L'uomo della Luna

un racconto fanta-biblico di William Riker

dedicato ad Enrico Pellerito

Abramo interpretato da Richard Harris

Abramo interpretato da Richard Harris

Tergendosi con il dorso della mano il sudore che dalla fronte gli pioveva copiosamente negli occhi, anche a causa delle sopracciglia biondicce troppo poco folte, il famoso archeologo israeliano Yigael Katzir scostò la sabbia farinosa dal pendio lungo il quale stava conducendo i propri scavi, riportando alla luce un nuovo teschio umano. Era il quinto, nel giro di un'ora sola di lavoro. Stremato, perché in quell'area sassosa e desertica a sud del Mar Morto la palla di fuoco del Sole dardeggiava impietosamente i propri raggi sulla sua pelle abbronzata nonostante il cappellaccio alla Indiana Jones che portava ben calcato sulla testa pelata, si rialzò combattendo i crampi che lo avevano morso alle ginocchia ed afferrò la borraccia che teneva alla cintola per rinfrescarsi il gargarozzo, anch'esso arido e polveroso come quella marea di rocce al confine tra Israele e Giordania, una regione popolata di solito solo da lupi e da asini selvatici, e dalla quale gli archeologi stavano sempre alla larga, preferendo concentrarsi su altri siti più noti e frequentati, in primis quelli legati alla millenaria storia del Popolo Eletto. Ma Katzir non era così: aveva sempre preferito battere strade nuove, esplorare luoghi mai scavati in precedenza da alcun collega; e stavolta le sue intuizioni sembravano avergli dato ragione.

"Mi sa che hai proprio colto nel segno", lo raggiunse a quel punto la voce del suo vecchio compagno di studi Ehud Asdod, intento a scendere con difficoltà il pendio sul quale Katzir invece si muoveva con l'agilità di uno stambecco della Nubia. "Ti confesso che anch'io ti giudicavo poco meno di un illuso sognatore, quando mi hai invitato a prendere parte a questa tua campagna di scavi in una regione così torrida e impervia a sudovest di Ne'ot Hakikar, nella desolata Valle dell'Aravah, onde ricordare i vecchi tempi del college. Invece, anche questa volta sei riuscito a stupirmi, come facevi con quei tuoi giochi di prestigio per impressionare le ragazze!"

"Ricordi cosa avevo scritto sulla copertina del mio diario, in quegli anni felici e spensierati?" replicò l'archeologo inarcando in un sorriso le labbra screpolate dal sole micidiale di quell'angolo inospitale della Rift Valley. "Era una efficace citazione di Nelson Mandela: un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso!"

"Touchè", sorrise a sua volta Ehud attraverso il folto barbone biondo, raggiungendo il proprio interlocutore e facendo attenzione a non calpestare i reperti che l'amico aveva appena riportato alla luce. "E pensare che ho accettato questa rimpatriata estiva solo perché ci troviamo a poca distanza dal Centro di Ricerche Nucleari del Negev, dove lavoro presso l'impianto di controllo del locale reattore nucleare ad acqua pesante, e dunque potevo venir qui a farti compagnia durante questo weekend di libertà. Ma tu, come diavolo hai fatto ad intuire che proprio qui potevano essere sepolti così tanti resti di uomini vissuti in piena Età del Rame, quasi quattromila anni fa?"

"È tutto merito di un'intuizione che ho avuto tempo fa, nel mio ufficio all'Università di Tel Aviv", spiegò l'accaldatissimo Yigael, offrendogli la propria borraccia per sciacquarsi la faringe prima che anch'essa si fossilizzasse come gli scheletri appena riportati alla luce. "Tutto cominciò mentre stavo leggendo la Tanakh..."

"Tu, che leggevi la Scrittura?" domandò l'ingegnere nucleare dopo essersi dissetato, asciugandosi la barba inumidita dall'acqua con la manica della camicia decorata con i colori di un tartan scozzese. "Permettimi di meravigliarmi: non sei stato forse tu, durante la naja, quando quella bellissima soldatessa ti ha chiesto perché avevi rifiutato l'invito di andare in Sinagoga con lei, a dichiarare che la Bibbia è solo un cumulo di sciocchezze mitologiche sognate durante l'Età del Bronzo Medio?"

"È ciò che penso tuttora", ribatté il professor Katzir, chinandosi a rimuovere la sabbia che circondava il nuovo cranio appena dissepolto dopo secoli di silenzio sotto la valle dell'Aravah. "Tuttavia stavo documentandomi per scrivere un articolo in cui volevo confutare l'identificazione avanzata dal professor Demetrio Markovic, storico dell'Università di Trieste, tra l'« Amrafèl re di Sennaar » citato nel capitolo 14 del Libro della Genesi e il famoso Re Hammurabi di Babilonia, in accordo appunto con la mia idea che la Torah non contenga alcunché di storico, ma sia solo una farcitura di pure invenzioni letterarie effettuate negli ultimi secoli avanti l'Era Volgare. Improvvisamente mi è cascato l'occhio sul versetto che recita: « Lot alzò gli occhi e vide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte prima che il Signore distruggesse Sodoma e Gomorra, come il giardino del Signore, come la terra d'Egitto ». Ovviamente io avevo sempre pensato che questo racconto leggendario rappresentasse nient'altro che un'eziologia, inventata per spiegare come mai le terre che circondano il Mar Morto sono così aride e desolate: fertili e ubertose prima del castigo degli empi Sodomiti, sarebbero diventate brulle e senza un filo d'erba dopo la pioggia di zolfo e fuoco voluta da YHWH: curiosamente, lo stesso che poi avrebbe ordinato a Mosè di « Non uccidere »."

"E cos'è che ti ha fatto cambiare idea?" si informò a quel punto l'ingegner Asdod, accosciandosi a sua volta accanto al vecchio amico di gioventù. Quest'ultimo tuttavia, sempre intento a disseppellire le ossa dalla rena giallastra con il proprio pennello, lo corresse:

"Non ho cambiato idea in alcun modo. Tuttavia, ho pensato: se all'anonimo Levita che al tempo della Dominazione Persiana ha redatto il testo definitivo della Torah giunto fino a noi è venuto in mente che un tempo la regione del Mare d'Asfalto, e in particolare la sua sezione meridionale che dal moshav di Ne'ot Hakikar scende fino al Golfo di Aqaba, poteva essere costellata di popolose città, in caso di una maggiore abbondanza d'acqua, beh... allora l'idea poteva essere venuta anche ai pastori nomadi che bazzicavano questa regione mentre in Egitto veniva innalzata la Piramide di Cheope. Mi sono informato, ed effettivamente le nostre conoscenze geologiche ed idrografiche sono compatibili con il fatto che lo Uadi Araba un tempo poteva avere una portata d'acqua e una regolarità assai maggiori di quelle attuali. Non è certo un caso se qui sorgevano le più antiche miniere di rame del pianeta, risalenti a sei millenni or sono: un clima caldo e secco come quello che osserviamo oggi sarebbe incompatibile con qualsivoglia faticosa attività estrattiva. Non è un caso se qui vicino, nel Parco Nazionale della Valle di Timna, la tradizione localizza le leggendarie Miniere di Re Salomone. È così che ho deciso di dedicare alcuni weekend liberi all'esplorazione archeologica di questa regione, sul bordo della più profonda fossa tettonica emersa e sgombra dai ghiacci dell'intera superficie terrestre, naturalmente dopo aver ottenuto i relativi permessi, anche se non è stato affatto facile, per motivi che mi restano incomprensibili. Ho giocato d'azzardo, e ho vinto."

"Sei stato davvero assistito dalla sorte", riconobbe il suo compagno di avventura, scrutando il teschio appena dissepolto, le cui orbite vuote sembravano fissarlo da un abisso profondo quaranta secoli, e nella cui arcata dentaria molto rovinata sembrava essersi cristallizzata l'ultima risata di fronte alla pazzesca caducità delle fortune umane. "Certo che ti ha aiutato non poco il fatto che i rapporti tra il nostro stato e il Regno Hashemita di Giordania sono molto migliorati, dopo che il nuovo governo Laburista ha ufficialmente riconosciuto la Repubblica di Palestina entro confini certi, dopo il rifiuto di tale riconoscimento durante la lunga era dei governi del Likud."

"Non parlarmene: il mio vecchio cuore Conservatore sanguina, al solo pensarci", borbottò tra i denti l'archeologo, riconoscendo di essere stato punzecchiato dall'amico, da sempre vicino al Partito Laburista e alla sua politica di dialogo con i Palestinesi e con i paesi della Lega Araba. "Solo il pensiero che devo questa importante scoperta al Miflèghet ha'Avodà haYisraelit, l'odiato partito socialista che ha vinto le ultime elezioni, mi fa rodere il fegato al punto che... Oh, toh, guarda cosa c'è qui!"

Immediatamente Ehud Asdod mise da parte ogni ironia politica nei confronti del suo amico archeologo e si concentrò su ciò che Yigael Katzir gli stava indicando con il dito: uno strano manufatto metallico, dalla forma davvero insolita, che lo scheletro appena dissepolto portava al polso destro.

"E questo che diamine è?" domandò l'ingegnere nucleare, osservando lo strano oggetto, con la forma di un bracciale schiacciato, come se fosse stato martellato pesantemente per ore, che appariva letteralmente aderente al radio e all'ulna del malcapitato cui lo scheletro era appartenuto. Yigael estrasse di tasca una lente, lo osservò con cura e sentenziò:

"Non c'è dubbio, è proprio un braccialetto a forma di catenella, realizzato certamente in una lega di oro e rame. La cosa strana consiste nel fatto che gli anelli della catenina sono tutti deformati e schiacciati tutti l'uno contro l'altro, come se..."

"Come se un calore fortissimo ed improvviso li avesse fusi", concluse Asdod, che possedeva l'occhio clinico dello scienziato per questi fenomeni. Katzir si abbassò un poco sul naso gli occhiali neri a specchio e lo fissò diritto negli occhi:

"Non avrei saputo trovare parole diverse per descrivere quanto ho appena scoperto. E non è la sola prova che questi disgraziati sono stati esposti ad una vampata di intensissimo calore, simile alla fiamma che esce da una fornace ardente. Alcune ossa appaiono annerite e persino sbriciolate. E poi, guarda un po' questo."

Ciò detto, estrasse dalla tasca della propria camicia una bustina di plastica nella quale aveva riposto un altro strano reperto rinvenuto poco prima, e la consegnò all'amico, il quale la prese e ne fissò il contenuto:

"Incredibile. Se non sapessi che è assurdo, direi che sono due anelli d'oro che qualcuno portava al dito, e che si sono letteralmente fusi assieme in un unico gioiello."

"Non è poi tanto assurdo, perché io pure non ho trovato spiegazione migliore per giustificarne l'insolita forma. Darei la mia cattedra all'università, per sapere cosa può aver provocato una tale esposizione al calore."

"Non c'è bisogno di mettere a rischio la tua carriera per soddisfare la tua curiosità", gli rispose Ehud, restituendogli il reperto e rialzandosi in piedi con cautela, onde evitare di mettere un piede in fallo e di rotolare giù da quel pendio spigoloso. "Forse ho l'idea giusta, che giustifica la presenza di un tecnico nucleare come me durante questa tua campagna di scavi. In tutta questa zona non c'è traccia di un cratere da impatto dovuto alla caduta di un meteorite, giusto?"

"Assolutamente no", confermò Yigael, alzandosi in piedi a sua volta. "Alcuni miei colleghi hanno ipotizzato che il mito del diluvio universale sia stato originato dalla caduta di un meteorite nell'Oceano Indiano intorno al 3100 avanti Cristo, il quale avrebbe aperto un cratere di trenta chilometri di diametro, corrispondente all'odierno lago Umm al Binni nell'Iraq meridionale. L'impatto avrebbe generato giganteschi tsunami che avrebbero devastato la nascente civiltà dei Sumeri, e sarebbe descritto nei particolari nell'Epopea di Gilgamesh. Io però come sai non credo a queste teorie, e nessun cratere da impatto è mai stato rinvenuto entro i confini dello Stato d'Israele."

"Allora, il calore insopportabile che ha posto fine alla vita di questi uomini ed ha fuso i loro monili potrebbe essere dovuto alla caduta di un nucleo cometario", fece notare l'ingegner Asdod, mimando lo schianto dell'astro con un ampio movimento del braccio destro. "Il 30 giugno 1908 una cometa si è abbattuta sull'area di Tunguska, in Siberia, abbattendo 80 milioni di alberi ma senza lasciare alcun cratere da impatto: essendo composta principalmente da ghiaccio e polvere, essa fu completamente vaporizzata dall'impatto con l'atmosfera terrestre. Se l'esplosione del nucleo della stella è avvenuta ad alcuni chilometri di quota, anche qui potrebbe essersi verificato lo stesso fenomeno, raro ma non impossibile, e ciò giustificherebbe in parte l'estrema desolazione di quest'area desertica, senza bisogno di invocare alcuna collera divina."

"La tua è un'ipotesi estremamente affascinante", ribatté l'archeologo, accalorandosi come se non fosse già abbastanza accaldato dopo ore di lavoro su quel pendio su cui c'erano quaranta gradi all'ombra... e non vi era alcuna ombra. "È però anche estremamente difficile da dimostrare, e molti colleghi che conosco la smantellerebbero con facilità."

"Ma è qui che entra in gioco l'ingegnere nucleare", sorrise il suo interlocutore, esibendo il proprio pass di entrata al Centro di Ricerche Nucleari del Negev con la stessa fierezza con cui un deportato ad Auschwitz avrebbe mostrato il suo numero tatuato sul braccio. "Una cometa, come tutti i corpi celesti, trasporta con sé piccole quantità di materiale radioattivo, in particolare nuclei di torio230, prodotto dalla catena radioattiva dell'uranio. Questo isotopo del torio ha un'emivita di 75.380 anni, cioè in media occorrono 75.380 anni affinché una certa popolazione di nuclei radioattivi si riduca esattamente alla sua metà. Ora, ipotizzando come hai detto tu che queste ossa abbiano circa quattromila anni di età, e tenendo conto che la legge del decadimento radioattivo è di tipo esponenziale negativo, dovremmo misurare un'attività residua pari almeno a..."

