Introduzione
Agli inizi del XX secolo
lo studio della struttura dell'atomo ed i suoi componenti ha segnato per la
fisica un punto di svolta che ha costretto la scienza a capovolgere gran parte
delle certezze sulle quali si basavano le discipline fisiche classiche.Da un
lato la scoperta del quanto di luce,elemento fondamentale per la
formulazione della prima meccanica quantistica,riposrta in vita la discussione
sulla natura della luce e,dall'altro,la concezione ondulatoria della materia
costringe gli sceinziati a trattare radiazione e materia allo stesso modo
attraverso un modello duale,ammettendo che entrambe presentino comportamenti
ondulatori o particellari a seconda dell'esperimento condotto.Con la meccanica
quantistica,ed in particolare con il principio di indeterminazione,secondo il
quale è possibile misurare contemporaneamente con precisione due grandezze di
una particella,risulta evidente l'impossibilità di scindere il comportamento
della materia dall'osservazione della stessa e le due cose vengono strettamente
correlate.L'interpretazioneprobabilistica delle traiettorie delle particelle
atomiche spazza infine la strada dai residui di determinismo,introducendo
elementi di incertezze nelle equazioni del moto che riguardano i sistemi
microscopici.
La meccanica quantistica
è la parte della fisica che studia i sistemi atomici e
subatomici(molecole,atomi,nuclei,particelle,etc.),le cui dimensioni sono
dell'ordine di 10 m o inferiori e per i quali non valgono le
leggi della meccanica classica,in grado di descrivere il moto di sistemi
macroscopici.Le prime tracce sperimentali riguardanti la struttura discontinua
della materia si possono far risalire all'interpretazione dinamica delle
reazioni chimiche provocate da certe piccole porzioni di materia,le
molecole.Solo però all'inizio del nostro secolo,agli elementi fondamentali
della chimica si aggiunsero alcune unità fisiche più semplici rappresentate
dagli elettroni,dagli ioni,dai nuclei,ed infine da certi crepuscoli
elementari,puramente a livello energetico e indivisibili,chiamati quanti o
fotoni.I contributi più incisivi per la genesi e l'affermazione della
teoria quantistica sono senza dubbio il problema del corpo nero risolto da
Planck e l'interpretazione dell'effetto fotoelettrico dovuta a Einstein.Si
tratta delle prime teorie che hanno contribuito ad associare al campo elettrico
una struttura a quanti.
Spettro del corpo nero
A contribuire alla
nascita della meccanica quantistica,verso la fine dell'Ottocento e più ancora
all'inizio del secolo scorso,furono evidenziati alcuni fatti sperimentali che
non potevano essere spiegati con i metodi della fisica classica,e uno di questi
è il "problema del corpo nero".
Com'è noto,ogni corpo
portato a temperatura abbastanza elevata emette radiazioni termiche,luminose e
ultraviolette.In particolare,se la sostanza considerata è allo stato liquido o
solido essa origina uno spettro continuo,formato da una successione ininterrotta
di frequenze comprese in un determinato intervallo di valori.
Consideriamo ora invece
quale pò essere il comportamento di un corpo nero(che invece è assorbenete e
non riflette le radiazioni,in particolare quelle luminose,che riceve:mentre in
condizioni normali il corpo appare nero,al crescere della temperatura il corpo
può risultare visibile).Il corpo,se riscaldato ad una determinata
temperatura,sufficientemente elevata,emette radiazioni la cui curva di
distribuzione spettralenon dipende più dalla sua forma ,dalla sua forma,nè da
altra proprietà specifiche del corpo in questione,bensì solo dalla sua
temperatura assoluta.La forma della curva che assume non è spiegabile però
attraverso el leggi della fisica classica che descrivono la radiazione
elettromagnetica.Questa sorta di "impotenza concettuale" può essere
considerata come il vero e proprio punto di partenza della fisica moderna.
Nel Dicembra del 1900,fu
Max Planck,professore dell'università
di Berlino,presentò un lavoro dal titolo Zur Theorie des Gesetzes der Energievertielung in Normalspektrum("Sulla
teoria della legge di distribuzione dell'energia nello spettro normale),nel
quale appariva un'insolita relazione matematica riguardante l'intensità
della radiazione emessa alla frequenza v e alla temperatura T. La formula di
Planck,senza essere stata dedotta dalle leggi della fisica classica,può andare
bene per tutte le frequenze e tutte le temperature.Per spiegare l'emissione di
energia Planck suppose che gli atomi ancorché vengono eccitati si comportano
come tanti oscillatori che irradiano energia non con continuità,b ensì per salti
caratterizzati da un piccolo valore che non poteva essere reso nullo.
