Menandro il Grande, re di Battriana e di Gandhara, riunì i domini, divisi, dei “greci d’oriente”, creando un vasto impero esteso dall’Oxus al delta dell’Indo.
Il suo regno lunghissimo verso la fine fu contraddistinto da una serie di rivolte e guerre civili, che spaccarono in pratica per sempre l’unità dei suoi domini. Ciò permise l’offensiva dei nemici di sempre, parti e sogdiani, cui si aggiunsero le invasioni di popoli nomadi che proprio in quel periodo stavano giungendo nell’area.
Ma se fosse riuscito, magari vivendo una decina di anni in più, ad assicurare un trono stabile al proprio figlio, che quando lui morì era un bambino?
.
Stratone I (120 ca. a.C. - 100 ca. a.C.)
Probabilmente Menandro, per imitare il re Asoka, aveva deciso di convertirsi, negli ultimi anni della sua vita, all’ideale pacifista della dottrina buddista. Tuttavia, a differenza del sovrano Maurya, questo atteggiamento fu interpretato come un segno di debolezza, anche alla luce della crescente insicurezza delle frontiere, dopo che Alessandria sull’Oxus era stata distrutta da una scorreria di una nuova stirpe di nomadi provenienti dalle steppe, i Tocari, che i cinesi chiamavano Yue-zhi.
Stratone, al contrario del padre, non un fervente buddista. Era piuttosto un generale, più a suo agio tra i soldati che a corte e pronto a schiacciare con decisione i nemici dell’impero che Menandro gli aveva lasciato. Dopo aver domato le rivolte di diversi pretendenti al trono, si trova subito a dover fronteggiare una situazione di emergenza. Nel versante cispamirico dei suoi domini si sta delineando una manovra a tenaglia per annientare l’impero: da nord arrivano i tocari, da nord-ovest i saka, ovvero gli sciti, che nella loro marcia si stavano facendo accompagnare dai sogdiani. Infine da ovest, decisi ad approfittarne per infliggere un colpo decisivo al nemico, i parti.
Con una folgorante campagna militare, Stratone riesce ad isolare i parti e sconfiggerli, per poi mettere sciti e tocari gli uni contro gli altri. Gli sciti vengono sospinti verso sud, nella zona occidentale della regione di Arachosia. Qui, stretti tra gli indo-greci e i parti, si sedentarizzeranno e fonderanno un regno duraturo, tanto che la regione porta ancora adesso un nome che li ricorda (Sistan).
Non riuscendo a sottometterli definitivamente, Stratone dovrà fare di necessità virtù, accogliendo gli sciti all’interno dei suoi domini come guerrieri, comprando anche la fedeltà di capitribù locali per difendere i confini da nuove invasioni.
.
Filosseno (100 ca. a.C. – 85 ca. a.C.)
Viceversa, Filosseno sarà un re amante della pace, delle arti e fervente buddista. Troverà un modo molto intelligente per disinnescare la miccia dei popoli che premevano lungo le frontiere occidentali: sotto di lui, infatti, i missionari del Gandhara inizieranno la loro opera di predicazione presso tocari e sciti. Sotto di lui l’impero “Yavana” come designato dalle fonti indiane, sarà un crocevia di prodotti e ricchezze la cui fama giungerà fin nella lontana Cina. Presso la corte degli Han invierà degli ambasciatori con ricchi doni. I cinesi chiameranno la regione di provenienza di questi strani ospiti il Dayuan, identificato approssimativamente con la Fergiana.
Per ragioni strategiche trasferirà la capitale da Sagala, giudicata troppo eccentrica rispetto al corpo del regno alla storica Taxila. Durante i mesi estivi, tuttavia, Filosseno risiederà spesso a Bactra, anche per non scontentare le regioni a nord dell’Hindukush. A dire il vero tra queste e le regioni gravitanti intorno all’Indo, il distacco culturale e, forse, anche politico e linguistico, era già sentito e nel corso della storia imperiale non farà che crescere.
Molti sciti entreranno a far parte del suo corpo di guardie personale.
.
Menandro II (85 ca. a.C. – 70 ca. a.C.)
Sotto Menandro II i tocari si alleano con i sogdiani contro la Bactria, che viene salvata grazie ad una provvida alleanza con il regno scitico.
Nel frattempo però Maues, generale scitico del Gandhara, lancia, in nome del re una campagna di conquista contro il sud-ovest dell’India, approfittando dell’indebolimento della dinastia Satavahana. I suoi successi andarono al di là delle più rosee aspettative, dato che riuscirà ad espugnare persino Ujjain. Ma questo si rivelò un male. Decise infatti di fare dell’India un suo dominio personale, ponendo la capitale dei territori da lui controllati a Mathura, importante città sulla porta del regno verso la valle del Gange.
Anche stavolta l’impero Yavana rischia di sparire, poiché Maues si allea con il regno scitico per farla finita con Menandro II. Quest’ultimo decide allora di giocare la carta dei tocari. Appena sconfitti, promette loro l’insediamento, in parte a spese degli sciti nella regione della Paropamisida tra la Battria a nord e l’Arachosia a sud, in modo da diventare anche un valido cuscinetto contro eventuali futuri colpi di testa del regno scitico.
Fortunatamente per la Bactria, quest’ultimo all’ultimo si vede impegnato a combattere anch’esso per la propria sopravvivenza contro una tentata invasione dei parti. Nel frattempo, a est, Menandro conduce al successo anche un’altra grande alleanza politico-militare: in cambio di un tributo, e del ritiro degli indo-greci dalla valle del Gange chiede sostegno alle signorie degli Andhra e dei Kanvas per attaccare Maues da oriente, mentre lui piomberà su Taxila e Sagala.
Maues tuttavia si rivelerà avversario tenace. Pur indebolito dalla manovra a tenaglia contro di lui, riuscirà a fondare un regno piuttosto duraturo, detto indo-scitico, tra il Gujarat ed il Maharashtra attuali.
.
Apollodoto II (70 ca. a.C. – 60 ca. a.C.)
Su questo sovrano si hanno poche notizie, in quanto si trattò sostanzialmente di un periodo pacifico. Gli eredi di Maues rimasero una spina nel fianco per le attività portuali alla foce dell’Indo. Tuttavia, all’interno del regno, l’elemento scitico si era ormai ben integrato con quello indo-greco ed anche l’inculturazione e la sedentarizzazione dei tocari faceva notevoli progressi. Lato negativo fu che non lasciò quasi mai Taxila per recarsi, come avevano fatto i suoi predecessori, al nord, nella Battriana. Sembra che durante il suo regno questa regione e ancor di più la Fergiana fossero del tutto autonome dal potere centrale e dipendenti per la loro difesa dai generali tocari.
Alla sua morte si avrà una guerra civile tra i figli, Dioniso e Ippostrato.
.
Dioniso (60 – 55 a.C.)...
...e Ippostrato (59 – 53 a.C.)
Dioniso, il figlio primogenito di Apollodoto, era di carattere debole e presto suo fratello Ippostrato brigò per togliergli il trono. Tuttavia i suoi sicari non eseguirono a dovere il proprio compito, perché lo spodestato fuggì verso Bactra e per riguadagnare il suo dominio si alleò con i tocari. Il fatto che ci è giunta notizia da alcune cronache frammentarie che alcune città della regione si rifiutarono di appoggiarlo ci da’ per la prima volta notizia di una forma di autogoverno a livello urbano nell’impero.
Tornando ai fatti, l’esercito di Ippostrato viene sconfitto dai tocari di Dioniso, ma il secondogenito si rifiuta di abbandonare la partita: chiede il proprio sostegno al re indo-scitico Azes, che riesce a ribaltare la situazione occupando Mathura e uccidendo Dioniso. Decide però che a questo punto non sia valsa la pena essersi dati tanto da fare per poi consegnare tutto nelle mani di Ippostrato. Decide quindi di farlo uccidere e prendere il trono di Taxila.
.
Interregno di Azes (55 – 35 a.C.)
Azes, un grande condottiero, creerà un enorme impero, per quanto effimero. Oltre a gran parte dell’India occidentale, costringerà sotto il suo scettro, in diversi gradi di sottomissione, anche tutte le regioni a nord dell’Hindukush e persino gli sciti occidentali e la valle del Gange fino a Pataliputra. I suoi più acerrimi nemici saranno, come sempre, il regno Satavahana e i parti, che, alla fine, avranno ragione di lui. Infatti alcuni esponenti della famiglia reale indo-greca degli Eutidemidi si erano rifugiati ad ovest, tra cui Zoilo, discendente di Artemidoro, fratello di Menandro II. Decidono di usarlo come pedina per abbattere l’impero di Azes, ma Zoilo andrà al di là delle loro aspettative: grazie alla sua abilità diplomatica e di stratega, riesce ad unire sotto di sé, una vasta ed eterogenea coalizione, composta da battriani, sogdiani, fergiani, naturalmente tocari e persino molti signori del regno scitico, insofferenti al centralismo di Azes.
Della guerra vera e propria non si anno notizie dettagliate, per mancanza di fonti esaustive. Certo è che fu lunga e dura. Particolarmente importante è che, chiamati da uno dei contendenti e attirati dal bottino, fanno la loro comparsa anche gli Uscii, il popolo che i cinesi chiama Wusun, sconfitti da Zoilo durante un loro tentativo di mettere a sacco Alessandria Escate e poi utilizzati dallo stesso Zoilo per la riconquista di Taxila.
Mentre il suo impero crollava sotto i colpi nemici, Azes morì nel 35 avanti Cristo circa, anche se non sembra che Zoilo, quantomeno in un primo momento, riuscisse ad avere completamente ragione degli eredi del suo nemico, in quanto sappiamo che intorno al 32 a.C. uno di questi stipulò con Zoilo una pace che riconosceva Mathura come regno indipendente rispetto all’impero indo-greco.
Nel frattempo i parti avevano conquistato Sigal, capitale del regno scitico occidentale. Pur tuttavia alla conquista non seguì un’annessione diretta all’impero partico. I nuovi signori di questa regione, alleati di Zoilo, si resero ben presto del tutto autonomi da Ctesifonte.
Nasceva così un regno scito-partico. I sovrani di questa entità politica portavano spesso il nome (ma forse era un titolo) di Gondofarne, da cui alcune tradizioni fanno discendere il nome di Gaspare, uno dei tre re magi. Le fonti indiane li chiamavano Pahlavas.
Regno scitico
.
Impero Indo-greco
.
L'Impero di Azes
.
Zoilo (40 a.C – 30 a.C)
In realtà gran parte di quello che si sa di Zoilo è relativo alle vicende della guerra contro il regno indo-scitico di Azes. I suoi pochi anni di regno come sovrano a Taxila, invece, sono scarsamente conosciuti. Da quel che si intuisce, cercò di riorganizzare il regno e consolidarlo internamente, piuttosto che lanciarsi in nuove conquiste. Mantenne un atteggiamento senza precedenti di “buon vicinato” praticamente con tutte le potenze ed i popoli confinanti: i parto-sciti, i tocari, i potentati indo-sciti ed indiani, i sogdiani. Accolse nel regno gli uscii in fuga dalle loro terre ancestrali sul lago Balkhas; intrattenne relazioni con i regni della “Serindia”, come era chiamato il bacino del Tarim (in particolare con il re di Kashgar). Inviò anche ambasciate presso i Massageti ed altri popoli sciti che erano rimasti nelle steppe a nord dell’Oxus, e che vivevano sulle coste dell’Aral. Mandò messi persino ai cinesi, interessati al controllo della via della seta. Questi ultimi, senza esserne coscienti fino in fondo, resero un enorme servigio agli indo-greci. Infatti gli Xiognu, comandati da Zhizhi Chanyu, sconfitti dai cinesi a oriente, avevano intrapreso una grande migrazione verso ovest, forse portandosi dietro alcuni popoli di stirpe turcica. Si erano alleati con un popolo che stava assurgendo al rango di potenza nelle steppe, i Kangju, con lo scopo di ricreare un vasto impero nomade. I primi a farne le spese furono proprio i wusun, gli uscii, sospinti a sud. I generali cinesi, però, temendo sopra ogni cosa la possibilità di una resurrezione della potenza xiognu, lanciarono dalle loro basi nella regione del Tarim un attacco preventivo contro di loro, sconfiggendoli pesantemente nel 36 a.C. Né Zoilo, impegnato in India, né i suoi luogotenenti tocari in Battriana parteciparono alla battaglia, sebbene, molto probabilmente, i generali cinesi avessero mandato ambasciatori in cerca di alleati prima dello scontro. Ad ogni modo sappiamo per certo da fonti cinesi che Zoilo si congratulò con il generale Chen Tang per la vittoria, inviandogli ricchi doni, tra cui anche una Tigre e una coppia di elefanti. Nonostante ciò i Kangju rimasero un grave pericolo per la sicurezza della Fergiana, così come molte nuove tribù sbandate che trovarono casa nelle steppe tra il mar Caspio ed il Tian Shan. E’ grazie ai parti, invece, che avvenne il primo, per quanto anomalo, incontro tra il regno indo-greco e l’impero romano. I diecimila (così vuole la tradizione. Probabilmente erano molti di meno) legionari presi prigionieri da re Orode II nella battaglia di Carre, vennero infatti trasferiti in Margiana. Poi, allo scoppio della sollevazione di Zoilo, il re partico “donò” questi schiavi guerrieri al futuro re di Taxila, per rinforzare la sua posizione. Da questo punto in poi la storia lascia il campo al mito: secondo la tradizione, i legionari si comportarono talmente bene nella guerra contro Azes che il sovrano permise loro, come premio, di insediarsi a sud, nella regione di Patalene, per presidiarla contro gli indo-sciti della Surastene. Ancora oggi nella regione, vi sono dei villaggi in cui parte della popolazione professa un buddismo originale, che venera in particolare l’aquila come incarnazione dello spirito della forza e che afferma di discendere dalle legioni lì dislocate. Anche la componente cristiana della popolazione ha l’aquila tra i temi ricorrenti della propria iconografia. Sia gli studi linguistici, sia quelli genetici che quelli archeologici non sono in grado di dimostrare la veridicità della leggenda. Il fatto che nella popolazione si abbia una discreta presenza del cromosoma appartenente all’aplogruppo I2 non dimostra nulla, in quanto potrebbe “semplicemente” essere di provenienza greca o del vicino oriente. A maggior ragione la cosa si spiega semplicemente tenendo conto del fatto che l’area della Patalene era uno dei principali centri degli scambi tra Europa e India. Per le prove archeologiche vale lo stesso discorso. Monete e manufatti romani sono stati ritrovati in quantità notevole a Minnagara, Demetria Alessandria e Pattala. Ma vale lo stesso per Muziris, situata nella parte meridionale dell’India. Se ne trovano anche nel Gandhara, nella Battriana e persino nella Fergiana. Sulle prove linguistiche, le contaminazioni avvenute nella regione sono state talmente tante che quando uno studioso ci si mette, è difficile che non trovi ciò che sta cercando. Pertanto la leggenda rimane, almeno per ora, relegata all’ambito folkloristico, comunque interessante, ma privo di valenza storica.
.
Stratone II (30 a.C – 15 a.C)
Durante i suoi 15 anni circa sul trono, il regno indo-greco gradualmente si ristabilì. Ne è prova la diffusione più ampia delle sue monete rispetto al predecessore.
Ma quel che più conta del periodo di Stratone, è la sua scelta di spostare la capitale e la corte nell’estremo sud del regno. Inizialmente si stabilì ad Alessandria sull’Indo, poi si spostò alla foce del fiume, dove fece ricostruire la città di Demetria Alessandria, in rovina dai tempi di Maues. In ultimo però decise di porre la sua residenza a Patalene o Patala, nonostante sembra che soggiornasse spesso anche presso la città portuale di Minnagara. Non si comprende bene il motivo di questo spostamento. Molto probabilmente fu un tentativo per tenere sotto controllo i movimenti del regno indo-scitico di Surastene, che verso gli indo-greci manteneva un atteggiamento piuttosto ambiguo, alternando spedizioni militari a profferte di alleanza. Altra possibilità fu un interesse da parte del sovrano per un potenziamento delle attività commerciali marittime del regno. In effetti, sono da ascriversi a questo periodo i primi contatti commerciali stabili tra l’Egitto e, di conseguenza, Roma, e l’India.
Nel frattempo, tuttavia, a nord il re indo-scitico Rajuvula, di Mathura, poneva in seria difficoltà gli eserciti indo-greci nel Punjab. Verso la fine del regno di Stratone II, venne perfino posto un lungo assedio a
Taxila.
.
Zoilo II (15 a. C – 10 d. C)
Zoilo, già prima di salire al trono governava in nome del padre a Taxila. Il suo lunghissimo regno fu funestato inizialmente da un lunga guerra con re Rajuvula, che terminò solo al principio dell’era volgare con la definitiva conquista di Mathura e la sottomissione definitiva dei regni indo-scitici del nord. Nel frattempo, nuove minacce imperversavano a nord-ovest: nella Battriana il suo generale Eracle, o Heraios, un tocario, si trovò costretto a fronteggiare un tentativo di invasione del re parto-scitico Gondofarne II, che dopo aver occupato Alessandria di Arachosia si apprestava a conquistare anche le città gemelle di Kabora e Paropamisida, che erano il punto di raccordo fondamentale tra le due parti dell’impero greco. Esse erano a guardia del passo di Khyber, la principale (potremmo dire l’unica) via attraverso i monti del Caucaso indico. Da lì si snodava la strada regia che andava da Taxila a Bactra.
Heraios, nonostante fosse in inferiorità numerica, attese che l’esercito nemico entrasse nella valle del fiume Kabora e gli piombò addosso dai lati dei monti. Fu una grande vittoria e Zoilo II gli concesse il titolo di “Tiranno” ed il privilegio di battere moneta da Alessandria caucasica, dove si trovava la sua residenza. Dopo aver respinto i parti, diede una lezione anche ai Kangju, che con audacia crescente compivano spedizioni in Fergiana, distruggendo e saccheggiando tutto ciò che si trovava sulla loro strada.
Da questo momento in poi la Battriana verrà governata dai “tiranni”, signori largamente autonomi che agiscono ufficialmente sotto l’autorità del re di Taxila. La maggior parte di essi sarà, come Heraios/Eracle, di origine
tocaria.
Oltre che per questo, la sua ascesa sarà importante anche per un altro motivo, altrettanto gravido di conseguenze. Non tutti i tocari si erano stabiliti tra la Battriana, il Caucaso indico e la Paropamiside. Diverse tribù erano rimaste nel banco settentrionale dell’Oxus, mischiandosi con le popolazioni scitiche della Margiana o i sogdiani di Maracanda, o si erano stanziate, al crescere della pressione dei Kangju, nella regione di frontiera della Fergiana, su cui il controllo di Bactra e, tantomeno, quello di Taxila, era generalmente piuttosto labile. Alcuni di loro avevano persino assunto un ruolo militare e politico dominante nei regni della Serindia, approfittando del vuoto di potere lasciato dalle difficoltà interne cinesi e dai conflitti continui tra principati e tra questi e i popoli nomadi del nord.
Heraios, allo scopo di sconfiggere Gondofarne II, inviò emissari a nord per chiedere la loro alleanza. Alla sua chiamata alle armi rispose prontamente il potente clan dei Kushana, che i cinesi chiamavano Guishang. A quanto pare, Heraios fu talmente colpito dalla loro forza militare, rivelatasi determinante per la sua vittoria, che invitò i kushana pressò di sé. Non solo: in forza del prestigio e del potere raggiunto, concesse loro il titolo di “difensori dei confini dell’impero” e con esso il controllo della Fergiana contro le scorrerie Kangju, poiché la regione era importante come punto di raccordo tra il mondo “occidentale” e gli ultimi avamposti dell’impero cinese a ovest.
Ultima nota storiografica sul regno di Zoilo. Molte delle informazioni che all’occidente (e, per certi intervalli temporali, la gran parte di quelle di cui possono disporre gli storici) giunsero del regno indo-greco le dobbiamo alle notizie che il geografo greco Strabone raccolse e riportò nella sua opera, “Geographica”, dai mercanti viaggiatori che in questo periodo attraversavano le vie commerciali in direzione dell’oriente.
.
Artemidoro (10 d.C – 25 d.C)
Sotto il suo regno si assistette ad una nuova migrazione degli uscii. Coloro che si erano progressivamente insediati, sedentarizzandosi, nella Fergiana, mal sopportavano, infatti, di essere sottomessi ai discendenti degli antichi nemici yuezhi, pertanto decisero di abbandonare la regione. Quelli che si diressero nel Gandhara, per servire direttamente presso il “gran re degli Yavanas” presto sparirono dalle cronache e dal novero dei popoli, molto probabilmente venendo quasi completamente assimilati nel giro di due o tre generazioni. Alcuni, invece si sposteranno nella Serindia. Verranno utilizzati, come i tocari prima di loro, come soldati mercenari per le dispute tra principi della regione (ma raramente chi impiegava gli uni impiegava anche gli altri).
La maggior parte, per noi di maggior interesse, invece si sposterà a nord. In particolare, una grande alleanza di diversi clan provenienti dalla Fergiana si impose sulle tribù Kangju, ancora indebolite dopo la sconfitta patita contro Heraios, che vivevano nella valle del fiume Ili, fondando un vero e proprio regno, chiamato dagli indo-greci Getisia (probabile corruzione del nome della regione in cinese, zhetysu). Nonostante non si sappia per certo di quale etnia fossero o quale lingua parlassero in origine (indoiranica, quella dei principati della serindia, o addirittura turcica, tungusica o uralica) tale entità politica sarà pesantemente influenzata dai modelli politici, culturali, religiosi e linguistici iranico-ellenici. Tale evento, per quanto apparentemente di scarsa rilevanza, sarà foriero di importanti conseguenze, che si ripercuoteranno nei secoli successivi. Per molto tempo questo regno, che, per ovvie ragioni, intratterrà stretti rapporti con il bacino del Tarim ed il regno indo-greco, fungerà da stato cuscinetto o, se si preferisce, da bastione di difesa avanzato dei regni sedentari del sud contro i popoli nomadi delle steppe a nord, est e ovest. I Kangju accusarono il colpo. Coloro che rimasero finirono per mescolarsi completamente con gli uscii. Una buona parte fuggì, invece, nelle steppe. Nonostante questo l’influenza degli uscii (che altro non era che l’influenza che gli uscii stessi subivano dal regno indo-greco) si fece sentire e alcune tribù Kangju dell’ovest si convertirono al buddismo, convertendo, a loro volta anche alcune confederazioni di tribù scitiche che abitavano ancora più a ovest, che i cinesi chiamavano “regno di Yancai” e che per gli indo-greci altro non erano che i
Messageti.
Venendo agli avvenimenti veri e propri del regno, Artemidoro fu un sovrano debole. Passò gran parte dei quindici anni del suo regno a Minnagara, mentre il potere era nelle mani dei suoi generali, Cadfise nell’ovest e Stratone nell’est. Era però un eccellente storico e geografo e scrisse (almeno) tre volumi, di cui purtroppo sono sopravvissuti pochi frammenti, comunque fondamentali per la ricostruzione della storia del regno e dei popoli confinanti: Sui popoli del mondo conosciuto; Storia del nostro regno, a partire da Alessandro il grande; Sulle barbariche lingue degli sciti.
Fu il primo sovrano ad intrattenere relazioni diplomatiche di un certo spessore con gli stati del sud, Chera, Pandya e Cola, essenzialmente per ragioni commerciali. Inoltre si sa per certo che Artemidoro inviò non meno di tre ambasciate ad Augusto e a Tiberio, recando in dono, come voleva ormai la tradizione, delle tigri. Sicuramente una di esse fu capeggiata da un monaco buddista, che i romani chiamarono Germanos.
Artemidoro ebbe solo una figlia, Agatocleia, che diede in sposa a Stratone, il generale che comandava su Taxila. Cadfise mostrò di non essere troppo felice per la scelta del suo sovrano, dato che sperava che la mano della ragazza fosse riservata a lui. Artemidoro non riuscì a porre rimedio alla situazione, lasciando alla sua morte un paese sull’orlo della guerra civile.
.
Agatocleia e Stratone III (25 d.C – 31 d.C)
Cadfise (25 d.C – 39 d.C)
Alla morte di Artemidoro, Cadfise decise di proclamarsi sovrano, non riconoscendo Stratone come suo legittimo governante. Stratone III decise di schiacciare sul nascere la rivolta e porre finalmente un argine allo strapotere dei generali “barbari” sulla parte occidentale dell’impero. Ma non aveva fatto i conti con il suo nemico. Battendolo sul tempo, quest’ultimo riuscì ad attraversare il passo di Khyber senza trovare ostacoli, portando lo scontro sin da subito alle porte di Tassila. Vistosi perduto e in preda al panico, Stratone III decise per il momento di ritirarsi a sud. Nella Patalene poteva contare su numerosi fedeli ad Agatocleia, sua moglie, anche perché lì si trovava la corte di suo padre. La regione, in generale, in meno di 100 anni era passata dall’essere un semplice presidio militare ad essere il ricchissimo cuore di un commercio continentale. Il fatto che gli ultimi sovrani avessero sancito questo fatto risiedendo nel sud non faceva che aumentare l’appoggio a Stratone II, che sembrava intenzionato a proseguire su questa linea. Naturalmente di ciò le regioni “storiche” non erano esattamente felici. C’era poi il fatto che ormai i tocari non erano ormai considerati barbari (o mleccha, come si diceva in sanscrito), più di quanto lo stesso Filippo il macedone non lo fosse stato da parte degli ateniesi a suo tempo. Logica conseguenza vuole che gran parte dell’impero si schierò con Cadfise.
D’altra parte questo non significava, però, che il popolo fosse contro Agatocleia. Era contro il solo Stratone. La regina era pensata perlopiù come un incolpevole ostaggio di un generale che aveva perversamente plagiato Artemidoro. E se il rispetto per gli eutidemidi era inculcato nella gente, lo stesso valeva per il generale tocario.
La sua indecisione e la sua riluttanza ad agire in maniera risolutiva contro il nemico, diede tempo a Stratone di rinforzare le proprie difese e rendere impossibile una conquista della Patalene.
Era quasi inevitabile, a questo punto che si finisse con una partizione dell’impero.
Che Stratone propose e Cadfise, suo malgrado, accettò, pur riservandosi formalmente una il ruolo di “protettore” nei confronti della Patalene e della discendenza di
Agatocleia.
.
Cadfise II (39-61)
&
Cadfise III (61-80)
(da Taxila)
Sui due successori di Cadfise si sa pochissimo, pur perdurando le croniche situazioni di guerra permanente a nord, contro i popoli nomadi. Le informazioni in nostro possesso sulla base di fonti letterarie, locali o straniere, arrivano fino alla guerra civile, per poi riprendere intorno agli ultimi anni del primo secolo. Quel che è certo , è che nubi nere si stavano nuovamente addensando ai confini, su cui facevano buona guardia i Kushana. Nuovi capi Xiognu stavano inesorabilmente ricostruendo la propria base di potere e i Kangju avevano pensato bene di attaccarsi a questo astro (ri)nascente per consumare la propria vendetta contro i Wusun. Ad essi si erano uniti i Dingling, una popolazione o, piuttosto, una federazione di popoli di stirpe turcica. Ancora una volta, tuttavia, l’obiettivo su cui riversano i propri sforzi è la conquista delle città sotto protettorato cinese del bacino del Tarim. Forse da Kashgar giunsero a Taxila degli emissari per invocare aiuto presso Cadfise III, ma non vi è nulla di certo.
.
Interregno: il consiglio dei trenta (31-63) (da Patala)
Nel regno del sud, alla morte di Agatocleia, Stratone III fu rovesciato da una congiura. Pur tuttavia i congiurati non riuscirono a decidere chi dovesse occupare il trono e rivendicare i perduti territori del nord. Una nuova guerra civile, tuttavia, avrebbe lasciato campo libero ad un’eventuale conquista da parte del governo di Taxila. Stesso discorso per i re indo-sciti della Surastene, che intendevano ottenere il controllo sulle coste di tutta l’India occidentale e così il monopolio nel commercio con Roma. Ironia della sorte vuole che questo governo, voluto per “preservare la pace”, fu uno dei più sanguinosi della storia della regione, dato che si principi mercanti e generali ambiziosi si contendevano il diritto a far parte del consiglio dei trenta senza troppi scrupoli. Gli uomini di corte fedeli agli ultimi eutidemidi, che avevano sperato con questo sistema di preservare le loro posizioni di comando, finirono presto per perdere il controllo della situazione, finendo per essere in gran parte soppiantati. Nonostante la situazione interna piuttosto caotica, le ricchezze provenienti dai commerci non fecero che aumentare. Contribuì a questo risultato anche il fatto che lo stato (o, piuttosto, le famiglie che lo gestivano come una loro proprietà privata) si dotò di una flotta, diventando una potenza marinara.
.
Tiastene I (63-84) (da Patala)
Ulteriore ironia della sorte, chi pose fine ad un governo legittimista e (apparentemente) xenofobo fu un altro “barbaro”. Cosa che peraltro non sembrò scandalizzare proprio nessuno.
Chastana I, o, secondo le fonti occidentali, Tiastene, grazie alle sue abilità militari ed al suo fiuto per gli affari, riuscì ad assorbire tutti i signori della guerra che vegliavano sui confini. Avrebbe potuto semplicemente marciare su Patala e conquistarla con la forza ma, evidentemente, temeva in questo modo di fare il gioco delle oligarchie cittadine. Queste avrebbero potuto concedergli anche la corona, ma avrebbero mantenuto, con le loro ricchezze il controllo de facto del governo.
Fece in modo che si dilaniassero l’un l’altra, apparentemente limitandosi a vendere a caro prezzo i propri indispensabili servigi militari.
Come colpo finale, trattò la pace con Taxila e si alleò con Gautamiputra Satakarni, sovrano del Satavahana, inducendolo a muovere guerra contro il regno di Surastene. Ma quando gli indiani attaccarono, egli si propose agli indo-sciti come condottiero e liberatore. I Satavahana furono colti alla sprovvista dall’improvviso ed inspiegabile capovolgimento di fronte dell’alleato, venendo sconfitti alle porte di Ozene (Ujjain). Satavahana decise di ritirarsi, per riorganizzare le proprie forze. Nel frattempo, però Tiastene si era guadagnato (e dove non arrivava l’ascendente personale, arrivava il denaro) la fedeltà di gran parte dell’apparato militare del regno indo-scitico. Facendo quella che oggi si chiamerebbe “campagna pubblicitaria”, si presentò come lontano erede di Maues il grande. Quando si sentì pronto, si fece incoronare re, spodestando senza troppe difficoltà il precedente sovrano. Con una base di potere del genere si sentì finalmente sicuro a sufficienza per tentare la conquista del trono degli eutidemidi.
Ma non furono necessari grandi intrighi. La situazione politica si era talmente esasperata che al suo ritorno in trionfo nella capitale (stette molto attento a presentarsi come generale vittorioso, non come un re straniero), la popolazione si sollevò contro i trenta e inneggiò al suo nome. Chi non venne massacrato, cercò rifugio proprio presso Tiastene. Che, probabilmente, era stato l’artefice dell’insurrezione popolare.
Che per “preservare la pace”(la stessa formula usata dai trenta), si fece finalmente incoronare. E, giusto per andare sul sicuro, fece incoronare come co-regnante anche suo figlio, che poi spedì prontamente all’est a fermare la vendetta dei Satavahana e fare la pace con loro.
.
Tacticio Sotere (Vima Takto) (85-95 d.C., Taxila)
Dai cinesi questo re viene chiamato Yan Gaozhen. I cronisti dell'impero Han affermano che questo sovrano combatté a lungo nel Tianzhu, ossia l'India centrale. In realtà a noi sembra alquanto strana quest'affermazione, poiché i pericoli che gravavano maggiormente sul regno di Taxila si trovavano a nord-est, non certo nel sub-continente indiano. Può darsi che le fonti cinesi facciano menzione di un tentativo di sottomettere Patala non completamente riuscito. Purtroppo, ancora una volta, le fonti tacciono. Tuttavia, la morte prematura di Igarace, figlio di Tiastene per opera di un assalto dei Satavahana potrebbe essere, a questo punto, collegata, forse, ad una manovra a tenaglia contro il regno di Patalene, poi fallita. E' invece importante sottolineare un avvenimento di grande peso avvenuto ai confini del regno, cui molto probabilmente un nutrito contingente di Taxila prese parte, così come gli uscii di Getisia, se ben interpretiamo le fonti cinesi. Si tratta della spedizione del generale Dou Xian contro gli Xiongnu, culminata nell'estate dell'89 con la battaglia di Ikh Bayan. La potenza Xiongnu venne distrutta per sempre e non si riprese mai più, anche se le tribù dei Dingling che gli Xiongnu si erano portati dietro, non abbandonarono certo l'area. Essi avranno tempo e modo per ritornare pericolosi per gli Yavana.
.
Igarace e Abirace (80 – 100 d.C., Patala)
Anche dei successori di Tiastene I non si conosce molto. Di questo ventennio di consolidamento delle conquiste compiute dal loro predecessore si sa per certo che Igarace morì relativamente giovane, lasciando il trono al figlio minorenne. Questo grazie ad alcune steli commemorative trovate negli scavi di Pandavleni, città che in passato doveva essere una sorta di borgo fortificato di confine ad oriente del regno. Abirace dovette essere, una volta raggiunta la maggiore età, un sovrano particolarmente capace. A quanto pare, infatti, riuscì a sbarazzarsi del consiglio di reggenza, cosa che non poteva essere così semplice, in quanto l'idea di una nuova dinastia non era certo ancora consolidata.
.
Bumace (100 – 119 d.C., Patala)
Dopo Abirace, le fonti si fanno finalmente loquaci. Per ambedue le parti del vecchio impero eutidemide, infatti, si avvia un periodo d'oro. E' vero, i Satavahana, comandati dal sovrano Vashistiputra Sri Pulamavi rimangono piuttosto ostili. Ma, sotto l'apparente inimicizia comincia a svilupparsi un rapporto simbiotico tra i due stati, visto che la Patalene “è la finestra dell'India sul mondo”. I marinai di Barygaza, Minnagara, Patala si fanno sempre più audaci e si spingono, perciò, sempre più lontano. Anche i regni del sud dell'India temono la potenza navale degli indo-greci, che non disdegnano l'attività di pirateria. Intesse rapporti persino con Kalinga, sulla costa orientale del sub-continente ed il Fu-nan, nel sud est asiatico. Ma quel che più interessa agli storici è la penetrazione dei mercanti indo-greci nel golfo Persico e fin sulle coste della penisola arabica e della Somalia, tanto da entrare persino nel mar Rosso. Gli indo-greci presto riscoprono l'arte antica dei loro antichi progenitori di fondare colonie sulle coste. Sotto Bumace questi insediamenti, probabilmente avviati sin dal periodo oligarchico, iniziano a diventare di una certa consistenza. Tuttavia gli arabi fanno cattiva accoglienza a questi potenti mercanti. Rischiano infatti di togliere loro il ruolo di intermediari necessari tra l'occidente e l'oriente. Sabei, Mineani, Himyariti, Qatabani e Hadramauti, seppur a volte nemici tra loro, si trovano accomunati dalla necessità di sbarazzarsi di questi fastidiosi competitori. Essi sono sostenuti nel loro intento da un grande impero, che mira al controllo degli stretti del Mar Rosso e che estende la sua influenza in particolare sui sabei: l'impero di Aksum, gli antenati dell'Etiopia.
Ma l'interesse per la questione arriva fino a Roma. L'impero di Traiano è abbastanza ben informato di regni dell'India occidentale, con cui ha già proficui rapporti economici e diplomatici. A Berenice come a Myos Ormos e Alessandria già esistono comunità di indo-greci, che, tra l'altro, influenzano con il loro credo buddista, alcune comunità cristiane (da cui derivano diverse sette gnostiche). Il buddismo stesso fa un discreto numero di proseliti ad Alessandria, tanto che, se in questo periodo viene costruito il secondo tempio dedicato ad Augusto sul suolo indiano dopo quello di Muziris, a Barygaza, (dove sicuramente viveva una comunità di mercanti romani, quanto grande non sappiamo) viene anche costruito il primo stupa a Myos
Ormos.
Copie indiane di monete romane trovate a Demetria Alessandria
.
Mappa (nomi romani) del commercio dell'oceano indiano (mar Eritreo)
.
Il problema dell'aggressione araba agli indiani preoccupava non poco l'imperatore romano del periodo, Traiano. Il controllo della Dacia aveva dato all'impero una preziosa fonte di oro, ma era necessario che lo scambio tra India ed Europa fosse più conveniente e biunivoco per i romani, quantomeno per ridurre la drammatica emorragia di sesterzi che prendeva la via dell'oriente per non tornare più entro i confini dell'impero di Roma. La richiesta di alleanza della Patalene per fermare l'aggressione arabo-aksumita alle colonie in indo-greche trovava l'attenzione di un imperatore disposto a contemplare seriamente l'ipotesi di una spedizione Arabia e in Etiopia.
L'occasione fu fornita dalla provvidenziale morte di Rabbele II Sotere, ultimo re di Nabatea. Come spesso accadeva in queste circostanze, il sovrano aveva deciso di lasciare in eredità il regno a Roma. Vero o meno che fosse, vi fu chi si oppose alla decisione. Ciò condusse ad un'operazione militare in larga scala per l'occupazione del regno. Da questi avamposti, tuttavia, Traiano decise di non fermarsi. Con l'aiuto di una flotta d'apoggio approntata per la bisogna a Myos Ormos, avanzò verso sud, per poi conquistare una dopo l'altra le città dell'Arabia Felix. Dopo la grande vittoria accolse ambasciatori di Patala ad Aden. Con loro portarono una flottiglia di navi da guerra proveniente dalla città indo-greca di Opone (vedi cartina), per mostrare all'imperatore la loro forza navale e metterla (nel caso) al suo servizio. Per Traiano, tuttavia, la guerra non era finita. Aksum non poteva sopportare un'ingerenza così palese nei suoi affari e si decise a sfidare Roma. Traiano inizialmente sottovalutò gli etiopi, che misero in difficoltà le legioni di Roma. Alla fine, però, nel 108 d.C. L'imperatore romano entrò ad Aksum, per poi portare qualche mese dopo l'ultimo sovrano dell'impero, Zoskales, in trionfo nella capitale. Al suo obiettivo mancava un ultimo tassello, una maestosa opera di ingegneria civile: il canale di Traiano, un collegamento navigabile tra il Nilo ed il Mar Rosso. Il commercio tra India e Impero romano per via marittima si incrementò di molto. Il mondo sembrò farsi improvvisamente più piccolo.