"Fermo là, uomo di scienza", lo interruppe a quel punto Yigael Katzir, alzando la mano destra come se fosse la paletta di un vigile urbano, onde fermare quel profluvio di numeri. "Lo sai benissimo, che per me la matematica è arabo!"

"Forse perchè l'hanno inventata loro", sorrise Ehud Asdod, iniziando faticosamente a risalire la china del pendio che un tempo doveva essere coperto da una lussureggiante vegetazione. "Aspettami un attimo, vado a prendere il contatore Geiger che porto sempre con me per ogni evenienza."

L'archeologo controcorrente scosse il capo e tornò a concentrarsi sui suoi scavi, disseppellendo altri bizzarri reperti. "Davvero strano", brontolò fra sé e sé: "qui ci sono anche mattoni di argilla, che sembrano sparsi all'intorno e in alcuni casi anche sbrecciati, per non dire sgretolati. Si direbbe che un bambino di proporzioni gigantesche, appartenuto alla mitologica razza antidiluviana dei Nephilim, abbia preso a calci il muro a formare il quale erano disposti, per puro piacere sadico.... Calore e forte onda d'urto, cosa mai può aver provocato questa micidiale combinazione? Che abbia ragione il buon vecchio Ehud, ipotizzando la caduta sulla regione del cuore di ghiaccio di una cometa?"

Stava ancora rimuginando sui motivi che avevano potuto portare alla disintegrazione di quegli antichissimi muri, che pure sembrava essere avvenuta pochi giorni prima, tanto nitida era la « fotografia » della catastrofe rimasta cristallizzata in quei reperti archeologici, quando fece ritorno il buon Ehud, reggendo nella mano sinistra una scatola gialla sul cui pannello frontale c'erano un display digitale ed alcune manopole, e nella destra un cilindro di metallo luccicante come un monile d'argento, collegato alla scatola mediante un cavo nero attorcigliato che pareva quello di un telefono da scrivania. Come faceva sempre quando adoperava i propri attrezzi da lavoro preferiti, si mise a parlare a ruota libera, come se si trovasse in un'aula scolastica e non nel bel mezzo dell'arida solitudine della valle dello Uadi Araba, disturbando il flusso di pensieri del suo amico archeologo:

"Eccolo qua, il gingillo inventato nel 1913 dal tedesco Hans Wilhelm Geiger. Non ci crederai, ma il suo funzionamento è estremamente semplice. Quando una radiazione attraversa questo tubo e colpisce una molecola del gas in esso contenuta, la ionizza producendo una coppia ioneelettrone. Gli ioni primari così prodotti vengono accelerati a sufficienza da produrre ionizzazioni secondarie quando urtano altre molecole di gas, generando una moltiplicazione a valanga. L'impulso elettrico testimonia l'avvenuto contatto con una radiazione ionizzante e viene contato da un circuito elettronico, generando il tipico ticchettio di questo giocattolo. A seconda del numero di conteggi fatti nell'unità di tempo è facile risalire all'attività della sorgente radioattiva e di conseguenza alla sua pericolosità. A dir la verità, la dinamica di questo rivelatore è abbastanza ridotta, a causa del tempo morto durante il quale avviene un conteggio, dell'ordine dei microsecondi, e quindi..."

Yigael sbuffò, perché le tiretere tecnicoscientifiche che periodicamente l'amico lo costringeva a sorbirsi avevano su di lui il solo effetto di non riuscire a concentrarsi sul proprio lavoro, e in questo caso sull'individuazione della vera causa dell'apparente mistero archeologico che si era ritrovato tra le mani. Si trovò perciò costretto ad interromperlo con una certa durezza:

"Molto interessante, ingegner Asdod; tuttavia, se pensi che esso potrà esserci utile per capire cosa ha davvero raso al suolo le abitazioni di questi poveretti, anziché spiegarmi tutti i particolari del suo funzionamento, perché non lo metti in funzione?"

"Opps!" si scusò l'interpellato, arrossendo ancor più di quanto già non fosse a causa dell'impietoso dardeggiare del sole. "Perdonami, dottor Katzir, ma quando ho a che fare con la mia amata fisica nucleare, mi lascio prendere la mano e credo che essa interessi a tutti quanto a me, compresi i rudi soldati di Tsahal, l'esercito del nostro Stato d'Israele, che presidiano il confine caldo con l'Egitto dei Fratelli Musulmani, con il quale i nostri rapporti sono tutt'altro che buoni... Hai ragione tu, già Seneca diceva che la filosofia non si basa sulle parole, ma sui fatti. Proviamo ad accendere il mio Geiger, e vediamo se la mia teoria..."

Immediatamente entrambi gli uomini di scienza impallidirono di colpo, perché non appena Asdod ebbe spostato lo switch sulla posizione ON, lo strumento cominciò ad emettere uno spaventoso ticchettio che ricordava il gelido fracasso della grandine su un tetto di lamiera durante una burrasca estiva: sembrava che una tempesta di sassi stesse abbattendosi sulle pietraie tutt'attorno a loro, tanto che l'ingegnere, atterrito, riportò immediatamente lo switch sulla posizione OFF. Per qualche secondo i due ricercatori si osservarono negli occhi, come se avessero visto le ossa appena dissepolte ricoprirsi miracolosamente di nervi, carne e pelle così come descritto nella celeberrima visione delle ossa aride nel capitolo 37 del Libro di Ezechiele; poi Ehud si fece coraggio, riaccese il contatore Geiger ed esso impazzì nuovamente, senza accennare a diminuire d'intensità nonostante egli facesse girare all'intorno disperatamente il cilindretto rivelatore, alla ricerca di una direzione dalla quale la radioattività arrivasse a loro con minore intensità.

"Ulp! Altro che cometa!" borbottò incredulo l'ingegnere nucleare, dopo aver deglutito asciutto attraverso il gargarozzo, improvvisamente seccatogli come la Valle dell'Aravah. "Qui sembra che sia precipitato un intero aereo cargo con un carico di tonnellate e tonnellate di ossido di torio per avveniristici reattori ad amplificazione di energia!"

"Sei... sei sicuro che quella trappola funzioni correttamente?" balbettò invece l'archeologo, che aveva sempre nutrito un certo scetticismo riguardo al funzionamento delle apparecchiature elettroniche, dal forno a microonde di casa sua al più potente supercomputer del MIT di Boston. Il suo interlocutore tuttavia gli ribatté, indignato come se egli avesse messo in dubbio la fedeltà di sua moglie:

"Certo che sì! Affido ad esso la mia vita quando entro in zone del Centro di Ricerche Nucleari del Negev che si sospettano essere state contaminate, e finora non mi ha mai tradito! Se ticchetta come un supermercato in cui si vendono solo orologi a molla, non ci sono alternative: vuol dire che qui attorno c'è più radioattività di quanta se ne registra in un raggio di dieci chilometri dal reattore numero quattro della centrale di Černobyl'!"

"Ma com'è possibile?" tornò a domandarsi uno sbigottito Yigael Katzir, incredulo come se gli fossero comparsi davanti Mosè ed Elia tali e quali appaiono ritratti nella "Trasfigurazione" di Raffaello Sanzio. "Ci troviamo praticamente in mezzo al nulla, dove nessuno può aver maneggiato consapevolmente materiali radioattivi, dato che da quattromila anni a questa parte tra queste rocce non passano altro che pastori beduini abituati ad avere a che fare con capre e cammelli, non con barre di combustibile per reattori nucleari!" Improvvisamente ebbe un'illuminazione, e parve che sopra la testa gli si accendesse una lampadina, così come accade nei fumetti:

"Un momento! Forse siamo capitati in un'area dove il nostro governo ha compiuto qualche esperimento nucleare segreto, al tempo della Guerra dei Sei Giorni o di quella dello Yom Kippur... Questo spiegherebbe non solo gli alti livelli di radioattività residua, ma anche le difficoltà che ho incontrato al Ministero della Ricerca Scientifica per ottenere l'autorizzazione a portare avanti questi miei scavi!"

"Ma non se stato tu a dirmi che quelle ossa sono vecchie di millenni?" gli replicò l'amico formulandogli una nuova domanda, come fanno spesso i fisici quando li si contraddice circa i fondamenti stessi della loro scienza. "Ebbene, guarda!" Avvicinò il cilindretto metallico al cranio dello scheletro che Yigael aveva appena dissepolto, e il contatore Geiger segnalò protestando rumorosamente un'attività assai maggiore di quella che si registrava in superficie. "Convinto? Le ossa di questi sventurati sono impregnate di radioattività come i polmoni di un fumatore lo sono di nicotina. È come se le sostanze radioattive che hanno fatto ammattire il mio Geiger fossero sepolte insieme a loro sotto la strato di polveri e ghiaia che tu hai rimosso per riportarle alla luce!"

Il professor Katzir era stupefatto come se da quelle sabbie fosse saltata fuori una lettera scritta 2600 anni prima dal profeta Geremia in persona, e indirizzata a lui. "Io non so più dove sbattere la testa", fu costretto infine ad arrendersi, di fronte al crollo di tutte le granitiche certezze che la sua disciplina gli aveva inculcato fin da quando era ancora un bambino intento a leggere "Civiltà sepolte" di C.W. Ceram. "Se non è stato il nostro governo al tempo della Guerra Fredda, chi può aver compiuto esperimenti nucleari segreti nel pieno dell'Età del Rame? Io alle teorie degli alieni che visitarono la Terra nel remoto passato e vi lasciarono tracce inequivocabili del loro passaggio, non ho mai voluto né potuto credere."

"Neanch'io", mormorò l'ingegner Asdod, spegnendo il contatore Geiger perché il suo lamentoso ticchettio cominciava ad infastidirlo come l'abbaiare di un cane nel silenzio della notte. Non occorreva però essere laureati all'Università di Tel Aviv per comprendere che lui medesimo dubitava delle proprie parole, perché è quando non si crede più a nulla, neppure alla scienza che ha sempre fornito una risposta ad ogni nostra domanda, che si comincia a credere a tutto. "In ogni caso, qualunque sia stata la causa di questa incredibile radioattività residua, dobbiamo alzare i tacchi prima possibile, altrimenti saremo pericolosamente contaminati: secondo una rapida stima basata sulla mia modesta esperienza, in questo solo pomeriggio di scavi abbiamo già assorbito l'equivalente di dose che comunemente riceviamo nel corso di tutta quanta la nostra vita!"

Ciò detto, fece per allontanarsi, risalendo a fatica il pendio per raggiungere la jeep che li avrebbe riportati ad En Gedi prima di sera. Yigael tuttavia lo afferrò per un braccio: "Un momento, Ehud. Non possiamo abbandonare così alle intemperie questi fondamentali reperti archeologici, i quali potrebbero dimostrare..."

"No, infatti hai ragione tu", replicò l'ingegnere nucleare, divincolandosi ma ritornando sui propri passi. "Dobbiamo ricoprire tutto di sabbia e sassi, affinché la radioattività che sprigiona da essi rimanga confinata sottoterra e non si diffonda nell'atmosfera. Non potremo tornare mai più a compiere scavi da queste parti; infatti, anche se fossimo dotati di speciali tute antiradiazioni, di dosimetri altamente sensibili e contenitori in piombo nei quali stoccare tutti i reperti, non potremmo impedire in alcun modo che una nube radioattiva trasudi da questo deserto contaminato e maledetto, appestando tutta Eretz Yisrael, la nostra amata Terra Promessa. Questa non è una ricerca archeologica che possa essere portata avanti con la tecnologia attuale, e per di più da uno scienziato solitario e un po' eccentrico, simile a un rabbino alchimista della Praga medioevale: solo quando l'umanità scoprirà come confinare la terribile radioattività di queste rocce, una squadra di archeologi di un lontano futuro potrà tornare qui a disseppellire questi enigmatici scheletri e le loro suppellettili per comprendere il mistero che oggi ha fatto impazzire il mio contatore Geiger. Se ci provassimo noi, l'unico risultato che otterremmo sarebbe quello di tornare alle nostre case affetti da una grave forma di leucemia!"

Questa parola dovette avere sul professor Katzir l'effetto che ha su un cassiere di banca una pistola spianata, perché afferrò una pala come se fosse una spada laser con la quale difendersi da Darth Vader in persona, ed iniziò a ricoprire affannosamente i reperti che con tanta cautela ed attenzione aveva appena riportato alla luce. Allora anche l'ingegner Asdod prese un badile e cominciò ad imitarlo per finire più in fretta il lavoro, e togliere l'incomodo il più in fretta possibile da quella valle scarnificata che pareva maledetta da un'entità sconosciuta ma pericolosissima. Mentre lavorava più alacremente di quanto facevano i suoi antenati Ebrei per costruire città e monumenti al tempo della cattività in Egitto, e nonostante il fiatone che quel compito così pesante gli provocava, l'esperto di radioattività non riuscì a fare a meno di raccontare:

"Sai una cosa, Yigael? Quando ero ancora un bimbetto con i pantaloni corti, mio nonno mi raccontò una strana leggenda del nostro popolo, secondo cui nel disco lunare le macchie disegnano una forma vagamente somigliante ad un volto umano. Egli mi narrò che si tratta di un uomo citato nella Tanakh, vissuto al tempo dell'Esodo dall'Egitto, il quale sarebbe stato sorpreso a raccogliere legna in giorno di Sabato, azione proibitissima dalle Tavole della Legge. Nel libro di Bemidbàr(1) è scritto che per ordine di Mosè egli fu condotto fuori dall'accampamento e lapidato; secondo una leggenda popolare, invece, egli fu esiliato sulla Luna con la sua legna in spalla ed insieme al suo cane, quale perpetuo monito a non violare la sacralità dello Shabbāt. Ebbene, tu forse mi darai del babbeo, ma oggi crederei più facilmente che questa leggenda sia vera, piuttosto che alla veridicità delle letture incredibili del mio contatore Geiger, che ci hanno portato a scoprire una simile contaminazione radioattiva risalente nientemeno che all'Età del Rame!"

