Il nome Bibbia deriva dal greco "biblia", che significa "piccolo libro", o anche "volume". Questa denominazione ne indica il carattere unico e specialissimo: è il libro per eccellenza. Seguendo una linea di pensiero perfettamente parallela è usata, fin dall'antichità, anche la denominazione "scrittura", onde specificare il testo scritto per antonomasia. La fede ha poi aggiunto l'ulteriore determinazione "sacra".
La Bibbia è un volume composto da 73 libri, divisi in due grandi parti: Antico Testamento (A.T., 46 libri) e Nuovo Testamento (N.T., 27 libri). Il nome "Testamento" ha un significato diverso da quello attuale, dovuta ad una controversa traduzione del termine ebraico "berit", che significa "patto", alleanza, in altre parole la salvezza offerta da Dio agli uomini; quindi si tratta di attestazione, non di "ultime volontà" di una persona. In questo senso l'espressione e già usata da Paolo che chiama "Antico Testamento" ciò che precede e prepara la venuta di Cristo (2 Co 3,14). In questa prima parte ci occuperemo essenzialmente dell'A.T, i cui 46 libri furono scritti fra il 1020 e l'80 a.C. Questa precisione nella determinazione temporale non è casuale: il 1020 corrisponde al Regno del Re Davide, sicuramente autore di molti Salmi, mentre l'80 è l'anno di stesura del libro della Sapienza.
Questi 46 libri sono stati classificati dalla comunità cristiana in quattro grandi gruppi:
• Pentateuco
(5 libri)
• Libri storici (16 libri)
• Libri sapienziali (7
libri)
• Libri profetici (18
libri)
È evidente che in un'opera così vasta la semplice ricerca di un passo si può rivelare quanto mai improba, per lo studioso o il semplice lettore. Si sentì, dunque, la necessità, fin dall'epoca medioevale, di suddividere il testo in capitoli e versetti.
La suddivisione in capitoli risale a Stefano Langton (morto nel 1228). Ugo di S. Cher (morto nel 1263) operò poi una ulteriore suddivisione, dividendo ogni capitolo in sette parti, contrassegnate con le prime lettere dell'alfabeto ebraico. Solo nel 1551 Robert Estienne (1503-1559), editore parigino, escogitò la suddivisione in versetti, cui siamo abituati. Da allora essa è diventata di uso corrente, per la sua innegabile praticità, anche se non corrisponde sempre perfettamente al contenuto delle singole parti.
Secondo questo sistema di citazioni è necessario indicare prima la sigla del libro, quindi il numero del capitolo e da ultimo quello del versetto.
Is. 5,22 significa dunque che il brano da leggere è contenuto nel libro del profeta Isaia, nel cap. 5 versetto 22; il trattino ( - ) indica continuità di lettura fra i versetti indicati; il puntino ( . ) indica che bisogna limitarsi a leggere solo i versetti indicati.
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1 – IL TESTO DELLA BIBBIA
1.A - La scrittura nell'antichità
L'invenzione della Scrittura rappresenta sicuramente una delle più grandi conquiste dell'umanità. Il risultato fu quello di rendere accessibili, istantaneamente, tutte le informazioni possibili e di permettere che l'esperienza di vita e di cultura non andasse persa.
Le forme di scrittura più antiche risalgono al IV millennio a.C. e sono a base sillabica, vale a dire rappresentano solo simboli pittorici (in genere di origine naturale: alberi, animali, oggetti inanimati), corrispondenti alle sillabe delle parole che sono pronunciate. Questo sistema aveva, però, un grosso limite: necessitava di circa 300 simboli.
Si arrivò, dunque, ad elaborare un nuovo metodo, quello alfabetico, per il quale bastarono dai 24 ai 32 segni; se gli egizi hanno potuto tramandare così bene la storia della battaglia di Qades, come quella delle loro dinastie sui muri delle sale ipostili dei templi di Karnak, Luxor, Abu-Simbel…, è proprio grazie a questo nuovo sistema, inventato nella seconda metà del II millennio a.C.
1.B - Materiali di scrittura
Dopo l'uso antichissimo di incidere pareti di pietra o tavole di terracotta, la maggiore diffusione della scrittura richiese l'impiego di nuovi materiali. Uno dei più antichi fu la terracotta. Il testo era inciso su argilla ancora fresca, quindi le tavolette erano fatte essiccare al sole. Era un metodo sicuro, dato che il materiale usato era molto affidabile, se conservato con cautela e al riparo dagli agenti atmosferici. Questo comportò la nascita delle prime biblioteche.
Nella seconda metà del II millennio a.C. si pensò di scrivere su dei cocci di vaso, che erano chiamati "ostrakon": famosi sono quelli di Lakis. In tempi più recenti, più pratico e diffuso fu il papiro. Si ricavava dal midollo dell'arbusto del papiro, che cresceva in luoghi paludosi, soprattutto nel delta del Nilo. La canna di papiro, privata delle foglie e dei fiori, era tagliata in segmenti di circa quaranta centimetri, i singoli segmenti venivano sezionati in strisce sottili che venivano sovrapposte a strati incrociati (orizzontali e verticali), pressate sotto una pietra e lasciate essiccare. A processo concluso, la pagina veniva levigata. Le pagine erano poi unite in modo da formare rotoli sui quali si scriveva da una parte sola. Aveva un unico difetto: il papiro soffre molto l'umidità, e quindi si conserva solo in luoghi molto asciutti.
Più resistente, ma anche più costoso, era il cuoio. Lo si ricavava dalle pelli di ovini o bovini (raro il cuoio bovino in Palestina). Le pelli erano raschiate e poste ad essiccare su un telaio di legno, per impedire che si restringessero. Le pagine così formate erano affiancate e cucite tra loro sul lato lungo, in modo da formare un lunga striscia che poi era arrotolata. Nel leggere il lettore doveva srotolare il rotolo da una parte e arrotolarlo dall'altra. Su questo materiale sono stati scritti la maggior parte dei rotoli scoperti a Qum-Ran.
Più recente la pergamena, ottenuta da pelli di animali sbiancate e rese più sottili. Più resistente del papiro e più pratica del cuoio, permetteva la scrittura su ambedue le parti. Su questo materiale sono stati scritti la maggior parte del Codici del N.T. Si scriveva con una cannuccia tagliata a forma di penna.
L'inchiostro era ottenuto mescolando succo di noce di galla e vetriolo, oppure sciogliendo della fuliggine in resina d'olio.
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1.C - Le lingue dell'A.T.
Il testo originale dell'A.T. fu redatto in tre lingue: l'ebraico, l'aramaico, il greco.
L'ebraico antico faceva parte del gruppo delle lingue semitiche, di cui costituiva il ramo nordoccidentale, insieme con l'ugaritico, il cananeo antico e l'aramaico. Il 90% dell'A.T. è scritto in questa lingua, che nella sua forma parlata decadde intorno al VI secolo a.C. e fu sostituito dall'aramaico; rimase, però, la lingua del Tempio, della liturgia, della cultura. La scrittura con la quale era messo per iscritto era detta "fenicia", e si avvaleva di 22 lettere. I libri biblici più antichi furono quindi quelli scritti e ricopiati con questi caratteri; ciò è attestato dalla tradizione giudaica e trova conferma anche nelle scoperte di Qum-Ran.
Dopo l'esilio gli ebrei abbandonarono gradualmente la scrittura fenicia, per adottare un tipo di scrittura derivato da quella aramaica antica. Questo tipo di scrittura è usato ancor oggi ed è chiamato "quadrata" per la forma delle lettere. Gli esempi più antichi di questa scrittura sono offerti dai papiri di Elefantina del V secolo a.C.
La scrittura ebraica si avvale solo di consonanti; le vocali erano aggiunte nella lettura in base al senso del testo. Evidentemente una simile particolarità comportò una certa fluttuazione del testo stesso: spesso si modificarono le consonanti per forzare una certa interpretazione. Tale situazione permase fino al I sec. d.C.
Da allora prevalse una tradizione imposta da una scuola rabbinica che aveva particolare autorità: altrimenti non si spiega come mai, fra i tipi testuali che esistevano precedentemente, uno solo finì per soppiantare gli altri; quando esattamente ciò avvenne è difficile da stabilire. Alcuni autori pensano al sinodo ebraico di Jamnia dell' 80 d.C.
Il terzo importante momento che fece capo alla fissazione del testo ebraico va dal 500 al 900 d.C. circa. Importante in questo periodo fu l'opera dei "masoreti" che s'impegnarono a mettere per iscritto tutte le tradizioni orali che riguardavano il testo biblico, in particolare ciò che si riferiva all'esatta lettura del testo, e quindi ad un determinato sistema di vocali. La loro opera fu molto scrupolosa, al punto che lasciarono invariato il testo tradizionale anche in presenza di un evidente errore di trascrizione: in tal caso annotarono in margine la lezione corretta. Non a caso un detto ebraico recita: « la masora è la siepe della Legge »!