.
Cadfise IV Sotere (95 – 115 d.C., Taxila)
Con questo sovrano torniamo finalmente nella storia, senza affidarci a interpretazioni malsicure. Durante il suo regno si trovano le prime fonti scritte in lingua tocaria, sia nella forma settentrionale (che con una certa dose di approssimazione, possiamo definire “Kushana”), sia nella sua forma meridionale, più influenzata dal greco e da altre lingue iraniche (come il sogdiano). Anche nel greco, tradizionalmente la lingua dell'amministrazione, fa capolino qualche termine “volgare”. Ulteriore modalità espressiva è il Gandhari prakrit, che, al contrario delle lingue precedenti, viene scritto nell'alfabeto Karoshti. Per quanto riguarda gli eventi del suo regno, vale la pena sottolineare come la sua attività diplomatica fu ad amplissimo raggio, tanto da far entrare a pieno diritto il regno Yavana nella politica mondiale. La prima parte del suo regno fu caratterizzata da strette relazioni diplomatiche con la Cina, coronate da alleanze militari contro i nomadi delle steppe. Particolarmente produttivo fu il rapporto con il generale Ban Chao, comandante dell'occidente per gli Han. Abitualmente risiedeva a Kucha. Nonostante il fatto che molti principati della Serindia avessero deciso di sottomettersi al celeste impero dopo le dimostrazioni di forza del grande generale appena prima della sua ascesa al trono, Cadfise non sembrò prendersela più di tanto. Gli interessava maggiormente tenere aperte e sicure le vie carovaniere e la pace, chiunque l'avesse garantita, era il modo migliore per assicurare tale risultato.
Statua del generale Ban Chao a Kashgar
.
Il fatto che si attribuisca a Ban Chao uno scontro militare con i Kushana per via di una richiesta da parte di Tacticio di far sposare suo figlio con una principessa cinese, richiesta mal digerita da parte degli Han, è ormai considerata falsa e dovuta ad erronee interpretazioni dei testi a nostra disposizione. O meglio: è vero che Ban Chao si scontrò con Tacticio, imponendo una ritirata agli eserciti indo-greci. Ed è altrettanto vero che Cadfise IV chiese per suo figlio la mano di una principessa cinese. Ma Ban Chao a quanto sembra era favorevole all'accordo. Tuttavia nel 102 d.C il vecchio generale cinese, ormai malato, si ritirò a Luoyang, dove morì. La richiesta di Cadfise dovette fare a meno del patrocinatore più importante e fu rifiutata. Tale secco no cambiò decisamente i rapporti tra cinesi e yavana. La grande rivolta anti-cinese del bacino del Tarim vide la strana alleanza tra uscii, indo-greci e alcuni capi Xiongnu sopravvissuti contro il generale Ren Shang. Sconfitti e colti di sorpresa, per un po' i cinesi dovettero arretrare la propria frontiera verso est, almeno fino agli epici scontri tra Ban Yong e Alessandro II
Kaniska.
Nel frattempo, però, era sorto un altro problema, questa volta sulla frontiera orientale.
Durante il regno di Pacoro II, il regno dei parti aveva visto crescere le difficoltà interne, ma non aveva rifiutato l'occasione di eliminare l'autonomia dei parto-sciti, ricreando le vecchie satrapie. L'esperimento, tuttavia, non era durato molto. All'approssimarsi della morte dello Shah un usurpatore, Vologase, che disponeva anche di ampi possedimenti in Armenia, nel 105 prese possesso della parte orientale del paese, Partia compresa, mentre ad ovest i re di Ctesifonte erano incapaci di tenergli testa. Per assicurarsi di avere le spalle coperte a oriente Vologase (III) decise di muoversi con circospezione nei confronti di re Cadfise IV. Commise però l'imprudenza di allearsi con gli alani/yancai, popolo nomade di stirpe iranica e di fede buddista, che occupava tradizionalmente i territori tra il mar Caspio ed il mar d'Aral, ma che in concomitanza con l'annientamento degli Xiongnu si stava espandendo anche verso sud-est. Alcune scorrerie alane contro i sogdiani, indussero questi ultimi a chiedere la protezione di Cadfise che ipotizzò, a torto, che tali razzie erano il preludio di una manovra ostile di Vologase nei suoi confronti, e perciò decise di muovergli guerra. In realtà questa fu la ragione riportata nelle cronache. Nulla tuttavia ci vieta di pensare, in virtù anche di alcune ambiguità presenti nelle fonti, che Cadfise volesse approfittare della divisione dei parti per guadagnare territori a oriente.
In effetti così fu: dal 110 Sakastan, Aracosia e Margiana finirono sotto il controllo di Taxila. Dopo questi successi, tuttavia, anche per non sguarnire troppo il bacino del Tarim, il re kushana decise di non insistere e preferì imporre a Vologase un tributo, riconoscendolo, allo stesso tempo, come legittimo sovrano dell'impero
partico.
.
Nambano (119-134 d.C., Patala)
Il regno di Nambano può essere a buon diritto considerato un'epoca di splendore. Purtroppo, gli storici tendono a soffermarsi di più su sovrani la cui epoca è stata ricca di guerre, intrighi e colpi di scena, mentre prestano poca attenzione a epoche di pace e di ordine. Eppure fatti importanti accaddero anche sotto il suo governo. Tiastene Cuseno, come lo chiamano le fonti in greco, che dal suo nome tradisce origini settentrionali, divenne il capo indiscusso della flotta del regno e contribuì con grande energia all'aumento della potenza del regno. Grazie a lui, le città portuali della costa somala finirono saldamente nelle mani del regno e si riempirono di una consistente popolazione indo-greca. Ciò creò profondi effetti dal punto di vista etnico e linguistico della regione, che durano ancora oggi. Ma non solo. L'isola dei Dioscuri era sede di una importantissima città commerciale, chiamata, appunto, Dioscoride. Tiastene Cuseno ne fece la sua centrale operativa e poté godere, de facto del ruolo di centro nevralgico dell'oltremare indo-greco. Il grande navigatore si spinse ancora oltre, conquistando e assoggettando molti empori lungo la costa africana, fino a “Rapta la grande”, ultimo avamposto commerciale conosciuto fino a quel momento in direzione sud. Lì lasciò come suo luogotenente quello che le fonti romane menzionano come Gaius Adimantus, e quelle indiane come Yayadaman. Tiastene gli diede il compito di esplorare la regione, ancora in gran parte sconosciuta, e, nel caso, di fondare nuove colonie. Non passò molto tempo che Adimanto prese possesso delle Comore e, infine, sbarcò sull'isola che poi fu detta Andriana (il nostro Madagascar). L'isola era già abitata, da popolazioni di origini austronesiane (detti Vazimba), stanziate in particolare nell'altopiano centrale dell'isola, ma, evidentemente, la cosa non rappresentava un particolare problema per i nuovi venuti, che, dai loro insediamenti costieri, iniziarono molto presto a commerciare con i nativi.
Tutta queste attività, tuttavia, come effetto secondario, aumenta la proiezione dei mercanti dell'impero romano verso l'Asia, visto che le comunicazioni a lungo raggio sembrano improvvisamente diventate più semplici. Tuttavia la conquista dell'impero Axumita e la sottomissione degli arabi non ha effettivamente risolto l'emorragia di capitale verso oriente di cui soffre l'impero; ha solo contribuito ad aumentare il volume d'affari. L'unico prodotto di valore unitario molto alto in grado di competere, come prezzo con sete e spezie sembra l'ambra. Questo materiale, in Cina e in India è sconosciuto. Quando le prime spedizioni raggiungono il celeste impero dal paese di Da Quin, come viene denominato l'impero romano dai cinesi, subito il prodotto spopola. L'unico problema è che i luoghi di estrazione di quella che ha tutte le potenzialità per diventare una vantaggiosa contropartita dal punto di vista economico, non sono sotto il controllo imperiale. Si trovano lontano, oltre la Germania e a nord, oltre le steppe che lambiscono il Bosforo Cimmerio. Cosa deve fare Roma? Affrontare una lunga e logorante campagna per arrivare fino a quei luoghi e conquistarli? L'imperatore Traiano medita a lungo sulla possibilità. Questo però distoglierebbe risorse dalla già progettata campagna contro i parti, le cui difficoltà interne non sono passate inosservate. E' vero però che la conquista di Charax Spasini, il porto sul delta gemello del Tigri e dell'Eufrate, è diventata di importanza relativa, ora che il commercio con l'India è assicurato e fiorente lungo la via del Mar Rosso.
Alla fine, anche per un imperatore militarista come Traiano, due offensive su due obiettivi ugualmente impegnativi sono troppe.
Alla fine, Traiano mantiene fede al suo progetto originario, andare contro i parti: primo, perché sono tradizionalmente un mortale nemico di Roma, e l'occasione di un loro momento di debolezza va assolutamente sfruttata. Secondariamente l'impero è informato del fatto Cadfise tiene Vologase come protetto. Forse Traiano sopravvalutava l'influenza del primo sul secondo e temeva che senza alcun intervento romano, l'intero impero partico sarebbe potuto finire sottomesso a Taxila. E' vero che i rapporti con l'impero Indo-greco del nord erano buoni, ma non tanto da desiderare che si espandesse fino a confinare direttamente con Roma.
.
Alessandro Kaniska (115-151 d. C., Taxila)
Nambano fu un grande re, e il suo nome è legato alle esplorazioni e alle colonizzazioni che in suo nome vennero fatte sulle coste africane dell'oceano indiano. Ma se si parla dell'India del II secolo dopo Cristo, il nome che a tutti viene in mente è quello di Kanis(h)ka, potenze quanto ambizioso sovrano, che ebbe persino l'ardire di aggiungere al suo nome barbaro niente meno che quello del grande conquistatore macedone, anche se in alcune iscrizioni si faceva anche chiamare “nuovo Menandro”.
Eppure la stella del più grande sovrano indo-greco non splende immediatamente. Durante gli ultimi anni di vita di suo padre Cadfise, Bumace e suo figlio Nambano riuscirono con successo a scatenare diversi principi di origine eutidemide contro la dinastia regnante kushana. Il principe era ancora molto giovane e pretesero la reggenza due potenti signori, Polemone e Eucratide. Cadfise, molto malato, concesse loro l'onore: nonostante avesse ben chiaro che i due volevano usurpare il trono al figlio, era in una posizione troppo precaria per negare loro ciò che desideravano.
Quando nel 115, Cadfise Sotere morì, i due si comportarono subito da sovrani in tutto e per tutto. Ma l'adolescente Kanis(h)ka, che fremeva per liberarsi dei due, secondo una leggenda, usò le ambizioni dell'uno contro l'altro. Addirittura, alcune versioni della storia narrano che finse una grave depressione e volontà di suicidarsi per poi incolpare i due di tentato assassinio.
In qualunque modo sia andata, è evidente che i due sono citati solo in queste leggende. Perciò è molto probabile che siano stati tolti di mezzo quasi subito. Sembra che il giovane sovrano si fosse preparato per una spedizione punitiva contro il sud. La quale però non si realizzò: vuoi per il potere finanziario dei mercanti di Barygaza e Minnagara, vuoi perché il nuovo signore di Taxila aveva altro a cui pensare. L'imperatore romano, infatti aveva finalmente fatto la sua mossa ed aveva sconfitto il sovrano partico Osroe. Aveva tolto tutta la valle del Tigri e dell'Eufrate, riorganizzata in due nuove provincie; al posto di Osroe aveva posto come sovrano il suo protetto Partamaspate. Alla notizia che Traiano stava marciando verso sud, non ci pensò due volte e impose a Bumace di mettergli al servizio un flotta. Bumace, vista la sproporzione dei rapporti di forza, non ci pensò nemmeno a negargliela (anche perché dalla cosa c'era sempre da guadagnare). Aveva infatti deciso di incontrare a tutti i costi personalmente l'imperatore romano e parlare a tu per tu con lui come un suo pari. Appare da subito il primo abbozzo della visione del mondo del sovrano. L'ordine era garantito dai “quattro imperatori del mondo”, Roma, Persia, India, Cina, intorno ai quali c'erano popoli più o meno barbari ripartiti secondo un grado di lontananza dalla civiltà. Chi di questi quattro reggitori del mondo considerasse barbaro l'altro, chiaramente non aveva capito nulla e meritava di essere punito per la sua arroganza. Almeno, questa sarà la spiegazione data dagli scrittori dell'epoca per spiegare il conflitto successivo con la Cina. Ma se si trattasse veramente di una convinzione di Kaniska, sarebbe, almeno in parte, una spiegazione per il suo desiderio di incontrare di persona l'imperatore Traiano. Quando il re indo-greco giunse a Charax, Traiano si trovava a Susa (che nella nostra TL è il punto più lontano, documentato con certezza, mai raggiunto da un esercito romano. Legioni perdute varie a parte, quindi).
L'imperatore romano al ritorno dalla sua campagna, lo raggiunse poco dopo. E finalmente i due si incontrarono, anche se a Traiano Kaniska dovette sembrare poco più che un ragazzino borioso. Ma il ragazzino prese una decisione inaudita: seguire il vecchio imperatore nel suo viaggio di ritorno!
Kaniska rimase al fianco di Traiano fino al suo epilogo a Selinus, in Cilicia. Da questo soggiorno in terre così lontane dalle sua imparò moltissimo: innanzitutto apprese la lingua latina e fece un bel ripasso di greco, lingua che nella valle dell'Indo non era più quella di Alessandro Magno, ovviamente. Inoltre apprese qualcosa della cultura e della filosofia occidentali. Secondo una leggenda narrata da Eusebio di Cesarea, incontrò dei cristiani e si convertì, primo sovrano terreno a farlo. Pur essendo plausibile un suo incontro con dei cristiani, e con degli ebrei, tale storia è però poco plausibile. Anzi, paradossalmente, sembrerebbe che questo viaggio lo abbia riavvicinato al buddismo. Cronisti romani descrivono come spingesse i monaci della sua corte a dibattere con i filosofi del seguito di Traiano, in particolare stoici. Alcuni riportano una strana leggenda: Traiano avrebbe addirittura deciso di lasciare a Kaniska il trono dell'impero. Tuttavia Pompeia Plotina avrebbe minacciato di morte il giovane re di Taxila e l'avrebbe indotto a tornare al suo paese. Questi avrebbe preso, per il ritorno, la via più veloce: da Alessandria, attraverso il canale a Myos Hormos; da lì a Opone, poi Dioscoride, Patala, Minnagara e infine Taxila.
Tornato dal suo incredibile viaggio nel 118, lo trovò ad aspettarlo una certa instabilità. Purtroppo i cronisti dell'epoca non indulgono in dettagli sulla questione, se non accentuando l'inusitata energia con cui represse le sollevazioni che lo accolsero al suo ritorno. E' però lecito fare supposizioni: potrebbe darsi che gli artefici fossero quegli stessi Eucratide e Polemone che furono esautorati dalla reggenza, e che, in assenza di Kaniska, riuscirono a rovesciare i generali fedeli a Cadfise che erano stati lasciati per controllare la situazione. Può anzi darsi che alcuni di questi si sarebbero fatti corrompere, magari con la complicità del sud.
Ad ogni modo,per i cinque anni successivi di relativa pace, Kaniska ebbe il tempo per esercitare ciò che aveva imparato in compagnia di Traiano. Riformò l'esercito, mischiando elementi presi dalle legioni, dalla cavalleria pesante partica, senza dimenticare le peculiarità indo-greche: gli arceri a cavallo tocari, la falange indiana e gli insostituibili elefanti da guerra.
Il sovrano di Taxila, fu il promotore inoltre della costruzione di numerose opere, quali ponti, strade e stupa, costruiti in un'originale mix tra l'arte locale e un ripristinato gusto ellenistico.
Ma la sua costruzione più importante fu senza dubbio la redazione di un codice di leggi per il suo regno. La particolarità di tale codice è che fu composto in diverse lingue: tocario classico (o meridionale), gandhari prakrit, battriano, saka e... yavana. Con questo termine definiamo la lingua greca della burocrazia, evoluta e corrotta da quattro secoli di contatto con lingue iraniche e indo-arie. Ma perché proprio Kanis(h)ka, che ne avrebbe avute le capacità, non ha preferito comporre la sua opera in greco ellenistico? Quest'ultima lingua era, almeno idealmente, la lingua della corte e gli scrittori cercavano di comporre opere in tale linguaggio, per quanto il numero di errori fosse sempre maggiore ed evidente. Perché il sovrano aveva deciso di squarciare il velo e proporre tale rivoluzione? Le ipotesi più accreditate sono due: la prima, più semplice, era che in questo modo il codice fosse il più possibile pratico e comprensibile. La seconda, più ideale, ipotesi viene chiamata “del superamento del modello”. Chi propone questa idea, prende come spunto una frase riportata dalle cronache romane pronunciata da Kanis(h)ka: “i greci che furono più ardimentosi presero la via dell'oriente. Lì sottomisero molti popoli e costruirono un grande regno. Chi rimase nella terra d'origine, finì invece per essere sottomesso dal grande popolo romano”.
La pretesa, forse, del re di Taxila era che l'originale cultura indo-greca avesse pari e più dignità rispetto al modello ellenistico e che imitarla non avrebbe avuto più alcun senso.
Con questo, tuttavia, non vanno esagerate le pretese di rottura della tradizione: sorprendentemente, infatti, una versione estremamente ridotta e riassuntiva delle leggi, venne composta anche in greco ellenistico (un ottimo greco, peraltro), in tocario kushana, saurashteni prakrit, serindio di Kashgar e addirittura in persiano e cinese. Purtroppo, di tale esercizio linguistico ci rimangono solo dei frammenti.
Anche se furono anni di sostanziale pace, Kanis(h)ka ebbe diverse occasioni per testare il suo riorganizzato esercito. I Kangju, ormai popolo pacifico, inviò ambascerie al re in cerca di aiuto, contro le scorrerie dei nomadi Dahai e Messageti (che ormai, però, altro non erano che vassalli dei potenti alani/yancai) che stavano a ovest e a nord di loro. Questo popolo, un tempo terrore delle città della Battriana e della Sogdiana, giurò di sottomettersi all'autorità di Taxila. Per soddisfare le loro invocazioni, Kanis(h)ka ordinò la costruzione di una serie di forti militari lungo il corso dell'Osso e dello Iassarte, per il controllo della regione. Tali presidi si trasformarono molto presto in centri urbani, da cui i missionari buddhisti si inoltravano nei territori dei barbari per convertirli.
Il fine delle colonie militari era anche un altro: creare una variante della via della seta che passasse a nord del mar Caspio, per bypassare il territorio partico, troppo instabile e insicuro. Oltre a evitare i taglieggiamenti dei parti, tale via avrebbe permesso un collegamento diretto (o quasi) con l'impero romano e avrebbe avuto il gradevole effetto collaterale di alleviare la dipendenza dai principi mercanti di Patala per il commercio con l'occidente.
A proposito di Nambano, si rese molto presto conto della forza del regno settentrionale e, preferendo non rischiare, si affretto a omaggiare Kaniska come proprio signore, inviandogli regolarmente tributi. Cosa che risparmiò al sovrano kushana una inutile dimostrazione di forza, che probabilmente avrebbe nuociuto al commercio dell'area indiana.
Gli anni di pace terminarono nel 124. Il motivo fu il ritorno in forze dei cinesi nel bacino del Tarim. Nel frattempo gli indo-greci avevano stretto il proprio controllo su Kashgar, visto come caposaldo e punto di partenza per una futura penetrazione nella Serindia. Ma le ambizioni del generale Ban Yong, figlio di Ban Chao, erano esattamente le medesime. Tra il 123 ed il 124, aveva posto sotto il suo controllo Turpan e Jimasa e, dopo una rapida campagna, aveva ottenuto la sottomissione del re di Shanshan, forse il sovrano più potente dell'intero bacino del Tarim, che aveva accettato che la sua capitale Loulan, diventasse il centro operativo delle forze di Ban Yong.
Il bacino del Tarim
.
La scintilla per lo scontro fu la richiesta si sottomissione e alleanza che fecero sei re del popolo dei gusci (Ju-shi) al generale cinese. I gusci erano un popolo che occupava una vasta regione a nord di Turpan e che confinavano direttamente con la Getisia degli uscii. Questi ultimi, da quando si erano stabiliti nella zona, avevano cercato di spingersi a sud-est, in modo da controllare la variante settentrionale della via della seta, che dalla Fergiana si spingeva fino a Turpan. Ma sulla propria strada avevano trovato i gusci, che non gradivano tali attenzioni sulle loro terre. Gli uscii temettero che dietro all'alleanza ci fosse una pianificata mossa in grande stile contro di loro e inviarono messi a Taxila per chiedere aiuto.
Kanis(h)ka inizialmente non desiderava uno scontro con la temuta potenza cinese. Avrebbe preferito addivenire ad un accordo. Ma Ban Yong, per quanto degno figlio di suo padre dal punto di vista delle abilità militari, non lo era per abilità diplomatiche. Era in tutto e per tutto un cinese e ciò che non apparteneva al celeste impero era sostanzialmente barbaro e inferiore. Le alternative che aveva davanti erano o sottomettersi o perire. Dato che gli scambi di ambasciatori non conducevano a nulla, Kanis(h)ka marciò di persona con un'imponente armata fino a Kashgar e si diresse con un ridotto seguito fino a Loulan per incontrare personalmente Ban Yong. Chiaramente l'incontro non andò a buon fine, visto che il pur disponibile e accomodante re, tornò a Kashgar schiumante di rabbia. I cronisti della corte asseriscono che venne pesantemente umiliato dal generale cinese. Perfino una preziosa quanto rara cronaca in serindio ritrovata a Kashgar riporta tale avvenimento. Yarkand e Khotan, vista la situazione, si sottomisero a Kanis(h)ka e misero a disposizione le proprie armate.
Nel 126, però Ban Yong attaccò a sorpresa la Getisia. Kanis(h)ka decise di prendere parte delle sue forze e dirigersi ad Eschate, per contrattaccare dalla Fergiana. Aveva lasciato ordine ai suoi generali di mantenere la posizione di Kashgar a qualsiasi costo. Il suo contrattacco ebbe successo e scacciò i cinesi dalla Getisia. Nel frattempo però, Ban Yong aveva deciso di avanzare, con il grosso delle sue truppe verso Kashgar, senza perdere tempo ad assediare Khotan e Yarkand. Un contingente piccolo e debole, invece, avrebbe dovuto, partendo prima, attirare l'esercito indo-greco fuori da Kashgar e attirarlo verso la ben munita Kucha. Il piano ebbe successo. Kanis(h)ka stava per tornare a Eschate quando ebbe notizia della caduta di Kashgar e che il le sue armate erano state battute. A questo punto, tentò la follia: invece che correre a Eschate e lì trincerarsi in attesa dei cinesi, percorse la via della seta settentrionale attraverso le montagne e giunse a Korla, a est di Kucha. Volgendosi contro quest'ultima, riuscì a conquistarla e salvare il suo esercito, che da assediante si era trasformato in assediato, trincerato com'era nel suo accampamento senza possibilità di scampo. Ban Yong, che non si aspettava tale mossa da parte del suo”barbaro” rivale, decise di non muoversi da Kashgar. Avrebbe aspettato il suo rivale, ebbro per l'inaspettata vittoria e desideroso di rivincita e l'avrebbe fatto a pezzi. Ma si era fatto un'idea sbagliata di Kanis(h)ka. Quest'ultimo, infatti, si mosse verso Turpan, la conquistò e sconfisse due dei sei re guscii. Gli altri quattro cambiarono bandiera da un momento all'altro. Anche il re del Shanshan meditò di rivedere le proprie alleanze, ma la guarnigione cinese a Loulan era forte e non poteva essere facilmente distrutta. Finalmente, Ban Yong decise di muoversi per affrontare in battaglia campale il nemico e affogarlo nel fiume Tarim. Nei pressi di Kucha, i due eserciti si affrontarono e Ban Yong, nonostante avesse inflitto gravissime perdite al suo nemico, venne sconfitto e catturato. Alla notizia della sconfitta, tutti i re della regione vennero a Kucha a porgere omaggio e sottomissione a Kanis(h)ka, che però si rende conto che qualsiasi azione militare ulteriore sarebbe impossibile: ha perso un numero considerevole di uomini e le risorse non sono infinite. In più, il nemico è battuto, certo, il loro capitano è catturato, ma certamente non è stato annientato, anzi. Urge quindi, tornare a insistere su una via di accomodamento diplomatico, questa volta da una posizione molto più vantaggiosa. Ban Yong viene trattenuto come ostaggio dal sovrano. E, finalmente, comincia a farsi un'idea diversa di quei barbari. Da quel momento in poi, diventerà una sorta di ambasciatore cinese in occidente, e i rapporti tra i due imperi si faranno decisamente meno tesi.
Questi eventi rappresentano un punto di svolta importantissimo: due mondi così diversi sono entrati in contatto. La frontiera, dal punto di vista psicologico, tra due mondi è, almeno in parte, venuta meno. Il punto di svolta non è tanto politico, anche perché Turpan ritornerà comunque sotto l'influenza cinese, così come Loulan (ma il resto finirà sotto l'egemonia indo-greca per diverso tempo), ma, soprattutto culturale. Gli scambi diretti tra la Cina e i Dayuan (come erano chiamati gli indo-greci dai cinesi) si faranno più intensi e grazie ad essi molti monaci buddhisti attraverseranno la via della seta per diffondere la loro religione in estremo oriente; religione che diventerà estremamente importante, se non maggioritaria, in moltissime aree.
Un monaco indo-greco che trasmette i propri insegnamenti ad un monaco cinese
.
Kanis(h)ka, tornato a Taxila, organizzò nel 130, un vero e proprio trionfo in pieno stile romano, e assunse il nome di Alessandro. Come il conquistatore macedone, si considerava infatti il fondatore di un vasto e potente impero. E, ovviamente, sarebbe stato anche migliore, perché alla sua morte non si sarebbe disintegrato. Tutto questo accadeva mentre lontano, a nord, facevano la prima apparizione nuovi popoli nomadi, che nel giro di un secolo sarebbero diventati un serio pericolo per i confini dell'impero indo-greco, come gli Uar e i loro discendenti.
Nel frattempo, non era però destino di Alessandro Kanis(h)ka di rimanere fermo a lungo. Troppo a lungo gli indo-greci avevano ignorato il destino dei principati che si formavano nella valle del Gange. Ma dopo essersi autoproclamato nuovo Alessandro, era intenzionato a raccogliere ad essere acclamato come erede anche di un altro conquistatore, nientemeno che il grande Asoka, che aveva unificato gran parte del sub-continente indiano.
Va detto che già l'impero yavana esercitava una certa influenza sui principi del bacino del Gange, attraverso trattati commerciali o più o meno blande offerte di tributi. Ma, evidentemente, ciò non poteva più bastare. La conquista della regione, tuttavia, non rispondeva esclusivamente a ragioni di prestigio o pretese universalistiche. Vi era anche una componente di natura economica e strategica. Kanis(h)ka era infatti molto interessato a garantire al suo regno un porto sulla costa orientale dell'India. Un collegamento, attraverso vie carovaniere e fluviali, da tali centri marittimi verso il cuore del suo regno, rispondeva alle stesse logiche che lo avevano spinto all'apertura e al consolidamento delle vie carovaniere tra il bacino del Tarim ed il Mar Caspio, ossia diminuire decisamente la dipendenza dalle oligarchie mercantili della Patalene e della Surastene per i commerci a lungo raggio. Inoltre, era anche ansioso di dotarsi di una forza navale autonoma, senza dover dipendere dai principi mercanti indo-greci del sud. E' vero che Nambano era in condizione di assoluta sudditanza nei suoi confronti e, forse, quest'ultimo nemmeno si accorgeva del potere contrattuale che possedeva nei confronti dello strapotente vicino e non capiva fino in fondo il perché Kanis(h)ka non osasse sottometterlo con la forza. Ma il novello Alessandro non era sicuro che questa situazione sarebbe durata in eterno. Forse egli stesso sottovalutava la grande potenza militare ed economica del suo regno, e nutriva timori esagerati.
Ad ogni modo, nel 135, Dopo aver fatto di Mathura la sua capitale provvisoria, iniziò una serie di spedizioni. Uno dopo l'altro, i principi di Kausambi, Kosala, Dasarna e Pancala vennero sconfitti e deposti. La più grande impresa, però, fu la conquista di Palibothra. Nonostante il signore della città controllasse un territorio piuttosto esiguo, rimaneva l'antica capitale dell'impero Maurya ed era ancora una delle più grandi città dell'india, assieme a Taxial, Patala, Muziris e Ozene. Circondata da fortificazioni imponenti, fu presa solo dopo un lungo assedio.
Dopo tale successo, l'occupazione della regione del delta del Gange, o Gangaride, come veniva chiamata dagli indo-greci, era una mera formalità. Eppure Kanis(h)ka non rimase presso il basso corso del Gange molto a lungo. La malaria aveva mietuto molte vittime tra i suoi soldati e lui stesso, considerò il luogo pericoloso e maledetto. Contrariamente alle aspettative, non assunse il nome di Alessandro Asoka e nel 139 era già a Mathura, dove celebrò il suo trionfo. Nel 140 decise di inviare nella zona il generale Zeionise. Si potrebbe dire che fu lui il vero conquistatore della regione all'impero yavana. Abbatté tutti i focolai di resistenza, uniformò l'amministrazione della regione con i costumi di Taxila, fece costruire diverse colonie militari, per scoraggiare eventuali rivolte e prevenire gli attacchi delle tribù delle montagne, in particolare le scorrerie del regno di Licchavi, che rimarrà a lungo un spina nel fianco. Infine, per ordine di Kanis(h)ka, che non badò a spese in quanto a materiale, manodopera e architetti, fece ricostruire nella gangaride il porto di epoca Maurya di Tamralipta, da cui le navi degli indo-greci avrebbero potuto spingersi sino ai regni di Beruas e Langkasuka, al Funan e oltre ancora, presso i piccoli principati sulle cose sundanesi. Zeionise si associò al governo un clan indù del Maghada, i Gupta, che divennero un'importante casato di funzionari nell'amministrazione della regione.
Le imprese degli ultimi 10 anni di regno di Kanis(h)ka furono meno fortunate: cercò di debellare la minaccia delle popolazioni dei montanari a nord del Gandhara, i byaltai che in quegli anni si era fatta crescente. Ma, anche costruendo tutto un recinto di forti intorno ai loro territori impervi, non riuscì mai a debellarli, per quanto alcune tribù “scendessero” dai monti e si integrassero nel regno.
Dopo aver combattuto tutta la vita o quasi, in maniera molto simile ad Asoka, si convertì ad ideali di pace universale e divenne un fervente buddhista osservante. Cercò di mantenere il più possibile una politica di conciliazione con i Satavahana, proponendosi come mediatore nei conflitti tra questi e la Patalene e guardandosi bene nell'impelagarsi in una faticosa campagna di conquista del Deccan.
Infine morì, da tutti compianto, nel 151. Una stele che ricorda le sue gesta venne posta a pochi passi dal grande stupa dell'illuminazione, il più grande fatto costruire dal grande re, a Taxila. La notizia fece letteralmente il giro del mondo, suscitando nei più cordoglio e desiderio di commemorare il gran re. Da Antonino Pio ai figli del defunto Ban Yong, passando da Mitridate IV di Partia e dai regni Tamil dell'India meridionale.
Egli è forse il sovrano indiano più noto al mondo, e ancora adesso un mito in molti dei luoghi in cui ha regnato.
.
Rudradaman (134 – 150 d. C., Patala)
Gli ultimi anni di regno di Nambano furono decisamente concitati. Non ebbe infatti eredi maschi legittimi. Nel 128 decise di adottare come erede Tiastene, che sarebbe stato Tiastene II. Egli era governatore in Ozene delle provincie orientali del regno ed aveva dato prova di essere un valente generale. Durante una battaglia contro Vashishtiputra Satakarni, tuttavia, trovò la morte, nonostante l'esercito riportasse la vittoria. La corona, venne perciò reclamata da Rudradaman, altro generale che fermò il sovrano Satavahana, bramoso di approfittare del caos derivato dal vuoto di potere. La vittoria sfolgorante gli garantì che, alla fine, il consiglio dei 30 accettasse di concedergli il titolo di sovrano. Rudradaman fu un sovrano guerriero, impegnato per quasi tutta la durata del suo regno a lottare contro i Satavahana. Il declino dello storico impero del Deccan fu principalmente dovuto alle continue sconfitte subite in questo periodo, oltre ai mutamenti all'interno dei circuiti economici indiani e alle difficoltà interne. Nel frattempo, le navi di Patala andavano sempre più lontano, controllando gran parte dei traffici nell'oceano indiano, per quanto già in questo periodo si potesse assistere alla semi-indipendenza delle colonie fondate sulle coste africane, in particolare nella zona axumita, dove l'influsso della cultura etiope e di quella romana si facevano sentire in maniera molto forte. Ma il forte indebolimento dei Satavahana ebbe un effetto collaterale indesiderato. Le famiglie di funzionari che governavano per conto di Taxila la regione del Gange iniziarono ad accaparrarsi rendite fondiarie e possedimenti all'interno dei territori Andhra, senza che i Satavahana potessero farci più nulla. Di fatto questi clan indù del bassopiano gangetico si stavano costruendo una base di potere del tutto indipendente all'influenza dell'impero indo-greco, nonostante Kanishka ed i suoi successori, almeno per un po' di tempo, si premurassero di impedire l'ereditarietà delle cariche pubbliche. Mentre tuttavia Rudradaman era impegnato in guerre sul continente, le colonie indo-greche africane erano sempre più autonome. Il commercio con l'impero romano le arricchiva in maniera considerevole. La più prospera di tutte era senza dubbio Dioscoride. L'isola si era dotata di una propria flotta del tutto indipendente dalla madrepatria e si stava prendendo dei margini politici molto pericolosi. Tra le altre cose, motivo di preoccupazione era che l'isola trattava molto spesso con i romani senza informare Patala. Rudradaman era un uomo d'azione e non si curava con la dovuta attenzione di quelle che ai suoi occhi erano inutili liti tra uomini d'affari. Ma era un fatto che da Opone a Rapta, passando per i nuovi empori sull'isola Andriana, era l'autorità di Dioscoride ad essere tenuta in considerazione, prima che quella di Patala.
Ma che linguaggi venivano utilizzati nell'Africa Yavana? In realtà, è molto arduo fornire risposte. Al momento si hanno dubbi persino sulle lingue usate a Patala, per cui, a maggior ragione, per le sue colonie regnano confusione e supposizioni.
E' fuor di dubbio che, almeno nel corno d'Africa, vi fossero diverse lingue veicolari: innanzitutto il saurashteni prakrit, seguito dalla variante meridionale dello Yavana; subito dopo veniva il ge'ez, la lingua axumita. Piuttosto diffuso era anche l'egiziano. Probabilmente, vi erano anche numerosi utilizzatori di latino, anche se presumibilmente in maniera approssimativa. Infine, doveva essere molto usato anche il sabeo, portato dai mercanti della penisola arabica. Tutto questo senza, ovviamente, tenere conto dei dialetti locali. Se già, infatti, restano scarse testimonianze scritte, nella regione, delle lingue summenzionate, praticamente nulla ci viene tramandato nei linguaggi locali. E' lecito tuttavia supporre che fossero lingue cuscitiche.
L'autonomia politica di Dioscoride si rifletteva anche negli ambigui rapporti con il regno dei Parti. Infatti, sin dall'invasione romana, l'impero iranico era sostanzialmente diviso in due parti. L'incapacità di uno dei due contendenti di aver ragione dell'avversario era dovuta, in buona parte, anche ai buoni uffici dei due imperi, Yavana e Roma, che avevano tutto l'interesse a che la Partia rimanesse debole e divisa. Vologase III, che controllava la parte orientale, era informalmente soggetto a Kanishka. Mitridate IV, invece, che controllava la Mesopotamia, l'Armenia orientale e buona parte della Media era “protetto” dai romani. Patala commerciava indifferentemente con entrambi, per quanto, ligia alle direttive della capitale, il proprio favore andasse all'impero protetto dai romani. Il commercio con questi ultimi rappresentava infatti una più che rilevante voce di entrata del regno. Dioscoride, però, per scombinare le carte, aveva cominciato a mandare i propri mercanti nella città di Ormirzade, che, per quanto isolata, era nella “parte” controllata da Vologase III. La posizione della città era molto felice e presto divenne sede di un importante mercato. Che, però, rischiava di scombinare i percorsi carovanieri all'interno dell'Iran, e, di conseguenza, anche i passaggi di merci nel golfo Persico. In pratica, Dioscoride stava lavorando a favore di Kanishka, in particolare da quando era stata aperta la navigazione del Gange ed erano stati ricostruiti i porti in Gangaride.
Nei rapporti tra la città insulare e Taxila vi era un certo servilismo della prima verso la seconda. E a Kanishka, sempre in cerca di mezzi per diversificare le vie di accesso al suo regno (pur rimanendo attento a non tirare troppo la corda con Patala), la cosa non dispiaceva affatto.
Fu motivo di grande sollievo il fatto che fosse proprio il figlio di Mitridate, Vologase IV, ad unificare il regno. Kanishka nel 147 era piuttosto distante dalla politica. Sentendosi vicino alla morte, aveva adottato uno stile di vita monacale. Questo, secondo molti storici, giustifica il suo scarso impegno a che la situazione nell'impero partico rimanesse instabile, cercando di impedire una riunificazione.
.
Eracle III Huvishka (151 – 180 d. C. Taxila)
Quella di Eracle III fu
un'epoca di splendore. Il suo regno viene a tutti gli effetti considerato
l'apogeo dell'impero Yavana, ancor di più che non quello del suo illustre
predecessore. L'unico obiettivo che Kanis(h)ka non aveva ancora centrato divenne
il primo nell'agenda del nipote: la riunificazione dell'impero Yavana. La
campagna venne anticipata da quella che si può definire una battaglia
ideologica. Nelle iscrizioni, nei monumenti, si premurò sempre di mostrarsi come
erede di Menandro il grande, inventandosi anche un rapporto di parentela diretta
con gli eutidemidi. Viceversa, i successori di Rudradaman non avevano nulla che
conferisse loro alcun titolo per regnare a Patala. Erano, di fatto, degli
usurpatori.
Ma distruggere l'esercito meridionale non era un compito affatto facile, ed
Eracle non voleva affatto devastare le città che erano la principale porta del
suo regno sul mondo. Quello di cui si avvalse fu, essenzialmente, il tradimento.