L'idea di Planck è basta
sul fatto che la radiazione emessa dal corpo nero è costituita da una serie
discontinua di atti elementari,ognuno dei quali è associata una specie di
pacchetto di energia proporzionale alla
frequenza della radiazione,tramite la costante universale,che è:
h =
6,626*10-34 J s
e la relazione che lega
la frequenza all'energia assume pertanto la formula E=h*v,nella logica di Planck,la formula rappresenta la minima quantità di energia che un oscillatore di
data frequenza può scambiare con l'ambiente che lo circonda.
Il "continuo" classico ed il "discreto" quantistico
Per comprendere meglio
l'aspetto crepuscolare insito nei quanti di energia evidenziamo la distinzione
fra una quantità continua e una quantità discreta.
·
Una grandezza si può
definire continua quando non può essere espressa da un numero intero,ma solo da
un numero reale.In un intervallo limitato da due punti si può trovare sempre un
altro punto,Non esiste un "livello minimo" al di sotto del quale non
si possa ulteriormente dividere un dato segmento.Sono considerate grandezze
continue la massa di un corpo,la sua posizione,le forze agenti su di esso...
·
Una quantità si dice
invece discreta quando può essere espressa solo tramite un numero intero
positivo o negativo.
Nella relazione E=h*v di
Planck si trova per la prima volta una costante che sarebbe diventata la piu
grande e feconda scoperta teorica del secolo.Se la costante h fosse nulla,la
meccanica quantistica non sarebbe mai nata,il mondo macroscopico e quello
microscopico sarebbero governati solo dalla fisica classica.Non solo Planck ma
soprattutto i suoi contemporanei furono molto scettici riguardo queste nuove
"idee",e cercarono di smascherarle in quanto oscuravano la fisica
classica.Per qualche anno i quanti furono infatti quasi intenzionalmente
dimenticati,fino a quando nel 1905 un altro grande teorico,Einstein,riprese ed
ampliò le idee rivoluzionarie di Planck,mostrando in modo esplicito che i
concetti insiti nella storia dei quanti potevano rappresentare la chiave per
aprire molte porte del mondo atomico,rimaste fin allora ben chiuse.
Sezione
Einstein
Effetto fotoelettrico
L’introduzione
del concetto di atomicità nel regno dell’energia si rivelò presto una delle
teorie fondamentali per interpretare numerosi fenomeni, per i quali le teorie
prequantistiche non riuscivano a fornire una valida spiegazione.
Solo cinque
anni dopo la prima ipotesi di Plance, il quanto venne formalmente riconosciuto
come entità fisica reale. Esso
divenne “cosa seria” per merito di un giovane dottore del Politecnico di
Zurigo, ossia Albert Einstein.
Nel primo dei
tre famosi articoli pubblicati nel 1905 (il primo sul moto browniano e il
secondo sulla teoria della relatività) Einstein introdusse “ufficialmente”
nella struttura della radiazione i quanti di luce per sviluppare su basi
quantistiche l’interazione fra la radiazione stessa e la materia, teoria che
riuscì a interpretare le leggi sperimentali dell’effetto fotoelettrico.
L’importanza
di questo lavoro è notevole in quanto mentre Planck aveva quantizzato solo
l’energia associata alle radiazioni uscenti dal corpo nero, per Einstein la discontinuità insita nella
dottrina dei quanti divenne un concetto fondamentale per qualsiasi tipo di
radiazione.
Nel 1887 H.
Hertz aveva casualmente scoperto che, illuminando una placca metallica di zinco
con una radiazione ultravioletta, il metallo si caricava elettricamente. Solo
dopo che gli elettroni furono ufficialmente riconosciuti, mediante le misure
della carica e della massa fatte da Thomson, si capì che il fenomeno chiamato
poi effetto fotoelettrico, era dovuto all’emissione
elettronica provocata nel metallo da radiazioni elettromagnetiche di opportuna
frequenza.
In sintesi
quando una superficie metallica viene colpita da radiazioni di frequenza sufficientemente elevata, come raggi X,
raggi ultravioletti e radiazioni luminose, essa emette elettroni.
