via, tutte idealizzazioni legate al bias del "come si stava bene ai vecchi tempi!" Basta infatti leggere i romanzi di Dickens, o studiare in quale ambiente degradato maturarono i turpi delitti di Jack the Ripper (nel quartiere londinese di Whitechapel, a poche miglia dal Centro del Mondo di allora, non nel cuore dell'Afmazzonia o tra gli antropofagi delle isole Andamane), per rendersi conto che l'aggettivo "Fēlīx" si riferisce purtroppo sempre a una ristretta élite di privilegiati, che considerano i poveri e gli emarginati niente più che persone nate con un DNA imperfetto o, peggio, peccatori (o eredi di chissà quale peccato dei loro antenati), destinati per questo a finire all'inferno senza speranza di redenzione...

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Ed ecco naturalmente il parere del nostro esperto Bhrihskwobhloukstroy sull'effettiva storicità della saga di cui abbiamo parlato in questa ucronia:

Dario si chiede se la figura di re Artù è storica, domanda a proposito della quale Lord Wilmore ha dato una risposta categorica. In generale, sulla storicità dei fatti e personaggi epici o leggendarî cerco di tenere un atteggiamento pluralista e massimalista:

- pluralista in quanto non rifiuto nessuna identificazione concreta (limitandomi ad aggiustare - a volta purtroppo dalle fondamenta - le argomentazioni linguistiche, che spesso sono francamente erronee);
- massimalista in quanto cerco di guadagnare alla storia il più possibile della materia epica o leggendaria.

Nel caso di Re Artù, quindi, al momento mi sono costruito uno schema che prevede la confluenza di nove temi; in ordine cronologico di confluenza nella costituzione del Ciclo:

- uno celtico preistorico (il fondo mitologico dell'epica dei Britanni);
- uno storico romano-imperiale (il contingente alanico in Britannia Settentrionale, v. il testo di Howard Reid sotto consigliato);
- due storici tardoimperiali (Ambrogio Aureliano da un lato e la regalità tardobritannica dall'altro);
- due epici germanici (uno di mediazione anglosassone, l'altro - di inserimento più tardo - di matrice francone);
- uno iranico preistorico (la mitologia alanica delle Steppe, inserita secoli dopo dalla nobiltà franco-bretone di origine alanica tardoantica nel Continente, v. di nuovo Reid);
- uno gallico di mediazione galloromana inseritosi in Francia;
- uno classico, greco-micrasiatico (Arktorios), attestato nell'antichità e confluito per ultimo nella materia romanzesca.

Il primo, il quinto-sesto, il settimo, l'ottavo e il decimo tema sono a loro volta di origine in ultima analisi indoeuropea, e quindi confluiscono almeno in parte tra loro.

Per quanto riguarda l'onomastica, Artorio, lat. *Artorîus*, dal britannico *Artorîjos*, a sua volta trasformazione di *Artorîgios *"figlio, discendente di *Arto-rîxs*" (*Arto-rîxs *"re degli Orsi (= guerrieri)" o "re (protetto) dal (Dio-)Orso (totem)").

*Arthwr *è invece l'esito del britannico *Arto-wiros *"uomo degli orsi" o "uomo-orso", ma l'omofona forma *Arthwr *è anche l'esito di *Arkturos*, mutuato molto tardi (altrimenti suonerebbe †*Arthir*) attraverso il latino *Arctûrus* dal greco *Arktouros * "Boote, Guardiano dell'Orsa (Maggiore)".

*Uthr* (in britannico *ouktros*) significa terribile, in origine era epiteto di *Arthwr*, poi è stato interpretato come nome di suo padre (di quest'ultimo i testi più antichi non fanno menzione): *Uther *di per sé significa invece "superiore" (in britannico **Ouxteros*, da **Oup-tero-s*; il superlativo è *Oup-samo-s *> **Ouxsamos*) e *Pendragon* (in britannico *Penno-drakonos*), ovviamente, "che ha un serpente (drago) sulla testa", quindi *Uther Pendragon *suonava, all'epoca, **Ouxteros Pennodrakonos *e in latino sarebbe stato **Ucter(us) Pennodraconus*.

I cicli epici risalgono alla Preistoria remota e si ristrutturano continuamente, perdendo pezzi e riprendendone di nuovi rielaborati; la Guerra di Troia e le vicende del Tardoantico sono occasioni che fanno convergere brani già elaborati intorno a un nuovo episodio, più o meno come quando l’ennesimo Punto di Divergenza proposto suscita interventi già tante volte scritti e riscritti (perché non è che qualsiasi modifica trasformi l’intera Storia).