Da tempo ormai le economie dei due regni erano strettamente interconnesse; per
quanto riguarda le differenze culturali, esse non rappresentavano più un
problema reale. Per molti aspetti era chiaro ai contemporanei che era il modello
imperiale-burocratico del nord ad essere vincente, rispetto al sistema
oligarchico del sud, incapace di controllare le proprie provincie in modo
coerente.
Una volta che Eracle III si guadagnò l'appoggio degli elementi di spicco delle oligarchie cittadine di Minnagara, Patala, Ozene e Barygaza, marciò nel 156 con un grande esercito alla volta Alessandria sull'Indo. La città gli aprì le porte. Poco dopo si comportò allo stesso modo Demetria. Più resistenza oppose la Surastene, terra di provenienza dei Tiastenidi, ma, alla fine, nel 160, con la conquista di Ozene, il regno indo-greco meridionale finì ufficialmente di esistere. L'esercito del regno del sud venne integrato in quello di Taxila e riorganizzato secondo il “sistema kanishkano” (a sua volta ispirato dalle legioni romane).
Ma quanto realmente era utile una conquista del sud? Da un punto di vista propagandistico, tale atto ebbe una profonda eco negli abitanti dell'impero Yavana. Ma, forse, tale conquista, guidata più che altro dalla voglia di prestigio e grandezza, costringeva i sovrani di Taxila ad affrontare un panorama geopolitico cui non erano avvezzi, oltre che alterare in una certa misura i consolidati equilibri di potere all'interno del regno.
Ad ogni buon conto, Eracle III trascorse ben 6 mesi a Patala, tra grandi festeggiamenti. Alla fine, però, tornò a Taxila. Non aveva alcuna intenzione di trasferire la capitale in un'altra città meno eccentrica rispetto al cuore geografico del suo impero.
Una volta portato a termine il suo piano, i venti anni che seguirono furono per Eracle di pace sostanziale. Anche se, in funesto parallelismo con l'impero romano, la pressione dei barbari delle steppe tornò a far sentire la propria voce, seppur in modo molto limitato.
Le sue attenzioni andavano soprattutto alla sottomissione formale dei regni del sud dell'india (Cola, Pandya e Chera) ed al potenziamento delle vocazioni marittime del suo impero.
Alla fine del suo regno si può tranquillamente dire che gran parte dell'India fosse sotto la sua influenza e pagasse tributi a Taxila. Dopo quelli di Kanis(h)ka con Alessandro Magno, i rimandi di Huvishka ad Asoka erano più che evidenti.
Altro compito che tenne molto impegnato il sovrano fu la sottomissione delle colonie africane. Le oligarchie di Dioscoride avevano infatti cercato di approfittare della caduta di Patala per ritagliarsi un impero talassocratico nelle colonie africane. Eracle, tuttavia, considerava le coste dell'oceano indiano come suo dominio non meno che la Patalene. Per ben due volte la flotta del grande sovrano venne sconfitta nel tentativo di prendere l'isola. Ma, alla fine, nel 168, Eracle entrò a Dioscoride e quello che veniva definito come il “regno dei pirati” dagli storici di corte a Taxila, venne smantellato.
Ma il sovrano, nel concentrarsi sull'India si curò poco della debolezza dei Parti e di quanto stava bollendo del calderone delle steppe. Anche i rapporti con la Cina si allentarono, mentre la dinastia Han andava incontro a sempre maggiori problemi: il potere era in mano agli eunuchi di palazzo e le crisi economiche avvicinavano sempre più lo spettro di pericolose rivolte.
Cosa stava accadendo nel nord?
Una nuova confederazione di tribù di ascendenza mongolica, i Senobati (o Xianbei, secondo le fonti cinesi) avevano sostituito gli Xiognu, come potenza egemone delle steppe orientali e intorno al 150 d.C avevano iniziato la loro espansione verso ovest. La prima vittima furono i gusci. Questi ultimi inviarono richieste di aiuto a Taxila, ma l'attacco fu talmente repentino che queste giunsero troppo tardi. Eracle, tutto preso dall'organizzazione della conquista del sud, inviò solo magri rinforzi per la difesa di Maracanda, Battria e Alessandria Eschate, dando l'ordine di assumere un atteggiamento difensivo anche qualora la nuova tribù avesse portato un attacco in forze ad Armalaca, la capitale della Getisia. La questione sembrò rientrare da sola, quando gli attacchi dei Senobati si rivolsero contro i cinesi; puntualmente, tuttavia, gli uscii vennero attaccati e sconfitti nel 166. Tre anni dopo, una volta distrutta Dioscoride, Eracle rivolse finalmente l'attenzione al nord, sconfiggendoli e riconquistando Armalaca. Gran parte della Getisia, tuttavia, rimase sotto il controllo dei nuovi venuti, che si rivelarono restii a farsi scacciare facilmente. Da quel momento, gli attacchi dei Senobati si ripeterono con una frequenza pressoché annuale, tanto che Eracle prese la decisione di annettere definitivamente la Getisia come satrapia dell'impero, per gestirne direttamente il sistema difensivo. Appena prima della morte di re Eracle, nel 177, i Senobati lanciarono un secondo grande attacco a lungo raggio, che investì Fergiana e Sogdiana, tanto che il regno perse la propria influenza su gran parte della valle dello Iassarte, perdendo così il controllo di una importantissima via verso ovest.
Interregno (180-189 d.C.)
Alla morte di Huvishka, vi fu un periodo di torbidi della durata di circa una decina di anni, del quale si conosce relativamente poco. Infatti Eracle IV Misdeo compì una vera e propria damnatio memoriae dei governanti di quel periodo, probabilmente per nascondere le prove di non discendere da Kanishka (oltre al fatto di eliminare i veri discendenti). Ciò di cui siamo al corrente è che i due figli adulti di Eracle premorirono al padre, lasciando solamente diversi bambini (tra cui, appunto, Misdeo, almeno ufficialmente). Di ciò approfittò il generale di origini barbare Tansivanio (Tan-shih-huai, nelle fonti cinesi) che offrì alla corte di Taxila di fermare le invasioni dei Senobati in cambio di un forte tributo. La reggenza, nelle mani di una delle consorti di Eracle III, la principessa straniera (tradizionalmente considerata cinese; nelle fonti viene chiamata, appunto, Xenia. Diversi storici, nell'ultimo secolo propendono tuttavia per una ascendenza senobate e non cinese. Per decenni si è sempre ipotizzato che l'accostamento con questo termine non fosse casuale, ma derivasse anche da un'assonanza con parte del nome reale della principessa, ossia Xian-. Anche perché “Xenia”, nell'indogreco, era un sostantivo arcaico e desueto; per esprimere il medesimo concetto sarebbe stato molto più probabile il nome Melechide o varianti simili. Nel '900, però, con l'affermarsi della 'ipotesi senobate', alcuni storici hanno ipotizzato che il vero segmento di nome della principessa Xenia non fosser 'Xian-', ma 'Shiyijian', denotando così una parentela con i Tuoba, che di lì a un paio di secoli avrebbero fondato la dinastia degli Wei settentrionali, che poi dominerà la Cina del nord per un secolo e mezzo. Questo spiegherebbe anche perché la tradizione la considera cinese, ossia il fatto che i cronisti yavana posteriori, complici i rapidi processi di sinizzazione di molte popolazioni mongole, avrebbero fatto fatica a discernere le varie origini delle dinastie nate dalla frammentazione dello stato Jin, ipotizzando che fossero tutte comunque cinesi. La maggior parte del mondo accademico, tuttavia, è convinta che sia troppo azzardato inferire un nome preciso dall'appellativo 'Xenia'. In più, l'ascesa dei Tuoba tra i vari clan senobati non ha testimonianze verificabili prima del IV secolo, il che renderebbe difficile indicare proprio loro come parenti della principessa in questione.), si rifiutò di ottemperare alla richiesta di Tanisvanio e organizzò un'armata per fronteggiarlo, venendo tuttavia sconfitta. Fuggì dunque in esilio per diversi anni presso Pratishtana, la capitale estiva del regno Satavahana. Xenia avrebbe negoziato con il loro sovrano Yajna Sri per la riconquista del trono in cambio della restituzione al regno indiano di diverse regioni sud-occidentali. Con i resti della famiglia reale in esilio, vi fu nel frattempo a Taxila e diverse altre città una feroce rivolta antinobiliare. Alcuni suggeriscono che tale rivolta non fosse altro che l'estensione verso ovest del grande fenomeno di ribellione dei “turbanti gialli” che stava sconvolgendo l'impero Han, se non per derivazione diretta, quantomeno per un processo di emulazione. Al contrario però di quanto accadeva in Cina, la rivolta in questo caso aveva un carattere legittimista, contro Tanisvanio e soprattutto contro i nobili e i generali che erano accusati di averlo “fatto entrare nel regno” e non averlo combattuto, un cavallo di Troia utilizzato per attuare un colpo di stato e deporre i figli dell'imperatore.
Xenia si servì di tale sollevazione per entrare a Ozene al seguito dell'esercito messole a disposizione da Yajna Sri, per poi ricreare un secondo esercito indogreco nelle regioni meridionali, questa volta assicurandosi che le fosse fedele, in nome del figlio Eracle IV. Dopo un inizio difficile, fu Xenia stessa a prendere il comando, sempre a quanto dicono i pochi testi tramandatici; la sua armata infine sconfisse Tanisvanio prima a Mathura, poi nei pressi di Arachosia, battaglia in cui il comandante barbaro venne catturato e giustiziato. In seguito agli scontri, vi fu un giro di vite particolarmente feroce contro diverse frange della nobiltà, in particolare di Taxila, Sagala e della Battria. Secondo una curiosa leggenda posteriore, Xenia si procurò con forti spese le reliquie del santo Tommaso con l'aiuto del re Yajna Sri, e le fece traslare a Minnagara, città in cui sarebbe esistita una comunità cristiana. In tale luogo sarebbero poi giunti i pellegrini che riportarono il corpo del santo a Edessa diversi decenni più tardi (anche se i cristiani di Minnagara tagliarono la mano che aveva toccato il costato di Cristo e la conservarono come reliquia).
Il resoconto storico ci mostra quanto la minaccia dei Senobati, trascurata da Eracle III, fosse divenuta pericolosa, soprattutto in concomitanza con una crisi dinastica. Desta però grande perplessità come tali eventi siano degenerati sino ad un vero e proprio colpo di stato, in particolare considerando il fatto che il regno godeva di un notevole livello di coesione interna e prosperità. Le correnti storiografiche si sono sempre alternate tra chi spiegava la questione cercando di individuare segni di crisi non registrati dalle fonti durante il regno di Eracle III e chi accresceva il peso dell'impatto della tentata invasione dei Senobati. Di recente, tuttavia, la tesi che va per la maggiore tende a porre l'accento su un incrocio di fattori esterni concomitanti, che comprendono sì i Senobati, ma anche il ritorno della potenza Satavahana, oltre che la crescente instabilità del regno partico e della dinastia Han. Tali fattori sommati insieme avrebbero portato ad una crisi economica grave e inaspettata nelle regioni settentrionali, tale da aprire le porte ad una rete trasversale di oppositori della corona , forse anche con timide spinte secessioniste.
Alcuni si spingono inoltre a sostenere che il fatto che il regno sia riuscito a superare vittoriosamente una crisi di così ampia portata senza crollare è testimonianza della sua vitalità, piuttosto che della sua fragilità. Sia come sia, l'unica figura che emerge brillantemente in questo periodo torbido è, paradossalmente, quella di una donna, per giunta straniera, che avrebbe fatto tanto da essere venerata come salvatrice dell'impero. Quanto sia reale questa figura o frutto di una costruzione agiografica posteriore (magari intrapresa dallo stesso Eracle IV) è però ancora oggetto di speculazione.
Albero ucronico delle lingue iraniche nordorientali
.
Eracle IV Misdeo (190-233 d.C)
Il nuovo sovrano Indo-greco, ebbe un regno lunghissimo, al pari di quello di Kanishka. Al contrario di quest'ultimo tuttavia, il suo sarà un dominio difficile, contrassegnato dall'aggravarsi della situazione ai confini e dall'emergere di continui focolai di crisi che metteranno a dura prova l'impero Yavana.
I suoi primi anni di governo, si presentarono comunque sotto ottimi auspici: dopo una attenta opera di riorganizzazione interna, i guadagni derivanti dal commercio marittimo vennero dirottati al ristabilimento dell'ordine e della sicurezza sulle grandi vie carovaniere del nord, oltre che ad una imponente opera di fortificazione dei confini e della costruzione di imponenti mura a difesa delle città (ancora adesso si possono ammirare le mura misdeiane di Alessandria Eschate e di Maracanda, oltre che al celebre “Vallo di Armalaca”, in Getisia). I Senobati, privi di una guida e nuovamente preda di conflitti interni tra tribù, vennero nuovamente sospinti oltre al banco settentrionale dello Iassarte, con l'aiuto di alcune tribù degli Alani come gli Uari. Con il senno del poi, ora sappiamo come l'assenza di un soggetto carismatico in grado di unificare in confederazione nuovamente le tribù della steppa per i successivi due secoli sia stato provvidenziale per la sopravvivenza degli imperi persiano, yavana e cinese durante il III-IV secolo.
In seguito a queste prime campagne, Misdeo comprese come il proprio impero fosse troppo decentralizzato, anche per via dei difficoltosi ostacoli naturali che separavano una satrapia (ormai era invalso tale termine per definire le provincie del regno) dall'altra. Mise perciò in atto un'imponente tentativo di centralizzazione, non solo giuridico, ma anche religioso e linguistico. Innanzitutto, riformò il codice alessandrino elaborato da Kanishka, imponendone l'utilizzo in ogni circostanza e abolendo la facoltà (decisamente abusata) di appellarsi al diritto consuetudinario in talune circostanze. In secondo luogo, impose una riduzione delle lingue con cui era permesso di parlare in tribunale (abbiamo testimonianze che sostengono come nell'area settentrionale del regno, oltre allo Yavana fosse ammesso solo il tocario di Battra e più raramente il sogdiano) e ad ogni modo, ogni sentenza sarebbe stata emessa solo ed esclusivamente in Iavanico. Era proprio il lato linguistico uno dei tre pilastri su cui, almeno nell'intenzione delle riforme di Eracle III, poggiava il possesso dei diritti di cittadinanza (gli altri due erano la base censitaria e l'ortodossia religiosa, come poi vedremo più avanti). Procedette inoltre ad una riorganizzazione del sistema delle Satrapie, imponendo ai governatori peraltro, di risiedere nel capoluogo, vietando la pratica di amministrare la regione dalla propria residenza di famiglia. Infine, novità più grande, riformò il sistema di reclutamento del personale amministrativo, instaurando non solo a Taxila, ma anche nelle altre città principali, il sistema dei concorsi, già importato dall'impero cinese. Infine, riorganizzò il sistema militare, troppo dipendente dalla fedeltà al proprio comandante e all'elargizione di terre per i servigi resi, dividendo in tre categorie l'esercito: le armate di confine, le armate a difesa delle strade e infine l'esercito di manovra. Non poteva saperlo, ma i romani avrebbero usato lo stesso criterio, da lì a nemmeno un secolo per riorganizzare le proprie legioni, differenziando tra limitanei e comitatenses. Inutile dire che l'effetto collaterale fu il medesimo, ossia il progressivo ampliamento del reclutamento di tribù “barbare” tra le fila delle armate confinarie.
Le satrapie così razionalizzate furono:
Getisia, capitale Armalaca (Yining, contea di Huocheng)
Fergiana, capitale Escazia (Alessandria Eschate)
Battria, capitale Battra
Sogdiana, capitale Bukhara
Corasmia, capitale Gordiania degli alani (Kunya-Urgench)
Margiana, capitale Margia, o Antiochia Margiana (Merv-Mary)
Paropamiside, capitale Aria, o Alessandria Ariana (Herat)
Arachosia, capitale Arachosia o Alessandria in Arachosia (Kandahar)
Caucaso Indico, capitale Kapisa (Bagram, Afghanistan, poco a nord di Kabul)
Gandhara, capitale Sagala (per dividere il governo della regione dalla capitale del regno) (Sialkot)
Sacastene, capitale Sigal
Paratene, capitale Rhambacia (Bela, Pakistan)
Confine Imao, capitale Aorno
Patalene, capitale Patala (Thatta)
Surastene, capitale Barygaza (Bharuch)
Indica, capitale Yavana, o Alessandria sull'Indo (Uch Sharif, nei pressi di Bahawalpur)
Ozene, capitale Ozene (Ujjain)
Abirene, capitale Alessandria di Abirene o Caniscapura (Fondata da Eracle III in onore del predecessore; Rohat, distretto di Pali, Rajasthan)
Maturene, capitale Mathura
Kosalene, capitale Kausambi (Allahabad)
Magadene, capitale Palibothra
Gangaride, capitale Tamralipta
Barbaria, capitale Opone
Azania, capita Rhapta
A ciò va aggiunta le Serindia, che non era una vera e propria satrapia, quanto piuttosto una serie di stati vassalli; ad ogni buon conto, il rappresentante militare di Taxila nella regione risiedeva a Kashgar.
A proposito di rappresentanze militari, in caso di guerra, i satrapi dovevano rispondere ad un capitano generale. Misdeo ne aveva disposti quattro:
il capitano generale del nord, che gestiva la situazione dei barbari al confine settentrionale, quindi di Corasmia, Fergiana, Sogdiana, Margiana, Getisia e Battriana;
il capitano generale dell'occidente, che sorvegliava la frontiera con i persiani, e che controllava, pertanto, Aracosia, Paropamiside, Sacastene e Paratene;
il capitano generale del meridione, che controllava i movimenti dei Satavahana, quindi la Patalene, l'Ozene, l'Abirene e la Surastene;
il capitano generale dell'India, che doveva difendere il dominio di Taxila sul corso del Gange (quindi Maturene, Magadene, Kosalene e Gangaride).
A ciò si aggiungevano, come detto, il capitano di Serindia, il cui compito era tenere sott'occhio i movimenti bellici provenienti eventualmente dalla Cina e più in generale dai nomadi orientali, e i comandanti generali della flotta, i cui comandi si trovavano a Dioscoride e Minnagara (un comandante di flotta si trovava anche a Tamralipta, ma obbediva al satrapo di Gangaride).
In più, Eracle IV aveva conferito a Purusapura il titolo di cittadella reale, dotandola di un imponente sistema di fortificazioni. L'idea del sovrano era di farne una fortezza imprendibile in cui rifugiarsi nel caso la capitale stessa venisse attaccata da forze ostili. Altre grandi opere fatte costruire da Misdeo furono tutta una serie di ponti e lavori stradali presso i passi Kilik e Mintaka, sulla grande strada carovaniera che da Taxila portava a Kashgar, oltre ad una serie di forti a guardia del tracciato, che dovettero essere una sfida ingegneristica non indifferente per l'epoca. Lavori simili vennero compiuti anche sul passo Khyber. Ciò indusse l'antica popolazione dei Comedi (O Kambojas, secondo le fonti indiane), che da secoli esercitava, in implicito accordo con i sovrani indo-greci, la 'tutela' del passo, a ribellarsi ferocemente. Dopo una campagna di ben tre anni, il generale Cadfise riuscì ad avere ragione dei popoli dei monti solo grazie ad un accordo con alcune tribù relativo alla gestione del passo stesso. Rimane il fatto che i comedi resistettero a qualsiasi tentativo di assimilazione, tanto da riuscire a preservare buona parte della propria cultura sino ad oggi (caratteristica che hanno in comune con un'altra storica spina nel fianco del regno Yavana, come il popolo montano dei balti).
Quella dei comedi non fu però l'unica, né la più grande ribellione 'popolare' contro il regno di Misdeo. La rivolta degli Abhira fu forse il conflitto più sanguinoso e più lungo che il regno dovette affrontare. Conseguenza diretta della campagna di centralizzazione inaugurata dal sovrano, oltre che dal più stretto controllo militare e, non ultimo, dal fatto che la nuova città di Caniscapura attirava nella regione un sempre maggior numero di forestieri, i clan indù degli altopiani iniziarono a dare segni di malcontento, probabilmente aggravati dal tentativo di Sri Yajna di Satavahana di mantenere la pressione sulle regioni di Ozene e Surastene. La goccia che fece traboccare il vaso fu però il tentativo di favorire eccessivamente il buddhismo nella regione, altro elemento della politica di Eracle IV. Secondo le Cronache di Patala, testo che meglio di altri descrive la storia del periodo, il titolo di generale dell'India divenne sinonimo di maledizione o sfortuna, in quanto “chi lo possedeva incontrava prima la furia dei barbari, poi la rabbia del re”. Chi riuscì a conseguire i maggiori risultati contro gli Abira fu il generale Argiunone, già satrapo della Magadene, il quale divenne famoso per aver costretto i nemici, con uno stratagemma ad attraversare il deserto di Thar, nel quale sarebbero rimasti intrappolati. Ciò nonostante, le periodiche rivolte degli abireni continuarono saltuariamente a scoppiare. Argiunone venne continuamente confermato nel suo ruolo di satrapo di Magadene e, in concomitanza, di capitano generale dell'India, tanto che i satrapi di Gangaride e Cosalene erano di fatto suoi sottoposti. Fece in modo, peraltro, di garantire al figlio Sirigutto (o Sri Gupta) ampi possedimenti (oltre a quelli già notevoli della famiglia, che aveva cominciato la propria scalata al potere ai tempi della conquista di Patalibothra da parte di Kanishka) anche in Cosalene e Maturene, anche se fallì nel convincere Eracle IV nel concedergli la successione al titolo di satrapo di Magadene e generale dell'India.
Come già anticipato, altro elemento del programma di riforme di Eracle IV, fu il tentativo di creare uniformità religiosa. In primo luogo spingendo per il buddhismo come religione di stato. Per fare ciò, naturalmente, Misdeo, personalmente seguace della corrente Sarvatisvada, promosse una visione del buddhismo stesso meno personale possibile e, soprattutto, come aderente al principio della “necessità di legge e ordine” (quindi ponendo molta enfasi nel vinaya) nel mondo terreno per raggiungere il nirvana, oltre che la valorizzazione del tema dell'anatta, ossia lo svuotamento del sé.
Logica conseguenza, la corrente theravada e tutte le altre correnti giudicate eterodosse, come la shtaviraveda e, soprattutto la nascente e sempre più popolare mahayana, verso cui vi era sempre stata una certa tolleranza, iniziarono a soffrire limitazioni e tentativi di prevaricazione. Questo ebbe l'importantissima conseguenza di creare una sorta di 'grande diaspora' di monaci mahayana lungo la via della seta. Nel nord della Cina già erano stati attivi missionari di origine indogreca e tocaria, su tutti il noto Lokaksema (Lóujiāchèn ), ma queste migrazioni ingrossarono a dismisura le fila delle comunità locali, contribuendo in misura massiccia alla diffusione del buddhismo in Estremo Oriente.
Anche le altre religioni, dopo secoli di tolleranza e sincretismo, iniziarono ad essere vessate e più o meno apertamente perseguitate.
La vittima principale fu il mazdeismo, abbastanza diffuso nelle regioni nord-occidentali e praticato in particolare in Corasmia, Sogdiana, Margiana e Sacastene. Naturalmente, il motivo di tanto accanimento era la forte gerarchizzazione dello zoroastrismo, oltre al fatto che il centro del culto si trovava in Persia, ossia in terra straniera e potenzialmente ostile. Non immune fu l'induismo, almeno in un primo momento, anche se l'esempio dell'Abirene fece tornare il sovrano sui propri passi. Anche il cristianesimo indiano ebbe i suoi primi martiri (per quanto derivati più dal clima di sospetto verso quella fede, piuttosto che per un ordine diretto del sovrano), complice anche il fatto che non si trattava ancora di una religione che potesse contare influenti gerarchie in grado di entrare nei gangli del potere, anche se, specie nel le città portuali del sud (il centro propulsivo del culto era a Minnagara) e in Sogdiana, diverse scuole cristiane iniziavano ad avere una discreta diffusione.
In particolare, era già intuibile nel cristianesimo indiano (poi chiamato, una volta cristallizzatosi nei secoli successivi, con il termine di 'Iavanesimo') una certa visione cristologica particolare, di tendenza duofisita, che vedeva (senza dubbio influenzata dal buddhismo) la perfezione della natura divina non presente da subito e completamente in Cristo all'atto della nascita. Essa sarebbe entrata nella sua pienezza dopo un percorso, quello dei trent'anni di vita privata, di purificazione e di continenza, culminati nell'atto del battesimo del Giordano. La passione e la morte di Gesù, nel cristianesimo indiano, sarebbero il sommo compimento del sacrificio del sé totale, attraverso cui liberare l'uomo incatenato al mondo mortale (non per niente, nei secoli successivi, nell'iconografia delle chiese indiane, l'inferno è spesso rappresentato proprio con la ruota del karma, che assume una valenza negativa) e attraverso cui avviene la suprema purificazione ascetica del figlio di Dio, che permette l'annullamento della natura umana in quella divina. In questo senso, l'invio dello Spirito Santo ai primi discepoli nella Pentecoste, rappresenterebbe il primo garante di essere parte del “mondo salvato”, tanto che il sacramento dell'unzione con l'olio santo avviene alla nascita, mentre il battesimo segna piuttosto l'ingresso all'età adulta, quindi viene fatto più tardi (da ciò deriva l'inesatta credenza occidentale secondo cui, sia nella Chiesa Apostolica Iavanica, sia nella Chiesa Iavano-cattolica, la Cresima e il Battesimo siano 'scambiate di posto').
Dopo un quindicennio tormentato, Eracle Misdeo, pensò di poter tirare un respiro di sollievo. Con l'Abirene pacificata e l'impero riorganizzato, la sua attenzione poté finalmente volgersi verso quello che era stato un suo grande cruccio, ossia l'indebolimento dell'impero cinese. Con la crescente instabilità a est, la sua preoccupazione era che le popolazioni delle steppe potessero approfittarne per ricreare una grande confederazione tribale, in grado di minacciare nuovamente le provincie settentrionali. Dalle fonti del periodo, sappiamo che il sovrano era terrorizzato all'idea che un nuovo 'Tansivanio' ricomparisse e rischiasse di compromettere tutto il suo lavoro.
Fu così che accolse con notevole preoccupazione la notizia che Yuan Shang e Yuan Xi, esponenti di una potente famiglia della Cina settentrionale e costretti all'esilio per via del generale Cao Cao, si erano alleati al popolo degli Uvani (Wuhuan). Tadone (Tadun), il loro capo, puntava, nemmeno troppo nascostamente, ad usare l'ambizione dei due per ricreare un grande impero delle steppe.
Per questo motivo, Eracle decise di inviare ambasciatori presso il generale Cao Cao, per formare eventualmente un'alleanza contro la minaccia di senobati e uvani.
Il protettore dell'ultimo imperatore Han, tuttavia, aveva ben altro a cui pensare, in quel momento, ossia eventuali attacchi provenienti da sud-ovest ad opera di Liu Bei o Liu Biao.
La leggenda, tramandata sia dalle cronache indo-greche, sia da quelle cinesi, narra di come Elione, l'emissario di Eracle IV inviato a Luoyang, venisse trattato in modo piuttosto sprezzante dai consiglieri di Cao Cao. A quel punto, però, lo stratega Guo Jia intimò a tutti silenzio e invitò Elione a elencare i vantaggi strategici di una azione tempestiva contro i barbari del nord. Appena quest'ultimo ebbe finito di parlare, irruppe nella sala lo stesso Cao Cao, a cui un pienamente persuaso Guo Jia ripeté le ragioni per cui un'azione contro Tadun fosse di primaria importanza in quel momento. Convinto dallo stratega, il generale cinese siglò così un'alleanza strategica con gli Yavana.
Eracle Misdeo fu più che soddisfatto del successo di Elione, anche se molto meno felice lo rendeva la promessa fatta dal suo rappresentante a Cao Cao di compiere concrete azioni di supporto da ovest.
"Da
Armalaca di Getisia il re inviò dunque lo stesso Elione presso le popolazioni
del grande fiume nel lontano nord.
Esse parlano ancor oggi una lingua incomprensibile e strana, eppure sostengono
di discendere dagli stessi padri dei tocari. Mentre questi ultimi decisero di
migrare verso sud in cerca di terre migliori, loro non si spostarono dalle terre
ancestrali.
Il generale li convinse a muoversi contro i senobati, che molte loro tribù
avevano sottomesse e rese schiave. In particolare una di esse, i chiantuli,
finita dopo molte peregrinazioni a confinare con il territorio degli uvani, alla
notizia che l'esercito del gran re degli Yavana si era alleato ai loro parenti
nell'ovest, fu presa da molta gioia e si sollevò come un sol uomo contro i
propri padroni.
Essi attaccarono poi gli stessi uvani, tanto che sire Caio decise di
ricompensarli lautamente.
Elione decise di stabilirsi in perpetuo nella capitale della Serica, per fungere
da nostro ambasciatore presso sire Caio in pace e in guerra. Molti dei chiantuli
che si erano stabiliti presso i confini della Serica gli serbarono eterna
gratitudine e finanche sottomissione. I nostri mercanti e religiosi, che in
quella città e nei dintorni si erano ormai stabiliti in gran numero, si
sentirono sollevati dall'avere un rappresentante del gran re presso di loro."
Questo testo, tratto dalla versione latina delle 'cronache di Armalaca', di Metragone (risalenti alla metà del IV secolo e principale fonte per questo periodo) spiega bene cosa sia accaduto: Elione andò ben aldilà del suo compito originario, tanto da diventare un punto di riferimento fondamentale nei rapporti diplomatici tra i due grandi imperi sedentari dell'Asia; in più, possiamo intravedere la prima citazione del popolo dei 'chiantuli', che le fonti cinesi chiameranno Jie. E' altresì importante notare che si invochi (per quanto non si sa se reale o per scopi utilitaristicamente geopolitici) una sorta di 'lontana parentela' tra loro e i tocari.
La sollevazione dei Chiantuli alle sue spalle mise Tadone in seria difficoltà; il colpo di grazia gli fu inferto dalle truppe di Cao Cao nella battaglia della montagna del lupo bianco, nel 207 d.C. Circa. Questo permise al regno di Wei di liberare forze per l'agognata offensiva verso sud, che, tuttavia, non ebbe per lui l'esito sperato, visto che venne sconfitto nella decisiva battaglia delle Scogliere Rosse dall'alleanza tra Sun Ce e Liu Bei e dal geniale stratega Zhou Yu, come viene ampiamente narrato nel romanzo dei tre regni. Ma è abbastanza interessante notare come il più grande capolavoro storico-narrativo dell'epoca, ancor oggi celeberrimo, citi tra le schiere di Cao Cao anche l'astuto generale dayuan Jie Jiong. Egli comandava una piccola, ma letale unità di arcieri a cavallo di stirpe barbara.
L'alleanza tra l'impero Yavana e quello che poi sarà il regno di Cao Wei verrà dunque cementata anche dalla partecipazione di contingenti militari (presumibilmente di etnia Jie/chiantula) occidentali alla guerra dei tre regni, per quanto sia dubitabile che tale contributo abbia condotto a significative influenze sul risultato del conflitto.
L'amicizia reciproca perdurerà anche dopo: Eracle Vasodeo invierà numerose ambasciate presso Luoyang anche dopo la morte di Cao Cao e il regno di suo figlio Cao Pi e suo nipote Cao Rui. Non solo, Cao Pi invierà diverse volte come ambasciatore presso gli Yavana uno dei suoi generali di punta, Sima Yi, prima a Kashgar (che informalmente era diventata da tempo la 'città della diplomazia', tra i due imperi), poi addirittura a Taxila. A sua volta, Sima Yi, spedirà i suoi due giovani figli maggiori, Sima Shi e Sima Zhao a studiare i Dayuan, come viene detto dalle fonti cinesi, i quali potranno così fare conoscenza con il vecchio Eracle II, cui non restavano che pochi anni di vita, ma, soprattutto, con il figlio, Vasishka (o Vasisco, secondo la dicitura latina). Metragone, in merito, ci racconta questo sulle rispettive personalità dei due fratelli che di lì a poco avrebbero guidato i destini della Cina:
Grande amicizia nacque tra il principe Vasisco e il nobile Sigiovanni (Ziyuan, nome di cortesia di Sima Shi). Essi infatti erano simili per portamento e carattere: eleganti, calmi, pacati e cortesi, per quanto assai astuti. Il fratello di Sirgiovanni, Sisciandone (Zishang, nome di cortesia di Sima Zhao), assomigliava piuttosto al grande Vasodeo: deciso e ferreo, mai disposto a fermarsi e tenace nel perseguire i suoi obiettivi, sino alla crudeltà, se necessario.
E' assai probabile che Cao Pi e Cao Rui, nominando i Sima come ambasciatori presso gli Yavana, avessero tentato di allontanare dalla capitale Luoyang dei generali ingombranti e scomodi. Pur tuttavia, se fallirono miseramente nell'evitare alla lunga un colpo di stato che esautorasse la loro famiglia dal potere a vantaggio dei Sima, riuscirono nell'intento di creare dei legami e delle reciproche influenze tra i due imperi come mai prima, nemmeno al tempo di Ban Yong e che, oltretutto, sarebbero (nel bene o nel male) durati nel tempo.
Prima di parlare di ciò, tuttavia, è necessario cambiare nuovamente palcoscenico. Perché gli ultimi venti anni di governo non cessarono di essere movimentati sul confine indiano. Se infatti la rivolta degli Abhira poté essere domata senza conseguenze su più vasta scala, fu il concomitante declino e, infine, crollo del grande rivale occidentale degli Yavana, l'impero Satavahana. Non sappiamo se Vasodeo abbia inizialmente salutato questa evoluzione come una buona notizia, ma, se mai l'abbia fatto, di certo si sarà presto ricreduto. Infatti la situazione di vuoto di potere nel Deccan centro-settentrionale permise la nascita di bellicosi epigoni, verso i quali l'impero Yavana non sapeva bene come comportarsi. Tanta responsabilità di tale – dannosa – indecisione si dovette proprio alla personalità di Eracle II, che non volle saperne di annettere direttamente quei territori. Di mentalità fortemente difensivista, timoroso di disperdere ulteriormente le già sparse forze del regno (come abbia fatto a convincersi dell'utilità di un ingerenza negli affari della Cina in effetti ha del sorprendente), rifiutò la proposta di una campagna di conquista dei principati sorti sulle ceneri dell'impero Satavahana, caldeggiata, piuttosto prevedibilmente, da un ancor giovane Sirigutto, probabilmente ansioso di accorparli ai suoi feudi personali. Non che ciò, per lo stesso ambizioso generale rappresentasse un problema: a suo modo espanse il proprio controllo in maniera autonoma dal potere centrale, guadagnandosi la fedeltà di numerosi principati minori. Storici successivi notano che nelle iscrizioni del 'Pilastro di Samudrone', che rappresentano un elenco celebrativo della dinastia dei Gutti, Argiunone viene definito raja, che tecnicamente significa 're' ma che può benissimo riferirsi al suo status di comandante o governatore. Mentre Sirigutto è Maharaja, 'gran re', che chiaramente denota la descrizione di uno status superiore. Come si considerava Sirigutto rispetto agli imperatori di Taxila? Un satrapo particolarmente influente? O qualcosa di ancora superiore, come un sovrano vassallo? O quello di Samudrone è un tentativo di nobilitazione postuma?
Per quanto ne sappiamo, fintanto che Eracle e Vasisco (o, secondo il suo nome imperiale, Cadfise V Vasisco) furono sovrani, Sirigutto si comportò da fedele governatore, senza dare troppe ragioni di sospetto a corte. Fu solo dopo che le ambizioni della famiglia portarono a qualcosa di più 'pericoloso'.
Ad ogni buon con conto, Vasodeo, che certo non era stupido, per impedire una eccessiva espansione territoriale dei Gutti e dei loro sottoposti in territori fuori dai confini imperiali, decise di garantire la propria protezione e uno status di vassallo (Maharaja, appunto) a una potente famiglia, i Vakataka. Questa azione aveva anche l'effetto collaterale di avere una solida linea difensiva anche nei confronti delle popolazioni guerriere del Deccan Nord-occidentale, che, tenute a freno sino a quel momento dai Satavahana, erano divenute sempre più libere di muoversi e pericolose. In particolare, l'Ozene, a partire dal 200 dopo Cristo, era regolarmente razziata dai Malavi, che oltretutto rendevano malsicure le strade tra questa regione e la Magadene. Ovviamente, il prezzo per i Vakataka sarebbe stato la garanzia di tolleranza religiosa nei confronti del buddismo, cosa che di buon grado accettarono (anzi, che presero sin troppo alla lettera, divenendo ricetto per molte scuole buddiste che nell'impero erano considerate eterodosse).
Infine, anche a ovest sorsero nuove problematiche: nell'impero partico, Ardashir della casa di Sasan espanse il suo controllo nella regione di Fars, per poi porre progressivamente tutto l'altopiano iranico sotto il proprio controllo. Lo Shah dei parti Artabano IV marciò contro di lui, ma nel 224, nella battaglia di Ormisdaghan, Aradshir lo sconfisse, prendendo il controllo di Ctesifonte nei due anni seguenti. Eracle II cercò di stabilire buoni rapporti di vicinato con il nuovo soggetto politico, anche se una delle grandi casate nobiliari partiche, la casa di Suren, in oriente, mise in guardia la corte di Taxila da eccessivo ottimismo. Ardashir, comunque, impegnato a ristabilire l'autorità persiana anche in Mesopotamia (a danno di governatorati locali semi-indipendenti e dell'impero romano) preferì accettare per il momento una linea morbida all'est.
Fu quando divenne chiaro che Ardashir aveva intenzione di imporre in maniera decisa lo zoroastrismo come religione di stato, perseguitando dunque cristiani e buddisti, che le relazioni tra Taxila e Ctesifonte presero una piega negativa. Vasodeo sviluppo l'intenzione di minacciare militarmente il nuovo regno sassanide, ma prima che potesse organizzare qualcosa di concreto, morì. Non particolarmente amante delle lettere e nemmeno noto per il suo mecenatismo artistico, fu però capace di consolidare grandemente il potere imperiale, scosso non poco da una serie di eventi potenzialmente distruttivi, lasciando al figlio Vasisco uno stato forte e saldo... almeno per il momento.
.
Cadfise V Vasisco (233 – 256 d.C.)