La seconda lingua rappresentata nell'A.T. è l'aramaico, che appartiene allo stesso ceppo linguistico della lingua ebraica. Talora è detto anche "caldaico"; questa denominazione deriva da una scorretta interpretazione di Dn 2,4 ss, in cui il discorso dei caldei è riferito in aramaico. In aramaico sono redatti solo due passi dell'A.T.: Esd 4,6-6,18 e Dn 2,4-7,28. Fu la lingua ufficiale dell'Impero persiano, e prima ancora fu usata anche a Babilonia ai tempi di Nabucodonosor. Molti ebrei lavorando presso l'amministrazione persiana usarono questa lingua. Non deve sembrare dunque strano che la si ritrovi anche nell'A.T..
In greco invece sono scritti il Libro della Sapienza e il secondo libro dei Maccabei. Non si tratta di greco classico, ma della particolare forma linguistica che assunse dopo le conquiste di Alessandro Magno. Era il greco parlato dai giudei in Egitto, specialmente ad Alessandria.
Cartolina israeliana illustrante l'alfabeto ebraico
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1.D - La trasmissione del testo in lingua originale
Il testo dell'A.T. ci è pervenuto in circa 2.000 codici, più o meno completi. I più antichi sono:
il Codice dei profeti del Cairo dell'895;
il Codice d'Aleppo, che comprende tutto 1'A.T., scritto nella seconda metà del X secolo e che è servito da base per la nuova edizione critica curata dall'Università di Gerusalemme;
il Codice di Leningrado del 916;
il Codice dei Profeti di Leningrado B19a, scritto nel 1008.
A questi vanno ad aggiungersi i frammenti di codici trovati nel secolo scorso nella "genizah" (ripostiglio di testi liturgici usurati) della sinagoga del Cairo ,e pubblicati finora solo in minima parte, come anche i testi rinvenuti a Qum-Ran.
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2 – LE TRADUZIONI DELL'A.T.
2.A - Le traduzioni greche
A. La traduzione della LXX
Con questo termine si intende la prima traduzione dell'A.T. dall'ebraico o aramaico in greco. Un autore alessandrino del II secolo di nome
Aristea narra in modo fantasioso, sotto forma di lettera, l'origine di questa traduzione. Ci racconta che il re d'Egitto
Tolomeo Filadelfo (285-247 a.C.) era desideroso di avere nella celebre biblioteca d'Alessandria una traduzione della Legge
Mosaica, e a tale scopo fece venire da Gerusalemme ad Alessandria dei dotti Ebrei, affinché traducessero in greco l'opera. Questi dotti erano in numero di 72, e in altrettanti giorni portarono a termine l'incombenza loro affidata. Generalmente non si mette in discussione la notizia di fondo della lettera che, in pratica, intorno al III sec. a.C. ad Alessandria si
iniziò a tradurre l'A.T.. Aveva sede, infatti, in questa città una fiorente comunità ebraica; ed è comprensibile come questa, a scopo divulgativo, decise di tradurre il testo ebraico per i non ebrei. Ciò che rappresenta sicuramente una forzatura è la notizia che tutta l'opera fu immediatamente
tradotta, notizia priva di conferme storiche; anzi, il prologo del Siracide ci parla di traduzione nell'anno XXXVIII del regno di
Tolomeo Evergete Fiscone, vale a dire il 132 a.C. Per questo si è giunti alla conclusione che questa traduzione sia il frutto di un lavoro durato almeno due secoli.
San Girolamo Nato intorno al 347 in Dalmazia, compì studi di grammatica. Ordinato sacerdote ad Antiochia, dopo varie vicissitudini si trasferì a Betlemme dove fondò la prima scuola biblica. Detto "il principe dei traduttori", fu amico di Agostino con il quale fece causa comune contro il pelagianesimo. Morì il 30 settembre 419. |
B. Le traduzioni di Aquila, Simmaco e Teodozione.
Aquila era un greco del Ponto che, verso il 140 d.C., curò una traduzione dell'A.T. in base ad un testo ufficiale allora in uso presso i rabbini; per questo l'opera fu accolta positivamente dai contemporanei ebrei. Oggi, purtroppo, ne possediamo solo alcuni frammenti, sopravvissuti perché citati nell'opera di altri autori.
Simmaco era un samaritano convertito al cristianesimo (setta degli ebioniti) che tradusse l'A.T. intorno al 200 circa; anche il suo testo ci
è pervenuto in frammenti.
Teodozione era un giudeo di Efeso che operò intorno al 180 d.C. Questa sua opera è importante, in particolare modo per quanto attiene il libro del profeta
Daniele; infatti la chiesa cristiana ha preferito per questo libro il testo greco di Teodozione a quello dei LXX.
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2.B – Le traduzioni latine
A. La Volgata
È la traduzione latina di tutti i libri biblici usata attualmente dalla Chiesa
Cattolica Romana come testo ufficiale. Questa traduzione è opera di San
Girolamo (347-420 d.C.) che però non tradusse tutta
l'opera, ma in alcuni casi (Bar, Sap, l-2 Mac) riprese alla lettera la Vetus Latina.
La Volgata comprende anche la traduzione del N.T. Per i libri tradotti da lui stesso, Girolamo utilizzò certamente un documento ebraico molto simile al testo masoretico (TM). Non tradusse
pedissequamente, ma a senso: rendendo, vale a dire, in latino il pensiero espresso in ebraico dagli autori sacri,
e curando, nello stesso tempo, l'eleganza stilistica. La Volgata fu rivista una prima volta da
Flavio Magno Aurelio Cassiodoro (490-583), abate del monastero di Vivarium presso Squillace in Calabria; una seconda volta da
Alcuino di York (735-804) e dal vescovo di Orléans
Teodolfo (760-821) per ordine di Carlo Magno. In conseguenza del Concilio di Trento
(1545-1563) si approntarono nuove edizioni, la prima in ordine cronologico fu chiamata
"Edizione Sistina" (Sisto V, 1586); la seconda, a sua volta rivisitazione della prima,
Sisto-clementina (Clemente VIII, 1592). Quest'ultima edizione fu revisionata dai benedettini per ordine
dei Papi Pio X e Pio XI nel 1907 e nel 1933.
Cristo in Maestà con i simboli degli Evangelisti, illustrazione
dalla Bibbia di Alcuino, pergamena, oggi al British Museum
B. La Vetus latina
La denominazione "Vetus latina" è convenzionale: con tale termine si vuole intendere qualsiasi traduzione di libri biblici precedente alla Volgata. Non sappiamo quante traduzioni latine prima di quest'ultima furono
eseguite: sicuramente molte, anche perché gli autori ecclesiastici dell'epoca prima di commentare un libro biblico usavano tradurlo. Si può grossolanamente
supporre che ci furono due grandi scuole di traduzione: quella africana e quella
europea (che secondo alcuni avrebbe avuto come centro d'irradiazione Milano); la seconda fu
il seguito della prima. Dalle molte versioni parziali si giunse a traduzioni sempre più complete, anche se non si arrivò mai a traduzioni totali dell'A.T. come del N.T.; le stesse traduzioni parziali subirono un'infinità di mutamenti, causati da errori di
trascrizione, tentativi di armonizzazione con il testo greco o ebraico, eccetera. Si può capire, allora, come
mai verso il 400, con si sentì il bisogno di una traduzione totale, riconosciuta come autorevole, per uso universale; e di conseguenza si può ben affermare che in considerazione delle lacune della Vetus latina nacque la Volgata.
Maestro di teologia presso la comunità di Alessandria d'Egitto, nacque intorno al 185. Soprannominato Adamantium (l'uomo d’acciaio) da Eusebio di Cesarea, è l'autore delle Esaple, di commentari, di omelie e di scritti dogmatici. Morì a Tiro nel 253. Dopo la sua morte, a causa del suo insegnamento sulla preesistenza dell'anima e sull’interpretazione allegorica delle Scritture, il suo pensiero fu sottoposto a diverse censure che vanno sotto il nome di “controversie origeniste”. |
C.