Si prenda in
esame un’apparecchiatura mediante la quale è possibile studiare operativamente
l’effetto fotoelettrico:
la luce
proveniente da un arco voltatico A, ricca di raggi violetti e ultravioletti,
viene convogliata su un prisma che per rifrazione la separa nelle componenti
monocromatiche di diversa lunghezza d’onda. Regolando opportunamente
l’inclinazione di quest’ultimo si può ottenere un pennello di radiazioni di
particolare lunghezza d’onda. Attraverso una finestra di quarzo, il pennello di
determinata frequenza penetra successivamente in un tubo a vuoto spinto e
colpisce una placca P fotoemittente formata da uno strato metallico,
caratterizzato da un piccolo potenziale di estrazione. Gli elettroni, emessi
dalla placca per effetto fotoelettrico, vengono successivamente raccolti dal
collettore C e di conseguenza possono originare una corrente misurabile.
Un sistema
potenziometrico e un galvanometro completano l’apparecchiatura che, a parte la
sorgente di radiazioni e i circuiti di alimentazione e rivelazione, costituisce
il dispositivo oggi chiamato cella
fotoelettrica.
I risultati
sull’effetto fotoelettrico si possono riassumere nelle seguenti leggi:
· Si ha emissione
elettronica solo se la frequenza della radiazione incidente è maggiore di un
certo valore limite v0, dipendente dalla natura
del modello, chiamato soglia
fotoelettrica;
· L’energia cinetica degli elettroni emessi
dipende dalla frequenza della radiazione incidente e non dalla sua intensità;
· Il numero degli elettroni emessi per unità di
tempo aumenta all’aumentare dell’intensità della radiazione elettromagnetica
incidente.
Se si cerca di interpretare queste leggi sperimentali
mediante la concezione ondulatoria della radiazione si giunge a risultati
inspiegabili; infatti ogni qualvolta che allontaniamo dalla placca
fotosensibile la sorgente atta a produrre l’emissione elettronica, l’energia
delle radiazioni si distribuisce su superfici d’onda sempre più grandi.in base
a ciò il metallo colpito dovrebbe riceverne un’aliquota sempre minore e
conseguentemente l’energia cinetica con cui escono gli elettroni dovrebbe
diminuire, mentre, come si osserva sperimentalmente, rimane costante.
Einstein per
spiegare il fenomeno fece ricorso al concetto di discontinuità insito nella
dottrina dei quanti supponendo l’energia dell’onda concentrata in pacchetti
discreti chiamati fotoni. Mediante
quest’ipotesi un fascio di onde elettromagnetiche, per esempio di raggi
ultravioletti monocromatici di lunghezza d’onda l o frequenza v = c/l, è caratterizzato da un flusso di fotoni, ciascuno dei
quali possiede un’energia pari a hc/l, cioè uguale ad hv.
Questi fotoni trasmettono, poi, agli elettroni degli atomi della superficie
metallica la propria energia hv, che dipendendo unicamente dalla frequenza
della radiazione, non muta al variare della distanza fra la sorgente e la
placca.
Naturalmente la condizione necessaria affinché avvenga è
che l’energia hv del quanto di radiazione sia maggiore del lavoro di
estrazione, una volta dissestato l’edificio atomico.
La relazione introdotta da Einstein è la seguente:
1
¾ mvmax2
= hv - w0
2
dove w0 rappresenta il lavoro
di estrazione del metallo fotosensibile, e vmax la
velocità massima con cui gli elettroni sono emessi. Ponendo w0 = hv0 si deduce che v0 rappresenta la frequenza minima, cioè la soglia fotoelettrica, che deve possedere
la radiazione per estrarre un elettrone dal metallo. Una volta fissata la
natura della placca fotosensibile, l’energia con cui escono gli elettroni
dipende esclusivamente dalla frequenza v della radiazione.
L’intensità
della radiazione incidente, proporzionale al numero dei fotoni da essa
trasportati, contribuisce invece a determinare il numero degli elettroni
emessi: infatti; quanto più i fotoni incidenti sono numerosi tanto più alta è
la probabilità che presentano gli elettroni di interagire con un quanto di
radiazione e superare così la barriera dell’effetto fotoelettrico, nell’ipotesi
che sia sempre v>v0
fornisce i seguenti risultati:
- se la differenza di potenziale V è nulla, gli
elettroni giungono in C (elettrodo di raccolta) con tutta l’energia cinetica
conferita dai fotoni incidenti;
- se la differenza di potenziale è diversa da zero e il
collettore C è collegato al polo positivo, l’intensità di corrente i dipende dall’intensità I della
radiazione incidente e dalla differenza di potenziale V;
- se il collettore C è collegato al polo negativo della
batteria, gli elettroni tendono a decelerare perdendo una parte della loro
energia cinetica, avendo così un potenziale
di arresto.
