HMS Odysseus

di Dario Carcano

Introduzione

Era una sera di ottobre. L’incrociatore protetto HMS Odysseus era salpato dal porto di Colombo mezz’ora prima, e si stava dirigendo a tutta velocità verso il luogo in cui il giorno dopo avrebbe effettuato delle esercitazioni di tiro e di manovra assieme al resto della sua squadra navale; a causa di un guasto alle caldaie l’Odysseus non aveva potuto partire assieme alle altre navi della flotta, e ora il capitano Henryson stava cercando di recuperare il ritardo.

L’HMS Odysseus, appartenente alla classe Astraea, varato nei cantieri navali di Devonport nel 1893 – dieci anni prima – pur non essendo più una nave tra le più moderne, era ancora rappresentare un avversario di tutto rispetto per navigli più leggeri. Armato con due cannoni da sei pollici, otto da 4.7 pollici, dieci da sei libbre, un cannone Hotchkiss da 3 libbre a tiro rapido e quattro tubi lanciasiluri, quella sera stava navigando alla velocità di diciotto nodi in direzione sud-sud-est.

Il capitano Henryson, assieme al timoniere e altri due ufficiali, si trovava nella plancia di comando. Nonostante il mare calmo e l’assenza di vento preferiva stare di guardia ai comandi; aveva un presentimento che quella sera sarebbe successo qualcosa.

Poi si sentì un urlo. Con tutto il fiato che aveva in corpo il marinaio di vedetta aveva appena urlato:

“Iceberg!”

E per un attimo il capitano Henryson pensò che quel marinaio doveva aver bevuto qualche liquore scadente, perché come diavolo poteva esserci un Iceberg ai tropici?

Ma poco dopo il tenente Wilson, guardando col binocolo, confermò quanto aveva visto il marinaio. Davanti a loro c’era un iceberg, e gli stavano andando addosso. Il capitano Henryson, ancora incredulo, ordinò subito una virata, ma ormai era troppo tardi. L’HMS Odysseus affondò in meno di mezz’ora, il marconista ebbe appena il tempo di lanciare l’SOS. L’incrociatore aveva a bordo 317 uomini, ne furono tratti in salvo 295; mancavano all’appello due ufficiali, tre sottufficiali e diciassette marinai.

Cosa ancora più misteriosa, l’iceberg che aveva affondato l’HMS Odysseus era sparito senza lasciare traccia, e il mare era tornato calmo come se nulla fosse successo.

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I – L’inchiesta

Londra, un piovoso pomeriggio di autunno del 1903. Harold Hookham, funzionario dell’ammiragliato, stava rileggendo un dossier giuntogli il giorno precedente, in cui erano raccolte le testimonianze dei superstiti all’affondamento dell’HMS Odysseus. Stentava a credere a quelle testimonianze, specialmente a quelle riguardanti l’iceberg che spunta dal nulla e per sparire subito dopo.

Mentre era assorto in quella lettura, bussarono alla porta, e una voce chiese se potesse entrare. Il signor Hookham rispose di sì, ed entrò un giovanotto vestito con una uniforme della Royal Navy, su cui si vedevano i gradi di Tenente Comandante.

“Prego, si sieda. Gradisce del tè?”

“Sì, grazie.”

Entrò il segretario di Hookham, a cui il funzionario ordinò di portare due tazze di tè. Poi Hookham riprese:

“Veniamo al sodo, credo lei abbia sentito parlare dell’affondamento dell’HMS Odysseus, avvenuto una settimana fa.”

“Sì, stavo leggendo un articolo di giornale che ne parlava mentre venivo qui. Le cause dell’affondamento sono ancora ignote.”

“Qui si sbaglia, comandante Hamilton. Le cause dell’affondamento le conosciamo.”

“Ah. E quali sarebbero?”

“Guardi, ho qui i resoconti delle testimonianze dell’equipaggio. Legga lei stesso.” e passò il dossier al comandante Hamilton, il quale lesse rapidamente fino a quando il suo sguardo non cadde sulla parola ‘Iceberg’.

“Un Iceberg a Ceylon? Ma è impossibile!”