Le "Esaple" di Origene
Non si tratta di una traduzione, ma di un tentativo di fissazione del testo critico dell'A.T. Fu un'opera immensa, alla quale il grande teologo alessandrino
Origene Adamanzio (185-254) dedicò una gran parte della propria vita. Egli
dispose su sei colonne il testo biblico; nella prima colonna ricopiò il testo ebraico in caratteri ebraici, nella seconda lo stesso
testo ma in caratteri greci, in modo da fissarne la pronuncia; quindi nelle altre colonne rispettivamente le traduzioni di Aquila, Simmaco, della LXX ed infine di Teodozione. L'analisi critica consisteva nel collocare nella quinta colonna dei segni utili per il confronto con originale ebraico. L'obelo ( ÷ ) rappresentava le aggiunte al testo; l'asterisco ( * ) le lacune.
Quest'opera non fu mai ricopiata e andò ben presto perduta. Nel 400 San Girolamo ci riferisce che andò a
consultare presso la grande biblioteca di Cesarea quella che era l'unica versione esistente.
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3 – ISPIRAZIONE E CANONE DELL'A.T.
3.A - Il problema dell'ispirazione
La Sacra Scrittura riporta diversi luoghi, espressioni e frasi in cui, parlando dello Spirito di Dio, afferma che "discende", "sopraggiunge", "prende possesso di un uomo" e lo porta irresistibilmente ad agire e, parlare, scrivere. Dio prende l'iniziativa e coinvolge l'uomo; non opera mai da solo. In Is 6 ne abbiamo un esempio illuminante:
« Poi io udii la voce del Signore che diceva: "Chi manderò e chi andrà per noi" E io risposi: "Eccomi, manda me". Egli disse: "Vai e riferisci a questo popolo… » (Is 6,8-9)
L'uomo coinvolto deve operare e riferire, deve svolgere la funzione dell'araldo, del profeta (= "colui che sta davanti e parla").
Questo dono della parola è connesso indissolubilmente al dovere dell'azione; il profeta, l'araldo deve testimoniare (Os l,2-9).
Quest'esperienza di vita e di annuncio può incidere nel quotidiano delle generazioni umane grazie alla fissazione per iscritto. La Scrittura diventa il coronamento per iscritto dell'azione "ispiratrice" stessa di Dio. Dio ispira i contenuti da scrivere all'uomo; Dio gli detta le Sue verità. Occorre tenere presente lo strumento umano di cui Dio si è servito: se nella Bibbia non si trova la verità che si cerca, o addirittura si trovano degli errori, tutto dipende dalla natura di questo strumento che con la sua intelligenza, evidentemente, interagisce con il messaggio che Dio ispira. L'autore sacro scrive, allora, la verità che Dio gli detta; la sua stessa fede glielo conferma.
L'accettazione umana della richiesta divina fa sì che l'azione dello scrivere abbia come propria fonte l'iniziativa di Dio, ma anche l'opera dell'uomo. I teologi medioevali, in particolare San Tommaso d'Aquino (1225-1274), al proposito parlavano di causa prima (Dio) e di causa seconda o strumentale (l'uomo).
La dottrina cattolica al proposito conclude affermando che l'influsso della causa prima sulla seconda rispetta pienamente tutte le prerogative di questa (quindi nell'uomo: la libertà). In altre parole, l'uomo che scrive sotto "dettatura" divina è e rimane assolutamente libero, tanto è vero che Dio non gli rivela verità in contrasto con l'orizzonte scientifico del suo tempo. Da qui una possibilità per spiegare e gli errori scientifici nella Bibbia.
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3.B - Il canone
Per "canone" si intende l'insieme di tutti gli scritti che compongono la Bibbia, ossia il catalogo completo dei libri ispirati.
La Chiesa Cattolica ha ufficialmente definito il Canone solo nel 1546, durante la IV sessione del Concilio di Trento. In questa sede si decise di accogliere il cosiddetto "canone alessandrino" che riconosceva come sacri 46 libri. Per la comunità ebraica l'elenco dei libri sacri fu determinato da altre considerazioni. Furono considerati
Flavio Giuseppe Fariseo nato nel 37 d.C., parteggiò per il movimento degli Zeloti durante la Prima Guerra Giudaica del 66-70 e fu governatore militare della Galilea per le forze ribelli. Catturato da Tito, figlio di Vespasiano, gli predisse che sarebbe diventato imperatore, ed egli gli risparmiò la vita. Scrisse le "Antichità giudaiche", nella quale racconta la storia del popolo ebraico dalle origini fino all'epoca immediatamente precedente la Guerra Giudaica, opera che contiene preziose notizie relative ai movimenti religiosi del giudaismo del I secolo come gli Esseni, i Farisei, gli Zeloti.. |
sacri tutti i libri scritti non oltre il V sec. a.C., perché dopo questa data "non vi fu una sicura successione di profeti" (Flavio Giuseppe, Contra Apionem, l,8). Possiamo, poi, trovare altri motivi in certi pregiudizi della letteratura rabbinica: uno scritto può essere sacro solo se redatto in lingua ebraica e in Palestina. Tutto questo portò all'elaborazione di un canone "corto" composto da 39 libri, sette in meno di quello alessandrino e cristiano. Furono esclusi i libri di Tobia, Giuditta, l e 2 Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc. Questo canone fu chiamato "palestinese". Gli ebrei suddivisero poi questi 39 libri in tre gruppi:
Torah (Pentateuco): Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio.
Nevi'im (Profeti): Giosuè, Giudici, Samuele (I e II), Re (I e II), Isaia, Geremia, Ezechiele, i 12 Profeti minori
Ketuvim (Scritti): Salmi di Davide, Proverbi, Giobbe, Cantico dei Cantici, Rut, Lamentazioni, Ecclesiaste, Ester, Daniele, Esdra-Neemia, Cronache (I e II)
Prendendo le iniziali ebraiche dei tre gruppi si ottiene l'acronimo Tanakh, con cui spesso la Bibbia ebraica è conosciuta.
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4 - LA GEOGRAFIA E LA GEOLOGIA PALESTINESE
Per descrivere la terra della Bibbia nel migliore dei modi è necessario dividerla in sei strisce parallele che corrono da nord a sud.
La prima striscia è la cosiddetta "pianura costiera": inizia presso la città di Aczib dove è larga cinque chilometri, e poi, a mano a mano che si procede verso sud, si allarga gradualmente fino a raggiungere la massima estensione a sud di Giaffa, circa 20 Km di larghezza.
La seconda striscia è chiamata "zona collinare", perché composta da una serie di colline tondeggianti e di larghe valli che, oltre a fungere da transizione fra la pianura costiera e la regione montuosa centrale, offrono parecchi accessi verso est. Queste valli ospitano anche le principali vie di comunicazione.
La terza striscia è costituita dalla zona montuosa centrale che comincia a nord dell'alta Galilea. Questo massiccio centrale presenta monti che giungono ad altezze superiori ai 1.000 metri. Questa zona non offre facili passaggi: gli itinerari antichi li evitavano. A sud di Betlemme questi monti cominciano a digradare verso il deserto del Negheb.
La quarta striscia è una valle tettonica, "la fossa del Giordano". Essa fa parte della cosiddetta "spaccatura siriana", una faglia che ha origine nella valle dell'Oronte, in Siria, e termina in Africa equatoriale, nella zona dei grandi laghi, per uno sviluppo complessivo di circa 5.000 chilometri. Questo fenomeno grandioso e unico risale alla fine dell'era Cenozoica. In corrispondenza del Mare di Galilea la depressione raggiunge i 210 metri sotto il livello del Mediterraneo, e in corrispondenza del Mar Morto i 400.
A causa dei fenomeni tettonici, dovuti all'espansione dei fondali oceanici, la zolla continentale euro-africana si sta allontanando da quella asiatica, con la conseguente formazione di una faglia detta "diretta o distensiva". Nella seconda metà del Terziario, fra il Miocene e il Pliocene, gli strati rocciosi furono rotti in direzione nord - sud. Si formò allora lo sfondamento dell'attuale fossa siriana, e nello stesso tempo nacquero la pianura costiera e la zona montagnosa ad ovest del Giordano. Da successive depressioni ebbe origine la valle di Jizreel; acqua e vento fecero il resto. Lo scorrere millenario del Giordano sul fondo di questa depressione modificò il paesaggio così come oggi lo possiamo ammirare, ma non è niente se confrontato con ciò che un ipotetico osservatore potrà vedere fra milioni di anni: un nuovo oceano. Per ora ad occuparla sono il Mare di Galilea e il Mar Morto.
Considerato che quest'ultimo mare sorge in una zona desertica ad altissima percentuale d'evaporazione, ben si comprende il perché abbia un immissario e nessun emissario, e la conseguente altissima percentuale di salinità delle sue acque. La valle dell'Araba, poi, risale gradualmente fino a riportarsi a livello del mare in prossimità del Golfo di Aqaba.
