Il
pontificato di "Paolo Mesto"
Caro Montanelli,
è appena ricorso il 22° anniversario della morte di Paolo VI, un
pontefice troppo spesso considerato amletico e dubbioso, se è vero che
fu soprannominato « Paolo Mesto ».
Qual è il suo giudizio sulla sua figura e sul suo pontificato? Lo
chiedo a lei perché di storia se ne intende almeno un milione di volte
più di me.
Franco Maria Boschetto, franco.boschetto@tin.it
Caro Boschetto,
la sua domanda mi mette alquanto a disagio. Per due motivi. Primo, perché
della Curia e dei suoi personaggi, protagonisti e comprimari, so poco, e
quindi poco so anche di Montini che in Curia era, si può dire, nato: lì
aveva fatto tutta la sua carriera, e ne aveva tutte le stigmate. Il
secondo motivo è che la mia testimonianza può essere anche
involontariamente viziata da un certo personale risentimento. Quando egli
arrivò a Milano come Arcivescovo, ma senza cappello cardinalizio (ed era
- mi hanno detto - la prima volta che succedeva nella storia
dell’Arcidiocesi Ambrosiana), invitò gli editori del Corriere , i tre
fratelli Crespi, a rompere i rapporti di collaborazione con Alberto
Moravia e col sottoscritto. Da veri editori quali erano, i Crespi, a nome
dei quali parlò quello di loro che più si occupava del giornale, Aldo,
risposero che quello era un problema che riguardava il Direttore, e che
quindi si rivolgesse a lui. L'Arcivescovo non lo fece perché capì -
immagino - l’inopportunità di quel passo, di cui io fui informato solo
molto tempo dopo. E non sono mai riuscito a capirne il perché. Quindi lei
diffidi delle mie parole che potrebbero essermi suggerite dal rancore,
anche se in realtà non ne provo nessuno.
Qualcosa però di umanamente poco attraente in Montini ci doveva essere
per spiegare l'andazzo altalenante della sua ascesa. Cresciuto non nella
cura di anime, ma nelle stanze del potere, in pratica egli fu, fin da
giovanissimo, Segretario di Stato, anche se formalmente quella carica Pio
XII non volle attribuirla a nessuno, e preferì dividerla fra due prelati
di modesti galloni, che dessero garanzia di combattersi, e quindi di
paralizzarsi a vicenda: Montini e Tardini, che di più dissimili e
incompatibili era impossibile trovarne.
Così almeno mi raccontò un monsignore francese di modi molto mondani, e
glielo dico perché lei diffidi anche di queste informazioni. Come tutti
sanno, Montini a un certo punto cadde in disgrazia, e fu per questo che,
secondo la regola del promoveatur ut amoveatur (cioè del promuovere per
rimuovere), fu mandato Arcivescovo a Milano. Sempre secondo il mio
informatore, il Papa prese questa decisione perché aveva saputo - o gli
avevano riferito - che, a commento di non so quale suo gesto, Montini
aveva sospirato, sguardo al cielo «Signore, aprigli gli occhi. E se non
puoi, chiudiglieli». Ma io non ci credo. A parte la riservatezza e
cautela, Montini non era un uomo di «battuta», e quella su riportata
venne poi attribuita al Cardinale francese Tisserant, cui invece molto
assomigliava.
Ma lasciamo i pettegolezzi, e veniamo all'uomo e al Papa Montini. Dobbiamo
riconoscere che al successivo Conclave gli toccò una successione
difficilissima perché difficilissimo, anzi impossibile era far
dimenticare il suo predecessore Roncalli, di cui non possedeva la simpatia
e il calore umano. Ne soffrì, visibilmente. Ma il confronto era impari.
Tanto Papa Giovanni sprizzava e comunicava gioia - la gioia del vivere e
del Credere -, quanto Paolo allontanava e raggelava. Anzi, le dico
francamente che se un motivo di simpatia il suo ricordo suscita in me, ad
animarlo, se non proprio la pietà, è la comprensione del dubbio e del
tormento che mi sembrava di leggergli in volto.
Come vede, caro amico, le ho detto poco. E di questo poco, non tutto,
probabilmente, risponde a verità.
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