Dio chiede loro di lasciarlo entrare
nella loro storia in modo
che
Egli possa trovare un luogo dove continuare insieme all'umanità
Abramo era ormai vecchio, avanti negli anni e il Signore lo aveva benedetto in tutto (Gen 24,1). Egli, però, deve ancora assicurarsi che l'opera di restaurazione della salvezza dell'umanità, iniziata in lui, possa continuare e giungere al suo compimento totale. Abramo affida allora al suo servo Eliezer la missione di trovare una moglie per Isacco. Lo invia nella sua terra di origine per prendere là una sposa per il figlio. Ed è a questo punto che, tra le pagine della Scrittura, facciamo la conoscenza di Rebecca, « figlia di Betuel, figlio di Milca, moglie di Nacor, fratello di Abramo » (Gen 24, 15). La sua genealogia risponde alla richiesta di Abramo, il quale vuole che la futura moglie di Isacco sia del suo paese e della sua parentela. Rebecca è addirittura della casa di suo padre. Per di più « la giovinetta era molto bella d'aspetto, era vergine, nessun uomo si era unito a lei » (Gen 24,16). Dopo il consenso della fami glia, Rebecca pronuncia anche lei il suo sì senza riserve, decisa a partire immediatamente, a lasciare tutto per seguire un disegno misterioso, sconosciuto ma che pure la seduce, la affascina, decisa a rispondere "sì" alla guida di Dio negli avvenimenti. Sono belli i movimenti di Rebecca alla fine del lungo viaggio che la porterà da Isacco, dalla terra dei padri alla terra nuova, la Terra della Promessa, la terra dell'amore: è significativo il suo guardare avanti, alzare gli occhi verso quelli del suo futuro marito, e non voltarli indietro; è decisivo il suo scendere dal cammello, scendere e realizzarsi, compiersi perfettamente, come vuole esprimere il verso ebraico net suo doppio significato. Rebecca ci insegna che è indispensabile questa discesa, quasi come in una prostrazione di adorazione e accettazione umile della realtà. Infine, la donna prende il velo e si copre il volto di fronte ad Isacco che viene verso di lei. Davvero strano per noi, oggi, quest'ultimo gesto! Ma che cosa significa? Quale il senso? Rebecca fa come Mosè, che si copre il volto davanti a Dio, o come la sposa del Cantico dei Cantici, che si lascia guardare dal suo sposo attraverso il velo. L'esperienza dell'amore è esperienza divina, è incontro con Dio stesso, occorre avvicinarsi tappa dopo tappa, alternando rivelazione, dono e sottrazione, incontro e assenza. Come davanti a Dio, così anche davanti all'uomo che si ama, il velo è l'affermazione di un pudore che non è gioco, né desuetudine, né stupidità, ma riconoscimento dell'infinità di ognuno. Senso di cui Rebecca traduce la forza con il gesto di coprirsi, senso che, qui, ritarda il faccia a faccia perché l'uno e l'altra siano capaci di farne l'esperienza come di un'epifania dell'infinito, un'epifania di ciò che resiste ai poteri della cattura per manifestare il suo al di là, per aprire ad una relazione di responsabilità verso "l'Altezza e l'Umiltà di altri". Rebecca partorisce ad Isacco due figli maschi, Esaù e Giacobbe: una donna, una moglie, una madre che il popolo ebraico, come leggiamo nel Libro di Rut, ha riconosciuto "matriarca" che ha edificato la casa di Israele. Una donna, una moglie, una madre reali, che conosce i desideri, i sentimenti, le passioni che sono anche nostre! La tristezza di Rebecca per le scelte di vita del figlio maggiore, Esaù, che si fissa nel destino del paganesimo rifiutando ogni iniziazione alla Legge ed ogni educazione e addirittura sposando donne straniere e pagane, ci guida a capire l'episodio della usurpazione della benedizione paterna da parte di Giacobbe sotto l'eccezionale ed incontestabile autorità di Rebecca stessa. La coscienza della propria vecchiaia spinge Isacco, ormai cieco, a benedire Esaù, suo figlio maggiore, a trasmettergli finché è in tempo, il meglio di ciò che la sua anima gli riservava, ad apporre su di lui, attraverso la benedizione, il sigillo indelebile di parole che designano un destino. L'intervento di Rebecca, la sua non sottomissione a un incondizionato diritto naturale che confermerebbe sempre e comunque le prerogative del figlio maggiore, anche se iniquo e indegno, fa fallire il disegno del patriarca. Ci troviamo di fronte alla lucidità di questa donna, la cui volontà è far trionfare la convinzione di un'elezione che non deve scendere a patti con la forza e con la convinzione che una esistenza è giustificata dal proprio affermarsi; una elezione, invece che e chiamata a passare inevitabilmente attraverso una obbedienza all'Altro che sola può sconfiggere tali pretese, aprirle al disinteressamento, aprirle al Bene. E ancora la ritroviamo accanto a suo figlio minore nell'aiutarlo a scappare dalla collera omicida di Esaù, deciso a vendicarsi del torto subito. Dio sposa le tortuosità imposte alla storia dalla libertà di questa donna come di altre che ritroviamo nelle pagine della Scrittura, dalla loro generosità, dalla loro fragilità, dal loro amore. Non attende che noi uomini siamo perfetti per unirsi a noi ed entrare nella nostra vita, e nemmeno ci chiede di diventarlo. Egli chiede che la Sua presenza sia lasciata libera di fecondare misteriosamente la storia, in modo che la benedizione finisca per attraversare lo spessore dell'umano e faccia lievitare la pasta. Non è la virtù che crea le matriarche, come Rebecca. Ancor meno la purezza. È piuttosto l'assenso a Dio che, senza volerle diverse da ciò che sono, chiede loro di lasciarLo entrare nella loro storia, in modo che Egli possa trovare un luogo dove camminare insieme all'umanità.
Bartolomé Esteban Murillo, "Rebecca ed Eliezer", Museo del Prado, Madrid, 1652