Katzir non gli rispose alcunché, lasciando intendere che a lui pure il fenomeno che aveva constatato risultava affatto incomprensibile, giacché chi tace acconsente; ma c'era di più. Egli infatti non era un ingegnere come Asdod; gli ingegneri, di fronte ad un progetto irrealizzabile, come un ponte ad unica campata troppo lungo per potersi autosostenere, si limitano a stracciare il progetto non attuabile e a mettere mano ad uno nuovo. L'archeologo invece non ammette misteri inestricabili, davanti al quale è costretto a fermarsi, a catalogarlo come insolubile e a passare ad altro: se un'antica moneta romana viene ritrovata sulle coste della Pennsylvania, una spiegazione ci deve per forza essere, ad esempio il fatto che la può aver perduta un moderno collezionista. E così, continuando a seppellire sotto uno spesso strato di sabbia quella che sperava potesse risultare la scoperta archeologica del secolo, continuò ad arrovellarsi su quale potesse essere la spiegazione razionale di quel vero e proprio enigma, rispetto al quale le tavolette RongoRongo dell'Isola di Pasqua o il disco di Festo apparivano come semplici cruciverba da giornali a fumetti per bambini. "Tutto ciò che oggi abbiamo scoperto essere antichissimo eppure radioattivo deve ben avere una spiegazione razionale", si disse, mentre con l'amico Ehud faceva ritorno alla jeep portando con sé gli arnesi di scavo, lasciandosi dietro le spalle i reperti e gli scheletri che avrebbero potuto renderlo celebre in tutto il mondo: "Quattromila anni fa su questa landa disgraziata non può certo essere stata sganciata una bomba atomica!"

* * *

Con un sinistro cigolio, che faceva parere spettrale in quella città persino la sontuosa sala del trono del suo sovrano, tutta adorna di oro, di avorio e di lapislazzuli, la grande porta istoriata a sbalzo si aprì, trascinata da ben sei schiavi, tre per ogni battente, e fece il suo ingresso un uomo di circa cinquant'anni, dall'aspetto austero, con il volto circondato da barba e capelli del colore dei nembi temporaleschi, e avente lo sguardo che lampeggiava proprio come le saette lampeggiano tra le nubi prima che si scateni la tempesta. Vestiva semplicemente, con una tunica ed un mantello entrambi di lana grezza, ed ai piedi portava calzari di cuoio bollito ed annodati fino a metà gamba, mentre nella mano sinistra reggeva un grosso bastone di legno di cipresso, intagliato con simboli rituali incomprensibili ai più. Quest'umile abbigliamento lo faceva immediatamente riconoscere come uno dei tanti pastori nomadi che percorrevano con i loro armenti le montagne della Terra di Canaan, e dunque appariva diverso dai cortigiani e dalle odalische che affollavano quel salone quanto una rondine differisce da un'aquila reale; ma chiunque dei presenti si fosse preparato a deriderlo per la sua semplicità e rozzezza, in assoluto contrasto con la raffinatezza del luogo dove aveva avuto l'ardire di entrare, cambiò immediatamente idea non appena vide la spada di metallo sconosciuto e all'apparenza durissimo e affilatissimo che gli pendeva dal fianco, e sul quale egli teneva appoggiata la mano destra, forse proprio come monito affinché non lo si sottovalutasse per via della modestia con la quale egli si era presentato là di fronte a tutti quei sofisticati cortigiani.

Come se quella possente arma da taglio e il fiero cipiglio del suo possessore, che dando credito alle antiche saghe non sarebbe apparso meno terribile di quello dell'antico semidio mesopotamico Gilgamesh, non fossero state sufficienti ad incutere rispetto a tutti i presenti, avvolti in vesti di bisso con ricami d'oro, e persino agli armigeri di guardia, che a loro disposizione avevano solo corte daghe di bronzo, dietro a quell'uomo ne avanzarono altri tre, anch'essi umilmente avvolti in abiti da pastori e con il capo coperto, ma armati con lunghe spade identiche a quelle di colui che incedeva davanti a loro, e con la stessa minacciosa espressione sul volto, che di per sé sola sarebbe bastata a far fuggire a gambe levate persino Asmodeo, il demone che infestava il deserto con la sua malvagità.

I quattro guerrieri avanzarono lungo il tappeto di broccato rosso stesso per tutta la lunghezza della sala, senza mostrare alcuna soggezione nei confronti del luogo nel quale erano stati ammessi, ed anzi ignorando platealmente tutti gli sguardi dei cortigiani che convergevano su di loro, e tutti i bisbigli scandalizzati che i presenti sussurravano agli orecchi dei loro vicini. Bisbigli che evidentemente commentavano il loro presentarsi così umilmente vestiti dinanzi al più potente sovrano di quella regione, con il quale persino i potenti faraoni d'Egitto e i bellicosi sovrani hurriti erano stati costretti più volte a venire a patti; ma se in quel momento una zanzara avesse cercato di ucciderli pungendoli ripetutamente con il proprio apparato boccale, essi se ne sarebbero curati di più.

Procedendo con i poderosi muscoli pettorali in fuori, quasi fosse un gesto di sfida nei confronti di tutti quei cortigiani che li disprezzavano anche se li temevano, i quattro giunsero alfine davanti al trono di avorio e d'oro, che era occupato da un uomo dalla lunga barba nera intrecciata, vestito riccamente con abiti intessuti d'oro e pietre dure, con in capo una splendida corona nella quale erano incastonate pietre dure di diaspro e di cornalina, e con le dita cariche di anelli le cui pietre dure erano state prescritte dai sacerdoti di corte per il loro presunto potere di tenere lontane malattie e maledizioni da parte dei nemici. L'altolocato personaggio però, pur essendo ancora piuttosto giovane, non sembrava passarsela troppo bene dal punto di vista della salute: la pinguedine lo costringeva ad indossare abiti molto larghi per cercare invano di nasconderla; i suoi denti apparivano rovinati dall'eccessivo consumo di zuccheri; e l'arrossamento e il gonfiore delle articolazioni lasciava intravedere i primi sintomi della gotta, non a caso definita « la malattia dei re » oltre che « il re delle malattie », e dovuta agli eccessi di grassi e di vino. Quando parlò, il curioso personaggio lo fece con voce effeminata, anche se attorno al suo trono sedevano le quattro mogli e alcuni dei suoi numerosi figli:

"Ci rivediamo, dunque, Abramo l'Habiru, proprio come avevo sperato. È dal tempo della guerra contro i Re d'Oriente, che non ho il piacere di riceverti qui a Sodoma!"

L'ironia della sua voce era tagliente come le spade fabbricate con un metallo misterioso che pendevano dal fianco degli uomini testé sopraggiunti, e uno di questi digrignò i denti come se desiderasse cibarsi del cuore crudo del potente che aveva davanti. Colui che era avanzato davanti a tutti gli altri tuttavia lo zittì con un imperioso gesto della mano e replicò al sarcasmo del sovrano come avrebbe reagito una tigre cui qualcuno avesse cercato di sottrarre i cuccioli:

"Come avevi sperato? Come ci hai obbligato a fare, vorrai dire, Re Bera. Sei stato tu o non sei stato tu a dare l'ordine di arrestare mio nipote Lot, che da lunghi anni vive entro le mura della tua città dopo aver abbandonato la vita errabonda di noi nomadi, e dopo avermi mandato una delle sue giovani schiave come messaggera, ingiungendomi che lo avresti liberato solo dopo aver parlato faccia a faccia con me?"

"Il tuo amato nipote mi ha costretto a sbatterlo dentro", replicò il re sbadigliando rumorosamente, come se stesse trattando l'ordinaria amministrazione del suo ricco e potente stato. "Da quando ho deciso di proclamarmi dio ed anzi capo del pantheon della mia gente, al di sopra persino di Baal e di Astarte, ho ordinato a tutti i miei sudditi che vivono entro le mura della grande città di Sodoma di prostrarsi ogni mattina appena svegli davanti ad una delle mie innumerevoli statue sparse per la città e offrire ad esse aromi e incenso in mio onore. Non è certo colpa mia, se il figlio di tuo fratello si è rifiutato di farlo, adducendo come scusa il fatto che lui onora un solo Dio, un certo El Elyon, il cui culto voi avete importato fin qui dalla lontana Mesopotamia."

"E cosa ti avrebbe dato il permesso di proclamarti una divinità e di esigere un culto che si deve solo all'Onnipotente?" ruggì il patriarca Abramo, cui l'aria annoiata del proprio interlocutore stava pericolosamente dando sui nervi. A questo punto, re Bera abbandonò ogni maschera e si mostrò a tutti il tiranno che era sempre stato, puntando verso il proprio interlocutore il bastone d'oro del comando che reggeva in mano:

"Cosa me ne ha dato il permesso? Straccione abituato a cavalcare gli onagri del deserto, credi forse che un sovrano abbia bisogno del permesso di qualcuno, per poter ordinare ai suoi sudditi ciò che pretende da loro? Il sole del deserto ti ha bruciato la mente, vecchio errabondo. Tu comandi sopra un pugno di sporchi beduini che vivono sotto miserabili tende e puzzano di urina di dromedario, io invece ho in mio potere la vita e la morte dei trentatremila abitanti di Sodoma, per non parlare di tutta la restante popolazione della rigogliosa Valle di Siddim e dei miei alleati che abitano sulle rive del Mare d'Asfalto!"

"Tu non avresti potere su chicchessia, se non te lo avesse accordato in dono Uno infinitamente più in alto di te", ribatté coraggiosamente il capotribù degli Ebrei, nonostante tutti i cortigiani stessero mormorando contro di lui, deplorando la sua insolenza di fronte a un sovrano così potente. "E un giorno Egli ti chiederà conto di come tu hai adoperato il potere che ti aveva concesso. Egli ti ha dato tutto: la regalità, la ricchezza, i cibi più succulenti, le donne più graziose, lo splendore impareggiabile di questa corte, e aggiungerebbe anche altro se tutto ciò non bastasse a soddisfare la tua ambizione. Tu invece, come Lo hai ripagato? Volendoti sostituire a Lui, facendoti adorare come una deità e facendo gettare in un tetro carcere chi ha un'altra fede e si rifiuta di obbedire al tuo capriccio. E, come se tutto ciò non bastasse, hai dato impulso in tutto il tuo regno e in quelli dei tuoi alleati alla prostituzione sacra, quella ripugnante pratica che vi porta a trasformare i templi ai vostri déi in postriboli nei quali i tuoi sudditi sfogano i loro più bassi istinti, giacendo indifferentemente con uomini e donne e persino con animali, nell'assurda convinzione di entrare in rapporto carnale diretto con i vostri falsi idoli! Con tanti peccati sulla coscienza, confesso che non vorrei proprio essere nei tuoi panni, re Bela."

Tutti i presenti si aspettavano che il superbo sovrano ordinasse immediatamente agli armigeri della sua guardia personale di mozzare seduta stante la testa all'Habiru e ai suoi alleati. Il re di Sodoma invece deformò a sorpresa il proprio volto adirato in uno sberleffo sarcastico e cantilenò con tono sdolcinato:

"Lo credo bene che non vorresti essere seduto su questo trono, lurido Habiru che hai in odio le civiltà cittadine al punto di essere fuggito armi e bagagli dalla grande città di Carran come se in essa infuriasse la peste, asserendo di averlo fatto perché te lo aveva detto una voce proveniente dal cielo. Per te chiunque viva entro quattro mura ed eserciti potestà su altri uomini, è un peccatore degno delle peggiori pene dell'inferno. Di sicuro però io e la mia gente non abbiamo paura degli anatemi scagliati contro di noi da un pugno di nomadi straccioni come voi, che passate le sere attorno al focolare acceso con sterco di cammello, puzzate come la latrina dell'oltretomba e circoncidete voi e i vostri figli come se temeste che, senza quel nauseante rituale, non potreste avere discendenti e sopravvivere in qualche modo su questo mondo. Quanto poi alla prostituzione sacra che si pratica nella mia città, tanto con gente del proprio sesso quanto del sesso contrario, tu sei l'ultimo che può darmi lezioni circa le pratiche sessuali che dovremmo tenere: so infatti per certo che, se la vostra moglie non ha figli, voi ne approfittate per violentare le vostre schiave, asserendo che il permesso per fare ciò ve lo ha dato il vostro Dio! E così so che hai fatto anche tu con Agar, la schiava egiziana di tua moglie, dalla quale hai avuto un figlio bastardo."

A questo punto Escol l'Amorreo, uno dei tre nerboruti guerrieri che accompagnavano il patriarca, fece l'atto di afferrare l'arco e la faretra che portava dietro la schiena, per scagliare una delle proprie frecce contro il lascivo sovrano sodomita, ritenendo un'offesa fatta alla sposa di Abramo un'offesa fatta a lui stesso, tanto forte era il senso del clan per gli abitanti delle aspre balze montagnose di Canaan. Immediatamente tutti i pretoriani del drappello personale di re Bera impugnarono i loro archi o misero mano alle lance per infilzare il detestato nomade come un tordo, ma Abramo figlio di Terah riportò la calma semplicemente alzando la mano sinistra e proclamando: "Fermi tutti! Non siamo qui per spargere il sangue di nessuno, ma solo per evitare che sia sparso il sangue di mio nipote: sarebbe ben poco astuto sacrificare molte vite, anziché riuscire a salvarne una sola."