Ed ora, un minimo di bibliografia per chi voglia approfondire l'argomento.

Un classico è Myles Dillon - Nora C. Chadwick, "The Celtic Realms", London, Widenfeld and Nicolson, 1967 (xii, 346 p.).

In italiano è stato tradotto il molto innovativo Howard Reid, "Arthur the Dragon King", London, Headline Book Publilshing (A Division of Hodder Headline), 2001 ["La storia segreta di Re Artù. Le radici barbariche della più grande leggenda britannica" (I volti della storia 133), traduzione di Franco Ossola, Roma, Newton & Compton Editori, 2003 (242 p.), ISBN 88-8289-799-0].

In rete il meglio che abbia mai trovato è http://www.britannia.com/history/h12.html

La carta http://www.britannia.com/history/ebkmap.html è migliore di quelle sulle monografie a stampa.

Aggiungo che Martin Puhvel nel 1979 ha proposto che i due Orsi, Artù e Beowulf, siano in realtà un’unica figura; nel mio piccolo, aderisco a questa tesi e qualche anno fa ho avanzato l’ipotesi che tale figura fosse il Re di Atlantide contro Atene nella versione locale (dell’altro ‘schieramento’ ) della leggenda platonica.

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La parola torna a William Riker:

Nuovo parto dell'intelligenza artificiale applicata all'ucronia: Flavio Belisario, lasciata Costantinopoli in preda agli intrighi, si rifugia a Caer Mallot (alias Camelot) in Britannia e viene investito Cavaliere della Tavola Rotonda da Re Artù « per Dio, per San Giorgio e per San Michele ». In nome suo riconquisterà l'Impero Romano d'Occidente, e poi gli succederà sul trono. Che ne dite?

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Ecco il commento del solito Bhrihskwobhloukstroy:

Siccome la precisa cronologia è discriminante, interpreterei «gli intrighi» di Costantinopoli come un riferimento al 542 (anche perché più avanti sempre più si darebbe concretamente il caso che la riconquista dell’Impero Romano d’Occidente coinvolga Bisanzio fra gli Sconfitti (e non sono sicuro che questo aspetto fosse incluso nella proposta ucronica).

Già con Punto di Divergrenza nel 542 ci troviamo di fronte al dilemma se limitare la riconquista dell’Impero Romano d’Occidente ai soli Regni Romano-Germanici superstiti o anche alle parti (ri)conquistate dall’Impero Bizantino. Per intanto comincerei con la prima variante (senza quindi mai arrivare a uno scontro militare fra Belisario e Narsete), che si traduce – dopo l’indispensabile conquista di almeno sei Regni Anglo-Sassoni su sette (l’unica eccezione potrebbe essere la Bernicia) – in quella, come minimo, dei tre Franchi (Clotario I., Childeberto I. e Teodeberto I.), di quelli di Totila (Ostrogoti) e Teudi (Visigoti) nonché degli Svevi di Vermondo, eventualmente anche dei Gepidi di Elemondo.

Prima però di qualsiasi tentativo di sistemazione delle genealogie, che potrebbero variare da poco a moltissimo, mi pare che sia necessario un quadro delle lingue. Ciò che nel VI. secolo d.C. era ancora fluido era costituito (oltre all’Eptarchia Anglo-Sassone) di certo dalle regioni già romane lungo il Danubio e il Reno, dalle aree montuose (anzitutto Alpi e Pirenei, ma anche la Sila e l’Aspromonte, nel nostro caso non rilevanti, mentre potrebbero esserlo – in un certo senso al contrario – i Carpazi o se non altro le Alpi Transilvaniche) e con ogni probabilità anche da gran parte di quelle rurali in cui non avevano avuto luogo colonizzazioni latino-romane; nella Storia reale hanno prevalso in genere (e sul lungo periodo) la Germanizzazione o la Slavizzazione nelle fasce di ‘frontiera’, la Romanizzazione in quelle interne, mentre in questa ucronia la Celticità linguistica riceverebbe una nuova e potente linfa, forse anche ecclesiastico-liturgica (è chiaro che non basta un Belisario, oltretutto probabilmente plurilingue, per rendere [neo]latino il Regno Arturiano, anche se d’altra parte la Romanità persisterebbe di sicuro più di quanto ha fatto nei territorî in prosieguo di tempo ricompresi nel Regno di Germania, come la Valle della Mosella o il Bacino dell’Alto Reno e dell’Eno o Inn).