“Eppure è ciò che i superstiti riferiscono di aver visto. Escludiamo possa trattarsi di una allucinazione collettiva, anche perché le allucinazioni non affondano navi; ma ciò non vuol dire che quanto successo non sia quantomeno… inusuale, ecco. Per questo motivo sono stato incaricato di scegliere una persona da inviare sul posto per condurre le necessarie indagini su questo fenomeno.“ Hookham fu interrotto dal segretario che entrò nella stanza col tè. ”E considerando la sua esperienza, ritengo che lei sia la persona migliore per investigare su quanto successo.”

“Quando devo partire?”

“Il prima possibile, ho parlato oggi coi Lord Segretari e non hanno molta voglia di aspettare. Comunque, prima della sua partenza le fornirò un dossier coi dati tecnici della nave e una copia del dossier che ha appena visionato con le testimonianze dei superstiti.”

Finito il tè, il comandante Hamilton si alzò e si diresse verso l’uscita.

“Arrivederci.”

“Arrivederci comandante, e buona fortuna.”

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II – Colombo

Alcuni giorni dopo il comandante Hamilton arrivò a Colombo, Ceylon. Come prima cosa andò alla base navale, dove fu ricevuto dal vice-comandante, il commodoro Elgar.

“Buongiorno comandante, posso offrirle qualcosa da bere?” chiese il commodoro mentre Hamilton entrava nel suo ufficio.

“Mi è stato raccomandato di bere l’acqua col chinino.”

“Per la malaria?”

“Esattamente, per la profilassi.”

“Guardi, nel bar ne ho una bottiglia. Si serva pure.”

Il comandante Hamilton si alzò, si versò un bicchiere di acqua col chinino e bevve. Ma era talmente amara che a fatica riuscì a bere il primo sorso.

“La capisco comandante – disse il commodoro Elgar notando l’espressione di Hamilton – anch’io le prime volte non riuscivo a berla. Poi mi hanno insegnato come nascondere quel saporaccio.”

“Ah, e come si fa?”

“Ci aggiunga zucchero, limone e un goccio di gin.”

Il comandante Hamilton fece quanto gli aveva suggerito Elgar, e bevve di nuovo.

“Molto meglio.” disse Hamilton, che si sedette e disse al commodoro Elgar.

“Signore, passando al motivo per cui sono venuto qui a Colombo, sarebbe molto utile per il mio lavoro qualche informazione sull’Odysseus. Ho con me un dossier coi dati tecnici della nave, ma non mi è stato molto d’aiuto. Quindi se potesse darmi qualche informazione sull’equipaggio o sulla storia dei guasti della nave le sarei grato.”

“Capisco. Sui guasti, l’Odysseus in realtà non ne ha avuti di particolarmente significativi, anzi, credo che il guasto alle caldaie che era stato riparato appena prima che affondasse sia stato il primo guasto ‘importante’ avuto dalla nave. Sull’equipaggio invece posso assicurarle che il capitano Henryson, che quella notte era sveglio sulla plancia di comando, era uno degli ufficiali più esperti che abbia conosciuto…”

“Insomma, nessuna ragione per credere che potesse affondare così, all’improvviso.”

“Esattamente. Anch’io non mi spiego ciò che è successo. Ho interrogato personalmente gli ufficiali in servizio quella notte, e ognuno di loro mi ha parlato dell’iceberg.”

“Non potrebbe essere stato lo shock ad averli suggestionati?”

“Non credo. In particolare il capitano Henryson, con la massima lucidità mi ha dato la sua parola di gentiluomo che quanto sostenuto da lui e dai suoi ufficiali è ciò che è realmente successo quella notte; e onestamente, non me la sento di mettere in dubbio la parola del capitano Henryson.”

“I superstiti sono all’ospedale della base, giusto?”

“Esatto. Se vuole posso accompagnarla mentre li interroga.”

“Se non le è di troppo disturbo” Subito prima che uscissero, il comandante Hamilton si ricordò di chiedere: “Ah, dimenticavo. Gli scomparsi?”

“Li cerchiamo da diversi giorni, ma non abbiamo trovato nessuna traccia di loro. Purtroppo comincio a pensare che non sono riusciti a raggiungere le scialuppe e sono affondati assieme alla nave.”

