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Tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, le esigenze della nascente società industriale, da un lato, e la scarsità delle tradizionali fonti di energia, dall’altro, costituirono uno stimolo per la costruzione di macchine in grado di convertire calore in lavoro. Solo nella prima metà dell’Ottocento si definirono i principi teorici che spiegavano il funzionamento di tali macchine. Scriveva Sadi Carnot, considerato uno dei padri della termodinamica: “Molto è stato realizzato con le macchine a vapore, che ora sono in buone condizioni di lavoro: però la loro teoria non è molto compresa, e tutti gli sforzi per migliorarne il funzionamento sono ancora quasi casuali”.[da S. Carnot, "Le riflessioni sulla potenza motrice del fuoco e sulle macchine adatte a sviluppare tale potenza"] Dunque, lo sfruttamento del calore come fonte di energia iniziò ben prima di definire correttamente la natura del calore e furono gli sforzi tecnologici per migliorare il rendimento delle macchine a vapore a promuovere la formulazione di fondamentali teorie scientifiche.

Nel XVII secolo, l’allagamento delle miniere era una delle questioni da affrontare con più urgenza, in quanto le pompe non erano in grado di sollevare l’acqua per più di 10 metri. Il problema fu affrontato e risolto da T. Savery, che realizzò nel 1698 una rudimentale pompa senza pistone, costituita da un cilindro pieno di vapore, comunicante con un tubo che pescava nell’acqua: la pressione all’interno del cilindro diminuiva quando il vapore condensava, e l’acqua risaliva nel tubo. Il primo motore termico vero e proprio fu costruito nel 1712 da T. Newcomen, e fu utilizzato per circa un secolo. Questa macchina, dotata di pistone, basava il suo funzionamento sulla condensazione di vapore acqueo. Era lentissima (ad ogni ciclo il cilindro doveva essere riscaldato e raffreddato) e disperdeva una grande quantità di calore: il suo rendimento era dunque molto basso, dell’ordine del 2%. La macchina a vapore, considerata il simbolo della Rivoluzione industriale, era un dispositivo realizzato nel 1769 da J. Watt e aveva un rendimento quattro volte maggiore della macchina di Newcomen; in essa il vapore prodotto dall’acqua riscaldata in una caldaia provocava il moto di un pistone in un cilindro.

Il secondo principio della termodinamica nacque dalla duplice necessità di convertire in modo efficiente calore in lavoro e di sviluppare una teoria che spiegasse il funzionamento delle macchine termiche, di cui all’epoca non si conosceva alcun limite teorico al rendimento, né i fattori che potevano influenzare il loro funzionamento. Carnot, determinando i parametri dai quali dipendeva il rendimento, mise in evidenza che la conversione di calore in lavoro aumenta all’aumentare della differenza di temperatura tra la sorgente calda e quella fredda.

Fu proprio Carnot, nonostante i suoi studi si siano sviluppati nell’ambito della teoria del calorico, a gettare le basi per una strutturazione della termodinamica. Scrisse infatti: “per considerare nel modo più generale il principio della produzione del movimento dovuta al calore, è necessario esaminare tale principio indipendentemente da ogni meccanismo o da ogni agente particolare. È necessario stabilire principi che siano applicabili non solo alle macchine a vapore, ma a ogni immaginabile macchina a fuoco, quale che sia la sostanza operante e quale che sia il metodo grazie al quale essa è posta in operazione.” La paternità del secondo principio si può dunque far risalire a Carnot, che lo enunciò nel 1824 in Riflessioni sulla potenza motrice del fuoco: la prima legge della termodinamica, ossia la conservazione dell’energia non era ancora nota, né era stata ancora completamente compresa la vera natura del calore.

In occasione degli esperimenti di Joule riguardanti la conversione di calore in lavoro, si ripresero a studiare le macchine termiche. Questi esperimenti dimostravano in maniera evidente che il calore può trasformarsi in lavoro, e viceversa, e che né il calore, né il lavoro possono crearsi dal nulla; di conseguenza una macchina termica deve utilizzare calore per produrre lavoro. Kelvin si rese conto che ciò era in contrasto con le ipotesi di Carnot, secondo le quali il calore si trasformava in lavoro fluendo, senza consumarsi, dalla sorgente calda a quella fredda. Egli enunciò la sua formulazione del secondo principio proprio pensando al funzionamento delle macchine termiche: “è impossibile, ricorrendo a operazioni materiali inanimate, derivare effetto meccanico da una qualsiasi porzione di materia raffreddandola al di sotto della temperatura del più freddo tra gli oggetti circostanti”.

Fu R. Clausius a mostrare che la teoria di Carnot  e l’evidenza sperimentale su cui si fondavano i risultati di Joule potevano essere conciliate a patto di rinunciare alla legge di conservazione del calore: per produrre lavoro è necessario che una certa quantità di calore passi da un corpo caldo ad uno freddo, ma il calore che passa dalla sorgente calda alla macchina non deve necessariamente essere restituito alla sorgente fredda. A Clausius si deve, nel 1854, la seguente affermazione originale del secondo principio: “Non può mai passare calore da un corpo freddo a un corpo caldo, a meno che non si presenti nello stesso tempo un’altra modificazione che dipenda dalla prima”.  Nello sforzo di dare una formulazione matematica rigorosa della termodinamica, Clausius introdusse il concetto di entropia; stabilì che in un sistema isolato l’energia resta costante in tutte le trasformazioni, mentre l’entropia rimane invariata solo in quelle reversibili, aumentando invece in quelle irreversibili. Egli, servendosi delle due grandezze energia ed entropia, ripropose i due principi fondamentali della termodinamica secondo questa formulazione:

1.    L’energia dell’universo è costante.

 2.    L’entropia dell’universo tende a un valore massimo.”

A differenza del primo principio e di altre leggi fondamentali della fisica, che sono leggi di conservazione, il secondo principio, espresso dalla legge dell’entropia, si può considerare una legge di evoluzione: dati due qualunque stati di un sistema chiuso, lo stato a cui corrisponde l’entropia maggiore è sicuramente successivo rispetto all’altro.

Qual è allora il significato più generale dell’entropia e quali sono le possibili applicazioni del secondo principio allo studio dell’evoluzione dell’intero Universo? Kelvin formulò l’ipotesi della “morte termica” dell’Universo, che tenderebbe, a causa dell’aumento continuo di entropia, ad uno stadio finale di entropia massima, in cui tutti i corpi sono alla stessa temperatura, e nessuna ulteriore quantità di calore può essere trasformata in lavoro.

Il secondo principio della termodinamica è stato successivamente interpretato grazie a Boltzmann, che ha ricondotto il concetto di entropia a quello di probabilità. Scrive M. Planck ne La conoscenza del mondo fisico:

La natura preferisce uno stato più probabile ad uno meno probabile, in quanto essa effettua solo quei passaggi che avvengono nella direzione della maggiore probabilità. Il calore passa da un corpo a temperatura più alta ad un corpo a temperatura più bassa perché lo stato di uguale distribuzione della temperatura è più probabile che ogni stato di ineguale distribuzione della temperatura. Il calcolo di un determinato valore della probabilità per ogni stato di un sistema di corpi è reso possibile dalla teoria atomica e dallo studio statistico. […] Il principio dell’entropia viene così a collegarsi, come un ben fondato principio di calcolo delle probabilità, all’introduzione dell’atomistica nell’immagine fisica dl mondo.”