Notevoli sono
le applicazione dell’effetto fotoelettrico; fra le più tipiche ricordiamo
l’utilizzo delle celle fotoelettriche nella televisione e nella tecnica
fotografica.
Sezione Compton
Diffusione elettromagnetica: urto
fotone-elettrone
La teoria classica della
diffusione afferma che ogni qualvolta una radiazione elettromagnetica
interagisce con una particella carica la radiazione diffusa, qualunque sia la
sua direzione, deve avere la stessa lunghezza d’onda e quindi la stessa
frequenza della radiazione incidente.
Arthur Compton nel 1922
al contrario osservò che la radiazione diffusa presenta una frequenza che
dipende dall’angolo di diffusione e comunque minore di quella incidente.
Effetto Compton
L’effetto Compton
rappresenta una delle più importanti prove sperimentali sull’interpretazione
quantistica delle radiazioni elettromagnetiche, nonché una conferma delle leggi
di conservazione dell’energia e della quantità di moto a livello microscopico.
Interazione fotone-elettrone: prendendo in considerazione una radiazione monocromatica,
ad esempio un fascio di raggi x, che attraversa una sottilissima lama di graffite, si osserva sperimentalmente che la
maggior parte della radiazione diffusa dalla lamina presenta una frequenza
minore di quella del fascio incidente e quindi una lunghezza d’onda maggiore.
In base all’analisi di Compton lo spostamento della lunghezza d’onda è una
conseguenza diretta dell’urto supposto perfettamente elastico tra i fotoni
della radiazione incidente e gli elettroni atomici della graffite, considerati
liberi o debolmente legati. Quando l’energia di ciascun fotone incidente è
sufficientemente elevata, il quanto di energia non muore completamente come avveniva
per l’effetto fotoelettrico, bensì, dopo aver espulso l’elettrone, viene emesso
con minore energia e con minore impulso quindi con minor frequenza.
Equazione dell’effetto Compton
Prendiamo in esame un
singolo fotone di energia hv = hc/l e di quantità di moto p = h/l che urta un
elettrone di massa a riposo m0 inizialmente
fermo; dove l¢ è la lunghezza d’onda del fotone diffuso e j e q sono gli angoli di diffusione del fotone e dell’elettrone rispetto alla
direzione del fotone incidente, si ottiene:
h
l¢ - l = ¾ (1 - cosj) spostamento Compton
m0c
2a cos q
Ec = hv ¾¾¾¾¾¾¾
( 1+a ) - a cos q
in cui è a = hv/(m0c ) ed Ec è l’energia cinetica dell’elettrone.
Sezione
Rutherford e Bohr
Quantizzazione dell'atomo nucleare
Fra il 1908 e il 1911 Rutherford
idealizzò l’atomo come un microscopico sistema solare in cui gli elettroni
ruotano intorno ad una massa positiva chiamata nucleo; un atomo può quindi
essere considerato come un sistema quasi vuoto in cui le parti impenetrabili
che costituiscono la materia nucleare sono di dimensioni molto piccole rispetto
a quelle penetrabili, rappresentate dall’assenza o quasi di materia. Ciò che
contribuì alla nascita del modello nucleare atomico fu l’esperimento di
Rutherford nel quale un fascio di particelle a è lanciato contro una sottile lamina d’oro circondata da uno
schermo fluorescente; risultò che, mentre la maggior parte delle particelle a attraversa la lamina senza subire
deviazioni apprezzabili, una piccola parte di esse subiva notevoli deviazioni e
alcune erano riflesse all’indietro. La conclusione di Rutherford fu che ciò
avveniva perché la massa e la carica positiva dell’atomo sono concentrate in
una piccola regione dell’atomo (nucleo) e che le particelle a la cui trattoria passa vicino al
nucleo sono quelle che subiscono forti deviazioni o rimbalzano all’indietro.