La quinta striscia è costituita dai monti che chiudono ad est la valle del Giordano. A nord est del mare di Galilea questi rilievi raggiungono i 1.100 metri formando, poi, un altopiano che si estende fino a Damasco. Più a sud, lungo la costa del mar Morto, queste montagne sono scavate da profonde valli d'origine alluvionale (originate, in altre parole, da torrenti non perenni detti wadi) che le segmentano da est ad ovest. Ancora più ad est, la quinta striscia sfuma nella sesta: il deserto siriano.
Politicamente la Palestina e divisa da nord a sud in tre regioni: Galilea, Samaria e Giudea.
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5 – STORIA DELLE ISTITUZIONI EBRAICHE: LE ISTITUZIONI SACRE
5.A - Il Sacerdozio
Non abbiamo molte notizie sul ministero sacerdotale in Israele prima di Mosè. Si pensa, in ogni modo, che fosse di pertinenza del capo famiglia o del capo tribù. Il sacerdozio di Aronne (Es 4,14 ss) sarebbe l'antico retaggio di questa carica, alla quale ben presto si contrappose quella del sacerdozio levita. Le notizie dell'epoca dei Giudici (1150 a.C.) e dei Re (1050 a.C.) mostrano come il "pater familias" continuò a svolgere indisturbato la funzione sacerdotale nei sacrifici privati, senza ricorrere all'aiuto di un funzionario pubblico del culto. Tutto questo ha un senso se paragonato alla situazione religiosa dei popoli limitrofi. Gli egiziani e i babilonesi avevano un sacerdozio istituzionale: i sacerdoti erano dei funzionari e degli ufficiali pubblici. Presso i madianiti, invece, il "pater familias" fungeva da sacerdote; e gli ebrei, come i madianiti di quei secoli, erano nomadi. A mano a mano che Israele si trasformò in nazione, modificò anche l'organizzazione della religione, dai "pater familias" ai sacerdoti statali (i membri della tribù di Levi).
I passaggi che rappresentarono gli inizi di quest'evoluzione non furono certo agevoli. La gran concorrenza fra le antiche caste sacerdotali familiari e i leviti fu molto marcata. Non siamo in grado di dire, in ogni caso, quando Levi tolse la dignità del sacerdozio alle caste rivali, ma si possono solo citare alcuni motivi, quali la radicale fedeltà al legame con l'epoca di Mosè; il favore della monarchia nascente; la nascita di un più complesso apparato cultuale necessario per una nazione che passava dallo stato nomadico a quello stanziale. Quest'evoluzione si completò lentamente.
Nell'epoca monarchica era il re ad esercitare parecchie funzioni sacerdotali, come per i popoli vicini: doveva offrire sacrifici, benedire il popolo ecc. Non ricevette, tuttavia, il titolo di sacerdote se non nel Salmo 110,4 dove lo si paragona a Melchisedec. Di fatto, nonostante quest'allusione al sacerdozio regale di Canaan, egli era più un patrono del sacerdozio che un membro della casta, ma era pur sempre una figura nazionale ben distinta dal "pater familias".
La riforma di Giosia, nel 621 a.C., operò un ulteriore passo, sopprimendo i santuari locali a favore del culto di Gerusalemme, e avviò definitivamente il processo d'emancipazione del sacerdozio levita. Fra i membri maschi di questa tribù fu data importanza ai "figli di Sadoq" (in pratica ai rappresentanti maschi della famiglia di Sadoq), e fra loro fu scelto, da allora in avanti, il Sommo Sacerdote (Ez 44,15).
La gerarchia diventò rigorosa. Il Sommo Sacerdote fu il successore d'Aronne, divenuto il tipo ideale di sacerdote. C'era sempre stato in ogni santuario un sacerdote capo; il titolo di Sommo Sacerdote apparve in un momento in cui l'assenza del re faceva sentire il bisogno di un capo per la teocrazia. Dal IV secolo a.C. ricevette un'unzione che ricordava quella che un tempo consacrava il re (Lv 8,1-13). Ebbe, da subito, dei compiti ben precisi: sovrintendere allo svolgimento del culto nel Tempio di Gerusalemme; presenziare e presiedere le celebrazioni in occasioni delle feste principali (in particolare, in occasione della festa dell'Espiazione, gli era riconosciuto il diritto di entrare nel Santo dei Santi del Tempio e di pronunciare il nome di "Yahwè", come riferitoci da Lv 16).
Svolgeva funzioni di guida utilizzando i misteriosi "Urim e Tummin", oggetti di forma e dimensione sconosciuta che servivano per la divinazione (1 Sam. 14,41). Agli ordini del Sommo Sacerdote furono costituiti i Sacerdoti (Es 29,22-29), suddivisi in 24 gruppi o classi (1 Cr 24,1-4): ciascuna classe a turno serviva per una settimana nel Tempio. Disimpegnavano quasi tutto il culto, ed in particolare dovevano offrire sacrifici sia quotidiani sia nelle feste. Avevano inoltre il compito di cambiare settimanalmente i "pani della proposizione" (Lv 24,5-9), offrire mattina e sera incenso sull'altare dei profumi e conservare acceso il "menorah", il candelabro a sette bracci (Es 25, 31-40). Erano anche ufficiali pubblici: spettava loro accertare la guarigione dalla lebbra (Lv 14) e risolvere certe contese. A disposizione dei sacerdoti erano i Leviti (Nm 3,5-10), membri di un clero inferiore, che si occupavano di preparare e conservare tutto ciò che aveva relazione con il culto; in più si curavano del canto e della musica nel Tempio.
L'Arca dell'Alleanza come è immaginata nel film "I Predatori dell'Arca Perduta"
5.B - I luoghi di culto
Come tutte le religioni, anche quella veterotestamentaria manifestò la propria fede in alcuni luoghi privilegiati. Durante la peregrinazione nel deserto, particolare importanza ebbero i "monti sacri", cioè il Sinai, o le "fonti sacre" come Kades. Dopo la conquista, i luoghi che acquistarono particolare importanza furono i santuari (in primo luogo quelli di Silo e Mizpa) e il Tempio di Gerusalemme. Quanto più la fede si legò ad un luogo di culto, tanto più divenne grave il pericolo di fraintendere il concetto di Dio e del suo culto.
Il luogo sacro, infatti, soprattutto quando ospitò la dimora di Dio, indusse a localizzare la divinità in un certo punto geografico e quindi a delimitarne il raggio d'azione; anzi, nel caso di località cultuali rivali, in determinate circostanze portò a frantumare la sua realtà in varie divinità peculiari. Come reagì la religione di Yahwè a questi pericoli?
Fin dall'inizio fu attraversata da una singolare tensione fra l'interesse per la reale presenza della divinità in luoghi sacri, e la consapevolezza che la natura di Yahwè era contraria alla sua delimitazione fisica ad una località. Fin dall'inizio, pertanto, si osserva la tendenza a definire i luoghi sacri non come abitazioni di Dio, ma come luoghi dove Yahwè si è manifestato:
« Il Signore apparve ad Abramo e gli disse: "Alla tua discendenza Io darò questo paese" Allora Abramo costruì in quel posto un altare al Signore che gli era apparso » (Gn 12,7)
Col procedere degli anni, tuttavia, questa mentalità fu messa sempre più in discussione per l'influsso della religione cananea. Secondo quest'ultima il più grande degli dei era Baal (Seth per gli egiziani), colui che possedeva la terra abitata dai suoi fedeli, ai quali donava benedizioni naturali. Su questo territorio era ovvio che il dio fosse sempre presente, così come erano presenti le forze naturali nelle quali si manifestava.
Questo modo di percepire la presenza della divinità è confermata dall'importanza che assunsero le fonti, gli alberi, le pietre sacre nei luoghi di culto cananei e nell'edificio del Tempio, che si deve supporre presente in tutte le città più importanti. Dopo la conquista della terra promessa, l'idea dell'abitazione di Dio fra i suoi si affermò definitivamente. Si cominciò con la costruzione del santuario di Silo, considerato l'abitazione di Dio, in cui ardeva la fiamma perenne (1 Sam 3,2 ss) e si potevano avere oracoli in sogno; fu poi la volta dei santuari di Gerusalemme, Betel, Dan, Samaria, Ofra, Mizpa.
Nel periodo del deserto, di ritorno dall'Egitto, gli ebrei utilizzarono, più che dei luoghi sacri, degli oggetti di culto portatili. Il più testato è la tenda sacra (Es. 26,1-14): il nome stesso ebraico di "ohel mo'ed" ("tenda dell'incontro") ne testimonia la funzione, in quanto essa servì all'incontro fra Mosè e Yahwè.
La divinità, anche qui, non si trovava sempre, ma vi si presentava avvolta nella nube, sulla porta, per dare la risposta all'uomo che invocava. Colui che vi si rivelava era il "Dio lontano" per antonomasia. La Tenda fu la chiarissima espressione dell'inavvicinabile Dio.