L’ospedale militare della base non era lontano. Pochi minuti dopo il comandante Hamilton e il commodoro Elgar stavano camminando nelle corsie dell’ospedale, e quando arrivarono al letto su cui giaceva il capitano Henryson, egli si mostrò molto felice della visita del commodoro Elgar, una delle poche persone che si era fidata della parola del capitano anziché ritenerlo impazzito.

“Capitano Henryson – disse il commodoro – le presento il comandante Hamilton. L’ammiragliato lo ha mandato per investigare sulle cause dell’affondamento dell’HMS Odysseus.”

“Piacere comandante, immagino che anche lei mi riterrà pazzo. Ma sa, quando si naviga il mare per molti anni si finisce per vedere cose che mai si sarebbe pensato di vedere.”

“Non la ritengo pazzo, tutt’altro: il commodoro Elgar mi ha detto che lei è pronto a dare la sua parola su quanto ha visto quella notte. È vero?”

“Sì, è vero. A nome mio e dei miei ufficiali, sono pronto a darle la mia parola d’onore che quanto ho visto quella notte è realmente successo, e non è frutto della pazzia o di un allucinazione collettiva.”

“Bene capitano, ad un gentiluomo è sufficiente la parola. Ma ora, se lei se la sente, vorrei farle qualche domanda.”
Il capitano Henryson esitò un po’, poi rispose:

“Va bene comandante. Cosa vuole sapere?”

“Mi racconti cosa è successo quella notte.”

“Certo. Stavamo procedendo alla massima velocità per ricongiungerci col resto della squadra; come lei sa eravamo partiti in ritardo per colpa di quel guasto alle caldaie. Il mare era calmissimo, non c’era un filo di vento; avrei potuto andare sottocoperta a dormire, ma nonostante questo non ero tranquillo. Sentivo che sarebbe successo qualcosa.

E infatti, il silenzio di quella notte fu rotto da quell’urlo della vedetta. ‘Iceberg!’ Ovviamente non ci credo, poi però il tenente Wilson si prese la premura di verificare col binocolo… e mi ricordo ancora le parole che mi disse. Mi disse… anzi no, prima imprecò, poi mi disse ‘Capitano, c’è davvero un iceberg di fronte a noi!’ e poco dopo lo vidi anch’io. Era un muro di ghiaccio che si ergeva di fronte a noi. Enorme e per quanto alzassimo la testa non ne vedevamo la fine. Mi ripresi da quella vista e ordinai la virata, anche se il timoniere aveva già iniziato a virare prima ancora che dessi l’ordine.

Ma anche così fu inutile. Urtammo l’iceberg e si aprì una falla, il marconista fu a malapena in grado di mandare l’SOS prima che la nave affondasse. E poi, quando avevamo finito di calare le scialuppe e l’HMS Odysseus era affondato, ci rendemmo conto che anche l’iceberg era sparito nel nulla.”

“Come, sparito?” chiese Hamilton.

“Sparito, senza lasciare alcuna traccia. Come se non fosse mai stato lì. E ovviamente quando il resto della squadra è arrivato a soccorrerci e non hanno trovato traccia dell’iceberg non hanno creduto alla nostra storia. Ma io posso assicurarvi che quello che ho raccontato l’ho visto con i miei occhi.”

“Il tenente Wilson è uno degli scomparsi, vero?”

“Sì comandante.” gli rispose il commodoro Elgar.

“Grazie per la sua testimonianza capitano. Arrivederci.” Disse il comandante Hamilton al capitano Henryson mentre usciva dalla stanza.

Nella corsia dell’ospedale il commodoro Elgar chiese al comandante Hamilton:

“Lei crede che sia stato un iceberg ad affondare l’Odysseus?”

“Credo che ne sapremo di più andando ad ispezionare il luogo dell’affondamento.”

“Ci vorrà qualche giorno, ma si può fare.”

“Aspetterò, tanto non ho fretta.”

Detta questa frase, si accorse che uno dei marinai nella corsia stava cercando di richiamare la sua attenzione. Poco dopo, quando il commodoro Elgar tornò nel suo ufficio, si avvicinò al marinaio. Era sdraiato nel letto con una gamba fratturata, che si era procurato nella precipitosa fuga dall’Odysseus. Il comandante Hamilton gli chiese:

“Deve dirmi qualcosa?”