In pratica, mi pare assai verosimile che avremmo ampie o amplissime aree di continuità del gallico e altre lingue celtiche continentali (oserei dire addirittura che il bretone – in questo caso magari chiamato più volentieri “armoricano” – potrebbe risultare più continentale che insulare); naturalmente, le città resterebbero enclaves galloromanze (il reto-cisalpino sarebbe compattamente romancio-ladino o, nelle Alpi Occidentali e Marittime, provenzale).

Pressoché inevitabile sarebbe poi, se pensiamo che l’Impero Arturiano sopravviva (anzitutto all‘impatto degli Avari), la sottomissione – in ordine cronologico progressivo – degli Eruli, Longobardi, Turingi e infine Sassoni; mi chiedo se dopo un paio di secoli sia già da mettere in conto che Carlomagno (che, curiosamente, ha un significato anche in celtico: ‘pietra dura’, magari anche con l’accezione di ‘pietra prezios[issim]a’) come persona diventi Sovrano del – comunque da postulare – Sacro Romano Impero della Nazione Britannica e Gallesca (o Britogallesca). Sicuro è, in ogni caso, che il confine romano-arturiano in Cisalpina rappresenterebbe la linea di massima tensione geopolitica sul Continente (per i Britogalleschi anche il confine con gli Arabi in Spagna e, fra i due, le Isole Maggiori; per i Bizantini – dopo i Persiani – quello corrispondente nel Levante e in Africa).

Certo, il grande interrogativo rimane quello sulla tenuta dell’unità del Sacro Romano Impero della Nazione Britogallesca (nelle sue dimensioni così delineate; un continuo restringimento simile a quello bizantino – che però i soli Magiari non basterebbero a causare – sarebbe un po’ come annullare l’ucronia). Nell’incertezza, considero lecito indagare almeno la possibilità che l’Impero rimanga nel complesso unito, fosse anche attraverso fasi calanti e di nuovo ascendenti, secondo il modello e forse addirittura sulla precisa falsariga dei varî e sempre richiamati tentativi dagli Ottoni agli Svevi agli Asburgo (rischia ahimé di essere fin troppo noto, nella nostra microcerchia, che considero – come quasi unica alternativa al completo caos ucronico – le persone reali prevalenti sulle divergenze di lingua e a maggior ragione di nome: per esempio, non avrei timore a immaginare gli storici cugini Filippo II. e Massimiliano II., con qualsiasi nome si chiamassero, regnare regnare rispettivamente da Camuloduno sull’Impero Britogallesco d’Occidente e da *Grannodubra [Aquisgrana] su quello d’Oriente, fino alla loro incontrastata riunificazione dinastica entro un secolo e mezzo dopo).

Nell’ipotesi di un Impero Britogallesco che si conserva unito sul lungo periodo, non escluderei che quello Ottomano finisca per limitarsi stabilmente alle parti asiatica e africana dell’Impero che conosciamo dalla Storia vera, perché almeno Bisanzio potrebbe essere (ri)conquistata dall’Imperatore (omologo di) Quinto Carlo Massimo (o appena prima o dopo), al più tardi da emuli di Belisario come Wallenstein o Eugenio di Savoia; *Brancaleone Duboranda (‘Napoglione Buonaparte’?) sarebbe almeno terzo nella serie (con una Spedizione in Egitto?).

Purtroppo non si può evitare l’infame capitolo del Colonialismo. Temo che dobbiamo farci coraggio ad ammettere che il Sacro Romano Impero della Nazione Britogallesca sarebbe stato ferocemente colonialista, quanto le Potenze Atlantiche e la Russia messe insieme. Al più si può sperare che il vero e proprio popolamento rimanesse a livelli siberiani o ispanoamericani preottocenteschi, ma è ampiamente discutibile; comunque non vedo margini per una Decolonizzazione. I Continenti extraeuropei sarebbero oggi soprattutto immensi depositi di risorse naturali d’ogni tipo, con Colonie neoeuropee urbane lungo le Coste e per il resto, nella migliore delle ipotesi, migliaia – o, piuttosto, milioni – di Riserve Etniche.