Il regno di Vasisco è di solito chiamato, dagli storici, 'la quiete prima della tempesta'. Le turbolenze che afflissero il regno di suo padre sembravano in gran parte risolte e, sia internamente, sia esternamente, la situazione era apparentemente stabile. In realtà al giro di boa di metà secolo, le problematiche, specialmente al confine persiano e nelle steppe sarebbero nuovamente riemerse. A dire il vero, si tende spesso a dimenticare che l'inizio del regno di Cadfise Vasisco non fu meno turbolento di quello del padre. La situazione nell'altopiano iranico non era particolarmente rassicurante, viste le chiare velleità espansionistiche dei Sassanidi. A Taxila giunsero notizie vaghe e confuse dei successi di Ardashir in occidente, che, probabilmente, furono ingigantiti o quantomeno, considerati maggiori di quanto effettivamente non fossero. Sia come sia, quando Shapur, figlio di Ardashir, si mosse verso oriente per abbattere le resistenze delle popolazioni delle montagne caspiche orientali, Vasisco si convinse che fosse meglio militarizzare maggiormente il confine nord – occidentale. Conferì l'incarico di capitano generale del nord ad Attacio, comandante di origine alanica, il quale – e del resto non era una novità – favorì l'immissione nei ranghi dell'esercito di suoi compatrioti. Che gli alani fossero rinomati per le loro doti guerresche era un fatto noto da tempo e sin dai tempi di Kanishka era cominciata la loro progressiva sedentarizzazione, all'ombra degli avamposti militari fondati dall'impero lungo il tratto della via della seta a occidente di Sogdiana e Battriana, nel pieno delle grandi steppe. Così era nata e si era sviluppata, per esempio, Gordiana degli alani (anche se 'Gordiana' è una impropria resa latina per assonanza con la città anatolica di Gordio: originariamente doveva chiamarsi 'Menandria', poi però dai clan alanici fu chiamata sempre più sovente '[città degli] abitanti dei monti', intendendo con questa definizione i popoli dell'impero yavana e dell'impero partico, in contrapposizione con loro, 'abitanti delle pianure'; quindi, approssimativamente, 'Gorania' o 'Goriana'). Ciò non voleva comunque significare che tutte le tribù della confederazione alana fossero o, tanto meno, si considerassero suddite dell'impero di Taxila, anzi. Inutile dire che la decisione di Vasisco fu accolta in maniera decisamente fredda da sogdiani e tocari, che si sentivano minacciati dalla progressiva integrazione e dall'ascesa politica di questo nuovo gruppo etnico. Eppure il nuovo sovrano si mostrava in questo particolarmente lungimirante: gli alani, fossero essi sedentarizzati o ligi alle loro tradizioni seminomadi, dimoravano in un una posizione strategicamente fondamentale e la loro sottomissione, o, quantomeno, alleanza, era imprescindibile. Le loro terre erano infatti attraversate dalla cosiddetta 'via settentrionale', sviluppata ai tempi di Kanishka collegare Yavana e Roma senza passare dal territorio dei parti. L'aumento del volume di affari su quel tratto era direttamente proporzionale alla sicurezza che i mercanti percepivano nell'attraversarla. Potenzialmente, un suo ulteriore rafforzamento avrebbe potuto vibrare un colpo molto pesante all'economia persiana, anche perché l'apertura del canale traianeo in Egitto a metà del II secolo già aveva contribuito alla riduzione del commercio nel golfo Persico. Paradossalmente, fu involontariamente lo stesso impero Yavana a far perdurare anche dopo l'apertura del collegamento marittimo tra Mediterraneo e Mar Rosso, l'importanza delle vie che attraversavano la Persia. Nessun sovrano Partico, infatti, da Vologase IV in poi, riuscì nell'intento di revocare lo status di particolare autonomia – soprattutto fiscale – del porto di Ormirzade, proprio per via delle pressioni in merito dei successori di Kanishka. L'esistenza di questo porto franco di fatto preservò il grande valore economico della tratta marittima Charax/Maysan – Hatta – Ormirzade – Minnagara. Da quest'ultima si poteva scegliere poi se affrontare la via fluviale verso Patala e da lì a Demetria e poi Yavana (nome con cui era ormai da tempo chiamata Alessandria sull'Indo), da cui si giungeva infine via terra a Taxila, Sagala e Purusapura; oppure andare verso Barygaza e da lì verso Muziris e Karur, all'epoca sotto la dinastia Kalabhra.
Lo sviluppo della via settentrionale stava, inoltre, acquisendo un certo peso anche presso il suo termine occidentale, vale a dire nelle pianure a nord del Mar Nero. Dominavano quella ragione diversi regni semitribali del popolo dei Sarmati (di stirpe iranica affine agli alani), che erano ben noti anche all'impero romano. La crescente ricchezza commerciale di quei sovrani, tuttavia, aveva attirato le migrazioni (piuttosto ampie, dal punto di vista demografico), da nord-ovest, di diversi clan germanici. Il contatto tra questi ultimi, i nativi sarmati e i continui contatti economici e politici con la frontiera imperiale romana in Dacia stava plasmando l'identità di un nuovo popolo, di lingua germanica, ma con numerosi aspetti culturali tipici delle popolazioni iraniche, vale a dire i goti. Tale mutamento non passò inosservato ai romani, che cercarono di farsi amiche e alleate le nuove tribù dominatrici dell'area. Errore forse fatale fu non aver tentato per tempo, da parte romana, una maggior penetrazione militare e politica nell'area, se non la soppressione del regno cliente di Bosforo Cimmerio e la sua ristrutturazione in provincia imperiale (Cimmeria, appunto).
Da questi dati emerge dunque con chiarezza che per quanto il 'problema alano' fosse apparentemente di natura locale, in realtà aveva un'eco di vastissima portata. E' forse da leggersi in questa ottica l'interesse mostrato da Shapur verso i confini orientali e nord-orientali del suo impero. Probabilmente il nuovo sovrano persiano aveva intuito la necessità di impedire che la via settentrionale raggiungesse il massimo della sua operatività, oltre che toglierla, se possibile, al controllo dell'impero iavanico e dei popoli ad esso vassalli. Prima di tentare l'arma del confronto militare diretto, il sovrano sassanide preferì utilizzare l'arma della corruzione. Mentre, stranamente, il nostro cronista di riferimento, Metragone, tace di questi avvenimenti, abbiamo un interessante resoconto su cosa avvenne nel Rotolo di Surenio, importante fonte monastica del V secolo; essa non è precipuamente storica e solitamente narra solo incidentalmente di fatti ed eventi, tranne quando contribuiscono ad un insegnamento di vita (che è il fine dell'opera), come in questo caso:
Sapore inviò dunque con grande celerità alcuni dei suoi più fidi generali presso le tende del re degli alani, aizzandolo a saccheggiare la Corasmia e riprendersi le terre che a lui appartenevano e che erano finite sotto il nostro giogo - il che è una menzogna, dacché lo stesso re dei persiani sapeva che molte tribù si erano sottomesse volontariamente al nostro impero sin dai tempi di Alessandro Canisca per non vivere più nella povertà. Ma i malevoli ambasciatori di Sapore tanto dissero e tanto fecero, da sollevare come un sol uomo gli alani. Sapore poi si mosse verso settentrione, sicuro di ottenere quel giorno la vittoria sul campo, forte del tradimento e delle spudorate falsità con cui aveva avvelenato quelle genti. Non aveva tenuto però in calcolo i sogdiani. Da tempo infatti, le genti della Sogdiana mal sopportavano l'arroganza degli alani, a malapena tenuta a freno dai nostri governatori. I sogdiani e i cusciani di Fergiana, del resto, nemmeno fidavano molto nel generale Attacio, ché questi era anch'esso di origine alana. Motivo per il quale, inviarono messi presso i Chioniti, popolo guerriero che stava a nord ovest del grande lago Bugone. A essi chiesero di scacciare per loro gli alani dalle loro terre, dalla Osdroene, dalla Margiana e dalla Corasmia, fin nelle loro terre sulle sponde del lago Ossiano, ché erano stanchi dei loro modi. Sui modi e sul compenso, sorse però dissidio tra sogdiani da una parte e cusciani e tocari dall'altra. I secondi infatti ammonivano i primi di non menare eccessivo sterminio tra gli alani, poiché altrimenti nulla avrebbe poi impedito ai chioniti di comportarsi esattamente allo stesso loro modo, da padroni, in maniera tracotante e bruta. I sogdiani, con la loro solita lingua svelta di mercanti, risero di ciò, poiché pensavano che i tocari e i cusciani così dicessero perché anticamente anch'essi erano stati considerati rozzi e barbari, mentre ora uno di loro sedeva sul trono di Menandro il grande.
Non sappiamo se veramente ciò accadde o si tratta solo di una novella con intento moraleggiante; tuttavia, Surenio ci da' notevole testimonianza della prima apparizione sulla scena del popolo dei chioniti, che saranno protagonisti durante il IV e V secolo. Non solo, ci permette di gettare luce sulle fratture e sui delicati equilibri etnici in atto in quel periodo nelle vallate dell'Asia centrale. Il monaco ovviamente conclude sostenendo che i chioniti fecero quello per cui erano stato chiamati e vennero lautamente ricompensati. Pur tuttavia i sogdiani si resero amaramente conto, come i i tocari avevano sostenuto, che i nuovi barbari erano anche peggio dei vecchi.
Ad alcuni storici contemporanei pare molto insolito un iniziale atteggiamento così 'indiretto' da parte di Shapur, noto per aver resistito più e più volte ai romani in battaglie campali e aver creato una serie di notevoli monumenti al preciso scopo di ricordare tali sforzi. Forse però è semplicemente questo, il punto: Roma. E' ampiamente possibile che il sovrano sassanide avesse deciso semplicemente di saggiare la situazione a est. Se gli Yavana avessero mostrato debolezza, non avrebbe esitato ad organizzare una campagna militare meglio organizzata, con lo scopo di portare il controllo persiano sulle valli dell'Asia centrale e, con esso, 'tagliare' definitivamente le prospettive di crescita della via settentrionale (imponendo, per esempio, pesanti dazi sul transito) . Ad ogni modo era chiaro, con questa prima interferenza, che una resa dei conti tra i due imperi sarebbe stata solo questione di tempo.
Del resto, se dobbiamo credere al testo riportato, in fondo Shapur aveva comunque raggiunto, almeno parzialmente, il suo scopo iniziale, ovvero aumentare l'instabilità dell'area, costringendo Taxila a sprecare tempo e risorse per riportare l'ordine.
Più dilemmi poneva a Shapur il comportamento da tenere nei confronti della città di Ormirzade e dell'ambiguo doppiogiochismo del casato di Suren, che tendeva a mantenere una politica di (eccessivo?) buon vicinato con gli Yavana. Abbiamo testimonianza di diversi screzi tra lo Shah e il marzban della città (che, guarda caso, era un Surena), che chiaramente lasciando intendere la volontà di porla sotto un maggiore controllo. D'altra parte però si ha la chiara impressione che allo stesso tempo Shapur non voglia mai forzare eccessivamente la mano o provocare (prima di essere pronto?) la reazione yavanica.
Il secondo, annoso problema,
a cui dovette mettere mano Vasisco durante il suo regno, fu una nuova
riorganizzazione degli empori africani.
Già dopo la morte di Traiano, gli imperatori successivi (tranne forse Settimio
Severo) rinunciarono al dominio sull'Arabia Felix meridionale, limitandosi a
controllare alcune città mercantili sulla costa. I romani si accontentarono ben
presto di una sottomissione del tutto formale in qualità di regni clienti dei
potentati della regione. Più convinto e duraturo fu l'impegno dell'impero a
mantenere il possesso dell'Etiopia aksumita, con anche diversi tentativi, per
quanto non del tutto riusciti, di estendere il controllo romano anche sulla
parte settentrionale dell'acrocoro. Particolarmente importanti furono le opere
di fortificazione le cui rovine si possono ancora vedere sulle sponde del lago
Tana.
Dopo la morte di Alessandro Severo, tuttavia, le due legioni XXXI Ulpia Ethiopica e XXXII Ulpia Felix effettuarono il ritiro dai forti costruiti oltre il fiume Tacasium, de facto rendendolo il confine meridionale della provincia di Ethiopia, anche se l'influenza romana si fece sentire ancora per molto tempo ed ebbe ricadute a lungo termine, sull'altopiano. La capitale, da Acusum, venne trasferita al grande porto di Adulis, sicuramente più funzionale agli interessi romani. Probabilmente in altri momenti della storia dell'impero, Roma avrebbe pensato di organizzare una campagna di conquista a danno della principale potenza rimasta nella prospiciente Arabia del sud-ovest, il regno di Omeria, vale a dire Himyar, che nel frattempo aveva assorbito anche i limitrofi regni di Saba, Qataban e Hadhramawt. Oltre ad Aden, il principale porto del regno, esso aveva anche stabilito una serie di avamposti commerciali nella 'zona di mezzo' tra la costa dell'Ethiopia romana e la satrapia yavanica di Βάρβαρια. Nonostante Vasodeo avesse grandemente limitato l'autonomia amministrativa di Dioscoride (che addirittura venne da lui distrutta, per esserglisi ribellata, ma che venne ricostruita già negli anni immediatamente successivi), la satrapia restava troppo separata dal corpo centrale dell'impero per non avere tendenze autonomiste, che altrettanto opportunamente erano alimentate dai mercanti arabi che ne costituivano de facto l'oligarchia dominante; motivo per il quale Vasisco decise di unire i proverbiali 'due piccioni con un fava' inviando in maniera massiccia sulle coste della Barbaria coloni... Alani. La soppressione dei ribelli in Corasmia passò dunque da un trasferimento coatto di popolazione dall'altro capo (quasi letteralmente) dell'impero. Compito dei nuovi abitanti sarebbe stato, più che creare nuovi empori commerciali sulla costa, presidi militari per controllare le tribù cuscitiche dell'interno, sempre pronte a portare attacchi a scopo di saccheggio, oltre che a creare una forza militare tale da scoraggiare strane idee del regno Himyarita. Ma la preoccupazione maggiore, relativamente a quest'ultimo, era una sua eventuale alleanza con i Sassanidi. Shapur, infatti, dopo aver intrapreso una serie di campagne di conquista e sottomissione nel cosiddetto Mazun, vale a dire l'Arabia orientale antistante alle coste persiane, iniziò ad inviare messi ad Aden e Zafar, la capitale del regno, per indurlo a prendere parte attivamente ad una politica di sostanziale pirateria tale da bloccare il transito di qualsiasi nave mercantile romana oltre gli stretti del Mare Eritreo. E, viceversa, limitare anche il flusso inverso, dall'impero Yavana verso Myos Ormos. Nonostante al regno arabo facesse senz'altro gola la prospettiva di monopolizzare le rotte marittime tra Egitto ed India (come del resto i mercanti arabi avevano fatto per secoli, prima dell'avvento della marineria Yavana e poi dell'apertura del canale Traianeo), re Dhamar (conosciamo solo il suo nome personale, senza numerali, patronimici o nomi di famiglia o tribù) inizialmente fece fredda accoglienza alla prospettiva di mettersi contro sia i romani di Adulis, sia gli Yavana di Opone e Dioscoride. Anche dal punto di vista religioso, nonostante la diffusione di monaci e monasteri buddhisti e templi mazdeisti, stette ben attento a non favorire mai troppo né una religione, né l'altra. Anzi, da ciò deriva la credenza che l'origine della presenza cristiana e giudaica in Arabia sud-occidentale si dovesse alla decisione del re di favorire religioni che – perlomeno in quel momento – ancora non avevano posizioni ufficiali in nessuno dei tre grandi imperi. Shapur non reagì immediatamente attraverso l'utilizzo della forza come ritorsione, ma il semi indipendente marzban del Mazun, Oshag di Hagar, iniziò a provocare periodiche scorrerie verso sud-ovest, allo scopo di mettere costante pressione sull'Himyar.
Non sappiamo se lo Shah lo sperasse, allo scopo di avere un ulteriore casus belli, ma Dhamar, piuttosto che gettarsi tra le braccia della Persia, preferì siglare una alleanza con gli Yavana. Anche in questo caso, Vasisco pensò di inviare al sovrano arabo un corpo scelto di cavalieri alani come supporto militare. E' in questo clima da vera e propria guerra fredda del mondo antico, che venne prodotta una delle (forse la) più grandi opere letterarie della storia dell'impero Yavana, da parte di un certo Rasenio di Dioscoride, 'l'Alanica'. A metà tra una cronaca storica, un componimento epico, un racconto odeporico e una (tragi)commedia, l'Alanica racconta delle mirabolanti avventure di una compagnia di – inizialmente piuttosto ingenui e smargiassi - cavalieri alani catapultati in Barbaria. Al di là dell'intrinseca portata dal punto di vista culturale, l'opera ci descrive, pur attraverso semplificazioni macchiettistiche (il mercante arabo ossessionato dal profitto, i romani sbruffoni che si atteggiano a saggi, per poi rivelarsi molto ignoranti, gli etiopi apparentemente espansivi e generosi, ma in realtà assai astuti, gli yavana aristocratici e snob e i dioscoridei che cercano malamente di imitare i loro modi, i persiani che adorano apparire sfuggenti e misteriosi, spesso fallendo e risultando patetici nel tentativo, i surastenici cinici, rozzi e grandi bevitori... e così via), un mondo vibrante, multietnico e variegato, oltre che pieno di intrighi.
Per tutti gli anni '40 e 50 del III secolo, vi fu dunque una serie di botta e risposta militari nella regione di Mahra, tra Himyariti da un lato e Mazuniti dall'altra, una vera e propria guerra per procura a bassa intensità tra Sassanidi e Yavana. Un duro colpo fu però messo a segno, a quanto pare, nel 254 o 255, quando gli Himyar distrussero completamente 'Iram dalle alte colonne' (città di cui ancora adesso non conosciamo l'ubicazione; molte rovine sono state di volta in volta ad essa associate), uno dei principali centri delle vie carovaniere terrestri che attraversavano l'Arabia meridionale. Dovette trattarsi di un successo strategico notevole, in quanto il controllo del commercio dell'olibano o franchincenso, prodotto desideratissimo dai romani, sfuggiva così dalle mani dei persiani.
A distanza di secoli, questo evento bellico fu ammantato di significati religiosi, in quanto diverse scuole giudaico-cristiane arabe la considerarono una punizione divina calata sulla città per i suoi peccati, in maniera non dissimile da altri casi presenti all'interno della Bibbia (da cui sicuramente è stata presa ispirazione):
Non hai
visto come il tuo Signore ha trattato gli ‘Ad?
e Iram dall'alta colonna,
senza eguali tra le contrade,
e i Thamùd che scavavano la roccia nella vallata
e Faraone, quello dei pali?
[Tutti] costoro furono ribelli nel mondo
e seminarono la corruzione,
e il tuo Signore calò su di loro la frusta del castigo.
Mentre accadeva tutto questo, però Vasisco fu anche costretto a prendere decisioni piuttosto gravi anche per quanto riguarda il rapporto del suo impero con la Cina. Era infatti ormai piuttosto chiaro che i Sima erano in tutto intenzionati a spodestare la famiglia reale Wei (i Cao) e prendere il potere direttamente nelle loro mani. Da un lato, diversi ambasciatori del popolo dei chiantuli si appellarono piuttosto preoccupati a Vasisco: i Sima cercavano attivamente di reclutare immigrati dalle popolazioni non siniche a settentrione del regno di Cao Wei, il che dava loro opportunità, ma era anche vero che sembravano elargire i propri favori a diversi clan di uvani e senobati da cui temevano di essere progressivamente rimpiazzati. L'imperatrice reggente Mingyuan tra l'altro, stava cercando di legare a sé i capi delle famiglie di chiantuli residenti a Luoyang come 'forza mercenaria' per tenere a bada il controllo dei fratelli Sima sulla capitale. Vasisco però era anche personalmente legato da una grande amicizia con Sima Shi (anche se probabilmente molto meno con suo fratello Sima Zhao). I rapporti personali, dunque, andavano a cozzare con i suoi interessi da sovrano.
Alla fine, a quanto ne sappiamo dalle fonti cinesi, i primi prevalsero sui secondi:
Il 王自立 ['wangzili', ossia 're dalla forza interiore', probabilmente una traslitterazione di 'vaosileo', il titolo che portavano i sovrani Yavana] dei Dayuan mandò segretamente un messaggio a 所吞 ['Suotun', probabilmente intendendo un nome piuttosto ricorrente nell'onomastica chiantula, citato nelle fonti yavaniche e reso all'occidentale con Chestunio, Sotuleo o Chisoto. In originale doveva suonare 'Xotun' o forse 'Xotulet', ossia 'Lupo d'inverno'], signore dei Jie, in cui lo ammoniva di stare il più lontano possibile dalla imperatrice reggente. Infatti, i Dayuan pensavano non vi fosse nulla da guadagnare dall'entrare in conflitto con Sima Shi e Sima Zhao. Il wangzili, dopo lungo meditare, si era infatti convinto dell'inevitabilità della loro ascesa al titolo imperiale e che quella di Cao Mao fosse una causa persa.
I fatti gli diedero sostanzialmente ragione, anche se Vasisco non visse abbastanza a lungo per accertarsene, visto che morì nel 256, l'anno seguente alla morte dell'amico Sima Shi, lasciando a Sima Zhao il compito di portare a termine l'usurpazione a danno dei Cao.
Anche se il regno di Vasisco fu piuttosto lungo e glorioso, spesso si tende a sottovalutarne gli indubbi meriti. Senza dubbio fu un diplomatico ed un amministratore più abile del padre e probabilmente le riforme dell'impero ideate da Vasodeo sarebbero finite in un nulla di fatto, senza le sue capacità gestionali. Il fatto che non si trovò costretto molto spesso a dispiegare le proprie forze militari da alcuni è ascritto semplicemente alla fortuna maggiore rispetto al padre, da altri si dovette alle sue astuzie politiche. Inoltre, Vasodeo si può considerare un grande mecenate della letteratura e delle arti, cosa che il padre non fu mai. Eppure, gli storici tendono, forse troppo influenzati dal senno di poi, a ricercare con minuzia nel suo governo falle, difetti o segni di decadenza. La verità è che dell'instabilità interna della seconda parte del III secolo (e men che meno dei conflitti esterni del IV secolo) Semplicemente non gli si può attribuire alcuna responsabilità evidente.
.
Canischio II (256 – 270 d.C.) e Interregno di Sirigutto (270 – 280ca. d.C.)
Dopo due sovrani particolarmente forti dal punti di vista caratteriale e in
grado di ampliare la sfera di influenza dell'impero Yavana, Canischio viene
piuttosto unanimemente dipinto come un sovrano debole. L'autonomia dei satrapi
aumentò e il potere centrale nulla fece per arginare questa tendenza. Anzi, le
diverse fazioni della corte si alleavano a questo o a quel comandante, con
l'obiettivo di avere più forza militare dell'avversario politico. Chi stesse
usando chi, se l'aristocrazia burocratica della capitale o quella militare delle
satrapie è difficile da stabilire. Certo è che i giochi di fazione erano intensi
e il sovrano, inconsapevole o, forse, divertito da quella gara per ottenere
favori, si prestava di buon grado alla girandola degli onori, conferendone o
togliendone a seconda del gusto personale e dell'umore del momento.
Chiaramente, questo contesto è quello che ci viene descritto da Metragone,
Siricacio e Asinio, ossia i tre autori (in ordine di vicinanza temporale) che
descrivono nelle proprie opere storiche il periodo in questione e non è detto
che sia una raffigurazione veridica. Il dubbio legittimo viene dal fatto che
essa riprende in modo piuttosto pedissequo molti topoi della letteratura storica
(specie cinese) quando si deve rappresentare uno stato di decadenza del regno.
E' dunque piuttosto verosimile credere che la narrazione sia condita di un
intento moralistico, teso a giustificare con il declino morale della corte la
fase di decadenza in cui entrò l'impero.
Ad ogni buon conto, stando alle sopraddette fonti, durante il regno di Canischio
II, i destini dell'impero erano in mano a cinque grandi personaggi:
Gorebano di Battria, Miracolo il Chionita, Sirigutto, Darmeone di Sagala,
Zansera di Patala.
Ognuno di essi rappresentava gli interessi di un ceto o di un'area dell'impero e
ironia vuole, ognuno di essi era di etnia diversa e praticava una diversa
religione: Gorebano era di origine alana e nel mondo latino si sarebbe detto di
lui che era un 'uomo nuovo'; nonostante ciò, rappresentava l'aristocrazia civile
di ascendenza tocaria, oltre che il ceto mercantile del nord, sogdiano e
battriano. Religiosamente era eterodosso, visto che era Mahayana, corrente
buddhista, che malgrado le limitazioni e le persecuzioni (invero intermittenti;
già Vasisco si era mostrato molto più riluttante del padre a imporre
l'ortodossia – chiamata Adeshavada, ma che i Mahayana chiamavano piuttosto
sprezzantemente Hinayana, accomunandola in ciò al buddhismo Theravada – con la
forza e con Canischio questi sforzi erano praticamente cessati) del governo
centrale, nelle regioni del nord era divenuta di fatto maggioritaria.
Miracolo era un barbaro, per la precisione un, come già detto, chionita. Su chi
o cosa i chioniti fossero, all'epoca vi era una certa confusione (che non fece
che accrescersi nei secoli successivi).
Asinio, che pure è un autore della metà del V secolo, ne da', probabilmente, la
descrizione più approfondita (che da una parte è avvantaggiata dal senno di poi,
dall'altra forse trae da alcune fonti anteriori per noi perdute), anche se agli
storici il suo scritto fornisce più domande che risposte.
Negli anni del grande Vasisco, le tribù degli alani
vennero a lite e contesa. Vi era infatti dissenso tra chi riteneva buono e
desiderabile sottomettersi al Vaosileo degli Yavana e diventare gente di città,
come i tocari e i cusciani prima di loro e chi, al contrario, riteneva tutto ciò
un tradimento alle antiche usanze. Questi ultimi, sebbene prodi guerrieri
induriti da molte battaglie, erano una minoranza, poiché i più anelavano a una
vita di agi e ricchezze. Vennero dunque scacciati dagli altri verso le aspre
terre del nord, tra il mare Ossiano e il lago Bugone. La durezza del clima li
indurì ancor di più e divennero forti e indomiti a cavallo. La maggiore delle
tribù che presero questa via fu quella degli Uari o Unari, che in tempi
successivi verrà chiamata degli Unna. Ad essi si aggiunsero man mano tribù di
Senobati in fuga dall'oriente, come i Gavocci, i Tigliani e i Dinghili. Ai tempi
del corrotto Canischio II, gli Unna erano divenuti grandi e temuti. Essi si
divisero in quattro schiere, secondo i quattro estremi del loro territorio. Al
nord vi erano i Chidariti, che andavano in guerra portando un vessillo del
colore del sangue; a ovest vi erano gli Eftaliti, che invece recavano con sé un
vessillo bianco; a sud i Chioniti, che portavano bandiere nere; infine a oriente
vi erano gli Alconi, con le loro bandiere blu. Al tempo nostro essi hanno mutato
dimora, per cui vi è confusione sui luoghi cardinali in cui in origine
abitavano, tanto che sia i Chidariti e gli Alconi sono ora chiamati Unna del
sud, ma al tempo di Canischio così erano spartiti. Di tutti, i Chioniti furono i
primi a dimorare nelle terre di Battria e lì offrire i propri servigi di
guerrieri ai signori Yavana, ignoranti della sete di conquista degli Unna e
ammorbiditi dal lusso. Il primo di questi capi fu Miracula, che ai tempi di re
Canischio divenne potente e temuto comandante.
Cosa è 'ricostruzione' più o meno fantasiosa di Asinio il ruranide e cosa
corrisponda al vero è estremamente difficile da stabilire: la separazione sulla
base dei quattro punti cardinali è chiaramente un artificio letterario, peraltro
di origine cinese (l'abbinamento dei popoli ai punti cardinali e di questi
ultimi a dei colori è un elemento piuttosto ricorrente nell'epica e nella
mitologia sinica). Anche il fatto che Eftaliti, Chioniti, Alchoni e Kidariti
siano sottogruppi degli Unni, come lui afferma, non è così semplice da
stabilire; è piuttosto probabile che almeno alcuni termini non siano che
sinonimi o traslitterazioni diverse dello stesso etnonimo (mentre Kidariti e
Eftaliti paiono effettivamente tribù diverse, Chioniti e Alchoni potrebbero, per
esempio, essere la medesima cosa e, a loro volta, entrambi i termini potrebbero
non indicare delle tribù precise, ma essere sinonimo del generico 'Unni').
Un aspetto che pare fuor di dubbio, dal racconto di Asinio è che unni e alani
erano considerati strettamente imparentati, anzi, addirittura i secondi non
erano che un clan dei primi, originariamente. Gli storici moderni tendono a
prendere con molta cautela tale assunto, visto che tra i popoli delle steppe non
era raro inventarsi parentele antiche a scopo autocelebrativo o, addirittura
assumere nomi di clan e tribù di un passato più o meno remoto o di una certa
fama, sempre con lo stesso scopo. Questo fa capire il motivo per cui la
'questione unna' (se, cioè, esistano delle reali correlazioni tra gli unni
giunti in Europa a inizio V secolo e gli omonimi centroasiatici) sia ancora
molto aperta e dibattuta.
Del resto, l'etnogenesi dei nomadi delle steppe non è mai un processo lineare,
tale da poter identificare un preciso nucleo etnico originario in un luogo ben
definito. Si aggiunga banalmente che, spostandosi, un popolo cambiava lingua,
connotati etnici e a volte persino nome, tanto da risultare irriconoscibile
(come esempio, è sempre molto illuminante il bizantino Menandro Protettore, il
quale riporta che, nel tardo V secolo, i turchi del kaghanato gokturk
considerassero al limite dell'offensivo che 'dei miseri schiavi fuggitivi'
insediatisi in occidente avesse preso per sé il prestigioso nome tribale di
'Avari' (Awar))
Cosa si può affermare di certo, dunque? In poche frasi, che i Chioniti erano
l'ennesima confederazione tribale nord-iranica (ma con l'inserimento di
consistenti elementi turchi e mongoli, provenienti da oriente) coagulatasi nelle
grandi steppe semidesertiche tra il lago Ossiano e il lago Bugone. La crescente
migrazione verso sud e sedentarizzazione degli Alani aveva permesso a questo
popolo di affermarsi al loro posto come abili cavalieri, pastori e razziatori di
quei territori inospitali. L'accrescersi del loro potenziale bellico non poteva
passare inosservato e come già altre volte con altre popolazioni, l'impero
Yavana iniziava ad utilizzarli all'interno delle fila del proprio esercito.
Tornando al tema originale del discorso dopo questo breve excursus etnografico,
anche se tra gli Alani e i Chioniti non correva esattamente buon sangue,
Miracolo raccoglieva sulle sue spalle anche le loro istanze: rappresentava
infatti la casta militare 'barbarica' del nord in maniera non molto diversa da
ciò che secoli prima avevano fatto Heraios o Cadfise. Anche Miracolo era
eterodosso: Era infatti seguace di una nuova religione proveniente dall'impero
Sassanide, che stava trovando largo favore presso Alani e Sogdiani, ossia il
manicheismo, credo dualistico il cui verbo era stato diffuso dal profeta –
appunto – Mani.
Sirigutto era invece uno dei signori più potenti dell'India già da diverso
tempo; aveva ereditato dal padre Argiunone un numero considerevole di cariche e
terre e poteva a buon diritto definirsi il re senza corona di tutta la valle del
Gange. Il centro del suo potere, quando non risiedeva a Taxila era Pataliputra,
nella Magadene. Dal punto di vista religioso era un fervente Vaishnavita, per
quanto formalmente partecipasse a riti buddisti e non ostacolasse la
predicazione o i monasteri buddisti. Non sappiamo però se e quanto amasse
presentarsi come campione dell'induismo in contrasto al dominante buddhismo e
alle nuove religioni emergenti. E' però ampiamente possibile che amasse porsi
come un restauratore della tradizione e che su di lui si appuntasse un certo
velo di xenofobia verso le popolazioni non Arie che occupavano i gangli del
potere. Socialmente ed etnicamente parlando, rappresentava infatti gli interessi
degli indoari del bassopiano gangetico, che non sempre vedevano di buon occhio
il governo della lontana Taxila (peraltro, i governi precedenti i avevano spesso
cercato di limitare le caste più abbienti della società hindu).
Darmeone invece rappresentava in tutto e per tutto la vecchia aristocrazia
burocratica indogreca, che aveva le radici del proprio potere nei nodi
dell'amministrazione statale. Etnicamente Yavana e promotore di una maggiore
stretta sull'ortodossia religiosa, era senza dubbio il 're' del Gandhara, capace
di nominare a suo piacimento i giudici dell'intera regione. Le fonti ce lo
mostrano come arrogante e piuttosto odiato, probabilmente perché identificato
come l'eminenza grigia e corruttrice dietro al corrotto e debole Canischio,
eppure le stesse fonti lasciano intravedere un ampio sostegno al suo operato da
parte di tutta quella casta di funzionari che nel tempo era divenuta
fondamentale per tenere insieme il vasto impero.
Infine vi era Zansera di Patala, portavoce degli interessi delle città marinare
della Surastene e della Patalene. Questi era uno kshatrap, ossia di origine Saka
(sud orientale) e, come molti di quella regione e di quell'etnia, era cristiano
(iavanico, chiaramente). Probabilmente si trattava di uno dei più potenti
mercanti dell'impero, con a disposizione un'intera flotta privata di naviglio
commerciale.
Già dopo i primi anni di regno di Canischio, tra questi cinque plenipotenziari
del regno iniziò un conflitto senza quartiere per ottenere il potere. Allo
stesso tempo occorre notare che Visciano (Vaishana, probabilmente una
traslitterazione impropria in Gandhari del nome originale in serindio; le fonti
cinesi lo chiamano Bao Shan), principe di Kucha, pur senza ribellioni aperte,
progressivamente rese il suo dominio de facto indipendente dall'impero Yavana,
estendendo il suo potere a molte città della Serindia, Kashgar compresa.
La prima grande crisi avvenne dopo cinque anni dall'ascesa al trono del nuovo
sovrano: Zansera e Sirigutto avevano infatti una posizione diametralmente
opposta nei confronti di Vindhyashakti, re di Vakataka. I mercanti di Barygaza
trassero notevole vantaggio dalla riunificazione in un'unica compagine statale
della valle del Narmada, in espansione verso l'altopiano del Deccan e
potenzialmente verso est. Zansera strinse direttamente accordi di tipo economico
con il sovrano in nome dell'impero Yavana, oltre che diventare suo personale
amico, nonché indurlo a consentire l'attività missionaria dei cristiani nel
regno, fino ad allora piuttosto osteggiata.
Questo però allo stesso tempo non era favorevole ai piani di Sirigutto, che
temeva lo sviluppo di un potere a lui concorrente a sud. Alle prese com'era con
una lunga e difficile campagna di conquista contro i Licchavi, tenace regno del
nord (presso le prime propaggini montuose dell'Himalaya centro-orientale),
temeva di perdere terreno sia dal punto di vista economico, sia dal punto di
vista del prestigio e dell'influenza. Pertanto si decise di passare alle vie di
fatto: aizzò i regni orientali di Andhra e Kalinga, oltre ai clan della
Gangaride (come i Samatata e i Pundravardhana) contro Vakataka. In più foraggiò
i Naga (dinastia spodestata proprio dai Vakataka) affinché scatenassero
disordini. Inutile dire che Zansera accorse in difesa dei suoi interessi,
sostenendo lo sforzo bellico di Vindhyashakti, reclutando persino una forza di
Malavi a sue spese per accorrere in aiuto all'alleato. Sirigutto colse la palla
al balzo per screditare Zansera a corte, inducendo al sospetto di aiutare un
nemico dell'impero per fini personali (cosa peraltro vera, ma non molto
differente dai piani di Sirigutto stesso). Il tentativo di far cadere in
disgrazia Zansera riuscì però solo parzialmente: le forze Malavi sbaragliarono
quelle inviate dai Gutti, composte perlopiù dal clan alleato degli Ahicchatra.
La Surastene e la Patalene alzarono il vessillo della rivolta. Si era a un passo
dalla guerra civile, ma a quel punto, ci riferisce lo storico della seconda metà
del IV secolo Siricacio, Sirigutto e Zansera sorprendentemente si incontrarono
per una conciliazione pubblica a Ozene. Lasciati soli, i regni Kalinga e Andhra
negoziarono una pace con Vakataka (con i potenti Pallava di Sud-Est, che non
desideravano una espansione di Vakataka fino ai loro confini, a fare da
garanti). Cosa si dissero Zansera e Sirigutto? Siricacio non lo rivela. Quel che
è certo è che i due, da nemici giurati, finirono per essere sostanzialmente
alleati. I Gutti iniziarono a loro volta una lenta infiltrazione nei gangli del
potere del regno Vakataka, cosa che avrebbe permesso a Sirigutto di avere nella
sua sfera di influenza praticamente un buon terzo del subcontinente indiano.
Quanto sottoposta agli ordini di Taxila? Di fatto, molto poco.
Notato il mutare della marea, anche Darmeone iniziò ad avvicinarsi al duo, per
quanto l'accrescersi del potere di Sirigutto a corte piacque poco ai circoli
monastici del Gandhara e della valle dell'Indo. Non bisogna infatti dimenticare
che i monasteri rappresentavano dei centri di notevole importanza. Potevano
anche essere sinergici con l'autorità regia, ma con l'indebolimento di
quest'ultima, si stavano lentamente trasformando in nuclei di potere autonomi,
peraltro spesso con notevoli rendite fondiarie (per quanto la scuola Mahayana
criticasse questo abuso e predicasse un ritorno alla povertà ascetica originaria
del Buddha Shakyamuni). Pur tuttavia, Canischio sembrava favorire Sirigutto in
maniera particolare, cosa che indusse l'aristocrazia religiosa fare buon viso a
cattivo gioco, almeno per il momento. Di fatto, entro il nono anno di regno del
sovrano, il triumvirato Darmeone-Zansera-Sirigutto dominava la scena e
controllava lo stato, con il malumore crescente di Miracolo e Gorebano, che si
ritrovarono insolitamente alleati per 'difendere' gli interessi della parte
settentrionale dell'impero. Gorebano cercò anche di stringere a sé in questo
fronte anche Visciano di Kucha, il quale, però preferiva rimanere in disparte e
rafforzare la sua posizione di plenipotenziario della Serindia in attesa di
porgere i propri ossequi al vincitore della contesa.
Il conflitto rimase per diverso tempo a bassa intensità: sebbene mostrasse segni
di feudalizzazione e cedimento del centro, la struttura creata dai due sovrani
precedenti era troppo solida per crollare rapidamente. Gli anni passavano, però
e Sirigutto, non più giovane, pensò di approntare un colpo di mano risolutivo.