Quando sia l'Amorreo che i birri di Sodoma ebbero lentamente messo giù le armi, scagliandosi reciprocamente occhiate così roventi che sarebbero bastate per cuocere un montone arrosto, colui che era venuto nella Terra di Canaan fidandosi delle promesse del suo Dio tornò a rivolgersi al prepotente sovrano, e lo fece seguendo le sue stesse abitudini, vale a dire ritorcendogli contro le parole che egli stesso aveva pronunciato:

"Lurido Habiru, eh? Nomade straccione, violentatore di schiave, padre di un figlio bastardo... Non ti rivolgevi così a me dieci anni fa, quando io e i miei alleati qui presenti ti aiutammo a respingere l'invasione di re Hammurabi di Babilonia, che intendeva annettere al suo già vasto stato questa valle ricca d'acque, non è vero? Ti ricordo che siete riusciti a sopravvivere al rullo compressore dei seguaci del dio Marduk solo grazie al metallo indistruttibile di cui sono composte le spade di noi, poveri pastori delle montagne di Canaan: metallo che costituisce un regalo dei miei amici Ittiti, mentre invece voi, raffinati cittadini della valle, potete contare al massimo sulle vostre fragili daghe di rame!"

Così ruggendo, impugnò la propria possente spada sollevandola sopra la testa, in modo che la maggior parte dei presenti potesse vedere per la prima volta in vita sua com'era fatta una spada di ferro, metallo la cui fusione e lavorazione era un segreto gelosamente custodito dai potenti re Ittiti del nord. La piccola folla dei cortigiani adorni di monili d'oro e d'oricalco fu percorsa da mormorii di sconcerto: tutti avevano sentito parlare del metallo di cui sono fatte le stelle, che aveva consentito agli Ittiti di conquistare un impero immenso, esteso fino alle remote e gelide terre degli Iperborei, ma ben pochi avevano pensato di poter vedere un'arma fusa con quel diabolico materiale, e per di più durante una semplice dimostrazione e non durante una battaglia contro i nemici del nord. Neppure i pretoriani di re Bera osarono sguainare le loro lame dall'elsa finemente intarsiata, splendide da vedersi in confronto alle rozze armi di Abramo e soci, ma che sarebbero andate in cento pezzi al primo assalto, nel caso di uno scontro frontale con i quattro nomadi venuti dalle montagne. Prima però che il re di Sodoma potesse replicare alcunché, prese la parola uno dei sacerdoti della sua corte, vestito di bianco e con il capo completamente rasato, che fece un passo in avanti e sbottò sdegnato, con una voce effeminata simile a quella del suo sire:

"Come osi parlare così a noi sodomiti, feccia di un Habiru? Probabilmente tu non puoi comprendere le mie parole, ma sappi che la nostra città è la più antica della Terra! Persino le mura e la torre di Gerico furono costruite dopo quelle di Sodoma. Quando gli Anunnaki scesero dal cielo, millenni or sono, per insegnare a tutti gli uomini le arti e le scienze e donarci la civiltà, fondarono e ci consegnarono proprio questa città, all'incrocio tra tutte le vie carovaniere del mondo, affinché da dentro le sue incorruttibili mura noi diffondessimo la civiltà tra tutte le genti della Terra, e ci ordinarono di perseguitare duramente tutti coloro che non credevano in loro e nella loro azione civilizzatrice! E siccome re Bera è stato assunto fra gli Anunnaki quando era ancora in vita, egli era nel pieno diritto di far gettare in gattabuia tuo nipote, non avendo riconosciuto le sue prerogative divine!"

"Re Bera è stato assunto tra i vostri falsi déi? Io direi piuttosto che si è assunto da solo, autopromuovendosi da re ad idolo", replicò con sferzante ironia l'uomo dalle spalle larghissime e dalla rombante voce da basso, che rispondeva al nome di Mamre di Amurru, colui che possedeva il querceto presso cui Abramo si era accampato, al suo arrivo nella Terra di Canaan, molti anni prima. "Non che le cose siano cambiate molto, ad ogni modo: vuota aveva la testa come sovrano, e vuota di vita è la sua statua ora che dice di essere diventato una divinità!"

Ad udire quelle parole, i pretoriani di Bera fecero di nuovo l'atto di mettere mano alle lance per trafiggere gli insolenti stranieri, e le mani di Mamre e dei suoi fratelli Escol e Aner corsero quasi automaticamente alle impugnature delle loro spade di ferro, ma per la seconda volta consecutiva Abramo fermò tutti con voce tonante:

"Ho detto che non sarà sparso sangue, oggi, in questa sala del trono! Non vale la pena di alzare le armi contro gente che adora un uomo mortale come se fosse un dio, capace di creare dal nulla la vita, quando invece sa solo ordinare di dare la morte, e che per i suoi sudditi ed i suoi ospiti non ha parole di alleanza eterna, come quella che il mio vero Dio ha stretto con me, ma solo iniqui insulti e parole di scherno." A questo punto, molto lentamente, come se volesse convincere tutti i presenti che non stava sfoderando alcuna arma fantascientifica, si sganciò dalla cintura di pelle di dromedario una scarsella e la gettò davanti allo scranno del re di Sodoma, con la stessa aria di disprezzo con cui gli avrebbe lanciato contro escrementi di onagro. Cadendo sul pavimento di alabastro, la scarsella si aprì e rovesciò il proprio contenuto, sì che tutti videro che si trattava di pezzi d'oro.

"Cento sicli d'oro bastano per riscattare la vita di mio nipote Lot, di sua moglie, delle sue figlie e dei suoi generi?" domandò il patriarca, mentre i suoi alleati Amorrei tornavano ad allontanare le mani dalle loro spade. "È per questo che mi hai voluto qui, Bera, o sbaglio? Non puoi certo venir meno alla tua fama di sovrano più avido e opulento della Terra!"

Il sovrano di Sodoma tornò ad esibire il volto annoiato con cui lo aveva accolto in quella stanza, come se si ritenesse così ricco da trovare tediosa la vista di altro metallo prezioso, e cantilenò: "Uhm, sì... Confesso che speravo di estorcerti di più, vecchio matto che attraversi mezzo mondo solo perché dici di aver udito delle voci nella notte che ti comandavano di farlo, ma penso di poterti accontentare. Dopotutto, non vedo l'ora di averti fuori dai piedi: la tua puzza insopportabile mi sta rovinando la digestione!"

Ciò detto, fece un cenno col proprio scettro ad un armigero, che infilò una porta e rientrò poco dopo, trascinando con sé un uomo sui quarant'anni, vestito di stracci e con i segni di molte percosse, avente i piedi nudi e le mani legate da un laccio di cuoio. Dietro di lui, altri soldatacci strattonavano una donna della stessa età, che sarebbe apparsa molto piacente se non avesse avuto a sua volta il volto tutto tumefatto, due giovani uomini che avevano subito lo stesso triste destino e due ragazze, rispettivamente di diciotto e sedici anni, che piangevano a dirotto cercando di coprire il seno mudo con i lunghi capelli: non occorreva certo essere il capo dei medici del Faraone d'Egitto, per avvedersi che erano state entrambe violentate, e non una volta sola. Quando vide in che stato erano ridotti i familiari dei suoi congiunti, l'Ebreo si sentì ribollire il sangue nelle vene, e provò l'impellente desiderio di saltare addosso a re Bera e di praticargli la circoncisione seduta stante, usando il proprio affilato pugnale; tuttavia si trattenne, poiché sapeva bene che era proprio la reazione che il Sodomita si aspettava da lui, non attendendo altro che l'occasione di farlo tagliare a pezzi dai suoi uomini, indubitabilmente più numerosi del piccolo drappello dei suoi alleati amorrei che lo seguivano fedelmente in ogni impresa. Si limitò a digrignare i denti come un leone che si vede scappare l'antilope che già credeva di avere ghermito con gli artigli, e ad ammonire il tiranno come se la sua voce venisse direttamente dallo Sheol:

"Se pensi che ti ringrazierò, per aver trattato in questo modo il sangue del mio sangue, o malvagio reggitore di uomini, resterai profondamente deluso. Infatti io ti maledico, o Bera, e con te maledico i tuoi sudditi, i re delle città tue alleate che abitano nella Valle di Siddim, e tutti coloro che vi dimorano. El Elyon, il Dio Altissimo, Signore di tutti i signori, punirà tutti voi per la vostra mancanza di rispetto nei confronti della vita umana, e soprattutto punirà te per la tua superbia e la tua ambizione, arrivata al punto di volerti equiparare a Lui, che ha creato il Cielo e la Terra senza che nessuno Lo creasse!"

Bera replicò con una risata sguaiata, che fece tintinnare gli innumerevoli orecchini d'oro e d'argento da lui indossati, non solo nelle orecchie ma anche nel naso e nelle sopracciglia: una risata che non doveva essere stata differente da quella di Gilgamesh, il leggendario eroe di Sumer, dopo che ebbe abbattuto il mostro Humbaba, custode della Foresta dei Cedri. "Anche tu resterai deluso, straccione d'un capotribù, se pensi che io possa aver timore dei tuoi anatemi e delle tue maledizioni. Io, che ora sono uno degli Anunnaki onnipotenti, me ne faccio un baffo del tuo Dio e delle tue invocazioni a Lui affinché mi bruci con le fiamme dell'inferno, almeno quanto me ne infischio della tua tribù di pastori pulciosi e delle loro spade mirabolanti, io che con i miei alleati Birsa re di Gomorra, Sinab re di Adma, Semeber re di Seboìm e Balak re di Zoar posso mettere insieme un esercito di ventiquattromila uomini fanaticamente fedeli agli Anunnaki ed a me. Dunque prendi i tuoi familiari straccioni e vattene, Habiru venuto da di là dell'Eufrate, né fatti più rivedere in questa gloriosa città, perché il giorno in cui ti rivedessi entro le nostre mura edificate dagli déi, certamente sarebbe l'ultimo della tua vita." Dopo una breve pausa, aggiunse caricando ancor più di odio la propria voce:

"E ritieniti fortunato: proprio domani notte io e i miei sommi sacerdoti abbiamo in programma uno spettacolare sacrificio umano, per celebrare la mia recente assunzione tra gli Anunnanki del cielo, durante il quale tutti, dico tutti i prigionieri ospitati nelle nostre buie carceri saranno bruciati vivi in un immenso calderone di rame brunito pieno di zolfo incandescente nella piazza principale della nostra invitta città. Le fiamme si alzeranno fino al cielo, così da eguagliare lo splendore dei numi immortali che traluce nel buio notturno del firmamento attraverso i fori rappresentati dalle stelle. Perciò, se tu non fossi venuto oggi a riscattare i tuoi parenti, anch'essi sarebbero arsi senza pietà nel braciere che celebrerà in eterno la mia gloria! Uah, uah, uah!"

Abramo sentì sangue salirgli di nuovo alla testa, al solo sentir parlare di sacrifici umani: aveva sempre rimproverato ai pagani di offrire in olocausto ai loro falsi déi i loro figli e fratelli, perché egli aveva sempre avuto un rispetto reverenziale per la vita, al punto da chiedere perdono ai suoi animali prima di sacrificarli al Signore degli Eserciti. Mai, mai egli avrebbe sacrificato il proprio figlio all'Altissimo, nemmeno se Egli in persona glielo avesse espressamente chiesto! Per questo provò l'impellente desiderio di saltare addosso al superbo re di Sodoma e di sfasciargli la faccia a suon di cazzotti; ma non poteva farlo, sapendo bene che anche in questo caso le decine di pretoriani di Bera là presenti avrebbero immediatamente passato per le armi lui, i suoi cari e i suoi alleati Amorrei, perché neppure la sua spada di ferro ittita poteva niente contro il numero soverchiante dei suoi avversari. Il patriarca venuto dalla Mesopotamia si trovò così a rivivere la triste esperienza vissuta in gioventù quando, sceso in Egitto a causa della carestia, aveva visto il Faraone Sesostri III sequestrargli la moglie Sara per farne sua sposa, ed era stato costretto ad assistere impotente alla reclusione di lei nell'harem reale, fino a che il Signore non la aveva liberata con il Suo intervento diretto, colpendo il potente sovrano e la sua corte con la sterilità fino a che Sesostri non gliela ebbe restituita. In più, stavolta non aveva alcun modo di salvare quei poveretti che sarebbero stati bruciati sul rogo, e di cancellare quel ghigno mefistofelico dal volto del perverso re di Sodoma. Frustrato come quando aveva risposto al suo Dio: « Signore, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli e l'erede della mia casa è Elièzer di Damasco », non poté far altro che prendere per mano Lot e i suoi famigliari, mettendoli sotto la protezione delle proprie armi di ferro, e lasciare quella sala inseguito dalle volgari risate del sovrano e dei suoi cortigiani. Vedere la moglie e le figlie di Lot che al contrario piangevano a dirotto, mentre le loro nudità erano state coperte dai mantelli di lana di Mamre, Aner ed Escol, gli spezzava il cuore quanto glielo avrebbe spezzato se sua moglie Sara lo avesse costretto a scacciare Ismaele, figlio della sua schiava; il patriarca dovette persino sopportare che le guardie armate sulla porta della stanza del trono sputassero addosso a lui ed alla sua gente. Né le cose andarono meglio quando, lasciato il palazzo reale e montati sugli asini che li aspettavano in strada, dovettero subire gli insulti degli abitanti della città loro nemica, i quali sembravano felici e contenti di essere governati da un dissoluto sanguinario come Bera e di venerare come dio un mortale, anziché l'unico Creatore del Cielo e della Terra. Ed era questo che più faceva soffrire Abramo, l'Amico di Dio, perfino più atrocemente del modo in cui era stato trattato il figlio di suo fratello.