Sempre senza (o prima di) aprire il Vaso di Pandora dell’alterazione delle genealogie, mi figurerei un regno magari lunghissimo di (qualcuno come) *Gallesco Giuseppe II. (dal 1923 al 2012, nel caso), seguìto poi – fino al giorno d’oggi compreso – dal figlio Carlo(magno) IX. È l’ipotesi semplice (a genealogie inalterate) e unitaria (la più facile): cos’altro ci dovremmo aspettare (e, se non l’avessi formulata io, chi l’avrebbe scritta)?

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Restituiamo la parola a Dario Carcano, che ha avuto quest'altra geniale idea:

Il regno di Deva

Deva Victrix, chiamata anche Legacaestir, ossia 'la Città delle legioni', fu il punto di partenza della riconquista romana - o meglio, romano-britanna - della Britannia contro gli Anglo-sassoni.
Deva era nata come castrum della Legio XX Valeria Victrix, al tempo del governatore Agricola per tenere sotto controllo i Cornovi che abitavano la regione. Nel corso dei secoli rimase una delle principali piazzeforti romane in Britannia, e fu la base della (presunta) conquista dell'Irlanda da parte di Agricola.
Questo fino alla fine del IV secolo, quando la caotica situazione politica dell'Impero fu causa di molti mutamenti.

L'usurpazione di Magno Massimo mise il comando della XX legione di fronte ad una scelta difficile: unirsi all'usurpatore nella guerra contro il legittimo imperatore, oppure restare fedeli a Graziano ma inimicarsi l'usurpatore?
Con molta abilità politica, il comando della XX legione riuscì a tenere il piede in due scarpe, e rimandare la decisione finché nella guerra non emerse una fazione in vantaggio, ossia quella di Magno Massimo, che in Gallia aveva sconfitto l'imperatore Graziano. Quando Teodosio sembrò avere la meglio contro Magno Massimo, i comandanti della XX fecero un cambio di fronte e passarono dalla parte del primo.
Grazie a questi giochi diplomatici, la XX legione uscì praticamente intatta dalla guerra civile che aveva scosso l'Impero, e restava l'unica forza armata degna di questo nome presente in Britannia.

Una grossa sfortuna, considerando che all'inizio del V secolo la Britannia fu de facto abbandonata a sé stessa. O una grande opportunità, se si è capaci di cogliere le occasioni e sfruttarle a proprio vantaggio.
La legione infatti, disattendendo gli ordini che prescrivevano un ritorno sul continente, iniziò ad operare come forza mercenaria al servizio dei signori della Britannia post-romana. E di guerre, nella Britannia post-romana, ce n'erano in continuazione, sia contro gli invasori stranieri - Irlandesi e Pitti, oltre agli Angli e ai Sassoni - sia tra gli stessi romano-britanni, soprattutto per questioni religiose. Era molto forte in Britannia lo scontro tra i cattolici-insulari e gli eretici pelagiani; e in queste guerre interne ai romani, non solo gli uomini della XX legione, ma anche bande di mercenari celti e anglo-sassoni trovavano impiego. Queste bande spesso venivano compensate in terra, ossia insediate come foederati nei territori dei signorotti romani che avevano servito.
Ma, alla lunga, ciò volle dire che intere tribù germaniche furono non solo libere di sbarcare in Britannia, ma di insediarsi sull'isola mantenendo i propri costumi, rispettando le proprie leggi, e soprattutto obbedendo ai propri capi anziché ai romani, mantenendo cioè perfettamente integra la propria identità e coesione tribale.

Alla fine, le varie enclavi germaniche insediate in Britannia iniziarono ad unirsi contro i Romani, e questi rischiarono di essere spazzati via dall'isola.
Fu la Legio XX Valeria Victrix - che le fonti chiamano semplicemente 'la Legione' - a salvare la presenza romana in Britannia. Grazie al denaro guadagnato con la propria attività mercenaria, essa era diventata una potenza economica oltre che militare, e fu in grado di assumere la guida della resistenza Romana invertendo le sorti della guerra.
Nel 490 Ambrosio Aureliano, mitico comandante della Legione, riuscì a sconfiggere i germani nella semi-leggendaria battaglia del Mons Badonicus. Dopo quella data, ogni accenno alla minaccia germanica sparisce dalle fonti, segno che, dopo quella battaglia, i germani furono definitivamente battuti, e si erano sottomessi al dominio romano.
Sempre dopo quella battaglia, le truppe della Legione acclamarono Ambrosio 'Rex Britanniae', e da allora ha inizio quello che gli storici chiamano 'Regno di Deva', ovvero il regime romano-britanno e cristiano-insulare che avrebbe governato la Britannia per i successivi sei secoli, fino alla conquista normanna.

