Il poema di Gilgamesh


 

Prologo

 

Proclamerò alle genti l’alte imprese

di Gilgamesh, colui che tutto vide,

ogni cosa conobbe e investigò,

colui che tutto vide sino agli ultimi

margini della Terra, lui che ricco

di sapienza e esperienza senza pari

le cose arcane vide, le nascoste

cose scoprì, i misteri tutti aperse,

narrò ciò che fu prima del diluvio;

lui che remoti e incogniti sentieri

corse fino a sfinirsi, ogni fatica

del braccio suo scolpì poi su una stele,

a imperituro lascito per noi.

Quando i Numi il crearono, gli diero

un corpo perfettissimo: Shamash,

il sole invitto, gli diè lo splendore;

Adad, il dio dei turbini, il coraggio

gli donò poi, mentre la sua bellezza

i grandi Dei resero alfin perfetta,

sopra ogni altro mortale. Ei fu terribile

come il toro selvaggio, e insuperabile;

per due terzi fu dio ed un terzo uomo,

perché da Lugalbanda, semidio

e sovrano d’Uruk, e da Ninsun,

di celebre saggezza, egli fu figlio.

Di Uruk fece le mura tutt'intorno,

e il sacro tempio Eanna per il dio

del firmamento Anu, e per l’eccelsa

Ishtar che dell’amore è la patrona.

Miratelo ancor oggi: il muro esterno

brilla dello splendor rosso del rame,

ne’ il muro interno ha eguali sulla terra.

Tocca la soglia: è antica come il mondo.

Appressati al palagio d’Ishtar, dea

dell’amore sì come della guerra,

all’Eanna che niun uomo vivente,

nessun mortal potrà oggidì eguagliare.

Sali, o viandante, sul bastion esterno

della città di Uruk, tutto percorrilo:

osserva l’imponente terrapieno

delle sue fondamenta, il muro esamina:

fatto esso è tutto di mattoni cotti,

come i Sette Sapienti un dì decisero.

Questa di Gilgamesh fu l’opra antica;

ma nulla essa ci appare, confrontata

con la ricerca ch’egli affrontar volle

dell’immortalità, di là dai monti

dietro i quali Shamash si tuffa a sera,

e di là dall’orrende acque di morte

fino a incontrar quell’uom che dal diluvio

unico si salvò, grazie al dio Ea,

che dell’umanità è il gran protettore.

Questo io canterò, ed il canto mio

nei secoli perenne echeggerà.

 

 

 

Il Diluvio Universale

 

« Conosci la città di Shuruppak,

che sulle rive dell'Eufrate sorge?

È vecchia la cittade, chè fondata

fu quand'era ancor giovane la Terra,

quando eran verdi i monti dello Zagros

né sulla Luna macchia v'era ancora;

là dimoravan gli déi primordiali,

antichi come il Tempo: v'era Anu,

signor del firmamento, sommo padre

dei Numi tutti; e v'era il potentissimo

Enlil, suo consigliere, re dei venti,

dell'aria, delle nuvole e dei tuoni,

che il Cielo separò da questa Terra

quando da Anu e da Ki fu generato;

e Ninurta poi v'era, dio guerriero,

uccisore dei mostri dell'Abisso,

colui che nei primordi un'alta diga

eresse contro l'acque della morte,

chè dagli Inferi  sorger non potessero

ad allagare il mondo; e Ennugi infine,

dio dei canali e delle irrigazioni,

che dei coltivatori è gran patrono.

V'era con essi Ea, dell'acque dolci

nume sovrano, protettor dell'arti,

della scrittura, dell'astrologia,

signor della saggezza e dell'astuzia,

cui nulla è ignoto sopra e sotto il mondo.

In quei giorni era un fervere di vita

nella terra di Sumer: pullulava

il mondo di abitanti, l'uman genere

vieppiù cresceva e si moltiplicava,

e tutti all'opre loro erano intenti;

mugghiava come un gran toro selvaggio

il mondo dei viventi, ed il supremo

Enlil venne destato dal clamore.

Così, adirato per quel forte strepito

che turbava il suo sonno, egli in consesso

chiamò tutti gli déi: "Non è possibile",

incominciò, "dormire più, ché troppo

è il frastuono degli uomini; son essi

per noi ormai sol più un fastidio, e dunque

è necessario tutti sterminarli."