Mentre il drappello guidato dal figlio di Terah le attraversava con il cuore oscurato dalla tenebra del dolore, le strade polverose della grande città di Sodoma erano affollate di carri stracarichi di merci trainati da asini, cavalli e buoi, mentre altre merci ondeggiavano più in alto, sulle groppe dei dromedari e dei cammelli provenienti dall'Arabia. Incitazioni, urla, contrattazioni, invocazioni agli déi potevano essere udite in ogni lingua del mondo: in egiziano, in nubiano, in cretese, in arabo, in aramaico, in accadico, in sumerico, in persiano. Lo sferragliare di carri e il vociare dei carrettieri e dei commercianti era sovrastato solo dall'olezzo di sudore di uomini e bestie, misto a uno zibaldone di odori di spezie, di formaggi stagionati, di pelli appena conciate, di salumi, di vino, di incenso, di nardo, di cannella, di cinnamomo, di mirra, di profumi, di legni aromatici. Era una tappa obbligata per tutti, la grande città di Sodoma, che sorgeva all'intersezione tra le vie commerciali percorse da tempo immemorabile da interminabili carovane, dirette nella Valle del Nilo o in quella dei Due Fiumi, verso le montagne della Media o verso quelle dell'Armenia, verso i porti dove attraccavano le navi dalle grandi vele di Creta o verso quelli da cui i più arditi marinai partivano per avventurosi viaggi verso le mitiche terre di Ofir e di Punt. Né c'era da stupirsene, dal momento che Sodoma sorgeva in un'oasi fertilissima, la Valle di Siddim, così detta perché occupata da boschi lussureggianti, essendo irrigata dal fiume Aravah che scendeva giù dalle montagne di Edom, e da sette torrenti che invece provenivano con le loro fresche acque dalle colline circostanti, canterellando tra le rocce coperte di muschio come sistri abilmente suonati da musicisti di corte.

Proprio lungo il corso dell'Aravah era sorta, in tempi immemorabili, la grande città di Sodoma, probabilmente la più ricca dell'intera Terra abitata dagli uomini. Così ricca che un decennio prima una coalizione composta da re Hammurabi di Babilonia e da re Kudurlagamar dell'Elam aveva tentato di impossessarsi di quella valle lussureggiante; ed era stato proprio l'intervento risolutore di Abramo e della sua tribù di Habiru a sventare la distruzione totale delle cinque città della Valle di Siddim e a ricacciare i Re d'Oriente al di fuori dei confini della Terra di Canaan. Ed ora, ironia della sorte, quello stesso Abramo che allora era stato festeggiato come un salvatore da tutti gli abitanti della Pentapoli, ora veniva scacciato come un cane rognoso dagli stessi Sodomiti, istigati alla crudeltà dal loro violento culto degli Anunnaki, risalente alla notte dei tempi ma portato alle estreme conseguenze di persecuzione di ogni altro culto da parte dello spietato re Bera.

Già, gli Anunnu o Anunnaki. Abramo aveva già sentito parlare di questa leggenda, vecchia quasi quanto l'umanità, quando era ancora giovane e viveva nella Mesopotamia settentrionale. Nella notte dei tempi, prima del diluvio universale, una razza incomparabile di superuomini sarebbe scesa dalle stelle sulla Terra per portare la civiltà agli esseri umani, che ancora vivevano nelle foreste come animali bruti, ed elevarli al rango di individui senzienti. Ogni popolo li chiamava con un nome diverso, ma nella Terra tra il Tigri e l'Eufrate erano conosciuti come Anunnaki, termine che significa « Stirpe Regale ». Essi sarebbero stati in grado di attaccare gli avversari con armi che vomitavano fiamme, di volare nel firmamento con i loro carri di fuoco detti Vimana, e persino di sganciare proiettili terrificanti in grado di trasformare una fertile pianura in un deserto. Imprese impossibili per chicchessia, si capisce, ed infatti egli non aveva mai prestato fede a quelle fantasie dei propri compatrioti creduloni, preferendo servire El Shaddai, il Signore Onnipotente che, unico, abita nei Cieli e può creare e distruggere a Suo piacimento, come aveva dimostrato mandando sul mondo le acque del diluvio universale, e poi ricreando la stirpe umana attraverso la progenie del patriarca Noè, o Utnapishtim come lo si chiamava nella terra degli Accadi. Tuttavia, re Bera aveva saputo sfruttare abilmente il superstizioso timore dei propri sudditi creduloni per dare fondamento al proprio potere assoluto di vita e di morte su tutti i Sodomiti, "copiando" la tecnica utilizzata dai Faraoni, i signori dell'Egitto, per sottomettere tutti gli abitanti della Terra di Kem, dal delta del Nilo fino alla quarta cateratta. Cosa di meglio che essere creduto uno degli invincibili e pressoché onnipotenti Anunnaki, abitatori del cielo ed in grado di sopravvivere persino sul fondo del mare, affinché tutti obbedissero ciecamente alle sue parole?

Eppure, mentre Abramo e il suo piccolo drappello di seguaci varcavano la porta occidentale della grande città di Sodoma, diretti verso Hebron dove il Padre di tutti i Monoteisti aveva installato il suo quartier generale, al sicuro fra le montagne di Canaan, il patriarca si rese conto che Bera in realtà era il più infelice di tutti gli uomini. Infatti, anche se era ricco d'oro quanto nessun altro sulla Terra, e poteva ottenere tutto ciò che voleva semplicemente chiedendolo, egli viveva dentro una bugia, una finzione che lo intrappolava come una gabbia dalle sbarre fatte di argento e di pietre preziose: che avrebbe fatto, se uno dei suoi sudditi gli avesse domandato di utilizzare le proprie prerogative divine, ad esempio per riportare in vita un suo amico defunto? O se re Hammurabi di Babilonia, insieme ai re di Larsa, di Elam e degli altri paesi d'oriente, fosse tornato per riprendersi con gli interessi ciò che gli era stato negato dieci anni prima, e i cinque re non avessero più avuto dalla loro parte le popolazioni di Canaan per opporsi a lui efficacemente? Dove avrebbe trovato i Vimana per bombardare di fuoco e di mercurio bollente i nemici mesopotamici, rivelandosi così quello che era, cioè un bugiardo e un falso idolo?

Ma non era solo questo, che inquietava Abramo in quel momento. Sotto l'effetto della rabbia, che è in grado di ubriacare un uomo più di ogni bevanda alcolica, fino al punto di fargli perdere la ragione, egli aveva maledetto re Bera e la sua coalizione di ricche cittàstato della pianura, augurandogli ogni male per aver maltrattato Lot e i suoi famigliari, che tuttora si trovavano sotto choc, al punto che uomini duri e disposti ad ogni violenza in guerra come i suoi tre amici Amorrei, si trovavano a doverli confortare come fa una madre con il suo bambino che è stato appena circonciso senza troppi complimenti. Mentre la sua carovana superava i confini del Regno di Sodoma e imboccava l'antico sentiero che conduceva verso la regione montagnosa di quella che un giorno ancora lontano sarebbe stata chiamata la Giudea, Abramo si rese conto che non tutti i cittadini della Pentapoli erano colpevoli delle nequizie perpetrate dal loro sovrano; anzi, in ben pochi probabilmente approvavano la sua condotta riprovevole, tacendo solo per paura di finire essi stessi sul rogo. E così, il patriarca nato ad Ur dei Caldei si pentì di aver invocato indiscriminatamente su tutti i Sodomiti il castigo divino; né del resto poteva avvenire altrimenti, perché egli era stato scelto dall'Altissimo per essere il capostipite di tutti i Credenti del mondo e di ogni epoca, e nessun vero credente può amare Dio se non ama prima di tutto i propri simili. Come se non bastasse, qualcosa dentro il suo animo gli diceva di allontanarsi in fretta dalla Pentapoli della Valle di Siddim, ancora più in fretta di quando aveva accolto l'invito divino di lasciare la sicura Carran nel nord della Mesopotamia per intraprendere il lungo pellegrinaggio verso la terra che era stata promessa in eredità ai suoi eredi: era come se qualcosa lo angustiasse nei più profondi recessi del suo animo, forse l'inquietante certezza che le maledizioni non cadono mai al suolo, ma perseguitano senza requie coloro cui sono destinate come la paura della morte perseguitava il mitologico Gilgamesh dopo la fine del suo amico Enkidu. E fu così che egli perse il contatto con il mondo che lo circondava, con il ripido sentiero che saliva sui fianchi nodosi delle montagne, con i gemiti e i pianti dei suoi parenti così duramente maltrattati, ed iniziò il suo silenzioso dialogo interiore con il proprio Dio, che sempre ascoltava le sue parole fin da quando in gioventù lo aveva salvato dalle fiamme in cui i suoi compatrioti lo avevano gettato:

"Davvero sterminerai il giusto con l'empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città di Sodoma: veramente Tu li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da Te il far morire il giusto con l'empio, così che il primo sia trattato come il secondo, lontano da Te! Forse il Giudice di tutta la Terra non praticherà la Giustizia?..."

* * *

Il Capitano Metztlitlacatl osservava nel grande schermo a cristalli gassosi la turgida sfera del pianeta azzurro che si stendeva sotto di lui in tutta la sua magnificenza, disegnata di nubi, di oceani, di deserti, di foreste e di ghiacciai. Era uno spettacolo da togliere il fiato a chicchessia: i grandi fiumi, lunghi migliaia di chilometri e in grado di trasportare milioni di metri cubi d'acqua dolce al secondo, rigavano le superfici foderate d'erbe e di foreste delle immense pianure estese dall'equatore fino alle regioni temperate; vastissimi ghiacciai protendevano i loro tentacoli dai pinnacoli aguzzi delle più alte montagne fino agli altipiani circostanti, alimentando laghi e bacini d'acqua dolce le cui coste erano screziate di vegetazione; le calotte polari ostruivano i mari artici riflettendo nello spazio la luce del sole come la facciata di un immane palazzo di cristallo; e gli uragani e le tempeste tropicali squassavano le aree monsoniche, turbinando intorno al proprio occhio come l'acqua di un lavabo viene risucchiata vorticando intorno al foro di scarico appena il tappo viene rimosso. Quante volte il Capitano aveva assistito ad un panorama del genere? Oramai ne aveva perduto il conto, considerando la lunga fetta della propria vita che aveva trascorso nella Flotta Spaziale Mayana. E di pianeti ne aveva veduti letteralmente di tutti i colori. Alcuni erano rossi per via degli ossidi di ferro che ricoprivano le loro superfici riarse e scarnificate dai venti così impetuosi da far rotolare persino i sassi; altri erano color verde smeraldo perché ricoperti da un unico, sterminato oceano la cui superficie pullulava di alghe monocellulari; altri ancora erano piccoli e neri, giacché ruotavano intorno a fioche nane rosse, così fievoli che avrebbero potuto ardere senza alcuna fluttuazione di luminosità per mille miliardi di anni, e le loro superfici erano aggrovigliate da una fittissima vegetazione con foglie pressoché nere, onde catturare ogni minimo raggio della flebile luce del loro astro. E c'erano persino mondi così vicini al proprio sole che il loro anno durava una sola settimana, e le cui superfici erano rese incandescenti dal fulgore dell'astro, al punto da essere ricoperti da autentici oceani di lava fusa, dai quali emergevano rare isole di rocce roventi. C'erano pianeti che pullulavano di vita, ed altri che sarebbero apparsi inospitali persino per dei batteri estremofili. Pianeti interamente strangolati dai ghiacci di una glaciazione millenaria, al punto da somigliare a grandi palle di neve, ed altri le cui superfici erano butterate di geyser da cui zampillavano spettacolari fontane di metano liquido. Mondi avvolti da una perenne cappa di nubi, sotto le quali la notte è eterna, ed altri la cui crosta è in perenne e instancabile trasformazione per colpa di una costante pioggia di meteoriti che sciabolano nei loro cieli come fuochi artificiali per festeggiare la propria esistenza nell'universo. Pianeti che piroettano velocissimi come trottole attorno al loro asse, tanto che un giorno su di essi dura appena mezz'ora, nell'incessante rincorrersi di un brevissimo dì e di una altrettanto brevissima notte, e globi che riposano in eterno volgendo sempre la stessa faccia al loro Sole, sì che un emisfero è torrido e l'altro ghiacciato. E tutti questi corpi celesti egli li aveva visti con i propri occhi dalle iridi color magenta, poiché poter contemplare un intero mondo nella sua interezza è un privilegio delle civiltà avanzate come quella Mayana cui egli apparteneva.

Questo mondo, il terzo in ordine di distanza dal suo fioco sole, una stella gialla di piccole dimensioni senza alcuna compagna e relativamente povera di metalli, era però molto particolare e diverso da quasi tutti gli altri che aveva visitato, dietro mandato del Consiglio delle Scienze cui era deputata l'esplorazione della galassia. Infatti questo era il pianeta Terra, il Pianeta delle Leggende, periodicamente visitato da decine di migliaia di anni dalle navi iperspaziali partite dal Sistema della stella Maya, perché abitato da una popolazione simile in tutto ai Mayani, fuorché nella disposizione di alcuni organi interni e nel colore di iridi e capelli (nessun terrestre avrebbe mai potuto esibire una chioma dai riflessi azzurri come quella del Capitano). Metztlitlacatl aveva sentito parlare spesso di quel pianeta, come del resto la maggior parte della sua gente, per la fama sinistra che da sempre lo circondava, ma era la prima volta che ne contemplava la superficie con i propri occhi. Sembrava incredibile che un mondo così bello da vedersi fosse abitato da una popolazione tanto pericolosa, eppure non si trattava di una leggenda, a dispetto del nomignolo affibbiato ad esso dai primi visitatori Mayani capitati lì ventimila anni prima, quando esso era ancora immerso nella buia notte della preistoria. Centinaia di esploratori del cosmo, di esperti di etnologia aliena, di semplici capitani di navi cargo con le stive zeppe di minerali utili per l'industria avevano ripetuto tutti gli stessi racconti, e cioè che le popolazioni incredibilmente primitive del Pianeta delle Favole, anziché nelle sicure verità della scienza, credevano nell'esistenza di spiriti e spiritelli ancor più sanguinari degli uomini mortali che se li erano immaginati, e che pretendevano feroci sacrifici umani quale tangente da pagare per assicurare la sopravvivenza alla specie umana. Davvero incredibile a credersi, eppure era proprio così, come testimoniava un re del popolo terrestre dei Sumeri, che era stato sepolto insieme alla giovane sposa e addirittura a cinquantaquattro suoi dignitari, uccisi per accompagnarlo nel pericoloso viaggio attraverso l'Oltretomba. Il Capitano Metztlitlacatl lo sapeva perché suo bisnonno travestito da terrestre aveva assistito all'uccisione dei cortigiani e alla sepoltura del re, durante un precedente viaggio sulla Terra per scopi puramente scientifici. Quale barbarie! Quanta ignoranza! Invece un suo insegnante all'Accademia, dalla mente ben più aperta di quella del più intelligente e geniale dei terrestri, gli aveva insegnato fin da quando era solo un cadetto che nell'universo non c'è nulla da temere, c'è solo da capire. Appena la scienza interviene a svelare i misteri del cosmo, la paura si dissolve, si scopre che non c'è più spazio per tremare di fronte a déi assetati di sangue o a fantasmi tornati dalla tomba per perseguitare i vivi. Com'è che gli raccontava sua madre, quando era bambino? « La paura bussò alla porta; la scienza andò ad aprire; ecco, non c'era nessuno ». Se solo i terrestri avessero compreso questo, allora...