Dario Carcano

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Da quest'ucronia è nata un'altra idea di Federico Pozzi:

Come è noto nel 476 l'ultimo Imperatore d'Occidente Romolo Augusto (o come viene più spesso chiamato Augustolo) fu deposto dal Re degli Eruli Odoacre, dopo di che scomparve dalla storia. Ma se invece gli imperatori d'Occidente si trasferissero in Britannia, trincerandosi in quell'isola periferica e poco appetibile per farvi continuare la tradizione imperiale? Un problema potrebbe essere il fatto che la Britannia fu una delle province la cui romanizzazione era più bassa, molta parte della popolazione viveva ancora la vita dei Celti e furono più i romani a "celtizzarsi" che i celti britannici a "romanizzarsi", caso credo più unico che raro...

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Paolo Maltagliati gli ribatte:

Non obietto il senso generale del discorso, ma sulla questione della "scarsa romanizzazione" (imho tesi ideologicamente strumentale che si è gradualmente affermata come verità di fatto), andrebbe fatto un pochino di revisionismo.

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Restituiamo la parola al grande Bhrihskwobhloukstroy:

La Romanizzazione al di fuori delle città è cominciata nel 392 d.C., quindi in Britannia è rimasta allo stadio iniziale perché è durata solo 17 anni (gli anni prima del 392 non contano agli effetti della Romanizzazione delle campagne e delle montagne, quelli prima del 211 non contano del tutto perché era vietato usare il latino come lingua ufficiale al di fuori del territorio dei Mūnĭcĭpĭă romani e delle Colonie latine (l'Impero Romano non era un Impero, era un'Alleanza politico militare - per quanto impari - fra Città-Stato molto gelose delle prerogative delle proprie Classi Dirigenti locali e che sono poi a tutti gli effetti le fasi antiche dei Comuni medioevali, delle Repubbliche Marinare, dei Vescovati-Contee ecc.). Quindi non c'è bisogno di particolari misure: basta un Regno Romano-Germanico (quale l'Eptarchia Anglosassone non era, le mancava un sufficiente aspetto romano al di fuori della strettissima sfera di àmbito ecclesiastico) e la Romanizzazione è fatta (la Romanizzazione si è svolta per circa sei secoli, da Teodosio a Ottone III., più o meno, dopodiché è cominciato il livellamento sulla lingua locale, ma in tutti i casi l'epicentro è sempre stata la Città Sede Vescovile).

Con una tripla mossa di ritiro delle Strutture romane (anche e soprattutto ecclesiastiche), vittoria delle Repubbliche Bagaudiche e assimilazione a opera dei Germani (in Regni Germanici non Romano-Germanici), quel che è storicamente avvenuto in Britannia potrebbe invece in tutta tranquillità verificarsi non solo in Spagna e Gallia Transalpina, ma ancora perfino in Cisalpina. La Slavizzazione del Basso e Medio Danubio e la Germanizzazione dell'Alto Danubio e del Reno - tutte aree epigraficamente molto più latine che, per esempio, le Regioni Alpine - sono le prove inconfutabili che mai come in quei secoli l'esito dell'Europa linguistica moderna è stato altrettanto fluido (nei Millenni precedenti l'esito non appariva fluido: era scontato che tutto rimanesse come era sempre stato!).

Ad ogni modo, per non complicare ulteriormente l'Ucronia, si può convenire che, a parità di dinamiche demografiche, i Regni Romano-Germanici sul Continente avrebbe sortito il medesimo effetto linguistico che nella Storia reale, ossia Germanizzazione al minimo possibile e Slavizzazione al massimo possibile (questo in parte anche perché la Slavizzazione era molto più vicina ai Sostrati locali che la Germanizzazione ai Celti; se, per ipotesi, in luogo dei Regni Romano-Germanici si fossero avuti Regni Romano-Britannici - come pure stava avvenendo non solo appunto di nuovo in Spagna e Gallia Transalpina, ma anche in Cisalpina e perfino in Italia - allora la Bretonizzazione sarebbe stata dilagante come la Slavizzazione nel Bacino Danubiano).