“Sì, mi permetta innanzitutto di presentarmi. Leading Rate John Evans” disse facendo il saluto.

“Tenente comandante Frederick Hamilton – ricambiando il saluto. Lei era sull’Odysseus?”

“Esattamente. E c’è un motivo per cui ho voluto parlare con lei. Innanzitutto deve sapere che qui ho sentito molte storie che parlano di una montagna bianca che appare e scompare dal mare. I locali la chiamano sudu kanda, cioè ‘montagna bianca’, oppure śāpa lat kanda, ovvero ‘montagna maledetta’. Secondo queste leggende chi ha la sfortuna di imbattersi in quella montagna viene rapito dagli Dei, e non fa più ritorno.”

“Cosa c’entrano le superstizioni di un popolo di selvaggi con l’affondamento dell’Odysseus? Vuole forse farmi credere che la sciapletkande ha affondato un incrociatore della marina di sua maestà?”

“Le chiami pure superstizioni, comandante, ma io sono a Ceylon da molto più tempo del commodoro Elgar o del capitano Henryson. Ho sentito, e in qualche caso ho anche visto personalmente, di barche di pescatori svanite nel nulla, che ricomparivano dopo mesi. Gli equipaggi erano sani e salvi, ma storditi, e non ricordavano nulla di cosa fosse successo in quei mesi. Ricordavano solo la montagna bianca che compariva dal mare.”

“Tsk, avranno finto l’amnesia per non dover dire dove sono andati nella loro assenza.”

“Forse, comandante, ma io quella notte ho visto gli scomparsi. Erano su una scialuppa e stavano andando verso la śāpa lat kanda.”

“Cosa?”

“Ha capito bene comandante, io ho visto gli scomparsi.”

“Perché lo dice solo adesso?”

“Perché non mi avrebbero creduto, come nessuno ha creduto al capitano Henryson quando ha parlato dell’iceberg. Ma quello non era un iceberg, quello era un fenomeno sovrannaturale.”

“La smetta!” sbottò infine il comandante Hamilton, chiudendo così quella conversazione. Mentre si allontanava, sentì il marinaio Evans che gli diceva:

“Neanche lei mi crede! Vero, comandante?”

Il comandante Hamilton tornò nell’ufficio del commodoro Elgar. Due giorni dopo avrebbero effettuato un sopralluogo dove era affondato l’HMS Odysseus.

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III – L'iceberg

Da ormai diverse ore la nave stava navigando intorno alle coordinate trasmesse dall’HMS Odysseus prima di affondare. La speranza era trovare qualche indizio che potesse chiarire ciò che era successo quella notte.

Invece nulla, solo acqua. Le coordinate erano quelle, ne era sicuro, il comandante Hamilton aveva ricalcolato più volte la posizione, ma ogni volta venivano uguali. Dunque non c’era dubbio, erano sul luogo in cui era avvenuto l’affondamento.

Venne dal comandante Hamilton il tenente Taylor, comandante dell’imbarcazione, chiedendo se dovessero proseguire la perlustrazione o, visti gli scarsi risultati, tornare alla base.

“Abbiamo con noi l’attrezzatura subacquea, giusto?”

“Sì, comandante.”

“Allora faccia preparare lo scafandro e il compressore, scenderò a ispezionare il relitto.”

“Certo comandante.”

Ma mentre il tenente Taylor stava tornando ai comandi, il comandante Hamilton vide all’orizzonte un punto bianco, che appariva spariva. Eppure lì un minuto prima non c’era nulla. Prese il binocolo, regolò l’ingrandimento e vide quello che sembrava un iceberg.

Richiamò il tenente Taylor.

“Guardi anche lei in quella direzione e mi dica cosa vede”, disse Hamilton passando il binocolo a Taylor.

“Signore, credo che sia… sì, si direbbe proprio un iceberg.”

Allora lo aveva visto davvero, non se l’era sognato.

“Forse non serve più scendere a ispezionare il relitto. Si avvicini all’iceberg.”

La nave virò, e iniziò ad avvicinarsi all’iceberg.

Cosa ci faceva lì un iceberg? Era quello che aveva affondato l’Odysseus? E gli scomparsi? Hamilton sentiva che le risposte si trovavano su quell’iceberg.