Approvaron gli dei, tranne il sapiente

Ea che restò in silenzio: neppur lui

può opporsi a suo fratello impunemente

nel concistoro sommo dei Celesti.

"Giuriamo tutti di non rivelare

nulla agli uomini di ciò che accadrà",

proclamò Enlil, e giuraron tutti:

pur Ea costretto fu a giurar con gli altri,

ma ei mi aveva caro, e non volea

ch'io perissi nell'acque del diluvio;

ed ideò così uno stratagemma.

Ei venne nella notte alla mia casa,

si fermò nel cortile, e innanzi al muro

d'incannicciato dietro al qual dormivo

si pose in piedi ed iniziò a parlare:

"O casa di mattoni di Ut-napishtim,

o parete di canne, udite, udite:

han giurato gli déi, fu posto termine

alla vita dell'uomo sulla Terra!

Di Ubara-Tutu il figlio, se salvarsi

vuole dall'acque ultrici, tosto abbatta

la casa sua, una nave costruisca!

Lasci gli averi suoi, scelga la vita!

Sol chi disprezza i beni suoi mondani

sopravviver potrà al gran cataclisma!

Abbatta i muri tuoi il tuo padrone,

venda quello che ha, con i proventi

edifichi un battello, e siano queste

le sue misure: lungo quanto largo,

largo quanto alto, e sia di centoventi

cubiti ogni suo lato. Sopra d'esso

sia fatto un tetto che sia resistente

come la volta del profondo Abisso,

perchè regga ai rovesci del diluvio.

In nove ponti venga suddiviso,

ed Ut-Napishtim poi conduca in esso

il seme d'ogni viva creatura,

tre paia d'ogni specie di animali,

maschio e femmina, assieme alle sementi

d'ogni albero ed arbusto che coltiva.

L'ultimo ponte colmo di foraggio

sia per le specie erbivore, che latte

forniran per sfamare le carnivore,

finché non sia finita la bufera."

Io mi destai, e udii queste parole,

che mi sconvolser tutto, come l'uomo

cui viene comandato di scolpire

una montagna, a trarne effigie umana

il cui capo lambiscano le nuvole.

Ma mi feci coraggio e ad Ea risposi:

"Quanto tu hai comandato, io lo farò;

ma che dirò alla gente, alla città

ed agli anziani, s'essi mi vedranno

vendere tutto e erigere quest'arca?"

Allora il nume aprì la bocca e disse

al servo suo, a me: "O casa, o casa,

che il tuo padron risponda a quei curiosi:

« Ho ricevuto tristi vaticinii:

Enlil con me è infuriato, e più non oso

camminare nell'urbe ch'egli abita,

a Shuruppak d'antiche fondamenta:

discenderò perciò con una nave

il corso dell'Eufrate, fino al golfo,

per dimorar con Ea, ch'è il mio signore.

Ma su di voi il dio dell'atmosfera

piover farà ogni bene in abbondanza,

pesci rari e elusiva selvaggina,

ricca stagion di messi avrete voi;

la sera, il cavalier della tempesta

vi porterà torrenti di buon grano,

mentre sarà errabonda la mia vita

lungi dalla mia patria, fino a quando

Ea non mi donerà la pace alfine. »"

Tacque, e sparve il signor della saggezza,

come dispare a mane un lieve sogno

che ci ha invaso la mente a mezzanotte.

Subito balzai su, e compresi il tutto,

come il mio protettor parlato avesse

alla casa, così da non infrangere

il giuramento fatto agli déi tutti,

di tacer del diluvio ad ogni uomo.

Così, tutti destai nella mia casa;

in sul primo albeggiare, la famiglia

si riunì attorno a me, i bimbi portarono

secchi di pece, e gli uomini gli attrezzi;

una fossa scavammo, e dentro d'essa

cominciò a sorger la maestosa chiglia,

che dopo quattro giorni già svettava;

il quinto giorno, sollevai le coste

ed il sesto ed il settimo il fasciame.

Infine eressi il tetto; era spiovente

per fare defluir l'acque assassine,

e sotto d'esso apriasi una finestra.

Di un acro era la vasta superficie

occupata dall'arca; dentro d'essa

fabbricai i nove ponti, separati

da paratie; dov'era necessario

dei cunei infissi, e infin non mi restò

che impedire l'ingresso all'acque salse.