Era divisa in due settori, il più grande detto "Santo" e il più nascosto detto "Santo dei Santi" che ospitava l'Arca dell'Alleanza, luogo inaccessibile a tutti fuorché al Sommo Sacerdote nel giorno della festa dell'Espiazione.
L'Arca dell'Alleanza (Es 25, 10-22) era invece una cassetta di 125 x 65 x 65 cm., che probabilmente stava ad indicare il trono di Dio. La notizia, riportata solo dal deuteronomista e dalla fonte P, secondo cui nell'arca erano conservate le Tavole della Legge (Dt 10,1-2; Es 25,16), concorda con la concezione che si aveva in quell'epoca; anche presso altri popoli esistettero troni per il dio, che spesso celavano al loro interno una sua effigie. Fu il caso dei fenici e della dea Astarte.
Sia, in Asia Minore sia in Egitto vi era poi l'usanza di deporre ai piedi della divinità contratti e documenti. Molti dubitano che l'arca fu costruita come oggetto sacro, mentre ritengono che fu fatta in conformità a modelli cananei. La sua origine, in effetti, crea una certa difficoltà, in quanto le fonti più antiche (Y ed E) non ci dicono nulla circa la sua costruzione.
Nell'anno in cui fu costruito il Tempio di Salomone e l'arca occultata al suo interno, nella nicchia più nascosta e sacra, tutto ciò che essa espresse e significò per gli ebrei fu trasferito al Tempio stesso, che diventò così la tutela dell'adorazione di Yahwè. Su questa base l'Arca perse rapidamente d'importanza, e alla fine con la Tenda andò persa, senza che ciò abbia provocato un grave sconvolgimento. Ci fu un'inversione di mentalità, di cultura teologica: il Dio lontano dell'Arca e della Tenda si era svelato e reso presente fra il popolo nel Tempio di Salomone.
Quest'ultimo fu costruito intorno al 980 a.C. dal re Salomone (1 Re 6) sulla sommità del monte Moria. Seguì per forma e disposizione la Tenda, pur essendo, evidentemente, di proporzioni maggiori. Aveva la facciata rivolta verso est, verso il sole levante. Davanti al portale d'ingresso fu costruito l'altare dei sacrifici con una gran vasca di bronzo, detta "Mare", per le abluzioni. Colonne bronzee si ergevano su entrambi i lati d'ingresso, ma il loro scopo resta sconosciuto. Il portale d'ingresso aveva due battenti di legno d'olivo, ed alcuni gradini introducevano nel Santiario. La sua pianta interna presentava una successione di tre vani: un atrio rettangolare (ulam); un primo salone normalmente frequentato dai sacerdoti per lo svolgimento delle funzioni, detta Santo (hekel), rivestito di pannelli di cedro, che conteneva il candelabro a sette bracci, l'altare dei profumi e una tavola usata come appoggio per i pani della proposizione; alcuni gradini conducevano poi in una seconda sala, la più interna e sacra, avvolta nell'oscurità totale, il debir o Santo dei Santi, in cui era conservata l'arca dell'Alleanza. Qui era presente Dio in persona, e qui poteva entrare solo il Sommo Sacerdote, una volta sola l'anno. I magazzini erano costruiti negli spessi muri o sporgevano da essi. La struttura architettonica del Tempio la si deve a maestranze fenice e siriane. Interessante confronto si può proporre, quindi, con i luoghi di culto di questi popoli. È sorprendente la corrispondenza, come mostrato dalle planimetrie ricavate dagli scavi; secondo molti studiosi si tratterebbe dello sviluppo e dell'evoluzione di un medesimo modello. Fu distrutto dai babilonesi nel 587 a.C. (2 Cr 36, 17-21).
Di ritorno dalla cattività babilonese, intorno al 520 a. C., il Tempio fu ricostruito e chiamato "Tempio di Aggeo o Zorobabele" (Esd 5, l-17); era uguale al precedente anche se molto meno sontuoso, inoltre vi mancava l'Arca dell'Alleanza, nel frattempo andata persa. Il re Erode il Grande nel 20 a.C. iniziò imponenti lavori di restauro, ampliamento ed abbellimento. Il corpo centrale rimase invariato, mentre furono costruiti intorno atri, cortili, porticati e depositi. Fu distrutto definitivamente dai romani nel 70 d.C. e mai più ricostruito.
Nelle città di provincia, invece, il culto fu disimpegnato presso le sinagoghe. Qui non si fecero sacrifici, che furono celebrati essenzialmente nel Tempio di Gerusalemme, ma solo riunioni di preghiera, con canti e commento alle letture (detto "discorso d'esortazione") tenuto dal capo della comunità. Comunemente avevano tre navate, con sedili per la gente e ripostigli (genizah) per i libri. Tutte le sinagoghe ebbero l'asse facciata-abside in direzione di Gerusalemme.
Ricostruzione pittorica del Tempio di Erode
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5.C - Il calendario
Il calendario usato dagli ebrei era lunare, formato da 12 mesi di 29 o 30 giorni, dato che il ciclo lunare è di 29,5 giorni. Il mese iniziava sempre con un novilunio, di conseguenza il 14-15 di ogni mese si aveva il plenilunio. Dodici mesi così composti danno un anno di 354-355 giorni, destinato pertanto a rimanere indietro, rispetto al calendario solare, di circa 10 giorni. Per ovviare a ciò ogni tre anni era aggiunto un mese di 29 giorni (dunque un ciclo lunare) dopo il dodicesimo, in modo che il primo mese fosse sempre il mese di Nisan, al 15 del quale si aveva il primo plenilunio dopo l'equinozio di primavera. L'anno ebraico, dunque, iniziava sempre con la primavera (tipico di una cultura agricola). Dal momento che il ciclo lunare non corrisponde mai al mese solare, ne deriva che ogni mese ebraico si colloca fra due mesi solari diversi, secondo la seguente corrispondenza:
I Nisan = marzo-aprile
II Ijjar = aprile-maggio
III Sivan = maggio-giugno
IV Tammuz = giugno-luglio
V Ab = luglio-agosto
VI Elul = agosto-settembre
VII Tishri = settembre-ottobre
VIII Marchesvan = ottobre-novembre
IX Kisleu = novembre-dicembre
X Tebet = dicembre-gennaio
XI Sebat = gennaio-febbraio
XII Adar = febbraio-marzo
XIII Ve-adar = mese supplementare
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5.D - Le feste principali
Festa settimanale era il sabato, che comportava astinenza totale dal lavoro (Lv 23,3). Festa mensile era la "neomenia", ossia l'inizio del mese, che non prevedeva riposo, eccetto la neomenia di Tishri (Lv 23, 23 - 25).
Feste annuali, infine erano la Pasqua, la Pentecoste, i Tabernacoli, l'Espiazione, la Dedicazione e i Purim.
La Pasqua era celebrata in ricordo della liberazione dall'Egitto e arrivò ad inglobare celebrazioni precedenti, tipiche di una cultura agricola, quali quelle relative alla festa degli azzimi. Presso le tribù del nord, dove prevaleva un'economia agricola, il nome della festa era "hag hammassot"; nel meridione, invece, dove abitavano allevatori di bestiame, la festa era detta "hag happesah". Per parecchio tempo le due feste coesistettero separatamente. L'occasione del ricordo della fuga dall'Egitto, orgoglio nazionale, portò gli ebrei a fonderle e a celebrarle nella medesima occasione (Es 12, l-20).
La Pasqua così riformata durava una settimana, fra il 14 e il 21 del mese di Nisan. Solo il primo e l'ultimo giorno prevedevano riposo. Il penultimo giorno si offriva, nel Tempio, un covone di grano che doveva essere "agitato dal sacerdote con gesto rituale" e poi bruciato sull'altare dei profumi. Con questo rito si chiedeva a Dio un buon raccolto. Esattamente 50 giorni dopo l'agitazione rituale del covone, o 49 dopo la fine della festa di Pasqua (= 7 settimane), era celebrata la "festa di Pentecoste o delle settimane". Con essa si ringraziava Dio del raccolto appena fatto. Era, dunque, la festa della mietitura.
Esattamente sei mesi dopo la festa di Pasqua era celebrata la "festa delle capanne" che durava otto giorni e, come quest'ultima, prevedeva riposo il primo e l'ultimo giorno (Lv 23,33-36). Durante questa festa gli ebrei erano soliti soggiornare in tende e capanne preparate in campagna per l'occasione. Con questa festa era ricordato il periodo in cui i loro padri avevano vissuto nel deserto, di ritorno dall'Egitto. Durante il periodo monarchico questa festa fu arricchita di un nuovo ed importante atto: si ricordava l'intronizzazione del re, sulla falsariga della festa giubilare del "Sed" per i faraoni egiziani.