Il giorno precedente Hamilton aveva avuto un secondo colloquio col marinaio Evans; anche se aveva parlato di fenomeni sovrannaturali e montagne maledette, era pur sempre l’ultima persona ad aver visto gli scomparsi. Per cui lo interrogò chiedendogli di dirgli esattamente ciò che aveva visto.

Evans aveva detto che calata la loro scialuppa, aveva visto che inizialmente si dirigevano verso di lui, ossia dove Evans, con un salvagente e una gamba fratturata, stava aspettando che una scialuppa lo ripescasse – non aveva fatto in tempo ad imbarcarsi, per cui aveva preso un salvagente e si era tuffato dalla nave prima che affondasse.

Poi però, a circa cento metri da dove si trovava lui, aveva visto che all’improvviso si erano fermati e per qualche minuto erano rimasti fermi. Evans ricordava soprattutto lo sguardo assente di quei marinai, che nonostante i suoi richiami lo avevano completamente ignorato. Finché non vide che avevano iniziato a remare come dei forsennati, allontanandosi da lui e andando verso l’iceberg.

“Avranno sentito le sirene dell’Odissea.” Aveva commentato ironicamente Hamilton, al che Evans, serissimo, gli aveva risposto:

“Dopo quello che ho visto, non mi sorprenderei fosse vero.”

Ripensando a quel colloquio, il comandante Hamilton pensò ‘Vuoi vedere che…’ e si diresse verso la sala comandi dal tenente Taylor, a cui chiese:

“Tenente, ha per caso dei tappi per le orecchie?”

Il tenente Taylor aprì un armadietto e tirò fuori una scatola piena di tappi per le orecchie, spiegando:

“Li usiamo quando dobbiamo scendere in sala macchine.”

“Penso che mi saranno molto utili”, disse prendendone un paio ancora nuovo, “ma sarà meglio che anche lei li metta, così come il resto dell’equipaggio.”

“Certo comandante, ma perché?”

“Poi le spiegherò. Adesso, tenente, si avvicini all’iceberg fino a quando non saremo a circa mezzo miglio, poi proseguiremo con una scialuppa.”

“Intende salire sull’iceberg?”

“Esattamente.”

Alcuni minuti dopo la nave si trovava alla distanza indicata da Hamilton, che a gesti fece intendere al resto dell’equipaggio di calare una scialuppa. Prese con sé quattro marinai e iniziarono a remare verso l’iceberg.

Dopo parecchie vogate erano arrivati; Hamilton cercò con lo sguardo un punto da dove poter salire, e dopo averlo individuato, fece avvicinare la scialuppa e si arrampicò. Mentre faceva questo, si accorse l’iceberg non sembrava fatto di ghiaccio; piuttosto sembrava metallico.

Hamilton avanzò di qualche passo finché non si trovò di fronte una parete alta circa due metri. La toccò, ed era liscia, ma non sembrava affatto ghiaccio, sembrava piuttosto metallo vetroso. Il comandante trasalì quando la parete si aprì; entrò con estrema cautela, portando la mano destra alla fondina con la pistola. Si trovò di fronte ad un'altra porta, che si aprì non appena sì avvicinò.

Si accese una luce, e vide l’ambiente intorno a sé. Era un corridoio, chiuso alle estremità da due porte; lui era entrato da una porta laterale. Vide i colori della parete, colori caldi, accesi, che contrastavano nettamente col bianco esterno. Vide anche quello che sembrava una specie di salotto, con tre poltrone attorno ad un tavolo.

“Prego siediti.”

Hamilton si voltò di scatto, ma non vide nessuno. Chi aveva parlato? E come aveva fatto a sentirlo nonostante i tappi per le orecchie?

“Puoi togliere i tappi, qui non c’è pericolo.”

“Chi sei? Fatti vedere!”

“Mi stai già guardando.”

“Come?”

“Io sono questo posto. Ma se proprio ti serve un volto a cui rivolgerti posso accontentarti.”