Recaron olio i portatori miei,

pece versai nella fornace ardente

assieme all'olio e al bruno asfalto; il tutto

mi servì per tappare ogni fessura,

finché fu impermeabile lo scafo.

Altro olio messo fu tra le provviste.

Per la mia gente macellai giovenchi,

ogni dì uccisi pecore ed agnelli;

ai carpentieri diedi vin da bere

come se fosse l'acqua d'un ruscello,

scorreva il mosto a fiumi, insieme all'olio,

e vino rosso e birra e vino bianco.

Ecco, il settimo giorno era completa

la nave mia; facemmo festa allora

come si fa per l'anno nuovo, il capo

mi unsi d'olio, e sacrifici feci

ad Ea che fu con me sì generoso.

Chiesero molti quale scopo avesse

il mio lavoro, ma io la risposta

diedi che il dio m'aveva suggerita.

Intanto caricavo ogni mio avere

dentro il ventre dell'arca: la famiglia,

i parenti, le bestie dei miei campi,

gli animali da soma, tutti quelli

ch'avean partecipato a eriger l'arca

ed in me avean creduto; al barcaiolo

Puzur-Amurri io affidai il timone.

Sorse l'ottavo giorno; io guardai fuori,

ed ecco, eran terribili le nubi,

oscuro il cielo, là dove brillato

avea Shamash fino alla sera prima.

Compresi, era il segnale della fine.

Subito entrai, chè il tempo era compiuto,

calafatai l'intero boccaporto

sigillando la nave, e infine attesi

l'ultima sera dell'umanità.

Ecco, al tramonto venne all'orizzonte

una nube nerissima, da dentro

tuonava orribilmente, giacché in essa

viaggiava Adad, signor della tempesta.

Davanti a lui venivano Shullat

e Anish, nunzi divini della pioggia.

Sorsero poi i signori dell'Abisso:

Nergal divelse le possenti dighe

dell'acque sotterranee, mentre il dio

della guerra, Ninurta, abbatté gli argini;

allora i sette giudici degli Inferi,

gli Anunnakku, innalzaron le lor torce,

e illuminaron d'una fiamma livida

cielo e terra per l'ultimo giudizio.

Disperato sgomento si levò

fino al ciel, quando il dio della tempesta

del dì la luce trasformò in gran tenebra,

ed infranse la Terra come un coccio.

Per un intero giorno la bufera

imperversò, infuriando si abbatteva

sugli uomini qual impeto di guerra;

nessun veder poteva il suo fratello,

né dal ciel si potean vedere gli uomini.

Anche gli dei terrorizzò il diluvio:

fuggiron tutti nel sommo del cielo,

il firmamento di Anu, e tremebondi

contro le mura del palagio eterno

si rannicchiaron come can bastardi.

La regina del Cielo, Ishtar la bella,

Ishtar di dolce voce, disperata

gridò come una donna nel travaglio:

"Ohimè, son polve ormai gli antichi giorni,

poiché ordinammo il male: finì un'era

per colpa dell'ostinazion d'un solo!

Oh, perchè il dio dell'aria ordinò questo

nel concilio dei numi? E perchè mai

io l'approvai? Io comandato ho guerre

per distruggere gli uomini, ma forse

non son essi i miei figli, dal momento

ch'io li ho generati? Or nell'oceano

galleggiano come di pesci uova!"

Così piangean tutti gli déi del cielo,

e piangendo copriansi tutti gli occhi.

Ma tardi oramai era per noi tutti:

per sei giorni e sei notti tutti i venti

soffiaron con violenza, la bufera

e la piena la terra sopraffecero,

infuriando terribili sul mondo

come fanno gli eserciti in battaglia.

Tutti i monti coprirono quell'acque,

e il mare pullulava di cadaveri

d'uomini e d'animali; ma su di esso

galleggiavamo noi, chiusi nell'arca,

tremebondi perchè potevan l'acque

putride irromper nella nostra nave,

ponendo fine ad ogni nostra speme.

Quando giunse del settimo dì l'alba,

la tempesta del sud diminuì,

il mar si fece calmo, infin la piena

s'acquietò, zittiron anche i tuoni.

Ecco, aprii la finestra, sporsi il capo

a mirare la faccia della terra:

cadde del sol la luce sul mio viso,

e tosto m'investì un grave silenzio,

del mar la superficie si estendeva

piatta sì come un tetto, tutti gli uomini

erano diventati argilla e fango!!

