« Venne un uomo mandato da Dio. Il suo nome era Giovanni. » Queste parole del quarto vangelo risuonavano in una chiesa spagnola il 29 marzo 2012, in una messa celebrata da ben ventiquattro sacerdoti, con il vescovo e una folla di devoti.
Il suo nome era Giovanni. Ma in famiglia lo chiamavano Franco. Cioè Francesco, il nome di un nonno.
Un nome che ricorre nella sua vita, costante. "San Francesco" era il collegio rapallino in cui insegnò agli inizi della sua carriera. "San Francesco" era la parrocchia catalana in cui questa carriera terminò. Era andato lui, col parroco, ad Assisi a prender là la prima pietra per costruire la chiesa.
Ah, come lo portava bene, quel nome! Matto come il Poverello. Povero anche lui: buttava via tutto, con disperazione della sorella. Innamorato della natura, allegrone, pazzo per la musica, suonava l'organo, la chitarra, la fisarmonica, l'armonica a bocca, il flauto, l'ocarina, cantava intonatissimo, era l'anima delle feste, delle gite. Vagabondo instancabile, durante le "marce forzate" parrocchiali tutti erano mezzi morti e lui correva su e giù a sorreggere barcollanti e medicare piedi con vesciche, cantando per animare gli stanchi. Il suo vagabondaggio più grosso lo condusse a mille chilometri da casa. Per sempre.
Eppure quel matto non portava il saio di san Francesco. Portava - possiamo dire "per caso", che è il nome di Dio quando non firma - la tonaca dei Chierici Regolari Somaschi. Quando poi le tonache passarono di moda, Giovanni-Franco portava sempre ben in vista una crocetta. L'idea di mimetizzarsi, di vergognarsi di essere un prete, lo faceva arrabbiare. (Si arrabbiava spesso. "Adiratevi e non peccate…")
Di mattane insieme ne abbiamo fatte tante. Come andare in cima ai Pirenei senza benzina, e passare una notte gelida seduti in macchina con tutti i bagagli addosso per non congelare. O inoltrarsi in un bosco deserto e impraticabile senza la minima garanzia di uscirne vivi… Ma ora vi devo raccontare le mattane proprio sue, personali.
La prima fu la sua singolare vocazione. C'è chi si fa prete per scelta, per interiore chiamata, oppure per calcolo, per convenienza, o chissà. Uno che si fa prete perché suo fratello non lo vuole fare, è una soluzione un pochino bizzarra.
Ricordate i sistemi di reclutamento di una volta? In ogni ordine o congregazione religiosa c'era sempre il talent-scout, quel tale che teneva d'occhio i ragazzini un po' perbenino, devoti, che amavano fare il chierichetto la domenica. "Carlo, non vorresti venire con noi, essere uno di noi? Potrai studiare, e poi insegnare, celebrare la messa, essere rispettato, importante…" "Io prete?? Ma neanche per sogno!" Bastian contrario, per Franco non occorreva altro. "Lui non vuole? Vengo io". Le vie del Signore sono infinite.
Lacrime materne, sfuriate paterne, niente da fare. Il piccolo Franco parte per il seminario e comincia a studiare. Il meno possibile. Alla Dogmatica e all'Ascetica preferiva la Fisarmonica e l'Alpinistica. Il gusto per lo studio, la fame di imparare, gli venne più tardi, e con risultati portentosi. Ma da ragazzo tirava al risparmio, il minimo per arrivare al traguardo. E ci arrivò tarduccio, a ventinove anni e mezzo. Diventò sacerdote il 14 giugno del 1969.
Com'era bello il mio ragazzo, quel giorno, nei suoi paramenti solenni, col suo profilo da medaglia romana e il portamento da principe. Barone, lo chiamava la mamma. Io, principe. Solo a vederlo gli avresti dato subito l'aureola. E rimase sempre così, nelle sue funzioni di sacerdote, per tutta la vita. Quel matto, quel giullare, quando era all'altare si trasfigurava. Ieratico, perfetto nei gesti e nella parola, rispettoso dei minimi dettagli della liturgia, compreso del mistero che celebrava, costringeva anche i più distratti a sentire che lì c'era "qualcosa", c'era Dio.
Fuori chiesa, era il matto di sempre. L'altra sua pazzia grossa fu di andarsene in Spagna, alla ventura. Era il '75. Nelle case somasche spagnole mancava personale e i superiori cercavano un volontario. "Chi manderò?…" "Manda me".
Daccapo lacrime ecc. rabbuffi ecc. ecc. ma lui niente. Senza sapere quel che lo aspettava, senza capire un'acca di spagnolo, via per mare e per terra, per nave e per treno, olé! Peggio quando poi dovette traslocare da una costa iberica all'altra, da solo, con un furgone, cantando mentre guidava per non addormentarsi. Infatti, il vagabondo bastian contrario non rimase sempre nello stesso posto. Girò mezza Spagna, in parrocchia, in seminario, in collegio, in campeggio, e poi di nuovo, definitivamente, in parrocchia: quella di San Francesco in Badalona, Barcellona. Intanto aveva imparato lo spagnolo, e anche un po' il catalano e il gallego. Là lo chiamavano padre Juan.
In Italia veniva per le vacanze estive e talvolta a Natale. E allora erano bei giorni insieme, giorni di risate, di gite, di sfacchinate, di traslochi, di riparazioni in casa: dopo una giornata di viaggi era capace di mettersi a imbiancare la cantina a mezzanotte. Ma anche giorni di preghiera e di perdono. Le nostre confessioni!... E sempre, ogni anno, la messa celebrata a Recco, nella chiesa dei frati.
Poi facemmo entrambi la spola tra Italia e Spagna: un po' lui qui, molto io là. E cominciò qualcosa di molto bello. Qualcosa di tanto grande, che "frate sole" ancora deve capire a fondo, e forse non ci riuscirà mai del tutto.
Nell'anno sacerdotale del 2008 Franco aveva preso un impegno solenne: farsi santo. Abbiamo camminato insieme, duramente, su quella strada, con una revisione di vita, di anima, di studi. E sono accaduti miracoli. Miracoli, sì. Ma mai avremmo immaginato che il Signore volesse farlo santo in quel modo.
Franco era un salutista, non fumava, era vegetariano, traboccava di energia. Nell'agosto 2011, fulmine a ciel sereno. Un cancro al polmone. Anzi, alla pleura. Altro che vacanze: calvario di visite, analisi, biopsie, chemio, dolore, dolore, dolore. Com'era possibile? L'amianto respirato in seminario, nel fatale Monferrato. Un mostro che si era svegliato dopo mezzo secolo.
Dolore. Dolore offerto a Dio con fiducia totale, con fede diamantina, per il bene di tutti, per i sacerdoti, perché siano santi. Accanto a lui giorno e notte, otto mesi di calvario, un'esperienza tremenda, ma grande. Avevamo tanto pregato Gesù di renderlo simile a lui. Gli ha dato la croce. Come muore un crocifisso? Perché la pleura si gonfia e mozza il respiro. Franco è morto come Gesù. Alla stessa ora. Con la corona di spine - una ferita alla testa - e il colpo di lancia: la dolorosa cicatrice della biopsia, nel costato, a destra.
Una grazia curarlo, stargli vicino. È morto da santo. Con l’innocenza ritrovata dell’infanzia, felice di andare in cielo a cantare il gregoriano con gli angeli. Fino all'ultimo, non ha perso il sorriso.
Quel matto, quel santo, era mio fratello. Gli ho chiuso gli occhi il ventisette marzo 2012, alle tre del pomeriggio. Addio, Franco, fratello mio. A Dio.
Frate Sole