E sulla parete dietro il salotto scese uno schermo su cui apparve un volto umano, che rinnovò ad Hamilton l’invito a sedersi, cosa che il comandante questa volta fece. Ma non tolse i tappi, perché Hamilton pensò che comunque la... cosa sarebbe stata in grado di comunicare con lui. Il piano del tavolo si abbassò per qualche istante, e quando risalì reggeva una bottiglia d’acqua con un bicchiere.

“Sfortunatamente questa è l’unica cosa che posso offrirle da bere. Non abbiamo né tè ne alcolici.”

“Non fa niente, mi accontento. Ma come fa a comunicare con me nonostante i tappi?”

“Semplice, sto trasmettendo le mie parole direttamente al suo cervello.”

“Quindi hai poteri telepatici?”

“Esattamente.”

“Cosa sei?”

“Innanzitutto, questo non è un iceberg, ma ciò che resta di una nave spaziale. Migliaia dei vostri anni fa, ero parte di una spedizione che aveva il compito di esplorare quest’area della galassia. L’equipaggio comprendeva tre astronauti e me, un'intelligenza artificiale con il compito di governare la nave; ma quando ci avvicinammo al vostro pianeta per esaminarlo, i motori principali andarono in avaria, rendendo impossibile proseguire la missione. Gli astronauti partirono con la capsula di salvataggio, nella speranza di ricongiungersi alle altre navi della spedizione. Di loro non ho più saputo nulla.

Ero rimasto solo, ed esaurito l’ossigeno che alimenta anche me, il mio destino sarebbe stato spegnermi per sempre al largo di un pianeta sconosciuto.

Decisi allora di atterrare usando il motore ausiliario, perlomeno avrei avuto l’ossigeno necessario per sopravvivere. Da allora aspetto che dal mio pianeta vengano a prendermi, o perlomeno mi mandino un messaggio, ma non è mai successo. Mi hanno dimenticato.”

“Sei stato tu ad affondare l’Odysseus?”

“Sì. Quando ho scoperto che questo pianeta è abitato da vita intelligente, decisi di restare nascosto sott’acqua, risalendo in superficie solo per rifornirmi di ossigeno. Purtroppo però, durante l’emersione non sempre riesco a controllare che non ci siano barche in zona, alcuni dei miei sensori sono danneggiati o messi fuori uso dalla mancanza di manutenzione.”

“Dove sono gli scomparsi?”

“Intendi dire loro?”

Si aprì una porta, ed apparvero ventidue sagome con le uniformi della Royal Navy; erano loro, aveva visto le loro foto. Ma gli corse un brivido lungo la schiena quando vide il loro sguardo. Spiritato, assente, esattamente come gliel’aveva descritto Evans; inoltre erano estremamente magri, avevano il volto scavato e vedeva le mani scheletriche.

Riconobbe il tenente Wilson, quello che aveva confermato al capitano Henryson la presenza dell’iceberg... cioè, della nave. Fu spaventato dal suo sguardo, sembrava quello di un animale pronto ad attaccare. Mise mano alla pistola, ma anche Wilson era armato e fece lo stesso. Ma un istante dopo Wilson era a terra, che si contorceva in preda a quella che sembrava una crisi epilettica.

“Scusami se ti ha spaventato, non era sua intenzione. Ha visto in te un intruso e voleva proteggermi.”

“Perché?”

Nessuna risposta. L’AI dopo un po’ disse a Hamilton.

“È ora che tu vada. Tra qualche minuto mi immergerò di nuovo; i ventidue ti seguiranno e potrai riportarli in Inghilterra. Addio, comandante Frederick Hamilton.”

“Addio.”

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Epilogo

La nave stava tornando verso Ceylon. A bordo i ventidue scomparsi si erano risvegliati dalla loro catalessi, affamati ma sani. Solo, non ricordavano nulla di ciò che gli era successo dopo l’affondamento dell’HMS Odysseus.

Il comandante Hamilton guardava il mare, e pensava.

Pensava a quella specie aliena che aveva costruito quella nave, talmente superiore alla specie umana che il grande e potente Impero Britannico al suo confronto era nulla, anzi, meno di nulla. Gli esseri umani in quella razza avrebbero suscitato nel migliore dei casi pietà, nel peggiore lo stesso disprezzo che i sudditi di sua maestà provano per i negri che affollano le colonie.