Ecco, io m'inchinai e piansi amaro,

scorreano sul mio viso calde lacrime,

chè ovunque v'era sol deserto d'acque.

Invan cercai la terra, fino a quando

a quattordici leghe di distanza

m'apparve un alto monte, e lì la nave

con gran fracasso alfine si arenò.

Era il monte Nisir. Restò incagliata

lassù la nave per sei giorni, e intanto

andavan defluendo l'acque tutte.

All'albeggiare del settimo giorno

una colomba liberai, ma essa

non trovò luogo ove posare il piede,

che l'acque ancor gravavano il pianeta,

così fece ritorno. Feci uscire

una rondine allora, e volò via,

ma ritornò anche lei. Un corvo infine

io liberai, ma questi trovò enormi

cumuli di cadaveri ammonticchiati,

vi si posò, mangiò e non tornò più.

Compresi allor che il tutto era finito:

la nave scoperchiai, volaron tutti

gli uccelli fuor dall'arca, apersi poi

la porta sigillata, e gli animali

si sparsero nel mondo in ogni dove.

Sacrificali offerte feci subito,

sulla cima del monte libagione

versai sopra la cima del gran monte:

sette e sette marmitte io innalzai

sui trespoli, ammassai e cedro e mirto,

e ricco grasso offrii agli déi celesti.

Subito il dolce olezzo essi fiutarono,

fiutarono il profumo, e come mosche

accorsero sul grande sacrificio.

Anche Ishtar venne, e al cielo sollevò

la collana celeste con le pietre

che Anu un dì forgiato avea per lei:

"O numi qui presenti, o sommi divi,

io dico a voi che per il lapislazzuli

intorno al collo mio, ricorderò

questi giorni così come rammento

le pietre tutte intorno alla mia gola;

questi dì mai dimenticherò.

Che tutti gli immortali si riuniscano

intorno al sacrificio, fuorché Enlil:

lui non si accosterà a codesta offerta,

perchè senza riflettere il diluvio

volle portar sul mondo, ed il mio popolo

ha votato ad orribil distruzione!"

Quando Enlil giunse e vide la mia nave,

si gonfiò d'ira contro gli dei tutti,

contro la diva schiera s'adirò:

"Come sfuggì alla distruzione alcuno

di quei mortali?" urlò fuori di sé.

Allor Ninurta, il sire della guerra

e dell'abisso, aprì la bocca e disse:

"Chi fra i superni è in grado, o dio superbo,

di fra progetti senza Ea? Lui solo

tutto conosce. E tu speravi forse

d'ingannar quei ch'è dio della saggezza?"

Ea stesso aprì la bocca e gli parlò:

"O sommo tra gli déi, Enlil eroe,

come hai potuto tanto stoltamente

far scendere il diluvio? Al peccatore

imponi il suo peccato d'espiare,

al trasgressor la trasgressione sua,

puniscilo se evade, ma non troppo,

altrimenti perisce. E senza l'uomo

chi sacrifici ai numi innalzerà?

Oh, se un leone avesse dilaniato

l'umanità, ma non il gran diluvio!

Oh, se un gran lupo avesse divorato

l'umanità, ma non il gran diluvio!

Oh, se la carestia avesse stroncato

l'umanità, ma non il gran diluvio!

Oh, se la peste avesse sterminato

l'umanità, ma non il gran diluvio!

Adesso il caos non vincerebbe il mondo!

Non io all'uomo rivelai il segreto

che a giurare, fratel, mi costringesti:

il saggio in sogno infatti fu informato.

Or si consiglin tutti gli immortali

su quale essere debba il suo destino."

Enlil si placò allora: alla grand'arca

venne, prese per mano me e mia moglie,

inginocchiar ci fece, uno a sinistra

e l'altra a destra, mentre stava in piedi

il sommo dio tra noi. Per benedirci

il capo ci toccò, e ci disse: "Un tempo

Ut-napishtim fu un uomo, ma or non più:

d'ora innanzi sia lui che la consorte

vivranno presso il margine del mondo,

alla bocca dei fiumi, né la morte

potere avrà giammai sopra di loro."

E fu così che ci preser gli dei

e ci posero qui, a viver per sempre,

lontano dai mortali, in capo al mondo,

alla bocca dei fiumi, né la morte

avrà giammai potere su di noi. »

[continua]

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