Il modello di
Rutherford,però, pose subito tre interrogativi:
· Come
sia strutturato internamente il nucleo
· Come sia
possibile che il nucleo riesca a rimanere integro, nonostante le cariche
costituenti siano dello stesso segno
· Come siano
disposti gli elettroni attorno al nucleo
Sebbene Rutherford fosse
poco interessato alla teoria dei quanti, grazie all’opera di un giovane ospite
del laboratorio di Manchester,Niels
Bohr, ebbe inizio la
rivoluzionaria teoria che doveva condurre alla quantizzazione dell’atomo
nucleare; Bohr si interessò, in breve tempo, ai problemi connessi alla
struttura dell’atomo nucleare, cercando di fornire una valida risposta al terzo
interrogativo sul modello di Rutherford. Infatti il modello di quest’ultimo
presentava non poche difficoltà:
in primo luogo era impossibile
giustificare la stabilità dell’edificio atomico poiché secondo le leggi
dell’elettrodinamica classica ogni carica che si muove di moto non uniforme
irradia onde elettromagnetiche a spese della propria energia di moto; di
conseguenza, in un tempo molto piccolo, un elettrone atomico dovrebbe cadere
sul nucleo. Quindi si arrivò ad affermare che le leggi della fisica classica
non fossero più sufficienti per giustificare l’esistenza di tale modello e Bohr
intuì che era necessario ricorrere alle nuove ipotesi quantistiche elaborate da
Plank all’inizio del secolo, introducendo nel modello di Rutherford una
grandezza estranea alla elettrodinamica classica: la costante h di Plank.
Se consideriamo un atomo
d’idrogeno, secondo il modello di Rutherford, esso è formato da un nucleo
dotato di carica positiva con una grandezza uguale a quella dell’unico
elettrone che gli ruota attorno, grazie alla forza elettrica con cui il nucleo
e l’elettrone si attraggono:
F = - 1/4 p e * e/r
dove e indica la carica dell’elettrone e del nucleo mentre r indica la distanza nucleo-elettrone.
Infine sapendo che questa
forza F è dello stesso tipo della
forza gravitazionale si può affermare che la traiettoria dell’elettrone intorno
al nucleo sarà ellittica (sarà uguale a quella descritta dai pianeti intorno al
Sole).
Sulla base di queste
premesse Bohr nel 1913 avanzò l’ipotesi che gli elettroni possano percorrere
solo determinate traiettorie circolari (orbite)
intorno al nucleo e che quando un elettrone si trova su una delle orbite
permesse la sua energia sia costante (non può perdere energia e cadere sul
nucleo); ogni orbita permessa corrisponde a un ben determinato livello energetico dell’elettrone
poiché quanto più lontana dal nucleo è l’orbita su cui si trova l’elettrone,
tanto maggiore è l’energia posseduta dall’elettrone stesso. L’idea di Bohr si
basava, oltre che sui risultati dell’esperimento di Rutherford, anche sugli
studi dell’interazione delle onde elettromagnetiche con gli atomi : si era
infatti scoperto che gli atomi, dopo aver assorbito energia, emettono energia
elettromagnetica e Bohr giunse alla conclusione che le energie assorbite o
emesse da un atomo corrispondevano ai passaggi di elettroni da un’orbita a
un’altra. Questa quantità di energia acquistata o persa dai vari elettroni non
è sempre identica poiché i diversi livelli energetici non sono ugualmente
distanziati: prende il nome di quanto
di energia la quantità di energia richiesta per spostare un elettrone
dal livello energetico in cui si trova al livello immediatamente superiore (le
energie degli elettroni sono quantizzate).
L’idea dei quanti di energia, i cosiddetti fotoni descritti da Einstein, era
già assodata in quel tempo; (presupponendo che ogni qualvolta un atomo viene
eccitato emette radiazioni di particolare frequenza) secondo la logica
quantistica, quando un fotone arriva su un atomo, questo l’assorbe solo se il fotone
è caratterizzato da una particolare energia mentre i fotoni aventi energie
diverse passano indisturbati. Da qui l’atomo che ha assorbito il fotone tende a
saltare da uno stato di energia più basso ad uno più alto: ogni altro quanto di
energia diverso da quello necessario per far compiere all’elettrone le transizioni da un’orbita all’altra,
farebbe andare la particella in un gap di
energia proibita (la particella è a mezza strada).
Poiché un elettrone che
ruota attorno al nucleo deve rispettare delle particolari condizioni dinamiche
ed energetiche, i limiti si possono riassumere in due punti:
· Quantizzazione
delle orbite = Un elettrone può descrivere intorno al nucleo solo una
successione discreta di orbite (non tutte le orbite sono permesse);
· Quantizzazione
dell’energia = quando un elettrone percorre una data orbita, in contrasto
con le leggi dell’elettromagnetismo, non irradia energia. Solo in seguito a una
transizione da un’orbita a un’altra si ha una variazione del contenuto
energetico dell’atomo.