Pensava che se avesse voluto, quell’intelligenza artificiale avrebbe potuto schiacciarlo come un insetto. Perché non lo aveva fatto?

Ma siccome era un uomo con una uniforme, pensava anche a cose più concrete, ossia:

“Cosa scriverò nel mio rapporto?”

Dario Carcano

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Questo è il commento in proposito di Perchè No?:

Una nave spaziale, non ci avrei mai pensato. Io avevo immaginato qualcos'altro. Qualche anno fa il disegnatore francese Tardy aveva avuto l'idea di una nave mascherata da iceberg da una banda di mercenari per missioni "speciali", giacché la nave è capace di silurare il suo obiettivo (tra altri il Titanic) senza lasciare tracce.

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E ora, un altro racconto scritto per noi da Dario Carcano:

Solitudine

Oggi questa storia è quasi dimenticata, ma ti ricordi della storia di Carlo e Adriano?
Un tempo la loro storia era molto famosa, ed era raccontata in giro molto spesso; molti ridevano a sentirla, ma alcuni piangevano. Una storia di guerra, d’amore e di politica che però la Storia ha ingiustamente gettato nell’oblio.

Questa storia inizia in guerra, durante quella che sarebbe diventata famosa come la Grande Guerra. Carlo era il più anziano dei due, e fu arruolato nel 1915, non appena l’Italia entrò in guerra. Aveva ventitré anni all’epoca, e aveva appena fatto in tempo a concludere gli studi di Giurisprudenza, ed essendo laureato entrò nell’esercito come ufficiale, come era d’uso all’epoca nel Regio Esercito.
Adriano era più giovane, compì diciotto anni nel 1916 e ottenuto il diploma di maturità anche lui fu chiamato nell’esercito, anche lui come ufficiale. Nonostante l’altissimo tasso di mortalità tra gli ufficiali, si insisteva che questi dovessero avere un titolo di studio; all’inizio della guerra era la laurea, ma nel 1916 già ci si accontentava del diploma di maturità.

Entrambi abitavano nella stessa città, eppure prima della guerra non si erano mai visti né incrociati; la guerra però li fece capitare nella stessa brigata, nello stesso reggimento, nella stessa compagnia. Quando nel 1916 Adriano arrivò al fronte con la divisa nuova e le mostrine da aspirante, Carlo era già un veterano, con i gradi di capitano sulle spalle e una compagnia sotto al suo comando.
Adriano divenne comandante di plotone, e sotto di lui aveva venti soldati e due sottufficiali, ma sopra di lui c’era Carlo. I due si piacquero subito, e divennero amici praticamente dal primo istante: e del resto, perché non dovevano piacersi? Erano della stessa città, erano entrambi giovani, entrambi appassionati di lettere classiche e matematica, entrambi di bell’aspetto. E presto diventarono più che semplici amici, molto di più. Erano infatti amanti, e ad ogni occasione possibile dividevano lo stesso letto, facendo tutto il possibile per rimanere nascosti ed evitare conseguenze.

Carlo e Adriano vissero insieme tutto il resto della guerra: vittorie e sconfitte, avanzate e ritirate, successi e insuccessi, loro erano sempre insieme e c’erano sempre l’uno per l’altro.
Erano insieme sul Piave, dopo il disastro di Caporetto, e poi a Vittorio Veneto quando finì la guerra, con Adriano ormai dello stesso grado di Carlo, ma comunque subordinato a lui. Erano entrambi bravi soldati, e la guerra avevano imparato a farla bene, loro malgrado.
Finita la guerra, entrambi fecero fatica a tornare al mondo civile; ma del resto, è difficile tornare ad un impiego in ufficio o dentro un’aula universitaria quando fino a due mesi prima comandavi un battaglione, o una compagnia. Sia Carlo che Adriano cercarono lavoro, ma c’era crisi, economica ma anche politica.