Non è perciò necessario un motivo particolare per far 'migrare' l'Imperatore in Britannia; basta che si trovi lì nel momento in cui tutto il resto dell'Impero d'Occidente finisce di essere spartito fra i Regni Romano-Germanici.

Casomai, la discussione è ancora e sempre sulla natura del latino britannico prima dell'enorme influsso del latino gallico in Britannia. Le mutuazione da parte delle lingue britanniche mostrano chiaramente un latino britannico già molto simile a quello di Gallia, mentre le iscrizioni latine di Britannia presentano un latino di tipo invece assai arcaico, come quello della Sardegna (che è stata romanizzata solo a partire dall'Alto Medioevo). Curiosamente, anche le innovazioni peculiari del latino di Britannia forniscono un risultato abbastanza simile a quelle del sardo.

Il grande influsso celtico si sarebbe avuto nel lessico; con una Romanizzazione cominciata allo scadere del Tardoantico - come nelle Alpi - i dialetti risultanti sarebbero stati pieni di terminologia di sostrato mai del tutto sostituita con quella latina ereditaria (per esempio, nelle Alpi, rin invece di riv, büj invece di fontana, bria invece di pont, cammin invece di via, baita invece di casa, clocca invece di campana ecc.).

All'Ortodossia non ci si converte: si rimane Ortodossi (lo scontro con la Chiesa Celtica d'Irlanda sarebbe stato anche più forte); però intorno all'800 (con Irene) anche l'Imperatore d'Occidente si sarebbe proclamato legittimo Imperatore di tutto l'Impero e avrebbe rivendicato Bisanzio. Invece la Scandinavia rimarrebbe area di evangelizzazione Romano-Germanica, non Romano-Britannica. (Proprio la nozione di Continuità con l'Impero d'Occidente imporrebbe la conservazione del nome di Britannia come Diocesi dell'Impero: i Britannici sarebbero tali e contemporaneamente Romani, proprio perché Romani continuerebbero a chiamare "Britannia" i provvisorî confini del proprio Impero.) In compenso, l'eventuale Conquista normanna - specialmente se in forma di guerra imperiale - potrebbe metter fine a tutto ciò, a meno di un'assimilazione degli stessi Normanni alla popolazione locale. Credo che comunque le Crociate avrebbe luogo ugualmente nelle modalità note, con tutto quel che ne consegue (se la Britannia vi avesse partecipato, avrebbe anch'essa mirato alla Successione Bizantina).

Alla lunga mi sembrerebbe sorprendente che un grande Sovrano del Continente non finisse per impadronirsi della Corona Imperiale d'Occidente; tuttavia, ammesso che non succeda mai, in Măgnă Hībĕrnĭă (che però per il resto d'Europa si chiarebbe comunque America) sarebbe certo possibile un toponimo Nŏuŏm Ĕbŭrācŭm, volgarmente *Nüöv Ebrauc, posto che non finisca per essere incluso nella Nuova Spagna. Ugualmente, se nella Storia gli Stati Uniti sono arrivati al Pacifico, è accaduto per una serie di combinazioni imprevedibili; sarebbe stato molto più logico che il Giappone fosse 'forzato' dagli Spagnoli.

Come al solito sono forse troppo conservatore (però ho segnalato anche i punti in cui il processo potrebbe prendere una deriva tangenziale, come per i Bagaudi), in particolare vorrei ridiscutere la questione delle Crociate.

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E adesso, la proposta del Marziano:

Vi invito/sfido a ricostruire l'impianto storico delle avventure del Principe Valiant, cavaliere vichingo di Re Artù!

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La sfida è raccolta da Massimiliano Paleari:

Lo sfondo storico è ovviamente la Britannia del V Secolo, anche se il fumetto da quello che ho capito mescola un po' le carte parlando di Vichinghi (che si affacciano sul "palcoscenico" più tardi) e di imperatori vissuti in periodi diversi come Valentiniano (ma quale poi, I, II, o III?) e Giustiniano (VI secolo).

Se ci riferiamo alla metà del V Secolo, possiamo "usare" come personaggi storici di sfondo il giovane imperatore Valentiniano III e il Generale Ezio, forse l'ultimo grande comandante militare dell'Impero d'Occidente.