Le tre ricorrenze di Pasqua, Pentecoste e Tabernacoli erano dette "feste del pellegrinaggio" perché gli ebrei d'età superiore ai 12 anni dovevano recarsi, in occasione di almeno una di queste feste, in pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme.
Il Giorno dell'Espiazione (Lv 16) cadeva il dieci del mese di tishri, quindi poco prima della festa delle capanne, era solennizzato con il riposo e con diversi riti di penitenza. Soltanto in questo giorno il Sommo Sacerdote poteva entrare nel Santo dei Santi del Tempio invocando il nome di Yahwè.
La festa della Dedicazione iniziava il 25 del mese di kisleu e si protraeva per otto giorni. Commemorava la purificazione e la nuova consacrazione del Tempio compiuta nel 164 a.C. da Giuda maccabeo (1 Mac l,16-28). Era quindi una festa relativamente tarda.
La festa dei Purim o delle sorti si teneva verso la metà del mese di Adar e ricordava il tentato di massacro perpetrato da Amman e sventato da Ester (Est 9).
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5.E - Le azioni sacre
La principale azione sacra richiesta dalla fede ebraica antica era il sacrificio. Erano sacrificati animali secondo le regole relative alla purità e all'impurità, codificate in Lv 11. Questi erano sacrifici richiesti dalla religione del secondo Tempio, quindi da dopo il 520 a.C.
Per quanto attiene la prassi sacrificale in vigore in precedenza, non sappiamo quasi nulla. Probabilmente in epoca molto antica erano ammessi sacrifici umani. Ultimo retaggio lo si trova in Gen 22, il tentato sacrificio di Isacco, con la sua parenetica conclusione:
« Poiché tu hai fatto questo, e non mi hai rifiutato tuo figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza... » (Gen 22,16-17)
Da quel momento i sacrifici umani furono messi al bando, al contrario di altri popoli come i cananei o i fenici, che sacrificavano i loro primogeniti. Gli scavi archeologici provano con estrema chiarezza la presenza di sacrifici umani in Canaan prima della conquista israelita. Si tratta di sacrifici di due tipi:
1) per la posa della prima pietra di una costruzione, come provano la scoperta di scheletri nelle fondamenta di mura e di torri in Geser, Taanak e Meghiddo, e sacrifici di bambini, probabilmente primogeniti, come fa sospettare la presenza di grandi anfore in terracotta contenenti piccoli cadaveri scoperti a Lachis. La Bibbia testimonia sacrifici di fondazione, basta leggere Gs 6,26 e 1 Re 16,34.
2) sacrifici di guerra. 2 Re 3,26-27 parla di sacrifici umani moabiti di questo tipo. Probabilmente, in un primissimo tempo, anche gli ebrei si adeguarono a questa prassi.
In epoca più recente la Legge ci testimonia la definitiva presa di distanza dall'abitudine dei sacrifici umani:
« Non lascerai passare alcuno dei tuoi figli a Moloch... » (Lv. 18,21)
Si passò allora ad un altro genere, una sorta di sacrificio surrogatorio: la circoncisione.
Questo rito puberale, presente in diverse culture, fu da Israele anticipato all'infanzia e probabilmente sostituì il sacrificio dei bambini.
Nel VII secolo a.C. in Giudea incontriamo una spiegazione di carattere simbolico. La legge sacerdotale (P) dichiarò segno ufficiale del patto quello che era piuttosto un atto d'iniziazione personale, attribuendogli un nuovo significato che chiamò in causa il concetto d'alleanza.
Altro surrogato del sacrificio umano fu per Israele la consuetudine di "votare allo sterminio o alla distruzione" (herem) la preda di guerra. L'annientamento del nemico, senza esclusione per le donne, i bambini, gli animali e gli oggetti, era presente anche presso altri popoli. Tale consuetudine non è propriamente un sacrificio, né un dono sacro, ma rientra nel novero delle rinunce prescritte al guerriero in segno di gratitudine alla divinità presente nell'accampamento. Il nemico, in questo modo, è dichiarato sacro e intoccabile e sottratto al diritto di proprietà di qualsiasi uomo, e perciò destinato alla distruzione. Occorre ricordare che in Israele non esistette mai l'istituto della schiavitù. Da dopo la deportazione, i sacrifici, come detto, si fecero solo nel Tempio di Gerusalemme e con animali.
C'era differenza fra il sacrificio e l'olocausto. Il sacrificio (Lv 6,17-7,17) prevedeva che l'animale fosse purificato (con acqua), sgozzato, dissanguato, sventrato. Le parti non commestibili erano bruciate, mentre le parti commestibili erano arrostite e mangiate dai sacerdoti nel banchetto sacro. Nell'olocausto (Lv l,1-17) l'animale era purificato, sgozzato e dissanguato; il tutto, poi, era bruciato in onore di Yahwè. C'erano anche le offerte di farina, grano, vino ed olio, incenso ecc. che solitamente servivano per preparare i pani della proposizione, o più semplicemente bruciati in onore di Yahwè.
Caravaggio, "Il sacrificio di Isacco", 1601-02, olio su tela, 104 x 135 cm, Galleria degli Uffizi, Firenze
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6 - LE ISTITUZIONI CIVILI
6.A - Il matrimonio
L'antica celebrazione matrimoniale non ha quasi lasciato testimonianza nella storiografia: probabilmente si trattava di un rito semplice e da collocare all'interno dei complessi rapporti economici propri dell'uomo del deserto; una sorta di baratto che poteva essere deciso e discusso sotto le tende o in prossimità di qualche oasi. La famiglia dello sposo doveva riscattare la futura moglie dal padre di lei, e quest'ultimo doveva preparare una dote per i futuri sposi, una specie di regalo di nozze. Non necessariamente la moglie doveva convivere, poi, con il marito: poteva rimanere a casa del padre e ricevere delle periodiche visite dal consorte. In compenso era a discrezione della sposa sterile autorizzare il marito ad unirsi alla propria ancella, secondo
Codice di Hammurabi Si tratta di una fra le più antiche raccolte di leggi conosciute nella storia dell'umanità. Comprende 282 sentenze e venne compilato durante il regno del re babilonese Hammurabi, che durò dal 1792 al 1750 a.C. La stele di diorite alta circa 204 cm su cui era inciso venne rinvenuta verso la fine dell'Ottocento nella città di Susa. Attualmente si trova a Parigi, nel Museo del Louvre. |
un'antichissima norma del diritto mesopotamico (la prevedeva il Codice di Hammurabi).
« Sarai, moglie di Abram, non gli aveva dato figli. Avendo però una schiava egiziana chiamata Agar, Sarai disse ad Abram: "Ecco, il Signore mi ha impedito di aver prole; unisciti alla mia schiava: forse da lei potrò avere figli." Abram ascoltò la voce di Sarai. Così, al termine di dieci anni da quando Abram abitava nel paese di Canaan, Sarai, moglie di Abram, prese Agar l'egiziana, sua schiava, e la diede in moglie ad Abram, suo marito. Egli si unì ad Agar, che restò incinta. » (Gen 16,1-4).
La schiava doveva partorire sulle ginocchia della padrona e il figlio o figlia che nasceva era considerato figlio o figlia della padrona, non della serva.
Con il tempo si impose la prassi matrimoniale filistea, che è ben testata dalla Bibbia e che prevedeva un rituale articolato in due momenti: anzitutto si stipulavano gli "sponsali" che corrispondevano all'odierna celebrazione del matrimonio, anche allora i due erano considerati sposi civilmente. Più tardi, anche a distanza di un anno, era organizzata la "festa nuziale": un corteo conduceva la sposa a casa dello sposo, dove si teneva un banchetto, che alle volte si protraeva per più giorni. In genere i genitori si accordavano sullo sposalizio, i loro figli non erano consultati.