"A cosa pensa così assorto, Capitano Metztlitlacatl? Se non la conoscessi così bene da tanto tempo, penserei che in lei la superstizione sta avendo la meglio sulla ragione, e che ha qualche remora a restare troppo a lungo in orbita attorno al Pianeta delle Antiche Leggende, come fanno i capitani di astronavi merci che passano di qui e fuggono a gambe levate, asserendo di aver udito attraverso lo scafo le maledizioni dei terrestri arrivare fino a loro!"

Il Capitano si voltò di scatto, perché l'interruzione del flusso dei suoi pensieri aveva avuto su di lui l'effetto di un cazzotto sferratogli a tradimento. Per fortuna non era comparso alcuno spettro terrestre a sferrargli un uppercut per cacciarlo via dal suo mondo: in piedi alla sua destra c'era Coyolxauhqui, il suo Primo Ufficiale Scientifico, una affascinante Mayana alta, snella, dai lunghi capelli verdi e dai grandi occhi arancioni, la cui tuta argentata con le mostrine della Flotta Spaziale Mayana la avvolgeva mettendo in bella mostra tutte le notevoli curve del suo corpo da indossatrice di moda. Ella non aveva certo bisogno di gioielli per esaltare il proprio fascino naturale, tuttavia indossava sulla fronte un elegante diadema di oro bianco, secondo i dettami dell'ultima moda Mayana, diadema impreziosito da una decorazione a forma di falce di luna, che la faceva assomigliare ad Eärendil, il personaggio della mitologia di Tolkien che solcava i cieli con la sua nave tenendo sulla fronte la stella del mattino.

Preso alla sprovvista, per un istante il comandante di quella nave rischiò di annegare nel fiume di feromoni che aveva investito il suo mesencefalo: ben pochi tra i membri del suo equipaggio avrebbero potuto giurare sulla propria testa di non essersi invaghiti della splendida Coyolxauhqui, che già nel nome – in lingua Mayana equivaleva ad « ornata con campanelli dorati » – portava iscritte la propria bellezza e la propria eleganza, e Metztlitlacatl non faceva certo eccezione. Ben presto però il suo autocontrollo tipicamente Mayano riprese il sopravvento, nella sua mente di scienziato abituato ad esplorare gli angoli più bizzarri della galassia la « vamp che aveva fatto perdere la testa a tutto l'equipaggio » fu sostituita dalla sua « abile e capace Seconda in Comando », e con lo stesso tono di voce con cui avrebbe chiesto al suo attendente personale di spazzolargli la sua alta uniforme, si rivolse a lei senza dimostrare alcuna traccia né di avversione né di simpatia:

"Non c'è pericolo che mi capiti una disgrazia del genere, Numero Uno: so benissimo che è più probabile che io muoia all'istante perché una fluttuazione quantistica sta per innescare un nuovo Big Bang nell'esatto punto in cui ora mi trovo, piuttosto che i fantasmi evocati dalla fantasia – e soprattutto dalla paura e dall'idiozia – dei terrestri mi raggiungano per ghermirmi e trascinarmi con sé nel loro inferno di fiamme. Come diceva sempre il Capitano sotto il quale ho servito come un giovane guardiamarina, nulla nel cosmo è più pericoloso di un'ignoranza sincera e di una stupidità coscienziosa. E la mia esperienza di Ufficiale, abituato ad avere a che fare con decine di specie senzienti, mi dice che ben poche razze della nostra galassia sono sinceramente più ignoranti e coscienziosamente più stupide di quella terrestre."

Dopo una breve pausa, atteggiò il viso a uno sberleffo sarcastico e precisò:

"Basti dire che quegli ingenui sono convinti che i nostri antenati, atterrati sulla Terra con le loro astronavi molti millenni orsono, fossero divinità dotate di poteri magici incomparabili, scese dalle loro dimore immortali tra le stelle per insegnare loro tutte le arti e le scienze, e li chiamano gli Anunnaki. Persino un bambino Mayano si burlerebbe di una simile superstizione!"

Coyolxauhqui sorrise a sua volta, di un sorriso che sarebbe apparso più abbagliante dell'esplosione di una supernova, ma fu con voce assai meno sarcastica di quella del suo superiore che replicò con una voce argentina che ricordava lo squillo dei campanelli dorati nascosti nel suo nome: "Beh, dopotutto in parte hanno ragione loro, Capitano. Come diceva il mio professore di astrofisica all'Accademia della Flotta Spaziale, per le menti più semplici ogni tecnologia particolarmente avanzata è in effetti indistinguibile dalla magia. Non c'è dunque da stupirsi se per le loro menti arretrate i nostri esploratori apparivano alla stregua di angeli del cielo, e i nostri veicoli come carri fatati in grado di vincere la forza di gravità per effetto di qualche sortilegio!"

"Lei ha sempre la risposta pronta per ogni domanda", cantilenò il Capitano, con la voce fin qui perfettamente compassata che si incrinava un poco, lasciando trasparire una vena di simpatia nei confronti della propria Numero Uno. E l'ufficiale Mayana con il diadema lunare in fronte sapeva benissimo che, nei momenti in cui il suo diretto superiore fingeva di fare il burbero senza riuscirci, in realtà erano quelli in cui maggiormente estrinsecava la propria predilezione per qualche suo uomo in generale, e per lei in particolare. Rimase perciò a godersi in silenzio quel momento, mentre Metztlitlacatl aggiungeva:

"In ogni caso, non vedo l'ora di alzare i tacchi e di riprendere la via di casa, non appena avrò portato a termine la missione che il Senato mi ha affidato. Nessuna malattia infatti è più contagiosa dell'imbecillità, e non mi sentirò tranquillo finché non ci saranno almeno mille parsec tra noi e quegli imbecilli dei terrestri!"

"Non condivido la sua fobia per gli abitanti della Terra", si azzardò a ribattere la bellissima Mayana, forte del proprio fascino che sarebbe bastato per tenere a bada anche il più sadico e crudele dei Capitani. "Contempli il panorama che si stende sotto di noi: è impossibile che gli abitanti di un mondo così meraviglioso a guardarsi, tale da stregare persino un navigato lupo di spazio qual è lei, risultino così pericolosi per un popolo dalla tecnologia avanzata quanto la nostra, capace persino di trapiantare parti del cervello da un individuo all'altro!" Subito dopo però, volendo evitare di avviare una diatriba filosofica con il proprio severo superiore, glissò abilmente con quella sua voce che sarebbe bastata per convincere a parole una mina antiuomo a non esploderle tra i piedi:

"Ma mi dica, Signore: in cosa consiste esattamente, la nostra missione? Finora su questo punto lei è rimasto particolarmente abbottonato..."

"L'ho fatto perché si tratta di una faccenda particolarmente delicata, che è meglio mantenere riservata per evitare inutili allarmismi tra il nostro equipaggio", replicò Metztlitlacatl, cadendo nella trappola tesa dal suo Ufficiale Scientifico, e dimenticando ogni disputa circa l'inferiorità e la pericolosità dei terrestri. "Tutto è partito dal rapporto del personale di bordo di una nave cargo, trovatasi a passare di qui dopo aver estratto praseodimio e disprosio da alcuni asteroidi di questo Sistema Solare. Al ritorno alla base, il Capitano del cargo ha asserito di aver osservato strani fenomeni sulla superficie di questo mondo, i quali potrebbero essere compatibili con un notevole avanzamento tecnologico dei Terrestri. Ecco perché hanno aggiunto questa tappa al nostro itinerario scientifico: i Senatori vogliono sapere da noi se tale progresso scientifico è realtà oppure no."

"Che cooosa?" esclamò Coyolxauhqui, improvvisamente presa dal panico come se avesse visto davvero dei fantasmi terrestri dirigersi verso la loro astronave per trascinarla con loro fino all'inferno e oltre. "Ma non è possibile. Tutti i rapporti dieci anni fa assicuravano che i terrestri sono ancora fermi all'Età del Bronzo Medio! Come possono aver messo a punto dei computer e delle astronavi in un così breve lasso di tempo? Forse hanno ricevuto aiuti tecnologici da un'altra civiltà avanzata a noi sconosciuta, con la quale potrebbero allearsi contro di noi?"

Metztlitlacatl non si stupì di tanta apprensione da parte della propria splendida Numero Uno: che il disprezzato Homo terrestris potesse raggiungere lo stesso suo livello tecnologico era uno dei peggiori incubi che assillavano il cervello dell'Homo mayanus. Questi infatti vedeva nell'uomo della Terra il proprio aspetto peggiore, quello governato dagli istinti più bassi e bestiali, una specie di Mister Hyde contrapposto al Dottor Jekyll di Maya che aveva bandito guerre, dittature, ingiustizie sociali e tumulti di popolo per lasciarsi governare unicamente dalla ragione e dalla sete di conoscenza. Allo scienziato Mayano si contrapponeva perciò, secondo l'opinione popolare di quella razza antica e nobile, l'australopiteco Terrestre, noto per lasciarsi guidare unicamente dai propri bassi istinti, al punto da essere ribattezzato "Homo animal". E se un bruto troglodita è già pericoloso di per sé con una robusta clava in mano, figuriamoci cosa potrebbe combinare mettendolo al comando di un'astronave da battaglia così pesantemente armata da poter spazzare via un pianeta intero con un colpo solo! Per questo periodicamente gli esploratori Mayani tenevano discretamente d'occhio la razza umana, senza farsi accorgere da nessuno, e proprio gli avvistamenti da parte dei terrestri delle navette da sbarco di Maya avevano portato al sorgere delle leggende degli "scudi ardenti" e delle "travi infuocate" che periodicamente solcavano i cieli della Terra: in una parola, di quelli che noi chiamiamo UFO.

"Abbassi la voce, Numero Uno", la ammonì il suo Capitano, scrutandola con occhi torvi: "se lei, che è un ufficiale stimato e di grande esperienza, ha reagito così scompostamente appena le ho dato questa notizia, come pensa che reagirà il resto dell'equipaggio, se la voce dovesse spargersi con la rapidità della Nebbia Vivente del pianeta Rigel IV? Per questo motivo lo scopo della missione in corso è stato mantenuto altamente riservato. Inoltre, se le va di conoscere il mio parere personale, io credo che la civiltà di questi terragni, ancora più simili ai loro antenati scimmieschi che a noi, sia ancora allo stadio preetà del ferro che descrivevano i rapporti di un decennio fa. Al massimo alcuni popoli isolati avranno cominciato a scoprire le prime tecniche di siderurgia e sfrutteranno il nuovo metallo per ritagliarsi un piccolo impero giocando al gioco preferito dagli abitanti di questo pianeta, cioè alla guerra, ma niente più di questo."

La bella Coyolxauhqui parve tirare un sospiro di sollievo: "Sono lieto di sentirla parlare così, Signore. Ma allora, perché quella nave cargo dice di aver rilevato...?"

"Le spiegazioni possono essere infinite", cercò di rassicurarla Metztlitlacatl, scrutando l'emisfero terrestre avvolto nelle tenebre della notte proprio sotto lo scafo della sua nave. "Potrebbero aver intercettato onde radio che provenivano dalla superficie perché emesse dagli strumenti della loro stessa nave e riflesse verso l'altro dalla ionosfera della Terra. Oppure potrebbero aver scambiato fenomeni naturali come incendi o eruzioni vulcaniche per illuminazione artificiale di città, attribuendo ai terrestri la scoperta dell'elettricità. Oppure, come è accaduto a un mio collega in orbita intorno a Markab II..."

"Capitano Metztlitlacatl! Scusi se la interrompo, ma la sua presenza in plancia è ritenuta urgentemente necessaria!"

Sia il Comandante che il suo Numero Uno sobbalzarono come se l'astronave fosse stata appena centrata da un siluro quantico, ma ritrovarono rapidamente la loro lucidità, rendendosi conto che a parlare era stato Mextli, l'ufficiale addetto agli armamenti, un giovane al suo primo incarico in quel ruolo che però non era tipo da lasciarsi prendere dal panico al primo imprevisto. Se aveva fatto irruzione in quel modo nell'ufficio del Capitano, dunque, non lo aveva certo fatto a cuor leggero, solo perché aveva scambiato una cometa per un'astronave da guerra nemica. Per questo i due più alti ufficiali di quella spedizione si affrettarono a far ritorno in plancia, dove sul maxischermo era proiettato un particolare della superficie terrestre ingrandito dal telescopio di bordo. E ciò che Metztlitlacatl e Coyolxauhqui videro su quello schermo fece loro comprendere immediatamente perché il responsabile delle armi era venuto a chiamarli con tanta premura e preoccupazione.

In una regione punteggiata da minuscole luci notturne, che potevano rappresentare i bivacchi di carovane di mercanti nell'immensità del deserto, e da cinque lumi più grandi, i quali testimoniavano la presenza di focolari accesi in altrettante città dei terrestri, si era acceso improvvisamente ed inaspettatamente un forte bagliore tremolante, che aveva preso il posto di uno dei lumi della Pentapoli terrestre, e precisamente il lume più grande, come se l'intera città a capo delle cinque avesse preso fuoco: fiamme altissime e insaziabili si stavano innalzando fino al cielo, tingendo di un riverbero rosso tutta la regione boscosa circostante, e tutto ciò accadeva proprio mentre l'astronave Mayana era quasi allo zenit della conurbazione umana.