A questo punto, tuttavia, le fonti divergono piuttosto nettamente: Metragone
racconta che Sirigutto abbia chiesto per suo figlio Catocacio la mano della
figlia del re, ottenendone però rifiuto; anzi, lo storico afferma che Canischio
si fece apertamente beffe di lui, sostenendo che si era divertito a lasciarlo
fare e federe 'sin dove la vanagloria dei suoi ministri sarebbe giunta'. Ora
però il gioco era finito e come aveva innalzato Sirigutto, così poteva gettarlo
nella polvere. Stando allo storico indo-greco, Quest'ultimo, furente, si scagliò
contro Canischio e lo uccise. Con la complicità di Darmeone e Zansera simulò
quindi un incidente e si proclamò reggente per volontà del re defunto.
Siricacio, invece, uomo di corte dei Gutti (e membro cadetto della famiglia egli
stesso), dà un resoconto più agiografico del colpo di stato. Canischio
effettivamente concesse la mano di Ardocia, sua figlia, a Gatocacio. Miracolo,
tuttavia, ne fu invidioso, poiché voleva essere lui il marito della ragazza,
tanto che mandò dei sicari alle nozze per uccidere Sirigutto e suo figlio. I
sicari, tuttavia, sbagliarono obiettivo e uccisero proprio Canischio e i suoi
figli. I Gutti eliminarono gli assassini, anche se troppo tardi per evitare la
strage della famiglia reale e Sirigutto si insediò come reggente, con il compito
di vendicare il defunto sovrano.
Dal punto di vista televisivo, la versione di Metragone ha sempre riscosso
maggior successo, pur tuttavia agli storici attualmente riesce difficile
propendere con ragioni incontrovertibili per l'una o per l'altra. Anche perché
la storia non finisce qui. Per lo storico indiano, Miracolo fece infatti rapire
Ardocia prima che il suo matrimonio fosse consumato. La ragazza, tuttavia riuscì
a fuggire dal suo rapitore in maniera piuttosto rocambolesca, finendo per
trovare rifugio presso Visciano di Kucha. Quest'ultimo, inizialmente ignaro
della sua identità e vedendola bella e giovane, la prese con la forza. Soltanto
in seguito scoprì che la ragazza era di sangue reale, ma ormai il 'danno', se
così si può dire, era compiuto. Visciano la prese come legittima moglie e in
seguitò usò a scopo ricattatorio il fatto di avere figli di discendenza
legittima Kushana. Metragone ribalta completamente la vicenda: Ardocia non venne
affatto rapita da Miracolo, anzi: fu lei a fuggire nottetempo da Taxila, per
evitare di giacere con uno degli assassini di suo padre e meditando vendetta.
Sua intenzione originale era quella di chiedere aiuto a Miracolo o Gorebano, che
sapeva potenti. In un modo o nell'altro, però, venne braccata dai sicari dei
gutti, per cui, invece di recarsi a Battra, intuendo che al passo di Comedia
(Khyber) l'avrebbero sicuramente trovata e catturata, prese la via del nord,
verso l'avamposto di Madeo e da lì al passo Mintaca, nelle terre dei Balti, per
la Serindia. Giunta a Kashgar, invece che dirigersi verso la Fergiana, continuò
la via est, fino a Kucha. Metragone racconta come nella città principale della
Serindia venne avvertita da un sogno premonitore di non fidarsi di Miracolo e di
preferire invece Visciano. Da Kucha in avanti le due versioni coincidono, salvo
il fatto che per lo storico yavana Ardocia si sia concessa volontariamente al
principe Serindio. Comprensibilmente, per lungo tempo gli storici moderni
credettero che la versione del rocambolesco viaggio da Taxila a Kucha fosse
un'invenzione, fino a che, nel 1973 si scoprirono frammenti di un testo in
serindio risalente al VI secolo, soprannominato appunto 'il viaggio di Ardocia',
che narrano le peripezie di una principessa in viaggio da Purusapura a Kucha.
Per quanto non sia mai esplicitato il nome della principessa, le vicende narrate
hanno un livello di somiglianza notevole con quanto descritto da Metragone. Che
entrambi i testi si rifacciano a una tradizione scritta o orale anteriore? Che
Siricacio abbia scritto la sua versione per mettere a tacere una leggenda
piuttosto squalificante per i gutti? Le interpretazioni possono essere
molteplici, ma una cosa è certa: ben tre secoli più tardi dagli eventi accaduti,
di Ardocia si continuava a raccontare. Era entrata a buon diritto tra i
personaggi leggendari della storia Yavana (come di lì a poco farà in modo ancor
più preponderante un'altra donna, la principessa guerriera Moiranne).
Sicuramente, persa la possibilità di un legame parentale diretto con la dinastia
regnante, la legittimità della posizione di Sirigutto era piuttosto debole.
Ancor più fragile divenne quando, dopo essersi lasciato sfuggire la principessa
Ardocia, si lasciò giocare anche dall'emergere del falso Vasodeo. Con questo
nome si indica la figura di un sedicente figlio di Canischio che, sopravvissuto
alla strage e fuggito dalla tutela di Sirigutto, 'spuntò' in Battria, cercando
di coagulare una forma di legittimismo dinastico. Siricacio e Asinio lo bollano
come un impostore, nient'altro che una macchinazione di Miracolo per guadagnare
consenso in opposizione a Sirigutto. Metragone stesso si mostra piuttosto
scettico (Metragone certo non si può definire vicino ai gutti, ma è abbastanza
palese che disprezzi ancor di più gli unni), pur ammettendo che Canischio aveva
effettivamente prole maschile ancora vivente, poi progressivamente fatta
sparire.
Miracolo e il sedicente Vasodeo inizialmente si limitarono a rivendicare la
propria legittimità e estendere il proprio dominio sulle sole provincie
settentrionali, senza osare in un primo momento mosse aggressive ulteriori.
Miracolo naturalmente accelerò il reclutamento degli unni all'interno del
proprio esercito, servendosi in particolare di Chioniti e Chidariti. Dal canto
proprio, nemmeno Sirigutto si lanciò velocemente in una strategia offensiva per
sottomettere la Battria, limitandosi a presidiare il passo di Comedia. Alcuni
storici suppongono che in fondo a Sirigutto non importasse poi molto di perdere
le regioni ribelli, mirando invece al consolidamento di un regno principalmente
indiano. La situazione tuttavia si complicò ulteriormente con il coinvolgimento
nella contesa dell'impero Sassanide. Probabilmente fu una fortuna che la morte
di Canischio e l'interregno di Sirigutto coincidessero con la morte di Shapur,
perché è molto probabile che se il vecchio Shah fosse stato ancora in vita la
situazione sarebbe stata estremamente pericolosa. Sappiamo che il figlio minore
di Shapur, Narsete (o Narseh), governatore del confine orientale, dopo aver
rafforzato il controllo sassanide su Ormirzade, stava meditando una campagna
militare per imporre il suo dominio sulle provincie di Sacastene, Aracosia e
Paratene, ma che ne venne dissuaso da un accordo preso con suo fratello, che gli
offriva il trono di Armenia in cambio della rinuncia alla successione. I
propositi espansionistici di Narsete, vennero in un primo momento abbandonati
dallo shah Bahram I, che affidò il confine orientale al figlio, ancora
adolescente. Anche se le fonti Yavana non lo menzionano, sembra però dalle fonti
persiane (Tabari) che Bahram considerasse come legittimo Kushanshah – tale era
la definizione dei sovrani Yavana in Persia a quel tempo – proprio il falso
Vasodeo e Sirigutto come un usurpatore. La tensione politica tra i due imperi
aumentò ulteriormente alla morte di Bahram I dopo solo tre anni di regno (nel
274). Gli successe l'ancor giovane figlio omonimo, Bahram II, mentre come
guardiano delle regioni orientali venne posto l'altro suo figlio, Ormisda
(Hormizd). Quest'ultimo riprese in grande stile i piani di politica aggressiva
dello zio: innanzitutto si alleò con Gorebano e Miracolo riconoscendo Vasodeo
sovrano; come contropartita, chiese per sé le tre provincie militari
(formalmente sotto il controllo di Sirigutto) summenzionate di Sacastene,
Aracosia e Paratene. L'Offensiva di Ormisda avrebbe così avuto la
giustificazione di un ripristino del legittimo sovrano sul trono del paese
vicino. L'occupazione delle tre regioni non fu particolarmente impegnativa: come
le provincie settentrionali, anche quelle occidentali al di là dei monti di
Gedrosia non erano particolarmente rilevanti per Sirigutto. Unico punto
importante era la valle di Rhambacia, più che altro come linea di difesa dei
porti della Patalene, in particolare Minnagara e la cittadella di Vaosilepuris,
(fondata da Uvischio) sul delta dell'Indo. La conquista di Rhambacia fu
effettivamente l'unico 'momento difficile' della campagna di Ormisda, il quale
poi, provò a spingere le sue truppe verso oriente, sino al porto di Minnagara,
Varvarika. La difesa della città fu affidata a Zansera e alla sua flotta, che
respinse gli attacchi persiani. Di fronte alla seria resistenza yavanica,
Ormisda non insistette ulteriormente su quel fronte e si ritirò rapidamente
sulle posizioni precedenti.
Grazie ai rinforzi persiani, tuttavia, Miracolo provò nel frattempo a portare un
attacco in grande stile verso il Gandhara, forzando il passo di Comedia. La
battaglia fu particolarmente dura, tutti concordano su questo. Su chi
effettivamente vinse non c'è però consenso. Metragone e Asinio parlano di
vittoria di Miracolo e dei suoi, anche se Metragone sottolinea che la vittoria
per il chionita fu pirrica. Siricacio afferma invece che Sirigutto riuscì a
sconfiggere l'invasore. Ad ogni modo (e probabilmente questo è il motivo
dell'incertezza sull'esito), l'offensiva si fermò per la morte del pretendente
Vasodeo in battaglia.
Lo storico indiano sostiene che il generale unno lo spinse a partecipare perché
i barbari che aveva raccolto non avrebbero tollerato
di combattere per un re codardo. Da codardo tuttavia morì, ucciso dai suoi
nemici mentre tentava di fuggire dal campo di battaglia.
Asinio invece ribalta questa affermazione, scrivendo che
Miracula aveva gonfiato le brame di quel misero uomo, ormai incapace di
distinguere la verità dalla finzione. Non solo il falso figlio di Canischio si
era convinto di essere veramente progenie regale, ma ormai credeva di essere la
reincarnazione del grande Canischio I, di Menandro Eutidemide e di Alessandro
Magno. Egli era, ahimé solo nei suoi vaneggiamenti, un grande generale e un
grande generale marcia alla testa dei suoi uomini. L'unno cercò di convincerlo a
stare nelle retrovie, ma fu tutto vano. La ruota della sorte gli mostrò
prestamente la nuda realtà e al termine della dura battaglia, in cui molti
uomini perirono per difenderlo dalla sua stessa incoscienza, fu infine trafitto
da una freccia. Fosse morto in un posto più appartato, Miracula avrebbe potuto
fingere che egli fosse ancora in vita, ma tutti videro. La battaglia era stata
vinta, ma la ragione per cui l'esercito si era battuto era scomparsa dinnanzi ai
loro occhi.
Miracolo, vittoria o sconfitta che fosse, rimase per diverso tempo incerto sul
da farsi: qualsiasi legittimazione dinastica era andata in fumo (a meno di
riconoscere Ardocia come legittima regnante, cosa che non aveva intenzione di
fare), rendendolo ormai, dal punto di vista legale, non meno usurpatore di
Sirigutto. Decise dunque di compiere una mossa inaspettata, che se all'epoca fu
presa effettivamente come un mero escamotage per garantirsi una posizione
ufficiale che certo non ingannava nessuno, nei secoli a venire, per una serie di
ragioni contingentali, divenne il pilastro di una precisa concezione del potere
imperiale Yavana. Si fece infatti incoronare a Gordiana come 're (degli unni e
degli alani)' (Afshiyan) e, in seguito, a Battra, come 're dei tocari, dei
sogdiani e dei cusciani', adottando, per sintesi, il famigerato esonimo che i
persiani usavano per definire i re Yavana, ossia Kushanshah. Venutolo a sapere,
Sirigutto gli rese pan per focaccia, autoproclamandosi, oltre che a reggente
dell'impero, prima Vaishnaraja, ossia 're dei seguaci di Vishnu', poi
addirittura Aryaraja, 're degli ari'.
Per quanto sia piuttosto controintuitivo affermarlo, in questo contesto emerge
tutta la potenza dell'idea imperiale. Perché diventa evidente che Kushanshah o
Aryaraja sono titoli 'inferiori'. In altre parole, si può decidere quanto si
vuole di essere sovrani di un determinato popolo dell'impero, ma per essere
imperatori bisogna essere 'riconosciuti' come sovrani universali (quindi di
tutte le regioni o tutti i popoli dell'impero stesso). E' indubitabile che sia
un momento percepito come di frattura e di decadenza, ma ciò non toglie che si
espliciti un principio legittimistico 'più che dinastico' come fondamento
dell'impero stesso. Tornando agli eventi, mentre Miracolo e Sirigutto
ragionavano sul da farsi leccandosi le ferite e Visciano consolidava il suo
dominio su tutta la Serindia, pur mantenendo un profilo piuttosto basso (con la
Bugonia come zona cuscinetto tra sé e Miracolo e i Balti delle montagne tra la
Serindia e il Gandhara che preferivano lui a Sirigutto), il colpo di scena più
grande lo mise a segno Ormisda. Asinio, unico tra i tre storici che narrano le
vicende di questo periodo, riporta che il signore sassanide aveva un accordo con
Miracolo, che lo avrebbe costretto a ritirarsi dai territori occupati in caso di
fallimento dell'offensiva su Taxila. Vero o falso che fosse, Ormisda non solo
rifiutò di cedere la Sacastene a Miracolo, ma fece di Sigal la sua capitale e si
nominò Sakanshah, dimostrando in questo modo di volersi mettere in competizione
con gli altri contendenti come nuovo sovrano dell'impero Yavana. Approfittando
dell'indebolimento di Miracolo, sferrò un'offensiva verso nord, occupando
rapidamente le città principali del Caucaso e della Paropamiside, vale a dire
Drapsaka, Aria, Arachosia, Kapisa, ponendosi nella condizione di poter sferrare
un attacco diretto a Battra, ossia il cuore dei domini di Miracolo. Sirigutto,
piuttosto saggiamente, lasciava fare, nella speranza che i due rivali si
dissanguassero l'un l'altro per poi marciare sulle loro macerie. Non visse
abbastanza, però per vedere la sua profezia avverarsi, poiché intorno al 280, la
morte lo colse, lasciando al figlio Gatocacio un compito estremamente complesso.
Ormisda del resto, non dovette nemmeno intraprendere una dura campagna contro
Miracolo, poiché quest'ultimo, dopo tutti i rovesci patiti, venne assassinato
dai suoi stessi uomini, dopo che probabilmente questi valutarono il suo un
'cavallo perdente'. Il caos a livello gerarchico che ne seguì fece in modo che
gli stessi alani si rivoltassero contro gli unni in diverse zone della
Battriana, della Sogdiana e della Fergiana, mentre i grandi di Battra inviarono
ambasciatori allo stesso Ormisda, affinché giungesse con le sue armate a
ripristinare l'ordine.
Nel 281-282, Ormisda entrò dunque nella città e ne fece la sua capitale,
autoproclamandosi Kushanshah.
Metragone, in merito a questo, aggiunge un passaggio molto interessante e
significativo, che ben evidenzia quanto si affermava in precedenza rispetto alla
percezione del potere imperiale:
Invero, sire Ormisda il persiano, in tutto voleva
apparire legittimo governante nostro e prese il titolo di re dei cusciani, dei
battriani e dei tocari. Gli abitanti dei paesi del nord lo assecondarono più per
la sua capacità di tenere a bada i barbari del nord, Unni e Chioniti, oltre che
suscitare l'obbedienza negli Alani. Quando però, montando in superbia, prese a
trastullarsi con l'idea di farsi incoronare addirittura Vasileo di Yavana, i
monaci del tempio di Buxarak e il principe di Chach [HL: Tashkent] lo ammonirono
severamente, così dicendogli: 'Oggi noi ti accettiamo come sovrano. I tocari ti
sopportano, i sogdiani ti tollerano, gli sciti ti obbediscono e gli alani non si
ribellano a te. Ma Taxila non è tua e né i gandari, né gli abireni, né gli
sciatrapi, gli ari, i serindi o i surastenici ti riconoscono ancora. E meno di
tutti gli Yavana della valle, che l'impero fondarono. Quando e se essi si
inchineranno a te, allora tu potrai essere erede di Alessandro, Menandro,
Canischio e Cadfise. Non un solo istante prima, poiché in quel caso, anche
coloro che ora accettano la tua legge si ribelleranno a te e tu e i tuoi uomini
verrete sommersi dall'ira di dei, demoni, uomini e animali: ricorderanno ciò che
ora fingono di aver dimenticato, ossia che tu discendi da Ciro, Serse e Dario,
non da Alessandro e Menandro. Che tu adori il fuoco dei cartiri ['kartir', la
potente casta sacerdotale dello zoroastrismo], noi la luce dello Spirito che
libera dalla sofferenza. Gatocacio ben lo sa, che vi possono essere molti re, ma
un solo imperatore per tutti noi. Segui il suo esempio e non essere stolto.
.
Visciano e Licaone (fine III secolo - 330 ca., da Kucha)
Quando Gatocacio e Ormisda
ottennero rispettivamente il potere, dunque, il titolo di Vaosileo di Yavana
rimase vacante. Nessuno dei due contendenti ritenne prudente il rivendicarlo per
sé, in particolare, come abbiamo visto, il sovrano sassanide, su cui pendeva la
spada di Damocle della sua origine persiana. Ciò nonostante, per diverso tempo
il clima tra i due, se non disteso, fu piuttosto pacifico. In parte questo fu
anche dovuto dall’incapacità di entrambi di portare dalla propria parte la
Serindia, in particolare Visciano prima e suo figlio (da Ardocia) Licaone (il
cui nome di famiglia era Lokakjiva, detto dai cinesi Long Hui, come poi vedremo.
Più tardi venne soprannominato ‘il vittorioso’) poi. I principi di Kucha, però,
oltre a definirsi unici Kushanshah legittimi, nulla effettivamente fecero per
rendere reale il proprio titolo muovendo guerra contro Battra o contro Taxila,
puntando innanzitutto a consolidarsi economicamente e espandersi militarmente
contro tribù barbare e altre città stato; forse fu proprio questo iniziale
atteggiamento circospetto che ne determinò la successiva ascesa. Semmai,
cercarono di sfruttare il prestigio del suo nome per attirare alla propria corte
monaci, letterati e artisti provenienti dalla Fergiana, Battriana, dal Gandhara
o dalla Sogdiana, mostrando la propria potenza attraverso il mecenatismo, lo
splendore architettonico e la potenza economica.
Dal punto di vista militare e politico, Visciano e Licaone puntarono soprattutto
a espandere il proprio controllo sulla Serindia e sulle sue città carovaniere,
gelose della propria indipendenza e che mal tolleravano l’idea di essere
sottomesse di fatto e non solo di diritto ad un’unica entità statale. Dopo una
lunga serie di campagne di conquista, entro il 290 circa, Kucha completò
l’unificazione della Serindia con definitiva sottomissione di Khotan. E’ da
notare che proprio in quel periodo iniziò a diffondersi la leggenda che Kucha
fosse la ‘patria originale’ del clan Cusciano (creando l’associazione tra il
nome della città e quello della tribù) e che quindi gli abitanti di Kucha
fossero i veri cusciani, i quali peraltro avrebbero anche mantenuto la loro
lingua originaria (che effettivamente veniva chiamata ‘cusciano’, ma dal nome
della città, ovviamente), mentre i cusciani di Fergiana e Battriana avrebbero
finito per adottare le lingue del luogo e l’alfabeto Yavana. E’ piuttosto chiaro
che si tratta di un mito fondativo costruito ad hoc per nobilitare la città, al
fine di creare una connessione antica con la pretesa al titolo di Vaosileo degli
Yavana che fosse più forte del semplice matrimonio dinastico tra Visciano e
Ardocia.
Poco dopo la presa di Khotan, La Serindia non cessò le sue campagne di
espansione: l’obiettivo questa volta furono le montagne: in una prima fase la
conquista si concentrò intorno alla regione dell’Imao, tra Kashgar e il Gandhara
intorno al passo di Mintaca e le Montagne Nere immediatamente a est di essa. I
Balti (Byaltai), da sempre fieri abitatori dei monti, opposero una feroce
resistenza, come peraltro avevano sempre fatto nei secoli passati, a qualsiasi
tentativo di conquista. In questa occasione, tuttavia, si resero conto che gli
invasori non si sarebbero stancati tanto da trovare un accordo e alla fine
accettarono la sottomissione, in cambio di una certa autonomia. La loro
principale fonte di introito, i tributi per l’attraversamento del passo,
passarono però al regno di Serindia. In un primo momento Gatocacio si allarmò
moltissimo, ma fu rassicurato dalle promesse di facilitazioni commerciali per i
mercanti ed i monaci che passavano per quella fondamentale via di comunicazione
tra le impervie montagne. Nelle immediate vicinanze a oriente dei Balti, la
potenza Serindica (che si avvaleva di un gran numero di soldati mercenari,
pagati con i cospicui introiti delle dogane sulla via della seta sotto il suo
controllo) sfidò e sottomise a tributo il regno dei Kailasiani (chiamati così
perché abitavano all’ombra del monte Kailasa; successivamente verranno
denominati ‘Antoniani’, da Yangtong/Zhangzhung). L’impresa più importante, però,
fu la fortificazione delle Montagne degli Dei (i monti Kunlun, per i cinesi) e
la sottomissione di diverse tribù del popolo dei Supiani (Sumpa/Supiya), che
viveva sul loro versante meridionale. Da sempre erano una spina nel fianco della
via della seta meridionale, in particolare per le città di Khotan e Niya, che
dovevano tenere a bada le loro razzie. La loro riduzione all’obbedienza ampliò
di molto la sicurezza della via meridionale (più rischiosa di quella
settentrionale, anche se leggermente più breve), oltre che a un’ottima fonte di
manodopera per l’esercito.
L’unica provincia dell’impero che passò nella sfera di influenza di Kucha a
discapito dei cusciano-sassanidi (che però di fatto se ne disinteressarono),
fuori dalla Serindia propria, fu la Bugonia, con i principi di Armalaca (della
stessa famiglia cui apparterrà lo storico Metragone) che gli giurarono fedeltà.
E’ piuttosto curioso notare che nel tempo il toponimo ‘Bugonia’ si fosse
spostato rispetto all’identificazione originaria (l’area del lago Bugone) verso
sud-est, nella valle di Armalaca, a ovest dell’omonimo vallo tra le montagne
celesti a sud (Tian Shan, per i cinesi) e le montagne della luna a nord-est. Nel
frattempo la Bugonia propriamente detta aveva preso il nome di Giubania, dalla
tribù di origine senobate che aveva preso a dimorarvi (e più tardi verrà
chiamata Getisia, da un termine che nelle lingue turciche significa ‘terra dei
sette fiumi’).
Ma è il legame con la crisi della dinastia Jin e il periodo dei ‘regni dei sei (Xianbei,
Jie, Xiongnu, Qiang, Di e, appunto, i serindici, cioè i ‘Dayuan’ o anche ‘Guishuang’)
popoli barbari’ che consegnerà alla storia Licaone.
Già durante il regno di Visciano si intensificarono i rapporti diplomatici e
commerciali con la corte Jin di Luoyang, tant’è che le fonti cinesi considerano
effettivamente lui e non altri come il legittimo Wangzili dei Dayuan. Al centro
degli eventi che porteranno all’intervento della Serindia in Cina c’è però la
figura del principe Vasodeo, fratello minore di Licaone (conosciuto poi dai
cinesi come Fotudeng). Convertitosi alla vita monastica, egli decise di
intraprendere un pellegrinaggio (cui si aggiunse un altro compagno, Sirmitrio)
verso est tra il 305 e il 320 circa, sulle tracce del monaco Dharmaraksha,
anch’egli originario di Kucha e residente a Chang’an, il quale era ormai
considerato in Cina un grande maestro e finanche venerato. Vasodeo non riuscì
nel suo intento, visto che quando giunse a Chang’an il venerabile Dharamraksha
era già morto, ma si trovò invischiato in qualcosa di molto più grande e
decisivo per la storia del mondo. Degli anni delle sue peregrinazioni Vasodeo
scrisse una sorta di resoconto autobiografico in lingua serindica Kucheana (che
da lì a poco sarebbe divenuta la parlata di gran parte della Serindia), di cui
purtroppo non ci restano che stralci, frammenti e ricostruzioni da opere
derivate.
In quegli anni, i principi della dinastia Jin avevano intrapreso una sanguinosa
e distruttiva guerra civile (nota appunto come ‘guerra degli otto principi’) per
la reggenza in nome dell’imperatore - con problemi mentali - Hui (Sima Zhong).
Dopo aver attraversato il corridoio di Hexi, relativamente stabile e tranquillo,
agli occhi di Vasodeo il clima di incertezza e disordine si fa palpabile. In
particolare, di Chang’an fa un ritratto particolarmente fosco, sottolineando
l’inquietudine degli abitanti, incapaci di star dietro al rapido accavallarsi di
informazioni sull’andamento dei conflitti, non sempre veritiere.
Per ragioni a noi ignote, probabilmente diplomatiche in nome del fratello
maggiore, dopo un certo periodo tra Chang’an e Luoyang, Vasodeo si spostò a
nord, nella provincia di Bing, popolata perlopiù da clan ‘barbari’, perlopiù di
stirpe senobate (Xianbei) o sionnica (Xiongnu). Lì incontrò Sulesio (Zhouhezhu),
signore dei chiati, o chiantuli (Jie). Questi ultimi erano (o erano stati)
alleati di lunga data con l’impero Yavana, perlomeno sin dai tempi di Eracle II
Vasodeo e la sua alleanza con Cao Cao contro gli uvani (Wuhuan). Non è dunque
escluso che il re di Kucha volesse compiere un gesto ideologico-simbolico, nel
riallacciare i rapporti con i chiati. Del resto, questi ultimi rivendicavano
anche una lontana parentela con i tocari; se la pretesa di Kucha era di essere
la patria iniziale del clan dei cusciani, era necessario ristabilire una sorta
di relazione ideale con i ‘cugini stabilitisi in oriente anziché in occidente’,
fosse anche solo una scusa per tornare a stringere rapporti diplomatici stabili
con la Cina.
Vasodeo, tuttavia trovò la situazione dei chiati piuttosto desolante: essi
avevano subito nel frattempo un deciso ridimensionamento del proprio peso
politico e militare, a discapito di altre tribù di barbari del nord; in più,
colpiti da una devastante carestia, molti di loro erano stati costretti a
sottomettersi ai clan vicini, darsi al brigantaggio o addirittura ridotti in
schiavitù. Non si poteva comunque dire che, con la guerra civile in corso, vi
fosse scarsità di impiego per bande di predoni disposti a tutto. Uno dei figli
di Sulesio/Zhouhezhu, Begio Sulesiano (Bei Fule), aveva avuto trascorsi simili;
grazie ai buoni uffici del generale Ji Sang era poi entrato al servizio di uno
dei principi imperiali, Sima Ying, tanto da assumere il nome cinese di Shi Le.
Mosso a compassione da quanto aveva visto, fu probabilmente in questo momento
Vasodeo che inviò un lungo rapporto della propria missione al fratello maggiore,
che terminava invitandolo ad intervenire direttamente in Cina, al fine di
salvare quel paese dal caos più completo.
Ancor oggi, il ‘dilemma della lettera’ suscita interpretazioni e interrogativi:
da Chang’an a Kucha potevano volerci anche dei mesi, prima che una missiva
giungesse a destinazione. Per radunare e organizzare un vasto esercito ci voleva
un lasso di tempo altrettanto se non più lungo. Per finire, quanto tempo avrebbe
impiegato una armata, pur composta da soli cavalieri, ad attraversare la via
della seta dalla Serindia fino alla capitale cinese?
Questi problemi di tempistiche e organizzativi non da poco hanno indotto molti
storici moderni a pensare che la leggenda secondo cui Licaone abbia mosso un
esercito in direzione della Cina in risposta agli accorati appelli del fratello
monaco sia semplicemente un falso pretesto creato a posteriori. Attualmente si è
propensi a credere che:
1. Il re serindio fosse già a conoscenza della situazione compromessa della Cina
settentrionale
2. Che Licaone abbia dunque preparato di conseguenza una campagna militare
contro bande armate di ribelli e a supporto del governo imperiale per
guadagnarne l’amicizia e vantaggi economici
3. La missione di Vasodeo fosse quella di cercare eventuali alleati locali in
vista dell’intervento del fratello maggiore, oltre che capire quale fosse il
principe Jin con maggiori possibilità di successo e quindi da sostenere (con le
debite riserve)
4. Licaone aveva in mente di non spingersi oltre Dunhuang, o, perlomeno, non
oltrepassare il corridoio di Hexi. Doveva infatti essere uno sfoggio di potenza
a scopo intimidatorio, non una vera e propria campagna militare nel cuore della
Cina.
Quello che i due fratelli non potevano prevedere era che la situazione sarebbe
degenerata talmente velocemente che, all’ingresso nel corridoio di Hexi
dell’esercito della Serindia, non c’era praticamente più alcuna autorità
imperiale degna di questo nome da supportare a nord del fiume Giallo e, di lì a
poco, persino a nord del fiume Azzurro. In più, quelle che erano bande di
predoni e ribelli si erano trasformati in vere e proprie dinastie indipendenti
in lotta tra loro per l’egemonia sul territorio.
Facendo un passo indietro e tornando allo svolgersi degli eventi narrati da
Vasodeo/Fotudeng (da questo momento useremo i nomi cinesi), Il principe Sima
Yong aveva ucciso Sima Ying e il generale Liu Yuan, di origine sionnica (che per
sembrare più ‘cinese’ aveva appunto cambiato il proprio nome di famiglia da
Louantai a Liu, lo stesso nome di famiglia della dinastia Han), decise di
ribellarsi alla dinastia Jin e dichiararsi indipendente, fondando la dinastia
degli ‘Han posteriori’. Fotudeng aveva sperato, come pare, di usare gli Jie come
alleati, rimase inizialmente deluso. Molti di coloro che ancora vivevano nella
provincia di Bing, effettivamente vennero convinti a migrare verso est, in
direzione di Jinchang (l’ingresso orientale del corridoio di Hexi),
probabilmente in virtù di un accordo segreto con Zhang Gui, governatore della
provincia di Liang, ufficialmente ancora fedele alla dinastia Jin. La maggior
parte dei giovani abili al combattimento, tuttavia, seguirono Shi Le, il quale
aveva deciso di diventare uno dei comandanti di Liu Yuan.
A questo punto, Fotudeng, potendo contare sul suo carisma di saggio e venerabile
monaco buddhista proveniente da Kucha (i kucheani erano molto rispettati come
maestri a quell’epoca), tentò di mediare una pace tra il principe Sima Yong e
Liu Yuan, presumibilmente svelando l’imminente arrivo di un esercito dalla
Serindia come - diremmo noi oggi - ‘forza di pace’. Sembra che Sima Yong abbia
effettivamente accettato la proposta di sedersi al tavolo delle trattative,
almeno a parole, ma fu tutto inutile: venne infatti strangolato da alcuni sicari
inviati dal principe Sima Yue. Liu Yuan a quel punto rifiutò esplicitamente la
proposta di mediazione di Fotudeng, convinto della debolezza del nuovo reggente,
oltre che certo che il re della Serindia non avrebbe rischiato di mettersi
contro di lui per una causa palesemente persa come ormai sembrava la dinastia
Jin. Anzi, propose al monaco un’alleanza, in cambio della quale avrebbe
conferito ricchi doni, agevolazioni commerciali e persino il governo della
provincia di Liang.
Fotudeng racconta di essere rimasto piuttosto scosso da questa proposta e
essersi ritirato in meditazione, appellandosi al Buddha per avere da lui una
saggia risposta. In altre parole, prese tempo, in attesa di conferire
direttamente con suo fratello sul da farsi. Nel frattempo, si intrattenne sempre
più spesso con Shi Le, mostrandosi a lui nelle vesti di consigliere,
evidentemente sperando di staccarlo dalla fedeltà a Liu Yuan.
Non sappiamo se intanto il principe-monaco abbia mandato altri resoconti al
fratello. Quel che è certo è che al volgere del 310 d.C. finalmente Licaone/Long
Hui si mosse davvero alla volta del corridoio di Hexi. Zhang Gui lo incontrò in
assetto da battaglia nei pressi di Dunhuang. Il Libro di Jin racconta che il
valente governatore fosse disposto a sacrificarsi affinché nessun altro barbaro
entrasse nel già martoriato impero, ma che fu dissuaso dai suoi timorosi
comandanti e dal fatto che Long Hui avesse preso in ostaggio alcune sue figlie.
Possiamo dire senza troppo timore di smentita che il Libro di Jin mente,
probabilmente sapendo di mentire. Zhang Gui era quasi certamente già stato
avvertito dell’imminente arrivo del nobile ‘ospite’ e, per quanto dotato di un
numero non trascurabile di uomini, preferiva una sottomissione del tutto formale
ai nuovi venuti, rispetto alla prospettiva di ingenti perdite che, anche in caso
improbabile di vittoria, avrebbero poi pregiudicato la possibilità di resistere
a una più che prevedibile invasione da parte di Liu Yuan. Le cronache cinesi
lasciano trasparire che la storia del ricatto sia stata il semplice trucco usato
da Zhang per salvare le apparenze di fedeltà all’impero.
Certo, per dimostrare la propria forza e dare l’impressione di vincente, il re
serindico aveva comunque bisogno di un successo sul campo contro un adeguato
nemico. Fu così che ottenne l’aiuto delle armate del Liang e dei Jie
trasferitisi a Jincheng per assaltare Murong Tuyuhun e il suo clan di guerrieri
Xianbei, che si era insediato presso la rive del lago Qinghai e aveva sottomesso
le popolazioni locali. Long Hui, come pronosticato, vinse, ma, prevedibilmente,
lo risparmiò e rese la sua confederazione tribale vassalla, in conformità
all’intenzione di ampliare le proprie fila con alleati locali.
Giunto poi a Jincheng (oggi Lanzhou), ne fece il proprio quartier generale, in
attesa che suo fratello lo raggiungesse e lo ragguagliasse sulla situazione.
Mentre Long Hui era impegnato con Tuyuhun, era avvenuto un nuovo colpo di scena.
Liu Yuan era morto, lasciando il compito di proseguire la dinastia ribelle al
figlio Liu He. Nel giro di una settimana, tuttavia, il fratellastro Liu Cong lo
aveva ucciso, assieme ai suoi alleati e aveva preso il potere. La rapida
spietatezza con cui aveva risolto le dispute successorie lasciava presagire la
ferma intenzione del nuovo leader di portare avanti la lotta fino alla presa di
Luoyang e alla caduta dei Jin. Ma come comportarsi rispetto al nuovo venuto
dalla Serindia?
Fotudeng naturalmente provò a contattarlo, perlomeno per sondare il suo
carattere e ne ebbe impressione negativa. Non tanto per la spietatezza, in quel
tormentato periodo una dote che lo stesso monaco riconosceva inevitabile, quanto
per l’eccessiva impulsività, a malapena mitigata dai consigli della corte,
specie dalla madre e da alcune consorti. Poco migliore impressione gli fece il
fratellastro Liu Ai, che si era associato al potere. Questi appariva come meno
impulsivo e più intelligente, ma al contrario di Liu Cong, troppo poco deciso e
risoluto per governare efficacemente in tempi come quelli. In entrambi i casi,
inadatti sia come alleati, sia come vassalli. Motivo per il quale, prima di
recarsi a Jincheng, cercò nuovamente di convincere Shi Le ad abbandonare il clan
Liu e mettersi al servizio di suo fratello, senza riuscire, però, ad ottenere
una risposta definitiva.
A Jincheng, intanto, Long Hui venne raggiunto da diverse ambasciate: la prima fu
quella di Li Xiong, autoproclamatosi re a Chengdu, il quale semplicemente
desiderava intrattenere relazioni pacifiche e cordiali con il nuovo venuto, se
questi non gli avesse mostrato ostilità, ribadendo il suo impegno a proteggere
ogni mercante Dayuan (quindi non solo serindici, ma anche dal Kushanshah di
Ormisda e dall’Aryaraja di Gatocacio) che entrasse nei suoi territori. La
seconda, ben più importante, fu quella di Liu Can, figlio di Liu Cong, il quale
si contraddistinse per i modi piuttosto rozzi e arroganti. Fotudeng raggiunse
Jincheng poco dopo la partenza di Liu Can e le sue impressioni non fecero che
confermare in Long Hui l’opinione che se proprio Chang’an e Luoyang dovevano
cadere nelle mani di qualcuno, era meglio che quel qualcuno non fossero gli Liu.
Infine, buona ultima, anche un’ambasceria da parte del nuovo imperatore Huai
(Sima Chi) aveva lasciato Luoyang alla volta di Jincheng per incontrare il nuovo
venuto, nella speranza che gli stranieri si unissero a lui e cacciassero i suoi
nemici... Tra cui figurava anche Sima Yue. I messaggeri fecero comprendere molto
bene al re di Kucha che fin tanto che il principe reggeva le sorti dell’impero,
la dinastia Jin era destinata alla rovina e Luoyang sarebbe presto divenuta
facile preda delle armate di Liu Cong, visto che i migliori generali erano stati
deposti l’uno dopo l’altro. Il loro livello di disperazione divenne ben chiaro
con l’abbondanza di doni che portarono, oltre a grandi promesse. Venne persino
avanzata una proposta di matrimonio dinastico (che per il momento venne
rifiutata). Nonostante il sovrano serindico si rifiutasse di fare promesse
concrete, Fotudeng lo convinse a compiere perlomeno un pellegrinaggio personale
a Baoji, per pregare presso il tempio che conservava diverse reliquie del Buddha.
La situazione frattanto precipitava ancora: da un lato Sima Yue morì (si dice
per le troppe pene e angosce) e gran parte del rimanente esercito Jin nel nord,
con al seguito il corteo funebre per il defunto principe e molti nobili e
notabili della corte vennero intercettati quasi per caso da Shi Le a Ku e
annientati. La capitale imperiale Luoyang era ormai senza difese. Ciò
nonostante, l’improvvisa fama guadagnata da Shi Le in seguito a questa vittoria
alimentò il sospetto in Liu Cong: non era un mistero che il suo generale fosse
vicino al fratello del re barbaro che aveva preso residenza a Jincheng. Troppo
vicino?