La fede israelitica escludeva i matrimoni entro la parentela:
« Nessuno si accosterà a una sua consanguinea, per avere rapporti con lei. Io sono il Signore. Non recherai oltraggio a tuo padre avendo rapporti con tua madre: è tua madre; non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità della tua matrigna; è la nudità di tuo padre. Non scoprirai la nudità di tua sorella, figlia di tuo padre o figlia di tua madre, sia nata in casa o fuori. Non scoprirai la nudità della figlia di tuo figlio o della figlia di tua figlia, perché è la tua propria nudità. Non scoprirai la nudità della figlia della tua matrigna, generata nella tua casa: è tua sorella. Non scoprirai la nudità della sorella di tuo padre; è carne di tuo padre. Non scoprirai la nudità della sorella di tua madre, perché è carne di tua madre. Non scoprirai la nudità del fratello di tuo padre, cioè non ti accosterai alla sua moglie: è tua zia. Non scoprirai la nudità di tua nuora: è la moglie di tuo figlio; non scoprirai la sua nudità. Non scoprirai la nudità di tua cognata: è la nudità di tuo fratello. Non scoprirai la nudità di una donna e di sua figlia; né prenderai la figlia di suo figlio, né la figlia di sua figlia per scoprirne la nudità: sono parenti carnali: è un'infamia. E quanto alla moglie, non prenderai inoltre la sorella di lei, per farne una rivale, mentre tua moglie è in vita. » (Lv 18, 6-19)
Era ammesso anche il divorzio secondo i dettami del Deuteronomio:
« Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa. Se essa, uscita dalla casa di lui, va e diventa moglie di un altro marito e questi la prende in odio, scrive per lei un libello di ripudio, glielo consegna in mano e la manda via dalla casa o se quest'altro marito, che l'aveva presa per moglie, muore, il primo marito, che l'aveva rinviata, non potrà riprenderla per moglie, dopo che essa è stata contaminata, perché sarebbe abominio agli occhi del Signore; tu non renderai colpevole di peccato il paese che il Signore tuo Dio sta per darti in eredità. » (Dt 24,1-4)
Interessante per la difesa della donna senza figli e vedova era la legge del levirato, sancita da Dt 25, 5-10 e quasi sempre applicata, come si può costatare in Gen 38 e persino nel Vangelo (Mt 22,23-28).
« Quando i fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si mariterà fuori, con un forestiero; il suo cognato verrà da lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere del cognato; il primogenito che essa metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto perché il nome di questo non si estingua in Israele. » (Dt 25,5-6)
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6.B - La famiglia
Il "pater familias" era sempre il membro più anziano in linea diretta. Tutti i suoi figli, anche se già sposati e con prole, vivevano sotto la sua potestà e presso la sua casa. Era quindi sempre molto numerosa e non necessariamente monogamica, nel senso che erano tranquillamente ammesse delle concubine.
Il potere del "pater" era assoluto, monarchico, ma non tirannico: a lui spettavano tutte le decisioni relative alla vita della famiglia, e i suoi figli non dovevano far altro che obbedire. Alla sua morte la famiglia originaria si frantumava, e ogni figlio andava a formarne una sua, che col tempo si sarebbe arricchita di nuove persone.
Particolare importanza aveva la figura del primogenito. A lui spettava la parte più consistente per qualità e quantità dell'eredità paterna (Gen 25,5-6).
Esisteva anche una sorta di investitura del primogenito: la benedizione. Ricevutala, il primogenito aveva un titolo giuridico per far valere i suoi diritti e per sostituire il padre in tutte le mansioni di comando e di rappresentanza della famiglia; proprio per questo era accordata in prossimità della morte del vecchio padre.
«
Ecco l'odore del mio figlio
come l'odore di un campo
che il Signore ha benedetto.
Dio ti conceda rugiada del cielo
e terre grasse
e abbondanza di frumento e di mosto.
Ti servano i popoli
e si prostrino davanti a te le genti.
Sii il signore dei tuoi fratelli
e si prostrino davanti a te i figli di tua madre.
Chi ti maledice sia maledetto
e chi ti benedice sia benedetto! » (Gen 27,27-29)
Diverse famiglie usavano tenere dei forestieri come ospiti abituali: normalmente erano dei perseguitati politici che avevano ottenuto protezione presso il popolo ebraico. C'erano anche i servi, che tuttavia non furono mai trattati come schiavi: erano piuttosto dei domestici, debitori che non erano riusciti a saldare i debiti.
Sulle proprietà fondiarie alla famiglia era anche riconosciuto da Lv 25,8-55 un diritto di riscatto, che aveva lo scopo di frenare il potere assoluto dell'individuo sulle stesse, e sancire definitivamente che la terra non può essere venduta per sempre, ma chi ha venduto o un suo parente prossimo ha il diritto di rientrare in possesso della sua proprietà versando il prezzo d'acquisto, cui è detratta una certa cifra per l'uso del terreno da parte dell'acquirente.
Il diritto di riscatto è limitato solo nel caso in cui si tratti d'abitazioni all'interno della cinta muraria, dove la validità del diritto è ristretta ad un solo anno, e solo tra ebrei. Un valido esempio d'applicazione pratica di questo diritto si trova in questo passo:
« Venne, dunque, da me Canamèl, figlio di mio zio, secondo la parola del Signore, nell'atrio della prigione e mi disse: Compra il mio campo che si trova in Anatot, perché a te spetta il diritto di acquisto e a te tocca il riscatto. Compratelo. » (Ger 32,8)
Scopo della norma è che i beni paterni rimangano in seno alla famiglia o, al peggio, in seno alla tribù, ed era prevista una procedura giudiziale di fronte a testimoni, ben ricordata da Rut 4,1-9.
Jacopo
d'Andrea, "L'incontro di Booz con
Rut", 1841, Pordenone, Seminario Vescovile
È ampiamente provato che una legge analoga esisteva a Babilonia; nulla impedisce di pensare che in Israele sia entrata in vigore nel periodo della riconquista, immediatamente precedente alla giudicatura (1200 a.C.), quando cioè la famiglia e la tribù aveva ampi poteri; poteri che in genere erano riconosciuti in una cultura seminomade.
La fonte P motiverà la legge affermando, giustamente, che Yahwè rivendica il diritto di proprietà su tutto il paese; questo prova l'estrema antichità della norma. Si presume, infatti, una solida teocrazia non ancora messa in discussione dalla giudicatura o dalla monarchia.
Tali norme sono importanti, perché pongono un freno alla speculazione fondiaria e favoriscono l'indipendenza economica e sociale degli agricoltori. In tal senso va dunque letta la legge dello Hallel o anno giubilare, la quale stabilisce che ogni cinquant'anni sia proclamata la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti affinché ciascuno possa ritornare alla sua proprietà e alla sua famiglia. Per questo motivo era completamente esclusa la vendita definitiva del terreno, e per sua natura ogni contratto d'acquisto riguardava solo i prodotti della terra fino all'arrivo del nuovo anno giubilare. In altre parole, non esisteva il contratto di vendita, ma quello d'affitto. La ratio di questa normativa poneva Israele in antitesi con le potenze del vicino antico oriente. In Egitto e a Babilonia come nelle grandi città-stato fenice l'economia si basava sul latifondo, mentre in Israele abbiamo uno sviluppo capitalista, ma entro categorie più sane: ad ognuno era concesso, almeno in linea teorica, di poter accedere alla fonte della produzione: la terra.
Alla stessa stregua vanno interpretati quei versetti che parlano del rapporto servi-padrone: quando la servitù dipendeva da un debito, nessuno poteva avvantaggiarsi della manodopera di terzi, se non come forma di pagamento. Il possesso delle persone veniva di fatto bandito. Il problema degli studiosi oggi è quello di capire se la cessione di una persona durava sette o quarantanove anni; la maggior parte degli studiosi propende per la prima ipotesi. Il Cavedo in un suo studio così commenta:
« Con realismo il Deuteronomio non si limita a fare appello ai nobili sentimenti, ma osserva che, se invece del servo indebitato che ha lavorato gratis, il padrone avesse assunto un salariato libero, l'avrebbe dovuto pagare e avrebbe speso il doppio. »
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6.C - I Giudici
Di ritorno dall'Egitto, gli Ebrei penetrarono nella Terra di Canaan attraversando i guadi sul Giordano, all'altezza di Gerico (Gs 2,7). Conquistata Gerico, si infiltrarono gradualmente sia verso sud sia verso nord.
Dovevano essere molto poveri, tanto che la Terra di Canaan poteva sembrare ai loro occhi come la terra che stillava "latte e miele". Questo modo di intendere le terre fertili è tipico dell'uomo del deserto, del nomade abituato ogni giorno a confrontarsi con un clima impossibile e con una natura ostile, agli occhi del quale una zona semiarida appare come un paradiso terrestre. In questa situazione va dunque compresa la conquista della Terra di Canaan, come una lotta fra nomadi e sedentari, fra la gente del deserto e quella della città. Quando gli ebrei iniziarono la loro campagna militare in Canaan, possedevano solo le greggi di pecore o capre e le tende. Una volta penetrati in Canaan, le tribù si dispersero, indifferenti le une alle altre, anche se permase la coscienza nazionale. Riferimento religioso, ma anche di unità delle tribù, fu sicuramente l'Arca; la potenza di Yahwè era chiara e soprattutto presente ai loro occhi dopo i miracoli nel Sinai. In questa prima fase gli ebrei ebbero il coraggio di abbandonare il deserto e il nomadismo, e si trasformarono in agricoltori, preparando così quel processo di urbanizzazione che favorì la nascita prima di piccoli villaggi fatti di case in terra battuta, senza alcuna difesa, poi di vere e proprie città.