"Immenso spazio!" sbottò l'ufficiale addetto al timone della nave, incapace a credere in ciò che vedeva davanti a sé. "E quello che cos'è?"

"Glielo dico io, che cos'è", ribatté pronta Coyolxauhqui, che non riusciva a staccare gli occhi dalla vampata così intensa da illuminare tutta l'area per un raggio di molte miglia. "È il lancio di un missile balistico montato sulla sua rampa di lancio, e diretto verso di noi!"

"Ma non è possibile", esclamò sconcertata un'altra ufficiale di Maya dalla pelle scura e dai corti capelli viola, che si torceva le mani come se già sentisse la propria astronave saltare per aria insieme a tutti loro. "I terrestri non sono neppure capaci di far volare un fuoco artificiale a base di polvere pirica, e non potrebbero mai lanciare un razzo verso lo spazio, dal momento che per loro lo spazio non esiste, e il cielo è una volta solida che sovrasta il loro mondo, creduto piatto e poggiante sul regno dei morti!"

"Questo è quello che tutti noi abbiamo creduto fino ad ora", muggì il capitano Metztlitlacatl, osservando con occhi grifagni quella specie di vulcano comparso dal nulla nell'emisfero terrestre immerso nella quiete della notte. "Evidentemente avevano ragione coloro che sospettavano un notevole avanzamento tecnologico dei Terrestri, e che ci hanno mandati qui a controllare e, se necessario, a prendere le dovute contromisure! E dire che pochi all'interno del Senato gli avevano dato credito, e il Ministero delle Scienze ci ha inviati qui solo per mero scrupolo!"

"Temo proprio che lei abbia ragione, Capitano", gli tenne dietro la bella Coyolxauhqui, che aveva raggiunto la propria postazione scientifica e stava studiando l'incredibile fenomeno con i propri sensibilissimi sensori. "Le coordinate di quella vampata di luce corrispondono a quelle di Sodoma, un antichissimo insediamento terrestre posto molto al di sotto del livello del mare, fondato più di ventimila anni fa da una spedizione scientifica organizzata dai nostri antenati, che compirono un esperimento cercando di civilizzare i Terrestri, allora ancora fermi all'Età della Pietra. Probabilmente quello è stato il primo insediamento urbano dell'intero pianeta Terra, e diede inizio alla cosiddetta Cultura Natufiana. Gli abitanti di quella città e tutte le culture circostanti conservano tuttora il ricordo degli antichi Mayani scesi tra di loro per dare loro una nuova organizzazione sociale e intellettuale, li chiamano Anunnaki e li venerano credendoli degli esseri soprannaturali, come lei mi ha ricordato poco fa!"

"Evidentemente quei Terrestri hanno appreso troppo bene la lezione", prese a quel punto la parola il Tenente Mextli, terrorizzato all'idea di stare per essere abbattuto da coloro che riteneva poco più che dei cavernicoli, incapaci di costruire nulla di più elaborato di un dolmen. "Devono aver riscoperto in qualche sotterraneo delle conoscenze depositate laggiù dai nostri antichi esploratori, utilizzandoli per costruire un radar in grado di rilevare il nostro arrivo e un missile con testata nucleare per colpirci!"

"Se è così, Tenente, sa cosa deve fare", gli rispose il Capitano, con gli occhi di ghiaccio di un giudice spietato che infligge la condanna a morte a un'intera banda di criminali. Coyolxauhqui ed altri ufficiali di plancia sentirono immediatamente il sangue che abbandonava loro i piedi, perché sapevano benissimo a cosa Metztlitlacatl si stava riferendo, e quali conseguenze avrebbe avuto quell'ordine terribile.

Non tutti però restarono con le mani in mano di fronte a una prospettiva così terribile. "Un momento, Capitano", obiettò infatti a quel punto il Consigliere Strategico della spedizione, un anziano Mayano con i capelli candidi che portava le cicatrici di molte battaglie, e che era considerato il più saggio dell'intero equipaggio. "I miei sensori rivelano in quell'emissione luminosa le righe spettrali tipiche dello zolfo; e non ho mai visto razzi vettori alimentati con questo elemento. Prima di prendere una decisione drastica come la sua, secondo me bisognerebbe investigare meglio spedendo una navetta sulla superficie, e controllare se non si tratta piuttosto del fuoco di un grande braciere, acceso forse per scopi rituali che a noi sfuggono completamente."

"Un braciere così grande, da superare in bagliore tutte le luci della città nella quale è stato costruito?" domandò sorpreso Metztlitlacatl, inarcando le folte sopracciglia azzurrognole. "Trovo davvero difficile credere alla tua ipotesi, Yacatecuhtli. Inoltre, non abbiamo il tempo di inviare laggiù una navetta per saperne di più: se davvero il bagliore cui stiamo assistendo è quello di un missile terraaria puntato contro di noi, esso ci raggiungerebbe e danneggerebbe gravemente la nostra nave prima ancora che noi riuscissimo ad approntare e a sganciare lo shuttle. Mi dispiace, Yacatecuhtli, ma non posso rischiare. La Flotta Spaziale mi ha conferito il diritto di rappresaglia contro ogni eventuale minaccia aliena, e questo è il momento di farne uso."

"So quali sono i tuoi ordini in casi come questo, ma prima devi essere certo che gli alieni siano effettivamente minacciosi, e non stiano semplicemente celebrando una qualche loro ricorrenza religiosa", insistette il Consigliere, tentando disperatamente di salvare la città terrestre che gli stessi Mayani avevano fondato nella notte dei tempi. "Se davvero quella gente ci sta scagliando addosso un'arma da noi stessa dimenticata laggiù duecento secoli fa, per il nostro pilota sarebbe facile evitarla, così come per il Tenente Mextli sarebbe un gioco abbatterla con i cannoni di bordo, ammesso che essa abbia un sistema di guida automatica programmata per cercarci e per colpirci. Se invece si tratta solo di un immenso falò acceso dagli abitanti di Sodoma per celebrare qualche oscuro sacrificio la cui natura ci sfugge completamente, tu avrai sulla coscienza un gran numero di vittime innocenti, oltre al fatto che al ritorno alla base potresti essere incriminato per eccesso di legittima difesa!"

"Credo che tu non abbia afferrato la vera ragione della mia condotta", gli spiegò a quel punto il Capitano, che sembrava sul punto di perdere la pazienza, nonostante il suo Consigliere fosse più anziano e più esperto di lui. "Noi uomini di Maya non possiamo assolutamente permettere che gli uomini della Terra raggiungano un livello tecnologico paragonabile al nostro, perché altrimenti con la loro innata aggressività metterebbero seriamente a rischio la sopravvivenza stessa della nostra specie. Appena mi ha sfiorato la mente il sospetto che quella razza di allocchi brutali ed aggressivi possieda razzi vettori ed armi ad energia nucleare, io mi sono reso conto di non poter permettere loro di possedere uno strumento di devastazione così pericoloso per noi. Se poi tutta la Terra è ancora immersa nell'Età del Bronzo e solo i Sodomiti sono venuti in possesso di ordigni potentissimi dimenticati nei loro sotterranei dai nostri incauti scienziati, mi basterà eliminare Sodoma, e il pericolo avrà cessato di esistere, perché il resto dell'umanità impiegherà ancora molti millenni per riuscire ad inventare anche solo un missile in grado di mettere in orbita un satellite artificiale, per non parlare di quanti ce ne vorranno affinché scoprano il volo iperspaziale con le loro limitate intelligenze scimmiesche."

Ciò detto, prima che il saggio Yacatecuhtli potesse aggiungere alcunché d'altro a difesa degli abitanti di Sodoma, il Capitano che evidentemente per i Terrestri non provava alcuna simpatia, pur essendo affascinato dalla bellezza del loro pianeta, ordinò:

"Tenente Mextli, sganci immediatamente sull'obiettivo un ordigno al plutonio da 50 megatoni. Miri esattamente al falò che potrebbe rappresentare il poligono spaziale sodomita."

"50 megatoni?" osò obiettare l'ufficiale addetto alle armi, esitando a premere i comandi necessari ad eseguire l'ordine sul suo touchscreen. "Non è una potenza eccessiva, per una città costruita con case di paglia e fango, e con mura edificate con pietre a secco?"

"Non possiamo rischiare", troncò ogni discussione Metztlitlacatl, con voce così tagliente che sarebbe bastata per abbattere da sola le mura di Sodoma. "Quella città probabilmente ha creato un suo piccolo impero, come dimostrano le altre luci che circondano quella principale nell'immagine restituitaci dal telescopio di bordo, che rappresentano certamente altre città satelliti fondate dai Sodomiti per controllare meglio la strategica regione in cui essi abitano; e in tutto questo impero potrebbero esserci tracce di civiltà Mayana che vanno cancellate dalla faccia di questo mondo, se non vogliamo che presto i Terrestri arrivino a bombardare il nostro stesso pianeta natale. Sganci la bomba, Tenente: di quella pericolosa civilizzazione non deve sopravvivere pietra su pietra che non sia contaminata dalle radiazioni. In tal modo, chi disseppellirà le rovine delle cinque città sarà costretto a riseppellirle di nuovo, e Sodoma non sopravvivrà in altro modo se non nelle leggende."

Mextli esitava ancora, sentendosi addosso gli occhi ammonitori del Consigliere Yacatecuhtli e persino del Comandante Coyolxauhqui che lo sconsigliavano dall'eseguire un ordine tanto spietato, ma alzando lo sguardo incrociò quello del Capitano, ed era tanto furente da fargli pensare di avere puntato contro un disintegratore. Fu così che il giovane ufficiale Mayano premette il pulsante fatale, e un missile armato con una testata al plutonio fu scagliato dalle batterie dell'astronave in direzione della Valle di Siddim, dove Re Bera, i suoi cortigiani, i Re suoi alleati e i suoi sudditi stavano festeggiando l'assunzione del borioso sovrano fra gli dèi con il grande rogo di prigionieri al quale Lot e la sua famiglia erano scampati solo grazie al riscatto pagato a Bera da suo zio Abramo: un grande sacrificio umano a base di fuoco e zolfo che sarebbe costato caro a tutti i Sodomiti.

"Che il Dio dei Terrestri ci perdoni questo vero e proprio genocidio", mormorò cupa la giovane Coyolxauhqui, vedendo accendersi sullo schermo una spettrale luce rossa che rappresentava l'esplosione dell'ordigno nucleare a 500 metri dal suolo e l'istantaneo incenerimento dell'intera Valle di Siddim, fino ad allora lussureggiante come il Paradiso Terrestre, e da quel momento in poi inabitabile come il più arido e disseccato dei deserti radioattivi.

* * *

Dall'alto di una delle montagne che circondavano quella che fino ad allora era stara la Valle di Siddim, una delle oasi più floride e ricche d'acqua dell'intera Mezzaluna Fertile, il patriarca Abramo, l'« Amico di Dio » come lo avrebbero definito gli Arabi da lui discesi, contemplava in quell'alba maledetta il terrificante panorama che si stendeva davanti a lui. Non un albero, non un rigagnolo d'acqua, non una palma da datteri, non una costruzione umana sopravviveva nell'intera fossa tettonica occupata dalla valle, e della superba città di re Bera, che si vantava di essere la più antica della Terra, non rimaneva più nulla, come se fosse stata niente più di un castello di sabbia realizzato da un bambino sulla spiaggia del mare, e totalmente cancellato in un amen da un'onda più rabbiosa delle altre. Là dove gli abitanti di Sodoma, Gomorra, Adma, Seboìm e Zoar coltivavano i campi e mietevano le bionde messi di grano e d'orzo, ora infuriava un famelico incendio, che sviluppava un fumo color ocra dall'odore pestilenziale e dai sinistri riflessi bluastri. Poi, come se un'idrovora risucchiasse quel fumo terribile verso il firmamento, dalla valle si sollevava una colonna di tenebre più alta della più alta delle montagne, che si arrampicava attraverso il cielo irto di nuvole nerastre, e quindi si apriva verso l'alto come il cappello di un fungo inclinato verso sud, ribollendo tra vampate di fuoco: il patriarca ebbe l'impressione che da quelle dense tenebre si sprigionasse un'energia mai vista sulla Terra degli uomini, che contribuiva ad ultimare la distruzione provocata dall'incendio, sopprimendo gli ultimi superstiti senza pietà. Persino le acque del Mare d'Asfalto, lontano verso nord, parevano ribollire per colpa di quell'energia sconosciuta, che irradiava misteriosamente da quella che era stata la Valle dei Boschi e sembrava voler contaminare tutta la Terra di Canaan come una pioggia avvelenata che isterilisce ed appesta il suolo già rigoglioso. Un sole livido e insanguinato tentava faticosamente di inerpicarsi su per il cielo attraverso quella grata di nuvole sinistre, e lo sforzo era tanto e tale che il suo disco glorioso appariva solo come un ovale deformato dal terribile colore di sangue in putrefazione, tanto da far pensare al Padre dei Monoteisti che persino il suo invitto fulgore, aduso a squarciare le tenebre e i demoni della notte, dovesse soccombere di fronte alla spaventevole nube a forma di fungo che si inalberava troneggiando e cantando un inno di trionfo sopra tutte le montagne e sopra tutte le altre nuvole del cielo!