In più, Shi Le aveva deciso di salvare la vita ad alcuni giovani principi e
principesse Jin, non tanto per carità, quanto per usarli in un secondo momento
come merce di scambio. Ancor oggi le posizioni in merito alle decisioni di Shi
Le divergono: c’è chi vede in questo gesto la prova che il generale Jie avesse
meditato e concordato da tempo con Fotudeng la sua defezione. Altri invece che
fu spinto al cambio di campo proprio dalla paranoia e dal sospetto di Liu Cong,
secondo il classico paradigma della profezia autoavverantesi.
Sia come sia, quando i generali Wang Mi, Liu Yao e Huyan Yan marciarono verso la
capitale, la scoprirono difesa dalle truppe di Long Hui, Murong Tuyuhun e Zhang
Gui, mentre l’imperatore Huai, grazie alla scorta del generale Gao Xi era stato
trasferito per sicurezza a Dongjing (Kaifeng). Con il protrarsi dello scontro,
l’esercito difensore iniziò a trovarsi in difficoltà, ma all’ultimo giunse
l’esercito di Shi Le, che a sorpresa si schierò dalla parte di Long Hui. Colti
alla sprovvista dal tradimento, gli eserciti di Wang Mi e Huyuan Yan subirono
una rotta, con il solo Liu Yao che riuscì a ritirarsi. Frattanto Fotudeng aveva
portato avanti il suo instancabile lavoro diplomatico, convincendo il generale
Liu Kun e Tuoba Yilu, del clan Xianbei dei Tuoba Dai, ad attuare il piano
rigettato qualche mese prima da Sima Yue, ossia di attaccare da nord Pingyang,
il quartier generale di Liu Cong. La popolazione di Luoyang, abbandonata a se
stessa e in preda alla fame e ai briganti, si abbandonò ad una grande festa,
anche se ancora non sapeva quel che il domani le avrebbe riservato.
il prezzo che l’imperatore dovette pagare per la sua salvezza ai suoi
inaspettati alleati fu infatti estremamente alto. Long Hui chiese per sé il
controllo del corridoio di Hexi. Naturalmente non aveva intenzione di governare
direttamente, perlomeno non tutto, quanto di ricevere i proventi del traffico
commerciale sulla via della seta, come era ormai per lui prassi. Nelle sue
intenzioni Zhang Gui sarebbe diventato suo vassallo diretto. Questo però avrebbe
rappresentato un problema formale non indifferente: Long Hui non poteva
semplicemente controllare un territorio imperiale se non per ‘concessione’
dell’imperatore, ovverosia diventandone vassallo; in più, un sottoposto diretto
dell’imperatore non poteva diventare nel medesimo tempo vassallo di un altro
sovrano. Per salvare le proverbiali capre e cavoli, l’imperatore conferì a Long
Hui il titolo di ‘guardiano per la pacificazione dell’occidente’ e di ‘generale
delle quattro commanderie di Dunhuang, Suzhou (Juquan), Ganzhou (Zhangye) e
Liangzhou (Guzang, poi Wuwei)’, pur mantendendo a Zhang il titolo di ‘ispettore
di Liang’. Tecnicamente in questo modo, Zhang continuava a governare la
provincia ma sarebbe stato eventualmente sottoposto agli ordini di Long Hui, a
sua volta (in linea puramente teorica) vassallo dell’imperatore. La principessa
Pei, moglie del defunto Sima Yue venne ‘data’ da Shi Le a long Hui, il quale la
accolse benevolmente presso la sua corte, assieme al figlio Sima Chong (il che
avrà poi delle conseguenze imprevedibili).
Tutto sommato, questo rientrava nelle previsioni; quello che Huai dovette
amaramente digerire fu di investire Shi Le come governatore della provincia di
Shili e ‘duca di Zhou’; in altre parole il controllo sulle due capitali
imperiali di Chang’an e Luoyang, con la (ampiamente plausibile) opzione in un
futuro molto prossimo di farne un feudo indipendente, mentre il sovrano avrebbe
rinviato sine die il ritorno della corte da Dongjing (Kaifeng). Pur senza
esserlo formalmente, de facto Shi Le sarebbe divenuto il nuovo principe
reggente.
Dal canto proprio, Long Hui/Licaone/Lokakjiva non intendeva affatto estendere
oltre il proprio dominio diretto, temendo una eccessiva dispersione di forze.
Non era nemmeno sua intenzione spostare la capitale del regno da Kucha verso una
città più vicina alla Cina, come Vishana (dai cinesi detta Gaochang), l’ultima
città orientale della Serindia vera e propria, ricostruita e abbellita proprio
alla fine del III secolo (esistono ancora i resti del cosiddetto ‘palazzo di
Ardocia, costruito in questo periodo), o ancora più a est Dunhuang (o Tukhara,
come veniva chiamata dai serindici), la già citata ‘porta’ occidentale del
corridoio di Hexi. per il governo del Liang si affidò dunque molto a Zhang Shi,
figlio di Zang Gui e allo stesso Sima Chong, per quanto, non appena fu giunto ad
un’età adeguata, impose a suo figlio Vima Kujula/Beleone (contratto in Vijula,
da cui deriva la dizione cinese di Bai Chu) di risiedere come reggente a Ganzhou,
poi effettivamente nota con il nome di ‘Guishuang’, ossia ‘(città dei) cusciana’.
C’è da dire che gli influssi occidentali, compreso l’insediamento di molti
sogdiani, serindici, tocari cusciani, bugoniani e Jie-chiati (a cui poi si
aggiungeranno altre popolazioni ancora) ebbero un notevole impatto sulla cultura
del corridoio, tanto da darle un'impronta del tutto originale, anche
linguistica.
La caduta della effimera dinastia ‘Han Posteriore’, creata dagli Liu, del resto,
non significò affatto il termine delle guerre e delle violenze. Il nord era in
mano comunque a una serie di generali che, sebbene fossero nominalmente
sottoposti o quantomeno vassalli della dinastia Jin erano in tutto e per tutto
sovrani indipendenti meno che nel titolo. Tra essi le lotte e i tradimenti erano
all’ordine del giorno, come ci raccontano le fonti cinesi. Il crollo della
dinastia era di fatto già avvenuto, mancava soltanto la sua definitiva
formalizzazione. Per questo non si dovette attendere poi molto.
Già Sima Rui, infatti, da Jianye (poi Jiankang, ossia Nanchino), governava in
maniera del tutto autonoma i territori meridionali; già diversi nobili erano
fuggiti presso di lui dal nord, non solo per la situazione caotica, ma perché
mal sopportavano di dover sottostare al dominio di parvenues di stirpe barbara,
come long Hui, Shi Le o Tuoba Yilu. Essi fecero diverse pressioni affinché Sima
Rui si riprendesse il nord; tuttavia, se da una parte il principe Jin li
assecondava a parole sulla necessità di un’azione militare volta a ‘liberare’ il
nord, d’altra parte nei fatti tendeva a tergiversare, probabilmente preferendo
non impelagarsi in guerre potenzialmente disastrose. Del resto, lo stesso sud fu
per diverso tempo in preda a rivolte agrarie, che vennero faticosamente domate
soprattutto grazie al generale Wang Dun. La scelta di Sima Rui di accogliere
nella propria corte molti membri dell’aristocrazia settentrionale suscitò
inoltre notevoli malumori delle potenti famiglie autoctone, specialmente gli
Zhou. Il generale Zhou Yi tramò un colpo di stato contro Sima Rui, ma venne
sconfitto da Wang Dun.
Ciò ebbe però conseguenze per nulla favorevoli a Sima Rui, dato che il
comandante vittorioso a cui doveva la salvezza ‘prese a comportarsi in maniera
arrogante’, come dicono le fonti cinesi; in altre parole, iniziò a comportarsi
come reale signore delle provincie meridionali. Particolarmente precaria divenne
la posizione di Li Xiong, il quale per tutelarsi strinse ancor più forti legami
con Zhang Shi, Murong Tuyuhun e Shi Le.
Nel 318 d.C., Con la morte dell’imperatore Huai per un incidente di caccia
(molto sospetto, anche perché avvenuto poco dopo la morte del figlio quattrenne),
si ebbe naturalmente una crisi successoria. Long Hui ‘candidò’ alla successione
Sima Chong, figlio di Sima Yue, che era sotto la sua custodia; Shi Le invece
preferiva Sima Ye, figlio di Sima Yan, figlio dell’imperatore Wu, candidato
certamente più debole, il cui nucleo di potere era nel Beidi, a nord di Chang’an.
La proposta era apprezzata anche dai Tuoba, ma i generali del nord erano in quel
momento presi da una guerra interna che sarebbe durata almeno fino al 322
(Inizialmente Wang Jun contro Liu Kun e Duan Pidi; una volta sconfitto Wang Jun,
Duan Pidi tradì però Liu Kun. A quel punto Tuoba Yilu intervenne e sconfisse
Duan Pidi, sostanzialmente incamerando tra i suoi domini i territori di ben tre
generali caduti ).
Wang Dun, naturalmente, propose Sima Rui o, al massimo il figlio di questi, Sima
Shao. Dopo un lungo confronto tra alleati, con probabilmente cessione di favori
di cui non siamo a conoscenza, la proposta di Sima Chong venne approvata, con
gran scorno per il sud. Fu a questo punto che Wang Du issò la bandiera della
rivolta e proclamò la dinastia dei Wu posteriori. Il suo attacco a Jiankang fu
rapido, prova ne è di come fosse pronto da diverso tempo a questo colpo di mano.
Il tentativo di oltrepassare il Chang Jiang e conquistare le quattro province
orientali (Yu, Yan, Xu e Qing) fu però sventato da una tempestiva alleanza tra
Shi Le e Murong Hui, che inflissero una decisa sconfitta alle sue armate. Shi Le
tuttavia fallì nel tentativo di prendere Jiankang e dovette accontentarsi della
sottomissione delle regioni dalla sponda sinistra del fiume Azzurro alla
penisola di Shandong per conto del nuovo imperatore (per Sima Chong fu scelto il
nome di Min). Lentamente la situazione si stabilizzò, portando a una nuova e
duratura divisione formale tra nord e sud della Cina. Toccherà poi a Beleone
inserirsi nella nuova crisi cinese, scatenata dalla morte di Shi Le nel 333 d.C.
.
Ormisda I e Ormisda II (280 ca. – 300; 300 - 303, da Battra)
Nonostante Ormisda potesse
contare su un folto contingente di persiani e di Saka, non riuscì o non volle
impedire la crescente ‘barbarizzazione’ del proprio esercito. I Chioniti
continuavano a cercare fortuna come soldati, in maniera non diversa rispetto
agli ultimi sovrani cusciani. Ben presto Ormisda arrivò ad accettare l’esistenza
di un ‘capitano generale dei chioniti’ al suo fianco. Inizialmente solo un
titolo per tenere a bada la riottosità dei clan unno-alani, ben presto l’Afshiyan
si affermò come vero e proprio grado militare, dotato di un crescente potere
politico, in maniera non molto differente dal Magister Militum del tardo impero
romano.
I primi anni di Ormisda come Kushanshah, tuttavia, portano con sé un grande
mistero. Esiste un collegamento tra Ormisda e la grande vittoria dell’imperatore
romano Caro contro Bahram II, nel 283-284?
Le fonti romane, infatti, in particolare Ammiano Marcellino, lasciano capire che
l’avanzata romana verso Ctesifonte fosse stata possibile principalmente perché
il grosso dell’esercito sassanide era impegnato a oriente, per via di una guerra
civile tra lo Shah e suo fratello. D’altro canto però, nessuno degli storici
Yavana cita un evento simile. Metragone e Asinio si limitano a descrivere
(lamentandosene) la crescente ‘unnizzazione’ dell’esercito. E non è finita qui,
poiché ad enigma si aggiunge enigma. Le fonti romane e bizantine successive
lasciano in effetti intendere che la ritirata romana dalla Mesopotamia sia stata
lenta e probabilmente funestata da un vittorioso contrattacco persiano, che
costò la vita a Numeriano, figlio di Caro, per quanto la causa più probabile
nella morte di Numeriano restino una malattia a cui fece seguito l’assassinio da
parte del prefetto del pretorio Apro (a sua volta ucciso dal generale Diocle,
poi divenuto l’imperatore Diocleziano).
Inoltre, lo storico bizantino Zonara, del XII secolo, precisa che la sconfitta
di Numeriano avvenne per opera di mercenari unni, alleati dei sassanidi.
Anche dopo che le fonti yavaniche vennero effettivamente conosciute in occidente
(ossia verso il XVII secolo), rimasero poco note; motivo per il quale la cronaca
di Zonara venne reputata, fino in tempi relativamente recenti, poco probabile
(anche perché trae alcune informazioni dal notoriamente inattendibile Malala,
come la leggenda sullo scotennamento di Numeriano). Quando però, dalla seconda
metà del XIX secolo, si moltiplicarono gli studi di indogrecistica, la versione
del cronografo bizantino riprese quota. Del resto, non era impossibile che
Ormisda avesse ‘prestato’ alcuni contingenti unni al fratello, o che sia stato
egli stesso a condurli contro i romani in ritirata. Favore che tuttavia non
avrebbe molto senso se accettassimo la versione di Ammiano secondo cui fu
proprio la ribellione di Ormisda a togliere forze ai persiani per contrastare
l’esercito imperiale.
Secondo lo storico inglese P. Southern la prospettiva di una ribellione
all’interno delle fila dell’esercito rimane la principale causa del ritiro delle
truppe romane, per quanto ammetta la possibilità che in pari tempo la
risoluzione della rivalità tra i due figli di Bahram I abbia convinto l’armata
imperiale a ripiegare per evitare rischi. P. Porena è invece più possibilista
sul fatto che effettivamente Ormisda (il quale secondo lui non si era ribellato,
semplicemente aveva ancora sotto il suo comando molte truppe reclutate a ovest
per portare a termine la sua campagna di conquista della Battria) sia accorso in
aiuto del fratello e abbia inflitto una importante sconfitta ai romani,
probabilmente appesantiti dal bottino dopo il sacco di Ctesifonte.
Ciò che sicuramente sappiamo è che il Kushanshah Ormisda rimane una figura
piuttosto ambigua e difficile da definire. Le valutazioni degli storici su di
lui oscillano tra due posizioni: chi ritiene che si considerasse l’erede dei
cusciani a tutti gli effetti, quindi che il suo fine ultimo fosse quello di
sconfiggere i Gutti e proclamarsi Vaosileo degli Yavana. In questo senso,
sarebbe stato suo interesse mantenere relazioni amichevoli con suo fratello, in
modo da avere le spalle coperte a occidente in vista delle sue campagne a
oriente. C’è invece chi specula sul fatto che il suo obiettivo fosse tutto
l’opposto, ossia di consolidare la propria base di potere in Battriana, Fergiana
e Sogdiana, da lì manovrando per ottenere il controllo della Persia. L’ostilità
con Gatocacio e le rivendicazioni su Taxila sarebbero state dunque più di
facciata, che reali. Queste due posizioni influenzano pesantemente le
valutazioni sul decisivo anno del 293.
Alla morte di Bahram II, infatti, il nobile di corte Wahnam e il generale
Adurfarrobay sostennero l’ascesa al trono di Ctesifonte del figlio, Bahram III.
Narsete, dall’Armenia, decise però che era il momento di agire, rivendicando il
trono, forte dell’appoggio di molti nobili che consideravano Bahram III un
candidato troppo debole per gestire l’impero, viste le forti tensioni con i
romani. Ormisda, a sua volta, sostenne il nipote muovendosi contro Narsete e
spaccando de facto in due l’impero, con la Mesopotamia e le province caucasiche
e caspiche che sostenevano Narsete e diverse province dell’altopiano iranico che
sostenevano Ormisda. Perché quest’ultimo si lanciò a sfidare il colpo di stato
dello zio? Voleva il titolo di Shahanshah per sé o semplicemente temeva che una
volta divenuto sovrano, Narsete si sarebbe rivolto anche contro di lui? Spesso
viene usato come indizio a favore di questa seconda ipotesi un passaggio di
Metragone in cui lo storico riferisce di un incontro tra Ormisda e un
ambasciatore romano, con un cortese scambio di doni. Non viene aggiunto altro,
ma se ciò corrispondesse a verità è ipotizzabile che il fine dell’incontro fosse
un’alleanza tra Battria e Roma contro Narsete. E’ però piuttosto strano che
nessuna fonte romana o bizantina citi un tale incontro, il che rende l’effettivo
svolgimento di tale missione diplomatica quantomeno dubbio. Forse che le
successive campagne di Galerio sarebbero state concertate con Ormisda
nell’ipotesi di un attacco congiunto da ovest e da nord-est contro l’impero
sassanide? Non lo sapremo mai.
il Kushanshah mosse con il suo esercito verso la fortezza sassanide di confine
di Nishapur, ma la situazione prese da subito una piega poco favorevole al
sovrano di Battra. Per quel poco che ci viene tramandato dagli storici del
periodo, vi furono screzi tra le armate unne portate da Ormisda e l’esercito di
Boraz del casato di Suren (teoricamente uno degli alleati iranici di Ormisda,
assieme all’esercito del casato di Varaz). Ben presto questi dissidi presero il
volto di un vero e proprio scontro, in cui lo stesso Ormisda rischiò di perdere
la vita. Metragone e Tabari affermano che alcuni comandanti chioniti, nella
foga, cercarono di ucciderlo (senza quindi una premeditazione), mentre Asinio
propende più per un tentato assassinio da parte dello stesso Boraz,
profumatamente pagato a questo scopo da Narsete (è in effetti abbastanza
indicativo che diversi membri del casato di Suren siano poi stati consiglieri
degli Shah nel secolo seguente, nonostante fossero originari della Sacastene).
I concitati momenti successivi, vengono così descritti da Asinio:
Giunta la falsa notizia della morte del Kushanshah
persiano, a Battra vi fu guerra tra i generali barbari. l’Afshiyan Goario pensò
fosse giunto il momento di prendere per sé il potere, traendo profitto dal fatto
che molti chioniti si trovavano ancora in quel momento a Nisciapura, dove
avevano menato strage di persiani, forse più per brama di bottino che per
vendetta contro gli assassini di Ormisda. L’unno Nareno, che sino a quel momento
era stato il primo tra i comandanti di Goario, lo ammonì tuttavia con queste
parole: ‘Pazzo tu sei e ci conduci a morte certa! Non importa quanto ti adorni
di profumi, vesti e gioielli; barbaro sei e barbaro rimani. Se poni sul tuo capo
la corona, non passerà un giorno, che tutto il popolo si ribellerà a te. Non è
forse meglio obbedendo comandare e comandando obbedire? Meglio essere freccia,
che essere bersaglio. Meglio essere padroni dell’esercito e suggerire da dietro
il trono, che sedersi su un cuscino pieno di spine!’ Goario tuttavia non si
lasciò persuadere e assaltò il palazzo per tagliare la testa al giovane Ormisda.
Nareno accorse in difesa e sconfisse Goario e tutto il popolo lo acclamò come
salvatore della pace e nuovo Afshiyan. Quando si riseppe che il vecchio Ormisda
era vivo e vegeto a maggior ragione Nareno fu lodato come servo fedele. Per
questa ragione tornato che fu dalla Persia il Kushahnshah lo confermò nel ruolo
e lo volle con sé come suo primo generale. E per tutto il restante regno suo e
poi quello di suo figlio, che gli doveva la vita, nessuno vi era a Battra di più
potente e spesso la sua opinione era tenuta più in conto di quella del re.
Non vi era amore tra i cusciani per i persiani e per gli unni; pur tuttavia
Nareno era abile e astuto e degno di rispetto. Fintanto che fu lui al comando
delle armate la Battria prosperò, evitando inutili contese e molto guadagnando
in ricchezze dalla debolezza della Serica, travolta da nuovi barbari, e delle
liti tra persiani e romani. Nessuno era pienamente contento, sotto il suo regno,
ma ben si poteva dire anche il contrario, che nessuno fosse pienamente
scontento. E questo suo modo di dare e togliere, togliere e dare, blandendo,
illudendo, minacciando, se non buon governo, si può certamente dire migliore di
tanti altri che giunsero dopo di lui.
Come già accennato in precedenza, a quanto si evince da questo brano, Nareno si
comportò per un discreto periodo da eminenza grigia dietro al trono, non molto
diversamente da come avrebbero fatto di lì a un secolo un Ezio o uno Stilicone
all’interno dell’impero romano.
Tornando a quanto accadde in Persia, dopo il rischio corso Ormisda si fece più
cauto, per quanto non rinunciasse a portare avanti la sua campagna di invasione.
Fosse stato Boraz o no a tentare di ucciderlo, resta però chiaro dalle fonti che
i Suren avevano voltato le spalle a Ormisda, forse pensando di diventare con
Narsete governatori generali di tutto il confine orientale dell’impero. Il
Kushanshah, temendo di perdere il controllo sull’intera Sacastene, decise quindi
di abbandonare la via verso il Gurgan e la costa meridionale del mar Caspio e
dirigersi invece a sud, puntando a (ri)prendere possesso della Sacastene e della
Paratene. Mossa poco saggia, pur tuttavia a Ormisda giunse in pari tempo un
inaspettato vantaggio, ovverosia che gli Ispahbudhan del Gurgan e i Vasuparakan
di Spahan (non una delle sette nobili casate partiche, ma comunque molto
potenti) decisero di schierarsi con il Kushanshah. Non sappiamo se ciò sia
dovuto a un lungo lavoro diplomatico o se la decisione sia stata autonoma (e
magari più per contrastare un incremento del potere dei Suren in oriente che
altro), ciò nonostante per Narsete la situazione si fece complicata.
Allo stesso tempo il cesare Galerio mosse contro i sassanidi in Mesopotamia,
rendendo il pericolo critico. Per certo sappiamo che fu in questo frangente che
Bahram III venne rintracciato (nel frattempo era fuggito da Ctesifonte) e ucciso
sulla strada per Spahan. Sia Metragone, sia Asinio, sia gli storici persiani,
sia Ammiano Marcellino concordano tutti unanimemente nell’affermare che sia
stato questo a spingere Ormisda a cessare le ostilità. Gli storici moderni lo
ritengono, tuttavia, molto dubbio. Del resto, nessuno dei cronisti che
descrivono gli eventi è molto specifico su cosa Ormisda ottenne da Narsete in
cambio della pace, il che farebbe pensare che nemmeno per il Kushanshah le cose
stessero andando particolarmente bene.
L’arcano è facilmente svelato grazie a Siricacio. Il cronista Gutto, infatti,
afferma che Gli sciti, volendosi ribellare alla tirannia dell’impostore
persiano, chiesero aiuto al nobile Gatocacio, il quale, per quanto desideroso di
pace, ritenne giusto aiutarli, ammonendo Ormisda con le armi, affinché non
montasse in eccessiva superbia.
In altre parole, di fronte alla possibilità di un’alleanza tra Suren e Gatocacio,
Ormisda accettò il ramoscello di ulivo tesogli dallo zio. E’ molto probabile che
Ormisda ottenne il passaggio sotto il proprio controllo - o quantomeno influenza
- delle provincie di Gurgan (cosa che poi si rivelerà per i Sassanidi
particolarmente catastrofica, visto che in quella regione erano concentrate
molte linee di fortificazione ), dell’Abarshahr (con annessa Nishapur) e dell’Harey.
L’altro lato della medaglia è che Sacastene e Paratene divennero una sorta di
feudo de facto indipendente o stato cuscinetto tra l’impero Sassanide, l’Aryaraja
di Gatocacio e il Kushanshar di Ormisda. In effetti, per un intero secolo, i
Surena batterono moneta propria, fregiandosi del titolo di Sakanshah (oltre a
rivendicare più avanti il diritto di essere uno dei ‘sette re di Yavana’,
definizione di cui poi spiegheremo il significato).
Narsete fu costretto anche a ovest a sottomettersi ad una pace piuttosto
umiliante con i romani, dovendo cedere diverse province della Mesopotamia
nord-orientale, oltre al possesso di parte dell’Armenia.
Fu in relazione a questi eventi che iniziò una prima fase della migrazione di
popoli di stirpe nord-iranica, provenienti dalla provincia del Balasagan (tra
Caucaso e Mar Caspio), verso la Paratene, non si sa se spostati dallo stesso
Narsete a scopo di ripopolare e rinforzare i confini o come mercenari chiesti
dai Suren allo Shah. Lo spostamento di quelli che poi verranno denominati Baloch
si farà poi molto più intenso nei secoli successivi, andando ad alterare per
sempre la composizione etnolinguistica della regione.
.
Gatocacio (280 ca. – 319, da Taxila)
Gatocacio non fu il più
grande e famoso sovrano dei gutti, ma fu, probabilmente, il più abile.
Nonostante paia evidente dalle cronache di Sirigutto che non avesse idee
esattamente identiche al padre dal punto di vista geopolitico (nel senso di non
avere una mentalità ‘secessionista’; prima o poi sarebbe arrivato il momento di
ricostituire l’impero Yavana e rivendicarne il titolo) fu molto abile a
depotenziare qualsiasi occasione di scontro, con i ‘concorrenti’, serindici e
cusciano-sassanidi, impegnandosi piuttosto a consolidare il proprio potere in
India. In un primo momento, si dovette soprattutto guardare dall’intraprendenza
del regno Licchavi, che riuscirà ad arginare solo attraverso una unione
matrimoniale tra suo figlio Ciandario (Chandra) e la principessa Comaria (Kumaradevi).
Dal punto di vista interno, il principale problema sarà la politica religiosa:
il casato dei Gupta si presentò infatti in un primo momento come restauratore e
rivitalizzatore della religione brahminica. Si trattava di una svolta epocale,
dopo secoli di buddhismo imperante. Anche se Gatocacio fu sempre estremamente
attento a non tradurre la sua posizione in materia di fede in ostilità nei
confronti dell’enorme potere delle istituzioni monastiche buddhiste, lo
scontento, più o meno latente, non poteva essere evitato. Nacque presto anche il
problema contrario, ovverosia il desiderio di una restaurazione più aggressiva
della religione vedica, con una politica verso i seguaci del Buddha (e di
Cristo, come poi vedremo), giudicata troppo morbida. Con il passare del tempo,
sorse però un ulteriore ostacolo, all’interno del vaishnavismo promosso dalla
corte, che prese una piega sempre più ‘eterodossa’. Il vaishnavismo divenne di
fatto un Krishnaismo mascherato, in cui il Baghavat Gita diveniva il testo
centrale e Vishnu assumeva le caratteristiche un tempo attribuite a Vasudeva. In
estrema sintesi il vaishnavismo promosso dai Gupta pendeva decisamente verso una
sorta di monoteismo panenteista, in cui al centro vi era Vishnu e i suoi diversi
avatar. Era una evoluzione che da una parte strizzava l’occhio al buddhismo (era
facile ricondurre la figura del Buddha a un avatar del dio supremo), dall’altra
al cristianesimo (in particolare nella figura triadica del Radha-Krishna o la
figura del Bala Krishna bambino). Se da una parte questa visione religiosa era
più rispondente al progetto politico universalista dei Gupta ed incontrò un
certo successo e diffusione, dall’altra, non era incontrata con unanime favore,
specie dalle scuole brahminiche più intransigenti o dalle scuole religiose
indiane non vaishnavite (come lo shaivismo). Questo clima di tensione crebbe
quando Gatocacio provò (e in ultima analisi fallì) a gerarchizzare il
vaishanvismo e cooptarlo come struttura di potere, non diversamente da come era
stato fatto con il buddhismo Adeshavada. Il risvolto negativo di questo
tentativo fu di caratterizzare in senso ‘etnico’ l’appartenenza a questa o
quella religione, cosa insolita nel subcontinente indiano, anche se il
progressivo abbandono del progetto non portò comunque all’estremo questa
tendenza. Certo è che la questione religiosa permise ai sovrani delle altre
‘metà’ dell’impero di atteggiarsi a eventuali restauratori della preminenza del
buddhismo, il che sarà foriero di conseguenze più avanti.
Dal punto di vista esterno, invece, il suo vero e mortale nemico esterno sarà
Pravarasena I, sovrano dei Vakataka, il quale aveva l’ambizione di espandere i
propri domini verso nord e strappare ai Gupta il titolo che si erano
auto-assegnati di Vaishnaraja. Per diverso tempo, a dire il vero, l’influenza di
Taxila su Vatsagulma (la capitale dei Vakataka) non sembrò in discussione: le
due dinastie non solo erano alleate, ma l’impressione era che re Vindhyashakti
di Vakataka venisse considerato dai Gupta una sorta di vassallo. I mercanti
dell’India settentrionale, in particolare della Surastene e della Patalene,
commerciavano liberamente e proficuamente nei territori del Deccan. Quando però
Pravarasena giunse al potere, fu evidente sin da subito la sua intenzione di
alterare gli equilibri di potere. In particolare, fu sufficientemente astuto da
intuire molto presto l’opportunità datagli dal tentativo di instaurazione del
vaishnavismo quasi-monoteista da parte di Gatocacio, ossia di mostrarsi
accogliente e tollerante verso diverse frange di scontenti. Involontariamente,
Pravarasena promosse in questo modo la penetrazione missionaria verso il sud
dell’India di buddhismo, jainismo e cristianesimo, anche oltre i suoi territori
(il che scatenò una vera e propria ‘rivoluzione’ anti bramhinica dai risvolti
sociali nelle regioni Tamil). Fu probabilmente il successo dell’universalismo
tollerante di Pravarasena a spingere Gatocacio a ridimensionare successivamente
i suoi sforzi nel creare una religione-ideologia di stato. Intorno ai primi anni
del IV secolo si ebbe forse il momento più difficile per il sovrano Gupta,
quando l’impero Vakataka lanciò a sorpresa un attacco contro la Surastene,
riuscendo a conquistare Barygaza. Si trattò di un colpo durissimo, che ebbe come
prima reazione una persecuzione contro i cristiani della Surastene, considerati
complici di Pravaresena e potenziali traditori del regno. Gatocacio sperava che
additare i seguaci di Cristo come nemici avrebbe fornito un comodo nemico
interno verso cui catalizzare lo scontento, ma così non fu, visto che persino
alcuni potenti monasteri buddhisti della regione (che pure durante la
persecuzione Vasodeiana di circa cento anni prima erano stati favorevoli alle
vessazioni contro la nuova fede) si schierarono contro il governo e a favore dei
cristiani perseguitati.
Affresco del IV secolo da Kucha (in HL dalle grotte di Kizil)
.
La situazione in Africa
Le notizie che giungevano dalla madrepatria turbarono solo entro certi limiti la vita quotidiana delle colonie yavaniche in Africa. Come altre volte era successo, l’affievolirsi del controllo da parte del centro, aumentò l’indipendenza della Barbaria, non diversamente dalla provincia romana di Ethiopia, che con i problemi di fine III secolo di Roma, non poteva essere centro propulsore di nuove espansioni, per quanto gli imperatori illirici furono sempre molto attenti a che il porto di Adulis - fondamentale per l’economia romana - fosse ben difeso. Paradossale ma vero, nel V e VI secolo, lo stretto legame creatosi tra Adulis, Aden e Dioscoride sarà estremamente importante nel dare nuova linfa all’impero Yavana. Ad ogni modo, all’inizio del IV secolo sia Roma, sia Taxila affidarono, facendo buon viso a cattiva sorte, la sicurezza delle rotte del mar Eritreo al regno Omerita, che proprio sulla incapacità dei grandi imperi di controllare al meglio le proprie province più periferiche costruì la propria età dell’oro. Re Shammar Yar’ish, oltre a una serie di campagne militari di conquista, fu un grande mecenate e fu probabilmente lui a permettere l’insediamento di missionari cristiani nel regno. Il cristianesimo ebbe un grande impatto sulla società del corno d’Africa e dell’Arabia sud-occidentale, diventando in poco tempo la religione maggioritaria sia della provincia romana, sia dei territori limitrofi, governati da principi locali; meno legato ai missionari provenienti da Egitto o Siria, anche nella Barbaria yavanica si diffuse il cristianesimo, più che altro per via della florida comunità cristiana della Surastene, unitamente alle persecuzioni dei Gupta, che dovevano rendere Dioscoride e Opone come ‘porti sicuri’ e al riparo da azioni repressive dello stato. Le relazioni tra le diverse sette cristiane (yavaniche, miafisite, nestoriane) non sempre erano pacifiche e nel secolo successivo si arrivò alla tendenza di scontri opportunistici tra diverse famiglie di mercanti anche in ambito religioso. I sovrani Himyariti accolsero con favore anche il crescere delle comunità ebraiche nei loro territori, tanto che di lì a poco diversi sovrani si convertirono all’ebraismo (si crearono anche scontri di fazione e guerre civili tra pretendenti al trono cristiani, ebrei e pagani. Anche i filo-zoroastriani e i filo-buddhisti erano presenti, ma in un ruolo maggiormente defilato). Quello che non riuscì al potere militare, riuscì a quello religioso, anche a livello di influenza sui regni nilotici tra Egitto ed Etiopia, che uno dopo l’altro aderirono alla nuova fede cristiana; in tal modo si creò una forte influenza del patriarcato di Alessandria fino al golfo di Aden. Nei secoli successivi le dispute giurisdizionali tra Alessandria e Patala saranno roventi, tanto da poter essere additate come una causa della nascita dei patriarcati autocefali di Acusio e Zafar. Ancor più lontana e quindi autonoma da qualsiasi potere centrale era Rhapta. Per quanto questo emporio non fosse mai stato ‘conquistato’ nel senso proprio del termine, un sempre maggior numero di mercanti di Dioscoride aveva nei secoli popolato questo avamposto commerciale (e la vicina Menouthias), mescolandosi alla popolazione locale (e a volte sottomettendola: oltre ad avorio e gusci di tartaruga, gli schiavi erano il prodotto più apprezzato di Rhapta). Il porto di Rhapta era frequentato anche da audaci navigatori che venivano dal lontano sud-est asiatico, con le loro tipiche barche a bilanciere, oltre che mercanti arabi e, molto più sporadicamente, persiani e romani (provenienti dai porti egiziani ed etiopi). Presto Rhapta divenne sostanzialmente un regno indipendente e i suoi mercanti cercarono e fondarono avamposti ancora più a sud, fino a creare porti anche nell’isola di Andradivipa (poi semplicemente Andra, storpiata in Europa come Andriana o Adriana), scarsamente popolata da genti provenienti dal sud-est asiatico. Anche Rhapta e il suo piccolo impero coloniale dovette però difendersi dalla propria versione delle invasioni barbariche: si trattava in questo caso di popolazioni nomadi provenienti dall’interno. In maniera sempre più massiccia, infatti, nuove tribù migravano verso la costa, generando screzi con la popolazione locale. Nel corso degli anni, la pressione demografica di questi nuovi venuti (che nel XIX secolo vennero complessivamente denominati dagli etnolinguisti ‘popoli bantu’) si fece ingente, tanto che essi divennero la componente maggioritaria della popolazione degli insediamenti mercantili del sud-est africano. Nel medesimo tempo, però, essi assimilarono molti usi e costumi arabo-yavanici e persino la lingua ne venne profondamente modificata. Iniziarono a chiamarsi Pratera, termine di origine yavanica che significherebbe ‘gente della costa’, in contrapposizione ai Mesghiah (sempre un termine di origine yavanica), la ‘gente dell’interno’. Per molto tempo, però i mercanti provenienti da Dioscoride e in generale dai porti Yavana continuarono a definirli con il termine dispregiativo di ‘Melinoi’, che nella lingua yavanica di Barbaria vuol dire ‘neri’, ma allo stesso tempo ‘sporchi’, ‘impuri’, ‘selvaggi’.
.
Peroz (303 - 330 ca., da Battra)
Peroz Kushanshah gode di
cattiva fama a livello storiografico, ma più di un indizio fa ritenere un
giudizio nettamente negativo sul suo regno perlomeno eccessivo, se non
immeritato. Il fatto stesso che sia riuscito a restare sul trono per ben
trent’anni in un clima così arduo attesta già in parte come non fosse certo uno
sprovveduto, per quanto possa essere vero che il suo reale potere fosse
relativo. Sotto di lui, infatti, proseguì il dualismo inaugurato con Ormisda,
tra il sovrano, persiano e l’Afshiyan, ossia il capo militare unno, tecnicamente
sottoposto al re, ma di fatto detentore del vero controllo sull’esercito. A
questo dualismo si lega in effetti proprio il mistero relativo all’inizio del
suo regno. Dal punto di vista della narrativa storica del periodo il suo
predecessore, Ormisda II, praticamente non esiste. Si passa direttamente da
Ormisda I a Peroz. Viene citato un ‘giovane Ormisda’, durante le guerre tra
Ormisda I e Narsete e che regnò dopo il padre, ma poi, quasi per magia, questo
personaggio scompare senza lasciare traccia. Per quanto possa essere
comprensibile una svista di questo tipo da parte di Asinio, che scrive secoli
dopo, lo è molto meno da parte di Metragone, che di quegli eventi è quasi
contemporaneo (fl. intorno al 360 ca.). Eppure le prove archeologiche sono
chiare: da Ormisda I a Peroz esiste un breve periodo in cui c’è una monetazione
differente, attribuita a un ‘Ormisda II kushanshah’. Una spiegazione piuttosto
diffusa è quella di pensare che Ormisda II sia semplicemente il figlio
dell’imperatore persiano Narsete, che poi diverrà egli stesso Shahanshah. Nello
iato tra la morte di Ormisda I e il raggiungimento da parte di Peroz dell’età
adatta per governare, il futuro sovrano Sassanide avrebbe governato come
reggente, battendo moneta propria, per poi lasciare la Battria e dirigersi a
Ctesifonte. Metragone avrebbe aggiunto e inventato a posteriori il pezzo sul
‘giovane Ormisda’ per non trovarsi nell’imbarazzo di descrivere un periodo di
governo da parte dei sassanidi. Poi, dimenticatosi dell’artificio narrativo
usato, sarebbe andato avanti per la sua strada. Questa ricostruzione, se
ragionevole per molti aspetti, lo è meno per altri, per esempio considerando che
Ormisda (I) aveva mosso guerra allo zio Narsete e si era impossessato di alcune
province nord-orientali dell’impero persiano. O il fatto che Metragone
solitamente non risparmia critiche ai governi in carica, per cui è poco
verosimile che abbia volontariamente glissato. Alcuni storici propendono per una
damnatio memoriae e una cancellazione delle pagine metragoniane dedicate a
Ormisda II, ma, qualora fosse davvero il caso, si farebbe fatica a comprendere
il mandante di questa operazione e il motivo preciso. Inoltre, possibile che i
rapporti tra i due stati fossero poi tanto migliorati da poter concepire una
manovra di questo tipo? Poi, perché non annettere direttamente il regno cusciano
all’impero persiano a quel punto? Sarebbe stato molto più pratico eliminare una
dinastia che sarebbe potuta, in futuro, tornare ostile allo Shah. Sicuramente
Metragone fa distrattamente notare che ci fu una certa instabilità nel passaggio
di consegne tra Ormisda(a questo punto, quale? Il primo o il secondo?) e un
ancor molto giovane Peroz, ma niente di particolarmente serio e che non sia
stato celermente gestito dal chionita Nareno, ancora vivo e vegeto ed eminenza
grigia dietro al trono. Si può in alternativa pensare a un usurpatore che in un
momento di minorità del monarca abbia preso il controllo di alcune regioni del
regno e deciso di battere moneta propria. Ma può un predone usurpatore non
venire citato dal principale storiografo di riferimento del periodo? Può un
semplice predone arrivare a battere monete recanti il suo nome? Ad oggi, siamo
incapaci di fornire adeguate risposte a tali quesiti.