Questi due limiti possono
essere anche espressi mediante la relazione:
L = mvr = n (h/2 p ) = nh
dove h è la costante di Plank.
Partendo da questa
relazione possiamo dedurre che un elettrone può ruotare intorno al nucleo solo
su quelle orbite (livelli di energia) per cui il momento della quantità di moto
mvr (momento angolare) rispetto al
nucleo è multiplo della quantità costante di h/2 p = h
Bohr ipotizzò inoltre che
le orbite descritte dall’elettrone intorno al nucleo siano stazionarie, ossia che un atomo emetta radiazioni solo quando
l’elettrone, inizialmente su un’orbita quantisticamente possibile, passa da un
livello energetico a un altro;
Per risolvere le
difficoltà incontrate nei riguardi dell’effetto fotoelettrico, all’inizio del
1900 si rese necessario introdurre la dualità
onda corpuscolo: le radiazioni elettromagnetiche infatti debbono essere
considerate entità fisiche caratterizzate da un duplice aspetto in
contraddizione; quindi l’aspetto fondamentale della meccanica ondulatoria è che
essa non contraddice il modello di Bohr, anzi riesce a spiegare ciò che a
Rutherford e a Bohr risultò inizialmente incomprensibile:la stabilità
dell’atomo e l’esistenza delle orbite discrete.
Il principio di complementarietà
Il principio di
complementarità di Bohr rappresenta la
sintesi filosofica dei principi di indeterminazione. Non si può avere una
rappresentazione causale dei fenomeni quantistici nello spazio e nel tempo. Le
grandezze della fisica classica, come energia e quantità di moto, che sono alla
base della descrizione causale della fisica classica, possono infatti essere
misurate con sufficiente precisione solo se si è disposti ad avere una grande
incertezza sulla posizione nello spazio e sulla durata delle nostre
misurazioni. Se infatti decidiamo di verificare in un sistema fisico la
conservazione dell’energia e della quantità di moto, che rappresentano a
livello atomico il principio di causalità, dobbiamo rinunciare completamente a collocare
il sistema nello spazio e nel tempo. Risulta impossibile verificare con
precisione il principio di causalità nello spazio e nel tempo e ciò implica la
rinuncia ad uno dei principi fondamentali della fisica classica. Gli usuali
concetti che vengono usati con tanto successo per descrivere la realtà
macroscopica (spazio, tempo, causalità, onda, particella, ecc.) sono del tutto
inadeguati nel mondo atomico e subatomico, dove la struttura razionale della
nostra mente sembra incapace di poter giungere ad una raffigurazione
convincente dei fenomeni. L’essere umano tuttavia non può fare a meno di usare
queste categorie mentali, che sono caratteristiche della sua natura, per cui
bisogna rinunciare ad una comprensione completa ed accettare invece l’esistenza
di aspetti probabilistici e quindi in qualche modo irrazionali, perché senza
causa, della realtà fondamentale.
Esso, formulato da Bohr
nel 1927, fu enunciato per la prima volta a Como e rappresenta uno dei punti
fondamentali della meccanica quantistica; secondo Bohr ogni esperienza capace
di evidenziare una particella da un punto di vista corpuscolare esclude la
possibilità di determinare il suo aspetto ondulatorio. Infatti se si vuole
valutare la posizione di un elettrone lo si può fare grazie ad un’opportuna
apparecchiatura sperimentale che localizza l’elettrone in un punto preciso
dello spazio(l’elettrone è una particella); mentre se si vuole determinare la
lunghezza d’onda dell’elettrone si ottiene nuovamente una risposta precisa: si
può concludere allora che l’elettrone è
un’onda. Questo principio quindi conferma la natura dualistica della
materia e delle radiazione fornisce un’interpretazione del dualismo onda corpuscolo affermando che i due aspetti
sono complementari fra loro. La
definizione del principio di complementarità sarà quindi quella proposta dallo
stesso scopritore: “se un esperimento
permette di osservare un aspetto di un fenomeno fisico, esso impedisce al tempo
stesso di osservare l’aspetto complementare dello stesso fenomeno”. Di
conseguenza secondo Bohr per osservare a pieno tutti gli aspetti di un dato
fenomeno occorrono due descrizioni che singolarmente si elidono, ma che insieme
si completano.