"Quanto è possente il braccio di Dio, allorché decide di abbattersi sulla ridicola superbia umana con tutta la sua veemenza sempiterna!" esclamò ad alta voce il capotribù degli Habiru venuti da di là dell'Eufrate, mentre le lacrime sgorgate dai suoi occhi che avevano osato guardare in faccia la Presenza del Signore piovevano fino alla polvere del suolo. Egli infatti non riusciva a darsi pace per non essere riuscito ad evitare che la collera del suo Signore si abbattesse come un vento gagliardo di tempesta sopra gli scandalosi peccati del re di Sodoma e del suo popolo con lui connivente, dopo che egli stesso aveva maledetto la Pentapoli di Siddim, invocando su di essa il castigo di Colui che Tutto Può. Se ne era reso conto quella notte stessa: aveva deciso di vegliare e pregare Iddio di cancellare gli effetti di quell'affrettata maledizione, ma si era addormentato ed era stato assalito da un incubo. Un incubo nel quale due angeli di El Elyon facevano precipitare una pioggia di zolfo incandescente su Sodoma e sulle quattro città sue alleate, mandando in perdizione ogni loro abitante, uomo o donna, vecchio o bambino che fosse. Proprio mentre si disperava per la sorte della Valle di Siddim, il padre Abramo era stato svegliato di soprassalto da un boato, al quale era seguito un vento torrido e mordace, che aveva preso a soffiare ululando contro le tende del suo accampamento presso Hebron, squassandole al punto da far saltare i robusti pioli con cui esse erano assicurate al terreno. Mentre tutti i suoi pastori e cammellieri correvano a trattenere le coperture delle tende affinché non volassero via come fuscelli e a mettere in salvo gli animali dei recinti, egli era rimasto nel suo giaciglio, abbracciato all'amatissima moglie Sara che piangeva di terrore, e con l'anima spaccata in due dalla disperazione, essendosi reso conto che quell'improvviso schianto, simile a quello che si sarebbe udito se la volta cristallina del cielo si fosse abbattuta sulla groppa della terra, rappresentava proprio la realizzazione del suo incubo, anche se non attraverso una pioggia di fuoco dalle nuvole, o un fulmine devastante scagliato direttamente dal trono dell'Altissimo che è sulle acque sopra i cieli, bensì in una maniera che né lui né alcun altro abitante del mondo erano ancora in grado di comprendere e di esprimere a parole.

Mentre il patriarca contemplava dall'alto dei gioghi montani di Canaan la devastazione che re Bera aveva attirato su di sé con la propria condotta scellerata, nonostante gli ammonimenti del capo degli Habiru, nello stesso istante una nave stellare Mayana usciva dall'orbita sincrona con il pianeta Terra, e si preparava a compiere il salto iperspaziale attraverso le sette dimensioni arrotolate dello spaziotempoenergia per fare finalmente rientro, dopo tanto peregrinare, nel sistema solare della stella Maya. A bordo di essa, stavolta non più davanti a un maxischermo a cristalli gassosi ma davanti ad un grande oblò di più di due metri di diametro, il Capitano di quella nave stava contemplando la concava schiena del pianeta Terra che diventava ogni secondo più piccola davanti ai suoi occhi, ed egli esibiva un sorriso soddisfatto, a dispetto della terrificante strage che sapeva di aver provocato sganciando su Sodoma e Gomorra quell'ordigno ad alto potenziale. Accanto a lui c'era ancora Coyolxauhqui, che con il suo diadema lunare sul capo osservava a sua volta le meraviglie naturali del pianeta natale dei Terrestri, con le lunghe mani intrecciate dietro la schiena, ma nessun sorriso sulle sue labbra, nemmeno di circostanza, dal che si capiva che ella non si sentiva affatto la coscienza a posto, nonostante tutte le ragioni addotte dal suo Capitano per giustificare il bombardamento nucleare di una popolazione inerme che tutt'al più poteva rispondere con lance e frecce. Ed infatti, mentre ormai la Terra si era fatta così lontana da non poter distinguere i particolari sulla sua superficie, ella osò obiettare al suo diretto superiore:

"È sicuro, Capitano, di aver preso la decisione giusta, cancellando nel giro di pochi secondi un'intera civiltà solo perché sospettavamo che avesse raggiunto un livello tecnologico che non potevamo lasciarle possedere?"

"Non importa se ho preso la decisione giusta, ma solo se ho preso la decisione più conveniente per noi Mayani", replicò cinicamente il Comandante della nave, senza però inalberarsi perché un suo ordine era stato messo in discussione. "E credo proprio di aver agito in questo senso; mi aspetto perciò che l'Ammiraglio approvi l'iniziativa che ho preso. Tanto, sono sicuro che sul pianeta Terra tutti crederanno che la coventrizzazione della valle di Sodoma sia dovuta all'ira di qualche dio bilioso, che forse – che so? – disapprovava la condotta sessuale di quelle genti, oppure che voleva impedire loro di diventare troppo potente riutilizzando antica tecnologia Mayana. Del resto, quest'ultima spiegazione è proprio quella che più si avvicina al vero."

"E bravo, Metztlitlacatl", non poté fare a meno di meditare dentro di sé il Primo Ufficiale Scientifico, scoccando al suo interlocutore una rovente occhiata di disapprovazione. "E così ti sei autopromosso, da Capitano a dio, senza neppure aspettare che a quel ruolo ti promuovessero i tuoi diretti superiori. Certo, un dio di ultima categoria, ma pur sempre un dio, capace di decidere della vita o della morte di decine di migliaia di persone." Tornando a guardare l'ormai lontana superficie terrestre, che appariva ai suoi occhi come una goccia d'acqua dispersa nell'universo infinito, osò anche tornare ad esprimersi ad alta voce:

"Eppure, Capitano, dal canto mio io sono certa che, a dispetto della sua realpolitik, in questo momento qualcuno, in piedi su una delle balze delle montagne che circondano la valle da noi devastata, sta piangendo sulla meschina sorte di quella città, e che si sta domandando se poteva realisticamente fare qualcosa per impedire la carneficina!"

"Bah! Lasciamo ai Terrestri le grane terrestri", alzò le spalle il Capitano, dimostrando tutta la sua indifferenza nei confronti del popolo che aveva bombardato, una indifferenza a suo modo molto peggiore del disprezzo o dell'odio. "Mi creda, ragazza mia: questi Terrestri credono in troppe divinità, per non pensare che il fungo atomico risultante dal nostro bombardamento sia l'esito di un bisticcio fra due di questi numi fin troppo antropomorfi. Anzi, sa che le dico? Dopotutto abbiamo fatto un favore a quelle menti primitive: convinte che i loro déi hanno inflitto a Sodoma una durissima punizione per chissà quale atroce peccato, per un bel po' righeranno diritto e si guarderanno bene dal commetterlo di nuovo, qualunque fosse la sua natura, giacché per quegli australopiteci persino mangiare senza essersi preventivamente lavati mani e piedi con le dovute ritualità è da considerarsi una trasgressione di qualche assurdo ma importantissimo decreto divino!"

Siccome proprio in quel momento la nave stellare stava passando a breve distanza dall'unico satellite naturale di quel mondo, il distruttore di Sodoma e Gomorra si sporse per scrutarla meglio e commentò, esibendo di nuovo uno sberleffo crudele come se ricavasse piacere dall'annientamento del popolo della Terra:

"Mi creda, Numero Uno: non c'è da stupirsi, se per i Terrestri la fine di Sodoma resterà nella memoria collettiva come la vendetta di un dio sanguinario contro una sua colpa vergognosa e inconfessabile. Pensi, quella razza inferiore è fatta di omuncoli tanto grulli e creduloni che, osservando le macchie del loro satellite che sembrano disegnare vagamente un volto, sarebbero persino disposti a credere che esista un uomo nella Luna, esiliato lassù lui pure per aver commesso qualcosa di sciocco per noi, ma di imperdonabile per loro!" E giù una risata che definire sadica sarebbe riduttivo.

L'ufficiale scientifico non sembrava condividere lo spirito di patata del suo capitano, restando ad osservarlo ridere scompostamente con lo sguardo imbronciato di una madre che vede suo figlio commettere una marachella e si prepara a tirargli le orecchie. Sfortunatamente i gradi le impedivano di fare la stessa cosa con lui, ma ella non poté fare a meno di meditare fra sé e sé, mentre il suo sguardo spaziava sul brullo Mare della Tranquillità:

"L'uomo della Luna che la ha appena fatto sganasciare forse esiste davvero, signore, dal momento che il suo nome Metztlitlacatl nella nostra lingua Mayana significa precisamente « Uomo della Luna »! Forse è lei che dovrebbe essere esiliato da solo in un'angusta stazione di ricerca scientifica su quel satellite nudo, roccioso e privo di vita, per essersi rallegrato di aver inferto una punizione a dei peccatori senza neppure averli mai veduti e senza avere idea di quale loro azione peccaminosa ha appena castigato!"

La bella Coyolxauhqui, la quale aveva dimostrato di essere assai saggia oltre che di aspetto piacente, ignorava di stare dolendosi della sorte di Sodoma nello stesso istante e allo stesso modo del patriarca Abramo, una delle maggiori figuri dell'intera storia dell'umanità; ma, del resto, ignorava anche che il suo nome sarebbe stato attribuito dal popolo terrestre degli Aztechi proprio alla dea della Luna. L'intercessione dell'uno e dell'altra nei confronti di coloro che avrebbero potuto evitare la fine dei Sodomiti era stata inutile, ma in fin dei conti il valore di un uomo dovrebbe sempre essere misurato in base a quanto generosamente dà, e non in base a quanto rapacemente riceve. E questo non potrebbe metterlo in dubbio neppure l'uomo della Luna...

FINE

William Riker

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Ecco cosa ha aggiunto Federico Sangalli dopo la lettura di questo racconto:

Nel frattempo, in un universo non molto lontano da lì...

[Sede del Senato Galattico, i Senatori sono in riunione e continuano a parlare e gridare animatamente]

Vice-Presidente del Senato Galattico Mas Amedda: Ordine, ordine, vi richiamo all'ordine!

[i Senatori abbassano i toni]

Cancelliere Supremo della Repubblica Galattica Finis Valorum: La Presidenza riconosce il diritto di parlare al Senatore del sovrano Sistema di Alderaan.

Senatore di Alderaan Bail Organa: Cancelliere Supremo, Delegati del Senato, una tragedia é avvenuta... una tragedia che é iniziata proprio qui, con l'autorizzazione concessa alle spedizioni del ministero della scienza mayano... e che ora ha trascinato un intero pianeta... sotto la violenza della forza militare mayana!

Senatore di Maya Luotthdoyd: É oltraggioso! Mi oppongo alle parole del Senatore!

Cancelliere Supremo Finis Valorum: La Presidenza non concede la parola al Senatore del Sistema di Maya per il momento.

Senatore di Alderaan Bail Organa: A sostegno delle nostre affermazioni, vi presento il Patriarca Abramo, recentemente diventato uno dei leader politici e religiosi più rispettati tra le popolazioni del Pianeta Terra, che parlerà a nome di tutte loro.

Patriarca Abramo: Onorevoli Rappresentanti dei Popoli Fratelli della Repubblica, discendenti, nella vostra diversità, della Misericordia Infinita dell'Onnipotente e abitanti delle sconfinate meraviglie del Creato, mi rivolgo a voi nelle più gravi circostanze. Il Pianeta Terra é stato bombardato dalle flotte spaziali del Sistema Mayano...

Senatore di Maya Luotthdoyd: Mi oppongo! Non c'è alcuna prova! É incredibile. Raccomandiamo che una commissione sia inviata sulla Terra per accertare la verità, è la procedura.

Senatore di Malastare Ainlee Teem: Il Congresso di Malastare concorda con l'Onorevole Delegato del Sistema di Maya. Una commissione deve essere nominata.

Cancelliere Supremo Finis Valorum: L'obiezione...

Vice-Presidente del Senato Galattico Mas Amedda: Mi scusi, Cancelliere.

[Amedda e il Cancelliere iniziano a parlare]

Senatore di Alderaan Bail Organa [sussurrando ad Abramo]: Ecco che entrano i burocrati, i veri padroni della Repubblica. E al soldo delle lobby scientifiche e degli armamenti mayane, aggiungerei. Qui é dove il potere del Cancelliere Valorum scompare.

Cancelliere Supremo Finis Valorum: L'obiezione é accolta. Rinvierete la vostra mozione per permettere a una commissione di analizzare la validità delle vostre accuse?

Patriarca Abramo: Io non rinvierò niente. Io sono venuto qui come rappresentante delle molte tribù del mio pianeta, alcune delle quali mie antiche nemiche ma di cui oggi sono ambasciatore senza distinzioni, per rispondere ora a questo attacco che in infamia e violenza supera tutti quelli a memoria d'Uomo, compresi quelli degli Assiri, degli Egizi e dei Babilonesi! Non ho accettato la missione affidatami dall'Onnipotente per guardare il mio popolo soffrire e morire davanti a un potere distruttivo, brutale e profanatore, i cui possessori cercano di gareggiare con gli stessi poteri divini - o forse dovrei dire diabolici - in quanto a forza di morte, mentre voi discutete questo abominio in una commissione. Se questo organo non é in grado di agire, suggerisco che sia necessaria una nuova guida. Io chiedo un voto di sfiducia contro il Cancelliere Valorum.

[Dopo un attimo di silenzio, esplode una cacofonica discussione con i Senatori che iniziano a discutere animatamente sulla possibilità di votare. Molti gridano:] "Votiamo! Nuova leadership! Votiamo!" [Il Cancelliere Valorum si accascia sul suo seggio, sconfitto.]

Vice-Presidente del Senato Galattico Mas Amedda: Ordine, ordine!!!

Senatore di Alderaan Bail Organa: Ora eleggeranno un nuovo Cancelliere, un Cancelliere giusto. Uno che non permetterà che la vostra tragedia continui...

Nota di Federico: Qualcuno dovrà presiedere i lavori del Senato Galattico prima che scoppi una guerra tra gli imperiali e i Mayani, quindi lo farò io. Il Maestro Yoda ha promesso che l'Ordine svolgerà i suoi doveri inviando dei mediatori e il Maestro Qui-Gon Jinn, appena arrivato sulla nave mayana a capo dell'ambasceria Jedi, pensa che i negoziati saranno brevi...

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E Tommaso Mazzoni annuncia:

Mi è piaciuto davvero tanto, William. Ora scusatemi, ma ho una flotta di Navi Stellari della Confederazione Imperiale da guidare all'intercettazione di una nave stellare Mayana; dobbiamo catturare il suo capitano e portarlo in giudizio per crimini contro le specie senzienti. Pace e Lunga Vita.

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Chi vuole, può scaricare una versione .pdf di questo racconto a questo indirizzo.

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Se volete far sapere all'autore cosa ne pensate, scrivetegli a questo indirizzo.


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