La Britannia era già stata evacuata dalle legioni nel 410 d.C. Qualche anno prima vi era stata la grande rottura del limes sul Reno. I soldati erano necessari sul continente nel disperato tentativo di tamponare la falla. Tuttavia pare che per qualche decennio la popolazione romano/britannica sia rimasta legata a Roma e si sia sentita ancora parte della Romanitas. A partire dalla metà del V secolo l'isola iniziò a subire i sistematici attacchi delle popolazioni germaniche (Angli, Sassoni, Juti, Frisoni).

Sappiamo che il magister militum Ezio si preoccupò soprattutto di preservare quello che restava dell'autorità imperiale in Gallia. Ai Campi Catalaunici i Romani di Ezio e i Visigoti batterono gli Unni di Attila, sventando a minaccia unna in Gallia. Dopo la vittoria (e prima che Ezio venga ucciso), il magister milutum riceve una delegazione di Britanni che chiedono aiuto per fronteggiare gli invasori. Ezio non può inviare in Britannia rinforzi consistenti. Tuttavia accetta di spedire in Britannia un piccolo nucleo di esperti istruttori militari delle sue legioni, con lo scopo di riorganizzare e di addestrare le milizie britanniche. La piccola "task force" è capeggiata da un certo Artorius, un giovane ufficiale di Ezio, che conosce bene la lingua e i costumi locali essendo figlio di una Britanna e di un centurione romano. E con questo abbiamo spiegato l'origine del mito di Artù e dei Cavalieri della Tavola rotonda. Per quanto riguarda il Principe Valiant, il nucleo storico potrebbe discendere dal celebre detto "il nemico del mio nemico è mio amico". Artorius negli anni è divenuto il leader della resistenza britanno/romana. Dopo l'uccisione di Ezio si sono però interrotti completamente i rapporti con il continente. Mentre la pressione degli invasori si fa sempre più insostenibile, Artorius/Artù si guarda intorno in cerca di alleati. I Britanni sanno che nel nord est dell'isola, nei pressi del vecchio Vallo Adriano, si sono da tempo installati dei barbari provenienti dalle lontane e fredde terre poste a nord al di là del mare. Pare che questo insediamento si sia scontrato con gli Angli in più occasioni. Una delegazione britanno/romana, dopo aver preso contatto non senza pericoli con questi proto-vichinghi, riesce a negoziare un'alleanza. Secondo l'usanza dell'epoca, a pegno dei patti vengono scambiati degli ostaggi. I britanno/romani rientano dai loro accompagnati da un certo Valiant, un nobile norreno che parla latino dal momento che suo madre è una lontana cugina di Costantino, uno degli imperatori usurpatori britannici che all'inizio del V secolo si erano affacciati sulla scena delle lotte di potere per il vacillante trono imperiale. Valiant finirà per diventare un fedele collaboratore di Artorius, integrandosi nella cerchia dei suoi uomini di fiducia. Nel frattempo il piccolo insediamento norreno viene spazzato via. Dopo qualche anno Valiant farà parte di una delegazione che partirà per il continente in cerca di aiuto. Si recherà prima da Siagro a Soissons, poi a Roma e infine addirittura a Costantinopoli, pur senza ottenere risultati concreti.

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E l'immancabile Bhrihskwobhloukstroy chiosa:

Il nome Valiant è, più che ucronico, anacronistico. Quale potrebbe essere l'equivalente vichingo di "Valente"? C'è solo l'imbarazzo della scelta (sia nel senso di "valoroso" sia in quello di "capace"); un composto con aggettivi tipicamente germanici nordoccidentali e con la caratteristica allitterazione e numero crescente di sillabe tra elementi di composizione può essere, in fonetica del V. sec. d.C., *Dreuga-dugulaR "molto valoroso" (accento primario su *Dreu-, accento secondario su *du-), che entro il XIII. secolo sarebbe diventato *Drjúg-dugull.

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Dal canto suo Generalissimus aggiunge:

Mi è venuta un'altra idea: e se Valiant non fosse un vichingo, ma un esponente del popolo dei Decanti, che vivevano in Scozia e menzionati dal geografo Claudio Tolomeo nel 150 d.C.? Il loro nome ha una base nella radice celtica *dec-, che vuol dire "buono" o "nobile"...

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Bhrihskwobhloukstroy gli ribatte:

In tal caso si chiamerebbe *Katarno-droutos in britannico classico (nel V. sec. d.C. sarebbe diventato *Kadarno-ðrōdoh; oggi in gallese è cadarnddrud).

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Se volete fornire spunti o suggerimenti, scrivetemi a questo indirizzo.

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