Sia come sia, da quel momento Peroz resistette sul trono per venti-trent’anni (a
seconda di quanto si voglia far durare il regno di Ormisda II) nonostante il
mondo intorno a lui in quell’intervallo di tempo cambiasse rapidamente e
radicalmente.
Il primo fattore di mutamento fu l’accrescersi della potenza unna. Abbiamo già
sottolineato come la descrizione delle quattro schiere unne stanziate in base ai
quattro punti cardinali sia sostanzialmente un’invenzione letteraria. Quello che
è certo è però che gli unni erano divisi in clan, non necessariamente in buoni
rapporti tra di loro. I chioniti (che forse è solo una traduzione impropria del
termine generico ‘unni’) furono le prime avanguardie, ma fu durante il regno di
Peroz che la pressione sulla Transoxiana si fece davvero ingente.
Un tempo si riteneva che il passaggio di potere dai Chioniti agli altri clan
unni fosse stato una sorta di ‘progressione lineare’, senza soluzione di
continuità: una semplice sostituzione dinastica al vertice attraverso colpi di
stato, più o meno come nell’impero cinese. Furono gli stessi storiografi
dell’epoca a farlo intendere, nella loro tendenza, tipica del mondo antico, di
trovare (o inventare) genealogie, legami e discendenze. I chioniti sarebbero
stati scalzati dai kidariti, poi dagli alconi e infine dagli eftaliti, ma sempre
dello stesso popolo si trattava.
Al giorno d’oggi, invece, si tende a slegare la ‘prima ondata’, dei chioniti,
del tardo III secolo, e quelle successive del IV e V secolo (tanto da supporre
che si tratti di popoli molto diversi tra loro, cui si da’ genericamente quanto
impropriamente il nome di ‘unni’). Causa determinante di queste ultime furono
infatti gli eventi cinesi. La guerra degli otto principi e la caduta nella
semi-anarchia della Cina settentrionale si collegò fatalmente a una serie di
annate povere di pioggia, tanto da produrre lunghi periodi di carestie.
A farne le spese furono molte popolazioni ‘barbare’ che vivevano al confine con
l’impero cinese. Affamate e bellicose, alimentarono gli eserciti degli ambiziosi
generali che si contendevano il potere, non facendo però che aggravare
ulteriormente la situazione, aggiungendo devastazione a devastazione. Molte
popolazioni migrarono dunque verso ovest, l’unica direzione possibile; in tal
modo premendo, come un effetto domino, su quelle confinanti. Forse questo
processo fu addirittura etnogenetico: per quanto sia vero che la tradizione
metragoniana vuole che gli unni siano iranici, più o meno lontanamente
imparentati con gli alani, è altrettanto plausibile che questi stessi ‘unni
iranici’, si mescolassero con popolazioni non iraniche provenienti da est,
probabilmente proto-turche, il che contribuì a creare qualcosa di nuovo e
originale. Si tende quindi a pensare ai chioniti come all’unica tribù unna
prettamente iranica, mentre i successivi gruppi (soprattutto Alconi ed Eftaliti)
sempre più come a ‘unni solo nel nome’.
Il mistero ricade così sulla lingua da loro parlata. Le lingue unniche
centroasiatiche a noi note sono inequivocabilmente iraniche nord-orientali,
avvalorando dunque in superficie l’ipotesi di una continuità tra i chioniti e
gli altri gruppi. Ma con tanti e tali fattori esterni e una evoluzione talmente
divergente, da risultare molto probabile una (re?)iranizzazione successiva su un
sostrato differente (proto-turco, proto-mongolo, ruranide, chiantulo). Ciò fece
pensare a diversi storici del passato che esistette un tempo e un momento in cui
la lingua unna propriamente detta fosse proto-turca e che solo dopo, con il
contatto con le popolazioni indoeuropee dell’Asia centrale, essa si iranizzò e,
appunto, prese il nome di unno, ‘rubandolo’ ai chioniti. Più recentemente, molti
propongono una visione più sfumata delle vicende, ma forse più verosimile: un
ancestrale ‘unno prototurco’ forse non vi fu mai. Fu nel momento stesso in cui
si formò l’orda unna che si affermò la necessità di una lingua franca in grado
di far comunicare i singoli clan. E questa lingua non poteva che essere iranica,
visto il prestigio locale, pur con, naturalmente, elementi presi a prestito
dalle parlate tribali non-indoeuropee preesistenti (quindi anche proto-turche).
Per chiudere il cerchio, dunque, la parentela tra i Chioniti e i successivi
Kidariti, Alconi ed Eftaliti, dove risiede? I Chioniti, probabilmente influirono
culturalmente e linguisticamente (tanto da ‘battezzarli’ con il loro nome di
unni) sugli altri tre (nel caso dei kidariti probabilmente anche imponendosi
come gruppo al vertice) che altro non erano che un coacervo di tribù fuggitive
dalle grandi carestie della Cina nord-occidentale e dalle steppe altaiche. Resta
da chiarire allora il motivo per cui le poche parole rimasteci degli unni
‘occidentali’, ossia quelli che raggiunsero e imperversarono nell’impero romano
nel V secolo, siano apparentemente di origine turca. Ma su questo torneremo più
avanti.
Riprendendo il discorso prettamente storico su Peroz, il primo evento decisivo
nel piano inclinato verso il declino fu la ribellione di Mahi, nobile sogdiano
di Buxarak (Bukhara), in nome di un vago legittimismo antisassanide, velato da
anti-zoroastrismo. Approfittando della giovane età del monarca, Mahi si proclamò
‘legittimo Vaosileo’ contro ‘l’impostore straniero e il suo esercito di
barbari’, raccogliendo intorno a sé un discreto numero di seguaci. Nareno,
tuttavia, riuscì a ridimensionare la rivolta, prevalentemente spaccando il
fronte nemico con generose promesse in caso di deposizione delle armi. Mahi non
si diede per vinto e sembrò per diverso tempo che il generale chionita non
volesse nemmeno agire con decisione contro di lui. Infine, però, raccolto un
forte esercito, riuscì a schiacciare, nel 305, la rivolta. Le armi ideologiche
che aveva impugnato il ribelle erano tuttavia dure a morire e pochissimo tempo
dopo, il testimone della rivolta anti-persiana nel Tokharistan venne preso dal
ben più abile Shaka, tocario di origini scitiche, il quale, con furbizia,
trasferì il suo quartier generale più a nord, al confine con la Bugonia. Così
precisa Asinio:
Shaka Cusciano, come egli amava farsi chiamare, fu
ben più astuto di sire Mahi. Per ben che i suoi fossero originari perlopiù della
Battria e della Sogdiana, sapeva anche che lì era dove il potere di Nareno era
più forte e che gli Alani della Corasmia ne avrebbero fatto scempio, se si fosse
trincerato a Buxara. Perciò egli fuggì nella Sugiabene, su nel nord, ben sapendo
che se si fosse stanziato in Suyab, sarebbe stato più difficile per Nareno
stanarlo, poiché molte nuove stirpi di unni e altri popoli in quel torno di
tempo si stavano insediando nella vecchia Bugonia giungendo da oriente e da
settentrione, ed essi non obbedivano agli ordini suoi, né di alcun altro.
D’altro canto, a sire Licaone di Cuscia e ai i nobili di Armalaca non dispiaceva
avere un ‘vero re dei tocari’ da omaggiare e sostenere vicino ai propri confini,
così da indebolire il signore persiano Peroz, sottomesso agli unni, che
tiranneggiava a quel tempo sulla Tocaria.
Le parole dello storico fanno
comprendere come la vicinanza alle province sotto il controllo del Re di Kucha
rendevano difficile, da parte del potere centrale in Battria, andare a colpirlo.
Peroz perdeva così un altro importante introito commerciale, in quanto Suyab era
l’ultima grande città ai piedi delle montagne sulla via della seta
settentrionale, prima di entrare nella Bugonia. Altro particolare interessante,
che sottolinea non solo Asinio, ma anche Metragone, è che già all’epoca, la
‘vecchia Bugonia’, ossia la valle alluvionale sulle rive del lago Bugone
(l’antica terra degli Usci) iniziava proprio in quel periodo ad essere invasa da
nuovi barbari, che con una certa dose di confusione, sono chiamati genericamente
‘unni’.
Shaka rimase nel suo centro di potere alternativo sin oltre la morte di Peroz,
per quanto non riuscisse ad andare nemmeno vicino a organizzare una riconquista
del Tokharistan, rassegnandosi ben presto a diventare uno stato vassallo dei
Kucheani. Ad ogni buon conto, la sua ribellione generò un discreto flusso di
monaci buddhisti ‘della vecchia scuola’ (Sanahvada), come ormai veniva chiamata
al nord la dottrina Adeshavada, che dal crollo della dinastia Cusciana aveva
subito una costante emorragia di fedeli a vantaggio del Mahayana, da sempre
molto più critico nei confronti del potere, oltre che di nuove religioni
emergenti come lo zurvanismo, corrente fatalistica e rigidamente dualistica
dello zoroastrismo e, soprattutto, del Manicheismo.
A proposito di quest’ultima fede, è rilevante notare che Sisinnio (Sisin),
successore di Mani, fuggì alle persecuzioni da parte dello Shah sassanide,
proprio presso Ormisda I Kushanshah, sapendo che le parole del maestro avevano
trovato vasta eco presso le popolazioni barbare al confine con l’impero
persiano. Non sappiamo se poi Sisin sia stato effettivamente consegnato da Peroz
nel primo decennio del IV secolo alla corte sassanide, oppure sia tornato di sua
spontanea volontà a Ctesifonte per inseguire il martirio al pari del maestro.
Certo è che con la sua predicazione nella regione, la religione manichea iniziò
a diventare un fattore ‘identitario’ per alani e chioniti (anche molti sogdiani
si convertiranno a questa fede; più restii saranno i tocari, che vedranno come
‘troppo persiano’ il nuovo culto), il che nei decenni a venire sarà foriero di
importanti conseguenze.
Una nuova, grande crisi avverrà con la ‘guerra civile chionita’, del 314-315.
Alla morte di Nareno, infatti, al vertice della macchina militare unna si creò
un vuoto di potere. Peroz conferì il titolo di Afshiyan alternativamente a
diversi generali, in questo giudicato molto negativamente da Metragone. E’
invece piuttosto plausibile che il tentativo di Peroz fosse quello di ridurre il
peso della carica, giocando sulle reciproche rivalità. Vero è che si trattava di
un gioco pericoloso; la situazione ben presto gli esplose effettivamente in
mano. Si creò infatti una feroce guerra interna tra l’alano Sangabano, che aveva
la propria base di potere nella regione ossiana e Cancasio (Kankas), signore
chionita di Cimicanda (Chimkand, HL: Shymkent). Cancasio decise di detronizzare
infatti Peroz e sostituirlo proprio con Shaka di Suyab, probabilmente da lui
ritenuto più debole e malleabile.
Shaka cusciano teneva giustamente in gran sdegno gli
unni e certo non avrebbe desiderato governare con il loro aiuto. Sarebbe stato
semplicemente sostituire una statua di Buddha con un’altra, mentre gli unni
facevano il bello e il cattivo tempo. Ma, messo alle strette dai suoi
consiglieri, non rifiutò gli ambasciatori di Cancasio e prese tempo.
quest’ultimo tuttavia, peccò di fretta e presunzione e, senza attendere risposta
o adeguato rinforzo, invase la regione di Ostrosene, occupando la città di
Chach. Non avendogli Sangabano opposto alcuna resistenza, egli pensava che il
nemico si fosse trincerato in Battra. Al contrario, egli si era nascosto nella
valle di Catolana (Khatlaan, HL: Kulob), dove aveva raccolto molte forze
provenienti dalle regioni scitiche del sud. Quando Cancasio si gettò verso
Battra, Sangabano gli piombò alle spalle dalle alture e ne fece massacro. Per
quanto ai nostri occhi lo stesso Sangabano altro non è che un alano, un barbaro
eretico, grande fu la sua impresa. Dacché nacqui infatti, ancora deve giungere
il giorno in cui i miei occhi vedano ripetersi una sconfitta degli unni in
battaglia. Fu infatti l’ultima volta in cui un esercito di unni vide disfatta
che non provenisse da altri unni.
Come sottolinea Metragone, Peroz trovò un nuovo difensore del trono nel generale
alano. Ma era questione di tempo. Il peso degli unni di lì a poco si sarebbe
ulteriormente accresciuto.
A partire dal 320 circa, infatti, una nuovo clan unno oltrepassò lo Iassarte:
erano gli unni rossi, o Kidariti. Per un certo periodo, questi ultimi
accettarono la sovranità chionita e accettarono di non stanziarsi oltre la
sponda meridionale del fiume. Quelli dal 320 al 325 furono anni probabilmente
fondamentali. Il principato chionita di Cimicanda (ancora in piedi nonostante la
ribellione di Cancasio) divenne il ‘guardiano’ degli unni rossi e molti dei loro
capi si convertirono al manicheismo (e con esso, forse, anche alla lingua
chionita). Sembrava ci fossero tutti gli ingredienti per una ‘assimilazione
pacifica’ dei kidariti nel sistema imperiale. Sangabano, tuttavia, non si mostrò
abile quanto Nareno e, temendo che i Chioniti si potessero alleare con i nuovi
venuti per soffiargli la posizione, decise di sobillare i Kidariti.
Sangabano indusse Giosadione (Yosada), capo degli
unni rossi a occupare Cimicanda e prendere il posto dei chioniti come ‘guardiani
dei confini del regno’. Giosadione accettò e fece quanto Sangabano aveva
ordinato. Grande fu lo scontro tra le due schiere di unni, ma i nuovi venuti
erano più feroci, nella loro barbarie e ebbero infine la meglio. Sangabano si
convinse dunque di schiacciare con i suoi sandali entrambi i clan unni, dopo
averli messi l’un contro l’altro; intelligente si credeva, in questa sua
trovata. Lo stolto non si accorse che era ben stato raggirato. Giosadione era
più astuto di quanto lo si credeva. Si alleò rapidamente con i capi dei chioniti
rimasti e decise di unire tutti gli unni sotto la sua bandiera. Marciò con la
velocità di una folgore a Battra e distrusse sul cammino Sangabano ed i suoi.
Spaventati, gli sciti e i tocari suoi alleati si ritirarono oltre la
Paropamiside, tanto che molti scapparono fino a Taxila e implorarono re
Ciandario degli Ari di offrire loro ricetto da tanto terrore. Giosadione aprì le
porte del palazzo e lanciò la testa di Sangabano al principe Peroz. Quindi
disse. ‘Se vuoi salva la vita e il tuo seggio dorato, mi darai il tempo per
rendere mio e dei Kidar questo regno per sempre. Se combatti, la tua testa
finirà sulla mia lancia. Ma allora, non tanto per amor tuo, quanto per sdegno,
il tuo popolo, forse, si solleverà contro gli unni e riuscirà a scacciarmi, ché
ancora siamo troppo pochi. Cosa preferisci, dunque? Perdere la vita per sperare
di cacciarci, o aver salva la vita, ma garantendoci almeno dieci generazioni di
dominio?’ Il pavido persiano rispose che preferiva vivere, così che il regno da
quel momento in poi fu condannato a subire il dominio unno.
Tralasciando i toni apocalittico-profetici di Metragone, la cui ricostruzione
del dialogo tra Yosada e Peroz sembra un artificio narrativo davvero poco
verosimile, la percezione che fosse cambiato qualcosa nei rapporti di potere
effettivamente ci fu. Il generale barbaro vittorioso ancora, per prudenza, non
reclamava la corona, ma la sensazione che fosse semplicemente questione di tempo
era nell’aria. Metragone non lo riporta, ma Asinio, più sensibile dal punto di
vista etnografico, ricorda infatti che gli unni divennero man mano tanti e tali
che Yosada e gli stessi capi dei kidariti non sapevano come gestire i nuovi clan
che continuavano ad affluire da est, visto che non bastava più inquadrarli in
una sorta di ordine militare, lasciando nel frattempo intatte le vecchie
strutture del potere civile. Pur essendo vero che il patriziato urbano del
Tokharistan doveva la sua ricchezza e la sua posizione più alle attività
mercantili che alla terra posseduta, è altrettanto vero che un’eccessiva
pressione demografica - in una regione in cui il suolo fertile distribuibile non
era abbondante - avrebbe inevitabilmente generato una situazione esplosiva.
Yosada e i successivi capi kidariti cercarono di risolvere il problema toccando
il meno possibile le aree più densamente popolate e spingendo i nuovi venuti
verso sud, nelle zone al confine con l’impero persiano e con il regno dei Gutti.
Era una scelta strategica sensata: si rafforzavano i confini e si risparmiavano
da eventuali saccheggi le città carovaniere della Transoxiana, l’asse portante
dell’economia. Non era però scontato che i clan provenienti dalle steppe
orientali accettassero supinamente di essere insediati in zone in generale aride
e montuose, peraltro abitate da popolazioni poco disposte a condividere le già
scarse risorse naturali (la Paropamiside e il Caucaso indico erano abitate da
popolazioni iraniche di ceppo linguistico differente dai Saka, dai Sogdiani e
dai Tocari).
.
Cenni sul cristianesimo yavanico tardoantico: Il viaggio di San Melindo
San Melindo è considerato in
generale, dopo san Tommaso Apostolo, il padre fondatore del cristianesimo
indiano. E’ effettivamente la sua opera che fissa per iscritto i fondamenti
dottrinali dello Iavanesimo, di cui si è già accennato (ipostasi ‘ritardata’
delle due nature di Cristo, con la natura divina che prevale con la resurrezione
su quella umana, dopo un percorso ascetico per eliminare ogni desiderio che ha
come vertice la morte in croce). Nonostante la sua posizione si sia nel tempo
affermata come largamente maggioritaria, è però opportuno notare che, non
diversamente da quanto accadde in occidente, anche il cristianesimo yavanico fu,
tra III e VI secolo, attraversato da una dialettica interna su molteplici
questioni, quali i confini precisi della doppia natura di uomo-Dio di Gesù
Cristo, l’esistenza o meno della metempsicosi e, soprattutto, la natura del male
e del peccato (e la via per purificarsi da esso). Rimandando ad altre opere la
trattazione specifica delle varie correnti in essere, è però interessante
quantomeno evidenziare alcune sostanziali differenze metodologiche rispetto al
cristianesimo ‘mediterraneo’. Innanzitutto, il rapporto tra il tempio e la
comunità risentì molto del preesistente esempio buddhista, per cui si impose
molto presto un modello incentrato sulla vita ascetico-monastica di una comunità
ristretta di discepoli, che in vario modo interagivano con la comunità. Era pur
vero però che lo slancio evangelico dei cristiani imponeva un diverso
comportamento dei seguaci di Gesù rispetto a quelli buddhisti, tanto che venne
rafforzato il meccanismo del diaconato permanente. Il fine era di entrare in una
dialettica (volutamente, rispetto alla concorrenza delle altre fedi) più intensa
con la popolazione. In sostanza, la struttura delle comunità cristiane yavaniche
rimase impostata secondo il dualismo diaconi-presbiteri (ironicamente,
nonostante rispetto ai primi secoli le cose siano molto cambiate e le differenze
molto più sfumate, è tuttora piuttosto difficile spiegare a un cristiano di rito
Yavana, anche a quelli di obbedienza cattolica, la differenza tra un prete e un
monaco, visto che per lui sono più o meno la stessa cosa; viceversa, molte delle
attività di un prete occidentale saranno a lui poco comprensibili, perché si
chiederà il motivo per cui non sono i diaconi che se ne occupano). Anche le
gerarchie del potere ecclesiastico ebbero per forza di cose delle evoluzioni
divergenti. Appurato che i vescovi erano i successori degli apostoli e quindi
‘capi’ delle comunità, si poneva la questione della trasmissione del carisma.
Doveva essere per elezione (e da parte di chi?) o per nomina? Vi fu un periodo
iniziale piuttosto caotico, in cui ogni monastero importante desiderava avere un
‘proprio’ vescovo, motivo per il quale a Patala, cuore del cristianesimo
yavanico, vi fu una fase in cui vi furono diversi vescovi contemporaneamente.
Dopo lunghi scontri e laboriose mediazioni, si creò effettivamente un principio
vagamente territoriale (nel senso che non ci poteva essere più di un vescovo per
città, generalmente nominato dai presbiteri e i diaconi delle varie chiese
riuniti in assemblea, a volte anche con la partecipazione anche dei fedeli più
influenti), ma sempre e comunque subordinato al principio della ‘paternità’. In
questo senso la parola ‘Patriarca’ nel mondo yavanico non ha mai assunto un
significato territoriale (per esempio, per tradizione, i patriarchi di Patala
sono stati per lungo tempo tre, ora due), ma più aderente alla sua originale
etimologia. Un monastero ‘figlio’ (che abbia o meno un vescovo o un prefetto al
suo vertice), aveva sempre un monastero ‘padre’ (guidato appunto da un
patriarca), che dettava, peraltro, le linee comportamentali e ideologiche (e
anche filosofico-teologiche, per lunghi tratti della storia ecclesiastica
yavanica), in maniera vagamente simile alle regole degli ordini monastici sorti
in occidente.
Già in epoca tardo-antica si affermarono cinque ‘grandi patriarcati’ (cui se ne
aggiunsero altri due in epoca medioevale), cui tutte le chiese sorte nel
frattempo facevano riferimento:
il patriarcato di San Melindo di Vaosilepura (il più grande)
il patriarcato di San Tommaso Apostolo di Minnagara (il più antico)
il patriarcato di San Damaseno di Patala
il patriarcato di San Iasvaro di Patala
il patriarcato di San Giasodaman di Patala
Sebbene non relegato
solamente alla Patalene e alla Surastene, si può chiaramente notare come queste
regioni fossero il nucleo principale del cristianesimo iavanico. Nonostante nei
secoli non mancò la nascita di comunità anche più a nord, l’areale dove esso
attecchì con maggior forza e solidità rimase pur sempre quello costiero.
Paradossalmente, nelle regioni settentrionali il nestorianesimo (di più tarda
importazione dalla Persia, attraverso la via della seta) vincerà la competizione
interna con lo iavanesimo, come confessione cristiana prevalente.
Tornando a San Melindo, più che analizzare il suo pensiero teologico-filosofico
(esplicitato nell’opera il viaggio interiore, anche se forse in essa vi è la
mano di uno o più seguaci), dichiarato poi eretico nel concilio di Efeso, è
interessante in questo frangente citare il viaggio che egli compì intorno al 330
verso Alessandria d’Egitto. Partito da Vaosilepura, fece una prima, lunga tappa
a Mosylon, dove la sua predicazione ebbe una grande popolarità, senza dubbio
rafforzando la diffusione del cristianesimo in Barbaria. Da lì, si spostò poi ad
Adulis, Myos Ormos e infine risalì l’Egitto sino a giungere ad Alessandria, dove
risiedette per diverso tempo, per poi tornare in patria. Incidentalmente giunse
nella metropoli egiziana in un momento caldissimo per la chiesa del tempo. Il
patriarca Atanasio (poi soprannominato ‘il grande’) era sotto il pesante attacco
della corrente filo-ariana, attacco che si concluse con l’esilio a Treviri. La
domanda che spesso ci si pone è se le tesi ariane non abbiano influenzato lo
stesso Melindo nell’elaborazione del suo pensiero teologico. Eppure, più che da
Ario in sé, pare proprio che il vescovo indiano sia rimasto molto stupito dalla
‘bassezza delle infamanti accuse che essi si rivolgevano l’un l’altro, non
comprendendo che così facendo, invece di purificarsi sotto lo sguardo di Dio, la
loro anima ne usciva guasta’. Fuor di metafora, anche dal punto di vista
teologico le presunte somiglianze con l’arianesimo, per cui venne condannato poi
di lì a un secolo a Efeso, sono più apparenti che reali (e di fatto smentite
dagli stessi teologi iavanici). Il figlio è effettivamente co-sustanziale al
padre anche nello iavanesimo; che il corpo del figlio sia stato ‘creato’ o
‘generato’ è in ultima analisi un elemento poco rilevante per il cristianesimo
indiano. Eretico, semmai, agli occhi di un cattolico sarebbe che Gesù non
‘nasce’ con la propria natura di figlio già completa, ma che essa si dispiega e
si manifesta solo sulla croce, in maniera vagamente simile proprio al
nestorianesimo, parimenti condannato a Efeso (anche se anche in questo caso, per
quanto maggiore, la somiglianza rimanga solo parziale). Altro elemento,
condannato solo più tardi nei concili della chiesa occidentale, è il suo
‘origenismo’. Per quanto a livello strettamente contenutistico ci sia del vero,
è altrettanto vero che - a meno di supporre una segreta lettura dei testi di
Origene proprio di San Melindo, nel suo viaggio in Egitto - la conoscenza del
concetto di Apocatastasi non giunse mai in India. La sua ‘versione Iavanica’,
sembra piuttosto avere origine, anche in questo caso, da una interpolazione con
il Krishnaismo e il Buddhismo. Per i cristiani iavanici era logico pensare che
il processo di purificazione ascetica dal peccato/desiderio del mondo, iniziato
con l’incarnazione e il sacrificio volontario del figlio di Dio, avrebbe
‘restaurato’, alla fine dei tempi, un mondo senza peccato originale. Che questa
restaurazione possa estendersi anche ad un perdono per Satana non è però mai
specificato. Analizzando lo yavanesimo, è tuttavia piuttosto logico pensare che
la risposta sia fondamentalmente negativa. Il male è, ‘agostinianamente’,
qualcosa di non sussistente di per sé. Pertanto il diavolo, in quanto
coagulazione del desiderio e del peccato, al termine della storia, più che
pentirsi, semplicemente smetterà di esistere. Per quanto ciò sia in apparenza
controintuitivo rispetto a quanto detto, la pratica dell’esorcismo, caduta
progressivamente in disuso nelle chiese occidentali, è ancora una parte
importante e perfettamente normale del cristianesimo yavanico; durante le feste
principali dell’anno si esorcizzano sia tutti i membri della comunità, sia gli
animali, sia gli oggetti. D’altro canto, un cristiano occidentale non li
percepirebbe come esorcismi, ma come semplici benedizioni solenni.
Beleone salì al trono in una
situazione particolarmente complessa: da un lato, mai prima d’ora Kucha era
stata così potente e al centro di un grande e vasto regno che poteva vantare la
propria influenza fin nel cuore della Cina. Dall’altro l’espansione del potere
Kucheano era stata frutto di una serie di colpi di fortuna difficilmente
ripetibili, oltre al fatto che era stata estremamente rapida. Questo da un lato
significava che alla morte del suo capace padre, era estremamente probabile che
buona parte dei paesi che gli si erano sottomessi avrebbero tentato di
rinegoziare la loro indipendenza o, addirittura, colpire per distruggere il
regno e depredarne le ricchezze; dall’altro, che le lotte di potere per il trono
si sarebbero alzate di magnitudine, rischiando di arrivare a livelli
paragonabili agli ambienti di corte dei regni cinesi, in cui gli intrighi e gli
assassinii erano letteralmente all’ordine del giorno. In più, nere nubi si
addensavano ai confini, con le steppe a nord particolarmente in fermento: non
solo gli unni, ma anche tutti quei popoli che le guerre civili cinesi e il
movimento degli unni avevano spinto verso ovest.
La sua prima impresa bellica fu proprio nel nord, perlomeno a quanto racconta
Metragone (che chiuderà la sua cronaca proprio con questo evento):
I principi di Armalaca videro una nuova orda di
barbari giungere da ovest. Essi travolsero le nostre guarnigioni al ‘grande
cancello’, come noi chiamiamo il passaggio tra le Montagne Celesti che dà
accesso alla valle di Bugonia. Il signore della regione decise dunque di mandare
la mia umile persona come oratore a Sugia, presso sire Cifonadio [Kipunada], in
quel momento principe della Sugiabene, poiché ci pareva avesse buoni rapporti
con i capi unni della regione e che potesse dissuaderli dall’attaccare la nostra
terra. Io dissuasi il principe, non perché temessi per la mia vita, ormai al
volgere del termine, ma perché supponevo ben poco ausilio ci potesse giungere da
quel fronte. Proposi piuttosto di andare ad Arsi, dal governatore del regno
Cusciano di Serindia di quella città. Cuscia è più vicina ad Armalaca, ma non
esistono vie che attraversano le ripide Montagne Celesti in quel tratto, per cui
occorre un lungo giro per aggirarle, prima di giungervi.
Il sire di Armalaca osservò giustamente che per quanto sarebbe stato aiuto
migliore, troppo lungo era il tragitto, per quanto, forse, meno periglioso in
quel momento.
Traversai dunque la Giubania, non senza difficoltà, ma vano fu il mio sforzo.
Sire Cifonadio fu cortese con me, ma si disse impotente. Mi disse infatti che
quella era un’orda nuova, sulla quale nemmeno il nuovo Afhsiyan Chiradione
[Kirada] sapeva nulla, o aveva potere. L’unico consiglio che mi diede è di
esporre, al loro arrivo nei pressi di Armalaca, un grande vessillo visibile
dalle mura, raffigurante il dameggio [Tamga] degli unni rossi. Era infatti
possibile che quei nuovi unni lo conoscessero e, temendolo, girassero al largo.
Era però anche possibile che, in nome delle loro barbare usanze, questo li
stimolasse ancor di più alla lotta, per desiderio di mostrare la propria
supremazia sulle altre tribù unne. Tornai con quel misero consiglio e così dissi
al mio nobile principe. Fortunatamente non vi fu bisogno. Per sorte o per grazia
del grande Buddha, il re di Cuscia mosse spontaneamente verso nord, per ribadire
il suo dominio sulla nostra regione e si imbatté nelle orde di quei razziatori.
Questi probabilmente pensavano di avere gioco facile, ma i Cusciani di Serindia
hanno abili guerrieri tra le loro fila. Quando gli unni si resero conto della
forza del loro nemico, preferirono darsi alla fuga oltre il grande cancello e
dirigersi verso la Giubania. Re Beleone non li inseguì, ma raccolse dal loro
accampamento armi, cavalli e altri oggetti come bottino di guerra; il Dameggio
di quella tribù era simile alle corna di un toro, anziché il rombo e i due
serpenti degli unni rossi. Giunto ad Armalaca il principe lo accolse come
salvatore, implorandolo di rivendicare il titolo di Vaosileo e liberare la
Tocaria, dell’Alania e della Transoxiana tutta dal flagello degli unni e da
quegli usurpatori dei persiani. Ma egli rispose che non era ancora giunto il
momento e troppo misere le sue forze per occuparsi sia dell’ovest che dell’est,
in cui disse che un suo grande alleato era perito e che per questo tutta la
Serica era in fermento. Per il momento gli bastava il titolo di vero re dei
Cusciani, che nella lingua della Serindia non è Kushanshah, alla persiana, o
Xoadeo, come da noi, ma si dice ‘Lakante’. Essa è invero l’antica lingua dei
Tocari, prima che essi migrassero in Battriana e si unissero coi greci per
fondare l’impero, ora diviso e in rovina.
Molte speculazioni sono state fatte dagli storici relativamente alla tribù di
cui Metragone parla. Alcuni di essi sostengono (sulla base della descrizione del
Tamga) che sia la prima testimonianza storica degli unni Alconi, che dalla fine
del IV secolo daranno notevoli grattacapi ai Cusciani, per poi spostarsi verso
il V e VI secolo verso la valle dell’Indo. Altri invece ritengono non vi siano
elementi decisivi, oltre al fatto che si tratterebbe di una loro apparizione con
quasi un secolo di anticipo rispetto alle loro prime attestazioni certe.
Certo è che, la pur comprensibile scelta di Beleone di concentrarsi in quel
momento sugli affari cinesi ebbe conseguenze imprevedibili sulla storia del
mondo.
Nel 333 d.C., infatti, la morte di Shi mise a repentaglio il precario equilibrio
creatosi un quindicennio prima a nord del fiume Azzurro (mentre al sud il
generale Wang Dun aveva creato la dinastia Wu posteriore, rifacendosi al periodo
dei tre regni). Non era la sola morte eccellente: anche Murong Hui, duca di
Liaodong, che deteneva molto potere nella penisola di Liaoning era morto. Allo
stesso tempo, i ‘generali barbari’ si trovavano invischiati in guerre
dinastiche, con continui complotti e assassini che rendevano la situazione
politica molto fluida e instabile; senza più Shi Le a fare da ago della bilancia
(anzi, già si prospettava una feroce guerra fratricida tra i suoi figli e nipoti
per prenderne il posto), una nuova degenerazione nel caos appariva più che
probabile. Quando Shi Le si ammalò gravemente, suo nipote Shi Hu, talentuoso ma
estremamente efferato si preparò per prendere il potere, nonostante Shi Le
avesse garantito il titolo ‘barbarico’ di Chanyu (simbolicamente importante,
poiché l’unico di cui poteva disporre autonomamente, senza formale approvazione
imperiale) a suo figlio Shi Hong. La moglie di Shi Le, la consorte Liu, cercò il
sostegno dell’imperatore, per quel poco che potesse fare una figura poco più che
simbolica. Sima Chong, alias Min-di, per quanto dotato di scarso potere proprio,
aveva già dato prova di essere tutto meno che uno stupido e sapeva che, appena
Shi Le fosse morto, la sua stessa vita sarebbe stata in pericolo. Sarebbe stato
probabilmente sostituito da un altro principe Jin (come i figli di Sima Rui che
erano riusciti a scappare dal sud) o - ancor più probabile, tenendo conto della
sua personalità - Shi Hu lo avrebbe direttamente deposto e ucciso, fondando una
nuova dinastia.
Gli sforzi di Sima Chong di isolare Shi Hu e sconfiggerlo prima che potesse diventare principe reggente non erano però facili: i principali clan barbari che avevano ‘salvato’ Luoyang e la dinastia Jin erano in preda a crisi dinastiche interne (come i già citati Murong del Liaodong o i Tuoba Dai). Decise dunque di affidarsi al generale Pu Hong, non solo per raccogliere il maggior numero di truppe possibili, ma anche perché agisse da intermediario con i clan Jie che erano migrati nel regno di Liang. Zhang Shi, sovrano di quest’ultimo, grazie ai commerci e le relazioni tra Kucha e la Cina era riuscito a mantenere il suo regno florido e politicamente stabile, perlomeno in proporzione al resto dei potentati cinesi (aveva dovuto sventare solo il tentativo di assasinio di un santone pazzo che, a suo dire, aveva ricevuto una profezia nella quale era il predestinato a diventare sovrano di Liang e restaurare la dinastia Han). Il grande problema era, piuttosto, di natura demografica. Il corridoio di Hexi stava iniziando a vedere aumentato non solo il flusso di mercanti dalla Serindia alla Cina, ma anche popolazioni ‘straniere’ che avevano deciso di stanziarsi nei mercati locali in pianta stabile.
Naturalmente vi erano i
cinque popoli barbari ‘classici’ ossia Di, Qiang, Jie, Xianbei e Xiongnu,
specialmente i primi tre. Oltre ad essi, vi era stata l’esplosione della
presenza dei Guishuang, ossia i Cusciani, e degli Anxi, termine piuttosto
generico che indicava sia i persiani, sia i Tocari (prevalentemente sogdiani).
Va detto che le definizioni non erano stringenti, per i cinesi, motivo per il
quale in queste categorie potevano rientrare benissimo anche sciti (sia
orientali che occidentali), alani e persino unni.
Su questi ultimi c’è il grande mistero dell’assonanza tra ‘Unni’ e ‘Xiongnu’,
che fece per moltissimo tempo pensare che quest’ultimo termine fosse usato nelle
fonti cinesi per definire, appunto, gli Unni. Al giorno d’oggi si tende a
pensare innanzitutto che Xiongnu era per i cinesi un termine più ‘geografico’,
intendendo qualsiasi popolo vivesse in certe determinate regioni. Motivo per il
quale gli Xiongnu del IV secolo non erano lo stesso popolo degli Xiongnu del I
secolo. Quindi, con la parola Xiongnu, sì, forse i cinesi indicavano anche gli
unni, ma non necessariamente. In secondo luogo, per i cinesi, gli Xiongnu
menzionati tra i ‘popoli barbari classici’ del IV-V secolo, indipendentemente
dalle comuni origini ancestrali, fossero di ascendenza turcica o
proto-mongolica, erano largamente sinizzati e ormai con poco corredo genetico
in comune con gli unni iranici e turco-iranici, o anche solo con altre
popolazioni di più chiara ascendenza turcica o yeniseiana che vivevano più a
nord (come i Tiele o i Kirghizi). I Chioniti, i Kidariti e, più tardi, gli
Alconi e gli Eftaliti sarebbero stati, dopo un rapido sguardo, con ogni
verosimiglianza sommariamente categorizzati dai cinesi appunto come Anxi,
Alanliao, Dayuan, Guishuang, ossia i vari appellativi con cui si riferivano alle
principali popolazioni dell’Asia centro-occidentale.
Tale afflusso di popolazioni barbare portò a diverse difficoltà nel mantenimento
dell’ordine, oltre a conseguire il risultato di legare ancor di più il ‘regno’
di Liang a Kucha. Inoltre, agli occhi di molti cinesi, esso era divenuto una
‘terra di frontiera’ nella quale sfuggire facilmente alle persecuzioni o alle
dispute per il potere. Pareva dunque ovvio che nella sua attività di spionaggio
e alleanza con i clan Jie stabilitisi nel Liang, Pu Hong cercasse di entrare in
relazione con Zhang Shi e, soprattutto, attraverso questi, con Bai Chun, alias
Beleone re di Kucha. Forse quest’ultimo, ancora nel 333, non si rendeva conto
della dimensione ‘imperiale’ che il regno serindico aveva raggiunto con suo
padre e suo nonno, ma una cosa era certa: non poteva esimersi dall’agire da
arbitro interessato nelle crisi cinesi.