Quando si dovettero confrontare con i popoli che già abitavano la Palestina, non temettero di ricorrere alla guerra. Le principali armi utilizzate furono la lancia, la spada corta e lo scudo. La Bibbia non parla di corazze. Mancavano ovviamente i carri da guerra, che comportavano un'alta tecnologia e soprattutto una certa disponibilità economica ed erano, comunque, inutili in un ambiente desolato e difficile qual è il deserto . I segnali erano dati con il "sofar", una sorta di tromba ricurva probabilmente ricavata da un corno. Il numero dei combattenti era scarso anche perché era limitata la popolazione e, di conseguenza, il numero dei soldati. La conquista, in ogni modo, non si rivelò un'impresa disperata e impossibile, anche perché i cananei erano piuttosto dediti ai commerci che non alla guerra, e a parte i bastioni che difendevano le loro città e che avevano proprio lo scopo di scoraggiare le bellicose popolazioni del deserto, non riuscirono ad esprimere quelle forme di difesa che la situazione oggettiva richiedeva. Le antiche raffigurazioni ci mostrano soldati armati di lance, spade, asce e mazze, ma scarsamente protetti da armi difensive. Possedevano fanteria, carri falcati e arcieri, probabilmente mercenari provenienti in buona parte dall'Anatolia. Combattenti valorosi e feroci, discendenti diretti dei "popoli del mare" che qualche decennio prima avevano spazzato via l'Impero Ittita e messo a dura prova addirittura quello egiziano.
Nonostante la notevole forza d'impatto che gli Ebrei riuscirono ad esercitare, non si può ancora parlare di una vera e propria organizzazione politica e militare alla base della conquista; probabilmente non esisteva, presso di loro, nemmeno il capotribù. Il potere era nelle mani degli anziani, in particolare i più autorevoli. Solo in un secondo tempo fu eletto un capo, o giudice, in genere al momento stesso delle operazioni, di pericolo imminente e con autorità limitata ad una o al massimo a qualche tribù. Oltre che alla funzione di comandante in capo dei piccoli eserciti delle tribù, questi "giudici" (in ebraico "sofet") avevano, in tempo di pace, il compito di amministrare la giustizia. Era una carica a vita e non ereditabile. Il giudice veniva dunque eletto attraverso un'investitura carismatica, data quando la persona dimostrava di agire come "mosia", vale a dire salvatore. La logica evoluzione della giudicatura fu la monarchia.
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6.D - La monarchia
Al tempo dei giudici, Abimelec tentò di instaurare a Sichem una regalità di tipo cananeo (Gdc 9, l-7). Il tentativo, però, fallì miseramente. Dinanzi al pericolo filisteo o, in ogni modo, di popoli meglio organizzati, gli ebrei cominciarono a desiderare un re che li giudicasse e conducesse con loro le guerre (1 Sam 8, l). Da subito l'idea fu osteggiata; si rischiava di essere troppo simili ai popoli limitrofi. Di fronte all'inflessibilità degli anziani e "di tutto Israele", però, Samuele si vide costretto a cedere e a consacrare la nuova istituzione attraverso l'unzione di Saul. A questi successe Davide, e a lui il figlio Salomone. Alla morte del gran re le tribù del nord si affrancarono da quelle del sud e sopravvissero separate con proprie autonome dinastie reali.
In Israele il re non appartenne mai, come nelle civiltà circostanti, alla sfera del divino. Rimase sottomesso al pari degli altri uomini, alle esigenze dell'alleanza e della legge. Egli fu tuttavia una persona sacra, di cui bisognava rispettare l'unzione. A partire da Davide la sua situazione in rapporto a Dio si fece sempre più precisa: Dio fece di lui il suo "figlio adottivo", depositario dei suoi poteri, e lo pose virtualmente a capo di tutti i re della terra.
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7 – IL NOME DI DIO
A. Yahwè
La nuova comprensione della natura divina da parte di Mosè fu strettamente legata con un nome nuovo di Dio, Yahwè, che deriva probabilmente da una forma arcaica e contratta del participio presente del verbo essere ebraico (ha'yah). Per sottolineare questo, gli autori delle fonti E (Es 3,14) e P (Es 6,3) fecero culminare la rivelazione decisiva a Mosè con la scena in cui è rivelato il nuovo nome di Dio. L'adorazione di questo Dio distingue Israele da tutti gli altri popoli. Può sembrare strano che non si pensò per niente di spiegare il significato del nuovo nome di Dio, ma che al popolo fu comunicato semplicemente questo messaggio:
« Yahwè, il Dio dei vostri Padri, mi ha inviato a voi » (Es. 3,15)
Solo al fondatore fu comunicata un'interpretazione, ma anche a lui, se così si può dire, solo fra parentesi. L'accento principale fu posto sul messaggio di liberazione. Il significato del nome era importante, ma Israele fu fin dall'inizio consapevole di non poterlo comprendere nella sua totalità.
Presso i popoli semiti conoscere il nome di una persona significava conoscere l'essenza dell'individuo che lo portava. Questa concezione non è applicabile però a Dio, perché non è possibile per un uomo possedere l'esatta cognizione ontologica di Dio. Per questo gli Ebrei si accontentavano di avvicinarne il concetto.
"Io sono" comprendeva la realtà dell'essere, dell'esistere insita nella natura divina, e questo bastava loro. Questo senso dell'esistere di Dio era rimarcato ponendo l'accento non tanto sull'esistenza per sé, quanto sull'attività. Così inteso, il nome di Dio ebbe il suo significato specifico per la missione storica di Mosè, per l'evento che segnò sicuramente una sostanziosa tappa d'avvicinamento all'unità nazionale: l'esodo.
Un ulteriore determinazione del nome di Yahwè si ebbe quando esso fu accostato al plurale "seba'ot" (=delle schiere). In questa nuova dizione si pose a tema lo stretto rapporto con l'Arca dell'Alleanza, palladio di guerra.
Era certa la presenza di Dio in guerra, così come per lungo tempo l'Arca servì da protezione spirituale in battaglia. Quando si accentuò questo aspetto si riferì alle schiere d'Israele, che il Dio della guerra accompagnava in battaglia.
Un secondo ambito d'uso di questo termine fu dato dall'opera dei profeti. Quando i profeti utilizzarono questo nome era per rimarcare il rapporto fra Dio e le schiere, in altre parole la moltitudine degli esseri terrestri e la totalità degli esseri celesti.
Alcuni nomi di Dio in lingua ebraica
B. El, Elohim
Uno dei termini più antichi e comuni per indicare Dio fu "El". Il significato originario è incerto, e le ipotesi sono varie. Per alcuni starebbe ad indicare lo "stare davanti", per altri "l'essere forte". Il suo significato originario oscilla, dunque, fra i concetti di "sovrano", "potente", "guida". Questi significati hanno in comune la distanza abissale che per l'israelita dell'epoca separava Dio dall'uomo. Essi coincidono, dunque, con un tratto fondamentale della concezione semitica di Dio, in quanto pongono in risalto il sentimento di terrore davanti alla sua straordinaria grandezza.
L'uso di questo nome manifesta, accanto a questa tendenza esclusiva, un notevole legame fra l'azione divina e la vita sociale della comunità: nomi come "Dio ha misericordia", "Dio soccorre", "Dio è giudice" sono frequentissimi e indicano che non abbiamo a che fare con un certo essere spirituale inferiore, ma con una divinità che si prende cura delle necessità morali, sociali di un popolo o tribù.
Ad "El" è normalmente collegato l'attributo "saddaj", che indica probabilmente antichi legami con il mondo religioso babilonese (Abramo, dopo tutto, capostipite della nazione ebraica, era mesopotamico); deriva dal termine babilonese "sadu" cioè "monte", nel senso di "Altissimo".
Altro nome molto usato era "Elohim", plurale di "Eloah", che significa "Signore"; anche presso i popoli vicini si usava il plurale per indicare un solo dio, si operava una specie di sintesi del pantheon. Così per esempio la dea della luna Sin, a Babilonia, era definita "ilani sa ilani", cioè "gli dei degli dei", in pratica la dea suprema.
Persino i vassalli cananei arrivarono a chiamare il loro sovrano non solo "ilia", "mio Dio", ma anche "ilania" "miei dei", esasperando così l'adulazione. Elohim diventò l'espressione più comune per designare la divinità.