Fu così che alla morte - annunciata - di Shi Le, l’escalation fu rapida: Shi Hu
prese le redini dell’impero, e la consorte Liu, con la concubina Cheng (altra
donna da cui Shi Le aveva avuto un erede), scapparono da Luoyang, sotto la
protezione di Pu Hong, verso il principato di Liang. L’imperatore mantenne le
apparenze in maniera molto abile, non tradendo di essere in combutta con i
fuggitivi e, anzi, onorando Shi Hu del titolo di principe reggente dell’impero.
Nel medesimo tempo, Li Xiong, principe di Chengdu, cadde malato. Come era ormai
usuale in Cina, questo voleva dire una prossima guerra tra parenti per il
potere. Li Xiong aveva nominato come successore, anziché uno dei suoi figli, suo
nipote (figlio di suo fratello) Li Ban (secondo la leggenda, perché era stato
l’unico ad avere il coraggio di medicare le sue ferite purulente e fetide).
Questa fu la miccia che fece scoppiare una crisi di notevoli proporzioni. Li Qi
e Li Yue, figli di Li Xiong, mentre si preparavano al colpo di stato, si
appellarono all’imperatore, per trovare un appoggio legale alla loro pretesa.
Questi procrastinò il proprio giudizio sulla questione, rifiutando di affidare
il titolo di governatore di Yi e principe di Chengdu ad alcuno dei contendenti.
Non contento - come del resto Sima Chong aveva previsto e sperato - Li Yue, la
mente del duo, chiese il supporto di Shi Hu. A quel punto l’imperatore,
fingendosi all’oscuro delle manovre dei due principi, si pronunciò in favore di
Li Ban, mettendo Shi Hu nella paradossale situazione di essere principe reggente
e favorire un ribelle al comando imperiale. La chiave di volta dell’operazione
era però la creazione, a quel punto legittimata, di una coalizione a favore di
Li Ban, che vedeva a capo Zhang Shi… e Pu Hong, che (con la consorte Liu, la
concubina Cheng e i rispettivi figli, entrambi dal nome Shi Hong) era
tecnicamente considerato ‘ribelle’ dall’impero in quanto nemico di Shi Hu. A
quel punto, quest’ultimo comprese che si trattava di una trappola per farlo
cadere in disgrazia e si preparò ad assassinare l’imperatore.
Quest’ultimo, però, era riuscito a fuggire da Luoyang e ritirarsi nella vecchia
capitale, Chang’an, difesa dalle truppe di Zhang Shi. Quello che Shi Hu non
sapeva, era che anche il re di Kucha aveva mandato rinforzi al principe di
Liang. Quando anche Li Shou, cugino di secondo grado del defunto Li Xiong e
probabilmente il miglior generale di Chengdu, prese le parti di Li Ban, le cose
sembrarono prendere la prevedibile piega di una triste fine del dominio di Shi
Hu sulla corte imperiale e della suo ruolo di principe reggente. Frattanto,
temendo un giro di vite, molti altri capiclan Jie defezionarono da Shi Hu per
scappare nel Liang. Ma Shi Hu, per quanto spietato, crudele e paranoico, era
anche un generale e stratega geniale e si giocò un’ultima carta. Decise di
ribellarsi all’impero, autoproclamandosi re di Zhao. Il timore principale
dell’imperatore era di una ‘strana alleanza’ tra Shi Hu e Wang Dun (re della
dinastia Wu del sud) per liberarsi dei nemici.
Più pragmaticamente, il nuovo re guardò a nord: si garantì infatti l’alleanza
con due terzi dei clan Tuoba (in quel momento divisi da una guerra civile
interna). La situazione, da estremamente favorevole, rischiava di ribaltarsi
all’improvviso. Per non dare tempo all’alleanza tra Zhao e i Tuoba Dai di
consolidarsi, Pu Hong e Zhang Shi lanciarono un attacco a sorpresa alla capitale
Luoyang (e, nel caso, tagliare la testa a Shi Hu).
Ancora all’insaputa di quanto succedeva più a nord, nel frattempo a Chengdu Li
Ban e Li Shou annientavano l’esercito di Li Yue e Li Qi, che avevano dato il
via, inconsapevolmente, a quel sanguinoso ballo.
Pu Hong fu attento a muoversi rapidamente e furtivamente,, per cui si aspettava
una Luoyang ancora scarsamente preparata ad un attacco. Invece, nulla andò
secondo i piani. Gli si parò infatti davanti Tuoba Hena, che gli inflisse una
dura sconfitta, riuscendo persino ad uccidere in battaglia Zhang Shi.
Alla notizia della disfatta, l’imperatore si rese rapidamente conto che Shi Hu
era già pronto per marciare su Chang'an. Giudicando la città indifendibile,
convinse la guarnigione Kucheana a spostarsi più a nord, a Jincheng, sperando
che le fortificazioni sul fiume Giallo potessero reggere ad un assedio
prolungato, nella speranza che, ancora una volta, dal lontano ovest giungesse
una mano. Giunto nella capitale del Liang, tirò un primo sospiro di sollievo,
notando il principe Zheng Jun perfettamente padrone della situazione e che,
anzi, aveva già dato ordine di rinforzare le difese.
Secondo il racconto classico, l’imperatore non dovette nemmeno divulgare la
morte di Zheng Shi a suo figlio, poiché questi era già stato avvertito in sogno.
Probabilmente il mito cercò di dare ragione della straordinaria rapidità
organizzativa e del piglio deciso con cui Zheng Jun aveva mantenuto il controllo
in una situazione molto delicata. Fu molto confortante anche l’arrivo a Jincheng
di un’ambasceria di Tuoba Yihuai, della fazione dei Tuoba ostile a Tuoba Hena.
Per quanto volesse essere ragionevolmente sicuro di avere probabilità di
vittoria, probabilmente l’alleanza con l’imperatore era la miglior carta che
potesse giocarsi per riprendere il controllo del clan.
Anche Shi Hu, però, si guadagnava alleati: alla morte di Murong Hui, il
paranoico Murong Huang decise di ribaltare la politica paterna di tenersi a
debita distanza da Shi Le e concentrarsi sul nord-est. Estremamente sospettoso
dei suoi fratelli Murong Han e Murong Ren, voleva associarsi ad un alleato forte
per incutere rispetto e paura nei suoi sottoposti e Shi Hu era l’uomo perfetto
per il compito (oltre ad essere di carattere simile).
Dal canto proprio, Bai Chun/Beleone era indeciso sul da farsi. Gli mancavano sia
la dose di spregiudicatezza del nonno, sia l’effetto sorpresa. I cinesi avevano
imparato a conoscere la forza che si celava nel regno delle oasi, oltre al suo
modo di combattere; la particolare combinazione tra cavalleria leggera scitica,
le truppe a dorso di cammello e la fanteria da combattimento in altura non era
più qualcosa di totalmente inusuale per gli eserciti cinesi. Kucha aveva inoltre
nemici potenzialmente pericolosi che iniziavano ad addensarsi a nord e a ovest e
non poteva esaurire le sue risorse militari per una spedizione più lunga di una
estemporanea campagna estiva.
L’imperatore sapeva che sarebbe stato quasi impossibile ripetere il precedente
miracolo, ma non poteva fare a meno di mostrare ai suoi la certezza che ‘la
salvezza sarebbe senz’altro giunta dagli alleati d’Occidente’, per mantenere
alto il morale.
L’anno decisivo che mutò in maniera irreversibile la storia della Cina fu il
337. Shi Hu aveva appena occupato Chang’an senza particolari resistenze e si
apprestava a sferrare un definitivo attacco a Jinchang, per farla finita una
volta per tutte con la dinastia Jin e i suoi alleati. Alla fine, dopo tanto
titubare, Bai Chun/Beleone aveva deciso comunque di muoversi personalmente e
portare in Cina un nutrito esercito. Del resto, tanto l’imperatore era costretto
a ostentare fiducia nella ripetizione del ‘miracolo di Luoyang’ di un
quindicennio prima, quanto il re di Kucha era ‘obbligato’ dall’eredità pesante
dei suoi predecessori nel mostrarsi loro pari, se non altro per mantenere quella
tentacolare rete di alleanze e interessi economici che stavano facendo la
fortuna dei cusciani.
Da sole, però, le sue forze questa volta non sarebbero probabilmente bastate a
molto. Fu piuttosto il concatenarsi di una serie di eventi fortuiti che fece
implodere dall’interno la coalizione di Shi Hu. L’evento scatenante fu l’attacco
di Wang Ying (o imperatore Da della dinastia Wu posteriore, come si faceva
chiamare), figlio e successore di Wang Dun al sud. Vedendo infatti i territori
oltre il fiume Azzurro sguarniti, tentò un assalto a nord di Wuling, che
fece crollare inaspettatamente le difese sud-occidentali di Zhao. D’un colpo,
Yidu venne conquistata e l’esercito di Wu arrivò alle porte di Badong, al
confine con i domini di Li Ban. Quest’ultimo, dal canto proprio, dopo la
vittoria per la successione aveva tergiversato, attendendo di salire sul carro
del vincitore dello scontro per il dominio del nord.
Visto l’approssimarsi dell’esercito di Wang Ying, decise tuttavia di rompere gli
indugi e muovere le proprie armate a nord, verso Wudu (nel frattempo mandando
messi sia all’imperatore, sia a Wang Ying, per mostrarsi ambiguamente ossequioso
con entrambi). Alla notizia del disastro di Wuling, Shi Hu decise di dirottare
parte del suo esercito verso sud, rimandando il programmato assalto a Jincheng,
chiedendo all’alleato Tuoba Hena di difendere Chang’an da nuove eventuali
sorprese nemiche. Tuoba Hena, tuttavia, mal sopportava questa tattica
attendista. Il suo dominio sui Tuoba non era indiscusso e sentiva il bisogno di
consolidarlo mostrando il proprio valore sul campo di battaglia. Motivo per il
quale disobbedì alle direttive di Shi Hu e mosse da solo verso Jincheng, sicuro
che sarebbero bastate le sue sole truppe per far cadere la città. Nel frattempo,
tuttavia, a sua insaputa, Tuoba Yihuai era riuscito a occupare Shengle (la
‘capitale’ dei Tuoba Dai), sconfiggendo le truppe fedeli a Hena. Nemmeno Murong
Huang se la passava meglio: i suoi fratelli si erano alleati al clan Duan e
avevano occupato alcune piazzeforti strategiche, costringendolo a dare la
priorità al proprio contenzioso familiare, piuttosto che giungere in soccorso di
Shi Hu.
Ultimo, ma non meno importante, la rottura degli indugi dei Tuyuhun, in cui la
fazione pro-cusciana aveva sconfitto la fazione pro-Shi Hu. Il Libro di Jin
tende a dare la responsabilità di questi eventi concomitanti in grado di far
crollare dall’interno la coalizione anti-imperiale a oscure manovre da parte
dell’imperatore stesso, con l’aiuto delle spie straniere mandategli a supporto
da Bai Chun. Sima Chong è dipinto dunque nel racconto tradizionale come un
imperatore debole, sì, militarmente, ma dotato di un intelletto sopraffino e
ferocemente macchiavellico, che fa crollare i propri nemici prima ancora che
scendano sul campo di battaglia; d’altro canto i cusciani di cui si servì come
alleati come la quintessenza della furtività, della doppiezza e della capacità
di assassinare silenziosamente e senza appello ogni obiettivo prefissato. Un
numero vastissimo di Wuxia ispirati al periodo riprendono ancor oggi questi
cliché. La realtà è che pressoché certamente nulla di tutto ciò è vero. Il Libro
di Jin è di molto posteriore agli eventi e abbonda di licenze narrative.
Probabilmente gli autori videro nel rapido susseguirsi di eventi favorevoli un
disegno preciso. Tuttavia né l’imperatore, né alcuno dei suoi alleati fu una
sorta di ‘grande burattinaio’. Semplicemente, ogni ribellione interna cerca di
approfittare come può di una difficoltà dell’avversario per un colpo di mano.
L’approssimarsi di un ingestibile conflitto su due fronti era l’occasione più
ghiotta che i vari Tuoba Yihuai e Murong Ren potessero avere per passare al
contrattacco e non se la fecero scappare.
l’attacco a Jincheng di Tuoba Hena venne duramente schiacciato da Zheng Jun, che
catturò Tuoba Hena e gli tagliò la testa dopo la battaglia, così da vendicare il
padre. Dal canto proprio Shi Hu riuscì con molta fatica a respingere l’esercito
di Wu, tanto che entrambi i contendenti ne uscirono indeboliti. La
controffensiva imperiale non si fece attendere e Chang’an venne riconquistata,
seguita da Luoyang.
Il tanto atteso crollo di schianto dell’effimero regno di Zhao, tuttavia, non ci
fu: Shi Hu riuscì a riorganizzarsi a est e qualsiasi tentativo di avanzata verso
oriente della coalizione imperiale fallì. Il figlio di Shi Le mostrò ancora una
volta il proprio talento di generale nel preservare il cuore del proprio dominio
e la crudeltà bastante per evitare con la paura diserzioni di massa nelle sue
armate. Inflisse anche severe lezioni agli ambiziosi generali di Wu che
provarono ad avanzare verso la penisola di Shandong. I tredici anni successivi,
dal 337 al 350, furono una sorta di accordo non scritto di ‘guerra fredda’ tra
Zhao, Jin e Wu.
Shi Hu, meno abile in pace di quanto fosse in guerra, costruì un regno di
terrore e paranoia, con una forte divisione tra il personale civile, di etnia
Han e il personale militare, barbaro (c’è da dire che paradossalmente, per
quanto lui fosse Jie, molti del suo popolo si erano trasferiti in via più o meno
definitiva all’ovest). Il regno di Wu, per quanto fosse ricco ed esteso, era
però fortemente limitato nella sua azione dalla larga autonomia dei signori
locali, specie nel sud, peraltro sinizzato solo molto parzialmente. Il titolo
imperiale dipendeva invece dalle reti di alleanze tra nobili e signori della
guerra largamente autonomi; quando verrà a mancare l’abile tessitore di alleanze
che era Sima Chong, il potere a corte cadrà pressoché completamente nelle mani
di Pu Hong e di suo figlio Pu Jian.
Chi in verità guadagnò maggiormente da questa crisi furono gli stati periferici
di Liang e di Cheng Han, che, in qualità di oasi di stabilità in una Cina
settentrionale endemicamente tormentata dal conflitto, diventeranno poli
economici e demografici di sempre maggiore peso. L’altro lato della medaglia è
che, specialmente Liang, diverranno sempre più ‘indipendenti’ e sempre ‘meno
cinesi’. Il processo di percezione di una alterità etnoculturale rispetto
all’impero cinese del corridoio di Hexi sarà lunghissimo e lentissimo, ma le
radici di questa evoluzione sono da cercare effettivamente nelle vicende di
questo periodo (e nella ‘invasione’ cusciano-sogdiana del V-VI secolo).
Altro stato che si rafforzò immensamente fu il regno dei Tuyuhun del Qinghai.
Per ora ancora alleato abbastanza fedele e subordinato di Kucha, di lì a un
cinquantennio svilupperà ben altre ambizioni; discorso simile per i Tuoba, che -
superata la crisi interclanica - si prepararono ad una fase di consolidamento ed
espansione della propria forza… In attesa della prossima crisi.
.
Barane (Varahran o Bahram) (330 - 365 ca. da Battra) e Chiradione (Kirada) (330 - 350 ca.)
Con la morte di Metragone, la ricostruzione
degli eventi successivi del regno del nord sotto la morsa degli unni si fa poco
chiara. Asinio diventa vago e impreciso (segno che la sua fonte primaria per il
periodo precedente erano proprio le cronache di Armalaca) e le fonti monastiche
tocarie o gandhari sono perlopiù episodiche. Motivo per il quale, il delicato
periodo di transizione verso l’apogeo del ‘periodo unno’, come viene spesso
denominato il V e il VI secolo, è molto complesso da ricostruire.
Quel che è certo è che, a discapito del tenore tragico delle ultime parole di
Metragone, dopo Peroz abbiamo un altro kushanshah persiano, Barane/Bahram. Non
abbiamo l’assoluta certezza che sia il figlio del precedente, ma appare comunque
un’ipotesi probabile. Chiaramente Asinio si concentra sul fatto che il potere è
passato, di fatto, nelle mani di Chiradione/Kirada. Non che per il potente unno
sia tutto rose e fiori: la pressione di nuove tribù unne desiderose di
insediarsi entro i confini del regno si fa difficile da gestire. Il ‘colpo di
genio’, se così si può definire, è - dove non riesce l’integrazione nei ranghi
dell’esercito - di ‘dirottare’ le tribù più riottose verso sud-est e sud-ovest.
Le fonti persiane e quelle indiane spesso
male interpretano le mosse di Kirada, fraintendendo gli eventi successivi. Non
si tratta infatti di ‘preliminari di invasione’, ma, semplicemente, un tentativo
di scaricare il problema demografico su altre regioni, con il gradevole effetto
secondario di fortificare regioni di frontiera. Se poi le tribù stanziatesi
nella Paropamiside, nell’Abarshahr o in Alania decidevano, di loro spontanea
volontà, di oltrepassare i confini con la Persia o con il regno Gupta, non era
(e non voleva essere, perlomeno in un primo momento) un problema di Kirada.
Questo però, inevitabilmente, compromise i rapporti rispettivamente con Shapur
II e Ciandario (Chandra Gupta). in particolare, dal 340 circa, iniziò ad esserci
un conflitto a bassa intensità pressoché continuo nell’Harey tra unni e
sassanidi, che con il nuovo sovrano stavano vivendo un periodo di ripresa e
riorganizzazione. Lo shahanshah non intervenne subito, preso com’era dalla
contesa con l’impero romano per l’Armenia, anche se sicuramente uno dei suoi
principali obiettivi era di ripristinare la linea di difesa nel nord-est
dell’altopiano iranico, gravemente compromessa dalle vicende belliche di un
cinquantennio prima. Sottomise però il Sakastan, imponendo al clan Suren il
proprio fratello (sempre chiamato Shapur) come sovrano in qualità di suo diretto
vassallo. In più, per quanto non esplicitato da nessuna fonte, diversi indizi ci
fanno presupporre che lo stesso Kirada si sia impegnato periodicamente per non
far precipitare (troppo) la situazione con la Persia, inviando persino diversi
ostaggi alla corte di Ctesifonte.
Molto più aggressivo fu il rapporto con Ciandario, ma su ciò ci soffermeremo nel
capitolo successivo.
L’atteggiamento di Kirada non fu pericoloso solo per i rapporti con le potenze
confinanti. Senza saperlo, di fatto permise l’evoluzione di confederazioni
tribali unne in grado di sfuggire al suo diretto controllo e, in potenza, di
diventare tanto forti da contrastare in un futuro il dominio kidarita sul
Tokharistan. Particolarmente interessante è uno squarcio di ciò che stava
avvenendo nel mondo unno da una fonte prettamente occidentale, ossia Ammiano
Marcellino. Lo storiografo romano, nella descrizione del sanguinoso assedio di
Amida da parte delle forze persiane nel 359 racconta di un capo ‘chionita’
sconfitto da Shapur, un tal Grumbate. Quest’ultimo, una volta giurata obbedienza
allo Shah, si unì al suo esercito in qualità di alleato (o vassallo).
Gli storici di oggi hanno elaborato diverse ipotesi in relazione a questo
personaggio. I due aspetti su cui si tende ad incontrare un vasto consenso sono
che la parola ‘chionita’ era, più genericamente, da intendersi come sinonimo di
‘unno’, una sorta di sineddoche. In secondo luogo, che Ammiano abbia creduto che
‘Grumbate’ fosse un nome proprio, quando in realtà si trattava di un termine
indicante un titolo o una carica, più o meno storpiato.
Hyun Jin Kim, studioso australiano di origini coreane, si è lanciato nel
supporre che fosse l’unione di una parola di origine turcica, kurum e della
desinenza iranica -pat, entrambe indicanti ‘capo’, ‘comandante’. La sua
supposizione è tanto più interessante quanto più testimonierebbe il processo di
progressiva infiltrazione di lessemi turco-altaici nel vocabolario unno, sino a
quel momento perlopiù iranico.
.
Ciandario I (Chandra Gupta) (319-340? 350? ca., da Pataliputra)
Spesso il regno di Ciandario viene giudicato
in maniera fortemente negativa. La retorica sviluppatasi sul suo conto ne fa il
primo re ‘ariano’, deciso a tagliare i ponti definitivamente con il retaggio
centro-asiatico e greco. Questo, però al prezzo di un sostanziale disinteresse
verso la parte occidentale dei suoi domini e di un indebolimento generale dei
Gupta. Chiaramente, questo giudizio è figlio della storiografia successiva,
fortemente influenzata dal senno del poi e, in particolare, dalla lettura
(chiaramente di parte) che ne dà la letteratura Surastenica, poi predominante
tra VI e VIII secolo. Gli storici moderni, tendono invece a darne un giudizio
più positivo, partendo da un fondamentale presupposto che spesso viene
dimenticato nelle opere divulgative. Il fatto cioè che i Gupta non controllavano
realmente la totalità dell’Aryaraja e che la loro posizione a Taxila era
tutt’altro che solida. Buona parte delle famiglie aristocratiche della valle
dell’Indo li considerava ancora reggenti o, peggio, usurpatori particolarmente
fortunati, ai quali concedere obbedienza solamente da un punto di vista
puramente formale. La differenza dunque tra Gatocacio e Ciandario starebbe
semplicemente che il secondo decide di potenziare, ampliare e consolidare i suoi
domini diretti invece di comportarsi da alto sovrano ‘feudale’ come il primo (e
fallire nell’intento). In altre parole, dire che Ciandario perda il controllo di
taluni territori del suo regno è falso per la banale ragione che non erano mai
stati sotto il suo reale controllo (o lo erano in maniera molto teorica). La
decisione più drastica e famosa di Ciandario fu quella di spostare la sua
residenza in permanenza a Pataliputra, affidando Taxila ad un governatore di
volta in volta designato. Ma fu davvero un ‘tradimento’? Probabilmente no. Del
resto anche il tanto millantato indebolimento politico e militare è forse più
apparente che reale, se poi il suo immediato successore Samudrone è considerato
uno dei più grandi leader indiani di tutti i tempi (anche se c’è chi ribalta lo
sguardo, ovvero che è la grandezza di Samudrone ad essere stata eccessivamente
ingigantita). Andando nel concreto, Ciandario intraprese una politica molto più
‘orientale’, tanto da impegnarsi a fondo in grandi opere di canalizzazione per
rilanciare il porto fluviale di Pataliputra, oltre che a restaurare e ingrandire
il ‘palazzo di Ashoka’. Effettivamente la città tornò a vivere un’epoca di
splendore, diventando molto probabilmente una delle città più popolate del
pianeta (e superando demograficamente Taxila). Ciò rappresentava un chiaro
segnale politico: Ciandario si raffigurava in tutto e per tutto come un sovrano
indiano, non come uno Yavana. Anche il suo atteggiamento di favore verso il
Vaishnavismo poteva essere portato avanti in maniera più aperta e con meno
impedimenti nella valle del Gange, piuttosto che in quella dell’Indo, in cui le
istituzioni buddhiste erano di fatto incardinate nel sistema amministrativo e
politico. Chiaramente Taxila fece pessima accoglienza a questo abbandono, non
solo fisico, ma ideologico. Quando iniziarono le prime saltuarie incursioni unne
nel Gandhara, tale sentimento non fece che accrescersi. Alla morte di Ciandario,
in particolare verso la fine degli anni quaranta, bande di unni imperversavano
più o meno costantemente nell’intero Gandhara. In questo frangente,
particolarmente rilevante è la figura di Piroysa. Non è chiaro se egli stesso
avesse ascendenze unne o, più semplicemente, fosse un uomo del nord
sufficientemente astuto da fare fortuna a Taxila e mettere sul suo libro paga le
principali bande di Kidariti della zona. Quello che è chiaro è che era diventato
talmente potente da poter battere moneta propria, anche se nominalmente sempre
in qualità di governatore per i Gupta. Senza dubbio, inoltre, Piroysa doveva
avere dei contatti piuttosto stretti con Kirada e in seguito con il suo
successore. Quanto stretto? Non ne siamo certi. Sicuramente però, Ciandario non
agì in maniera celere o efficace per ristabilire la propria autorità e impedire
che il Gandhara venisse punteggiato di insediamenti unni. Ma, forse, la sua
attenzione era distolta da altro. Anche a sud-ovest dei suoi domini, infatti,
stavano avvenendo dei radicali cambiamenti. Anche grazie alle manovre di
Gatocacio, la dinastia Vakataka era ormai di fatto separata in due e i
successori di Pravarasena non possedevano di certo il suo carisma. Ciandario si
preparava ad approfittare gradualmente della situazione, assorbendo uno dopo
l’altro i vassalli settentrionali dei Vakataka. Non aveva però messo in conto un
elemento importante, ossia che gli Kshatrap decidessero di scacciare gli
emissari di Sarvasena. I nobili kshatrap della Surastene, riunitisi a Barygaza,
non avevano tuttavia alcuna intenzione di tornare sotto l’Aryaraja dei Gupta,
tanto più che molti di loro erano cristiani e che Ciandario aveva deciso di
risiedere a Pataliputra. Si diedero dunque un re, Rudrashima, figlio di
Jivadaman. fu una scelta insolita, perché il suo era un clan ambizioso, ma
relativamente giovane. La ragione di tale scelta è probabilmente dovuta al fatto
che i figli di Visvasena, il più influente dei nobili Kshatrap (discendente
dagli antichi re di Patala) rifiutarono l’investitura(per motivi presumibilmente
religiosi. Rudrashima era un fervente buddhista, mentre Visvasena era un
criptocristiano). Ma ciò che è più importante di tale gesta la si può trovare in
un'epigrafe risalente a questo periodo, trovata a Devnimori, oltre ad alcune
iscrizioni presenti ad Ajanta, le quali rivelano un ulteriore elemento
sorprendente di questa ‘insurrezione’:
Il grande Kshatrap, conquistatore di tutte le terre usurpate dagli Abhira fino
al mare oceano, avoca a sé il diritto di poter essere nominato gran re di
Yavana. Per la ferocia dei barbari, Taxila la grande langue e soffre e i nomi di
Alessandro, Milinda e Nambano sono dimenticati. Stirpi indegne, inseguendo il
grande Ashoka, disonorano Kanishka, re eterno tra i re dei re, ma disonorando
Kanishka, disonorano sia Ashoka, sia Alessandro.
Farò udire la mia voce tra gli Yavana, gli Arya, gli Kshatrap, i Saka
dell’ovest, i Tokara, i Kushana, gli Alana, perché i sette popoli e i loro
alleati ricordino.
Al di là del contenuto, già di per sé dirompente, è ancor più significativo il
fatto che l’epigrafe sia scritta anche in Yavana (in alfabeto Karoshti). Il
guanto di sfida ai Gupta era stato lanciato e con esse le pretese di
‘restaurazione dell’impero’.
Certo, Rudrashima non era un folle e non mosse direttamente guerra a Ciandario,
ma era perfettamente conscio che quest’ultimo non era in quel momento in grado
di mettere in pratica alcuna azione ritorsiva forte contro di lui
(implicitamente avvalorando la tesi dell’indegnità della dinastia Gupta). Al di
là di interessi di tipo prettamente commerciale, uno dei motivi principali di
ciò era che i Murunda, ossia gli indo-sciti insediatisi dalla fine del II secolo
sull'altopiano di Malava, seguirono l’esempio di Rudrashima a Barygaza e
guadagnarono anch’essi una sorta di indipendenza di fatto, sotto l’autorità di
un certo Dharavarman. Una combattiva signoria indo-scitica incuneata tra i
declinanti Vakataka e il dominio Gupta nel Deccan non rappresentava certo una
bella notizia per Ciandario, desideroso innanzitutto di consolidare il proprio
dominio sul Magadha.
Per i Vakataka, la perdita delle regioni nord-occidentali fu un brutto colpo,
solo parzialmente mitigato dal rafforzamento dei fedeli (almeno per il momento)
vassalli Kadamba sulla costa sud-occidentale del subcontinente.
.
Uno sguardo a occidente: alani, sarmati e goti
Come menzionato in precedenza, le grandi
pianure tra mar Nero e Mar Baltico, rappresentavano una terra di frontiera, che
tuttavia venne profondamente modificata dalla via della seta, nella sua ‘strada
settentrionale’. L’apogeo dell’impero Yavana nel III secolo fu fondamentale nel
plasmare la cultura e la religione della regione.
Gli alani sedentarizzati, in un meccanismo a catena, intrattenevano rapporti con
le tribù sarmatiche e scitiche situate più a ovest. A loro volta, queste ultime
(in particolare i Roxolani e gli Iazigi), influenzarono profondamente le
popolazioni germaniche orientali. Si crearono veri e propri ‘popoli misti’
sarmatico-germanici, come i Bastarni. Il principale cambiamento fu però la
grande migrazione dei goti dai loro insediamenti originari sulle rive del
Baltico, fino a stanziarsi nelle grandi pianure sulle rive del mar Nero, ai
confini con l’impero di Roma, conquistando e assimilando le tribù che
incontravano al loro passaggio. Da lì ovviamente non si fermarono,
rappresentando un pericolo mortale per l’impero con continue e devastanti
incursioni, in particolare a partire dalla metà del III secolo (addirittura
dotandosi di navi per spedizioni piratesche nel mar Nero). Colpo particolarmente
pesante fu il definitivo abbandono della provincia di Cimmeria e della fitta
rete di forti che difendevano il Chersoneso Taurico. La florida città di Cherso,
dopo un duro assedio, venne conquistata e saccheggiata dai goti. I romani non
abbandonarono completamente l’idea di riprenderla, ma altre priorità militari
ebbero presto la meglio e, alla metà del IV secolo, la Cimmeria non era ancora
tornata sotto il potere imperiale.
Ben presto però i goti si trovarono a non essere più un popolo unitario, ma a
dividersi in diverse grandi confederazioni tribali (in particolare i balti e gli
amali).
In più, acquisirono molti tratti tipici delle popolazioni sottomasse, la più
eclatante delle quali fu la conversione al buddhismo. Leggendaria è la figura di
Manorazio (Manoratha), il quale, originario di Taxila e allievo del celeberrimo
Basciobando (Vasubandhu), decise di effettuare un pellegrinaggio a ovest,
anziché a est. Giunto nelle terre nei goti, li trovò già, a quanto si deduce dai
suoi scritti, superficialmente fedeli alla figura del Buddha, che era già
diventato una figura aggiuntiva nel loro pantheon. Notò però anche che la loro
conoscenza dei principi della filosofia buddhista era scarsa o nulla. Nella
prima metà del IV secolo si stanziò in pianta stabile a Cherso, iniziando
un’opera di proselitismo che gli fece guadagnare la fama di sapiente presso il
signore dei goti della città, il quale, incuriosito lo volle al proprio fianco
come consigliere. Come dono, Manorazio decise dunque di scrivee per lui un’opera
che - senza che potesse saperlo - avrebbe avuto un’eco profondissima nella
storia futura. Scrisse infatti il compendio occidentale del sutra del loto. Ne
scrisse tre versioni, di cui però solo la prima, la più celebre, ci è giunta per
intero, scritta in greco. La seconda e la terza sono però le più straordinarie,
e rivelano l’intenzione di Manorazio di diffondere la sua dottrina non solo tra
i goti, ma anche in tutto l’impero romano. Infatti ne scrisse una seconda
versione in gotico (con scrittura greco-battriana opportunamente modificata) e
una terza… In latino (molto elementare, da quei pochi frammenti rimastici).
Tutto questo avviene quasi contemporaneamente
alla traduzione da parte di Ulfila della bibbia in gotico, in una regione nei
pressi del Danubio.
In conseguenza di queste due spinte, i goti si divisero progressivamente in
tribù cristiane ariane (come i balti) e in tribù buddiste (come gli amali),
distinte anche nell’alfabeto della loro produzione scritta.
Va detto inoltre che, mentre le tribù della pianura mantennero lungamente
caratteristiche seminomadiche, nel Chersoneso taurico nel giro di breve tempo
essi sedentarizzarono, creando un vero e proprio regno (poi noto in occidente
come Gotia pontica).
Ma quando e come si diffuse il buddhismo occidentale?
Naturalmente, il primo luogo sotto la dominazione romana in cui si insediarono i
primi centri di culto buddista furono le coste del Mar Rosso e l’Egitto, sin
dalla fine del II secolo. Il terzo secolo, tuttavia, vide il buddhismo egiziano
piuttosto limitato ad alcuni centri specifici, si suppone per via
dell’espansione esplosiva del cristianesimo. Ciò non toglie che il buddhismo
egiziano si espanse verso occidente, attraversando tutto il Nordafrica sino a
giungere alla Tingitania, dove trovò terreno particolarmente fertile nelle zone
ai confini dell’impero dell’interno montuoso. Fu però il buddhismo ‘gotico’ ad
avere un impatto maggiore, tanto da causare conflittualità di tipo confessionale
con il cristianesimo nel V secolo e, soprattutto, da fungere da progenitore al
buddhismo slavo altomedievale.
.
L’influenza delle vicende del nord nell’India meridionale
Il periodo tra il IV e il VI secolo
rappresenta una fase piuttosto oscura dell’India meridionale. Dopo essere stata
per secoli una regione piuttosto stabile, spartita tra le tre talassocrazie di
Chola, Pandya e Chera, dal tardo III secolo, come già menzionato, si era imposta
una nuova, misteriosa, dinastia, i Kalabhra. I documenti e le iscrizioni
successive li rappresentano come degli usurpatori e miscredenti. E’ possibile
che i Kalabhra abbiano introdotto dei culti eterodossi e abbiano contribuito
alla diffusione del buddhismo al sud. Ciò però è piuttosto strano, visto che
sino a quel momento la convivenza tra quest’ultimo e i culti indiani non era mai
stata particolarmente problematica. E’ molto più plausibile che i Kalabhra non
siano stati eterodossi da un punto di vista strettamente religioso, quanto
abbiano ribaltato il tradizionale sistema delle caste, rovesciando le posizione
di potere dei brahmini. Forse per implementare questa rivoluzione sociale è
stata promossa la diffusione di nuovi culti (non solo il buddhismo, ma anche il
cristianesimo, lo shivaismo in confronto al vishnaismo dominante e, infine, il
jainismo), ma non era quello il problema principale.
Per opporsi ai Kalabhra due erano le alternative ideologiche: o porsi come
restauratori in senso letterale dell’ordine sociale e religioso precedente (come
fecero, dal VI secolo, i Pallava di Kanchi), o appoggiarsi a ideologie nuove e
aiuti ‘esterni’. Questo provarono a fare i piccoli principati del sud-ovest,
ognuno di essi rivendicando una discendenza dai primi principi Chera. Le
interazioni con i mercanti surastenici, infatti, influenzarono profondamente le
loro città, che si aprirono non solo alla penetrazione economica del nord, ma
anche alla confessione Yavanica (che, doveroso a dirsi, gradualmente soppiantò
una piccola, ma antica e preesistente in maniera completamente indipendente
comunità cristiana, di cui ahimé sappiamo ben poco). I Pandya e i Chola
abbracciarono lo shivaismo, sempre più dominante rispetto al vaishnavismo, ma si
fecero spesso anche patroni del buddhismo, sia per ingraziarsi i principi
dell’isola di Ceylon, sia per attrarre i mercanti della Patalene, in cerca di
nuovi sbocchi commerciali.
.
Nota al testo:
Quando parlo dei Tocari, li intendo nella concezione "straboniana" del termine. Non intendo la cultura di lingua centum-indoeuropea-non iranica cui i linguisti hanno dato il nome di tocario, ma il popolo che darà origine ai
Kushana. Certamente i primi compariranno in questa narrazione, ma userò un altro termine per definirli (penso
Serindici, ma è passibile di cambiamento).
Ripensandoci, penso che la scelta di Muller di chiamarlo tocario sia stata piuttosto infelice, per quanto basata
sulla convinzione (quanto dimostrabile?) che gli Yuezhi si siano iranizzati poi, al tempo della migrazione verso la
Battriana.
Come spero si sia intuito, se no ve lo dico io, immagino una trasmissiome dei
testi sull'impero yavana in occidente in un momento imprecisato della storia.
Motivo per il quale tutti i nomi che utilizzo sono latinizzati e a loro volta
italianizzati. Il che produce effetti piuttosto divertenti, perché, al di là di
certe cacofonie (Sirigutto per Sri Gupta eccetera), la resa latina a volte
prende la direzione di un'assonanza con termini e nomi familiari, anche se
l'origine è diversa. Due esempi di questo aggiornamento:
> Miracolo il chionita, il cui nome evidentemente non ha nulla a che fare con la
capacità di mutare l'acqua in vino, ma con Mirakula, nome effettivamente
esistito e testimoniato tra gli Alchoni.
> Asinio il ruranide, il cui nome non c'entra nulla con il nome latino Asinio,
ma con il nome gokturk Ashina (nome del clan che ribellatosi al khanato Rouran
fondò appunto l'impero Goktürk)
La scuola Adeshavada è un nome di mia invenzione, dalla parola sanscrita per
legge, ordine. Al giorno d'oggi e nella nostra timeline sarebbe considerabile
una scuola nikaya, discendente dalla tradizione Sarvastivada. l'illuminazione è
un discorso di applicazione della chiarezza e della purezza di pensiero
all'analisi della realtà. Il conseguimento del nirvana è un discorso universale
e individuale insieme, non vi è un aut aut tra il desiderio per la salvezza del
cosmo e l'illuminazione individuale. i Mahayana, che seguono il boddhisattva e
non l'arhat, ne criticano la falsa 'impermanenza' (non sono un esperto di
buddhismo, abbiate pietà).
Esistono sostanzialmente tre sistemi di scrittura nell'impero (con varianti
locali):
Il karoshti è largamente prevalente nel cuore del regno, da Taxila lungo tutta
la valle dell'Indo. La valle del Gange tende invece a usare evoluzioni della
scrittura Brahmi; le provincie caucasiche e transcaucasiche del nord-ovest
tendono invece a utilizzare l'alfabeto battriano, che è un'evoluzione
dell'alfabeto greco.
Ironia della sorte: la stragrande maggioranza dei dialetti Yavana ha finito per
utilizzare come alfabeto il Karoshti
Se volte, potete scaricare una versione in formato .pdf di questa ucronia
cliccando qui.
.
Se volete fornirmi suggerimenti o commenti, scrivetemi a questo indirizzo.