La Rivoluzione d’ottobre aveva stravolto i piani espansionistici dell’Italia quando Lenin pubblicò il Patto di Londra sulla Pravda, Giolitti e i liberali facevano sempre più fatica a controllare il paese, e ben presto si diffuse l’idea che la vittoria nella guerra fosse stata mutilata, sia dal tradimento dell’Intesa che dall’incapacità dei politici liberali.
Così, dalla delusione di molti reduci, nacque l’Impresa di Fiume. Gabriele D’Annunzio radunò centinaia di reduci e nel 1919 occupò la città di Fiume, rivendicandone il possesso in nome dell’Italia. Anche Carlo e Adriano erano tra i legionari fiumani, e i sedici mesi della reggenza del Carnaro furono l’unico periodo della loro vita in cui furono liberi di vivere il loro amore. Ma quel periodo fu interrotto bruscamente dalle cannonate della Regia Marina nel Natale di Sangue, quando Giolitti mandò esercito e marina contro D’Annunzio e i suoi legionari.

Carlo e Adriano erano insieme anche in quei giorni, ma le loro strade stavano per separarsi.
Carlo all’inizio della guerra era socialista, ma vedere in prima persona lo sfacelo di Caporetto, la vittoria mutilata e il Natale di Sangue lo avvicinò progressivamente al fascismo, perché vedeva solo nei fascisti la volontà di rendere l’Italia un paese nuovamente grande e rispettato.
Adriano prima della guerra era interventista e nazionalista, ma l’esperienza bellica lo rese molto critico verso il nazionalismo, e l’esperienza di Fiume lo alienò definitivamente dal sistema liberale-giolittiano, avvicinandolo all’internazionalismo proletario e al bolscevismo.

Così Carlo entrò nei Fasci di Combattimento, mentre Adriano si unì al neonato Partito Comunista d’Italia. Carlo prese parte alla Marcia su Roma, e fece carriera nel regime mussoliniano. Carriera non facile, perché molti sapevano della sua vera natura, e queste persone regolarmente andavano da Carlo a chiedere favori in cambio del loro silenzio. Carlo non aveva altra scelta che accettare perché, se la sua omosessualità fosse venuta alla luce, per lui sarebbe stata la fine.
Adriano invece si dedicò alla militanza comunista, diventando un importante dirigente del PCI, vivendo esule in Francia e trascorrendo frequenti periodi a Mosca, per studiare il Marxismo-Leninismo. Come Carlo, prese una moglie per mettere a tacere le voci sulla sua sessualità, ma mentre il matrimonio di Carlo fu sterile, Adriano riuscì ad avere dei figli, tre in tutto.
Adriano però divenne sempre più critico di Stalin, e nel 1939 fu espulso dal PCI assieme a Umberto Terracini e Camilla Ravera; sarebbe rientrato solo dopo la capitolazione dell’Italia, nel 1943.

Il 25 aprile 1945, Carlo e Adriano si trovarono nuovamente di fronte. Adriano come comandante di una brigata Garibaldi, Carlo come comandante di un reparto delle Brigate Nere. Carlo si era arreso ai partigiani senza sapere che di fronte aveva Adriano, il quale però sapeva che a comandare i fascisti era proprio lui; durante la guerriglia Adriano aveva sentito molte voci sul contro di Carlo, come per esempio che alzava le mani sui ragazzini che componevano il suo reparto, e non solo per picchiarli.
Quella fu l’ultima volta che Carlo e Adriano si videro di persona; nonostante le voci sul suo conto e il suo ruolo nel regime, Adriano fece fuggire Carlo, il quale per alcuni anni visse in Argentina per poi tornare in Italia nel 1951.

Adriano proseguì la sua carriera nel PCI, e nel 1953 venne eletto deputato, per poi diventare senatore nel 1963. Carlo, invece, tornato in Italia rifiutò le candidature che gli vennero offerte dal MSI, e visse il resto della sua vita da recluso nella tenuta ereditata dai genitori, dove viveva secondo una rigidissima routine che prevedeva sveglia alle quattro di mattina, ed un programma giornaliero di esercizi fisici e matematici. Solo raramente usciva da questa routine, ossia quando si doveva recare in città.
Fu durante una di queste occasioni che, nel 1965, mentre era su un tram Adriano vide Carlo passeggiare sul marciapiede accanto, invecchiato ma sempre riconoscibile. Adriano provò a scendere dal tram e raggiungerlo, ma mentre correva verso Carlo fu colto da un malore e cadde a terra; portato in ospedale, arrivò che era già morto.

Carlo non si accorse di nulla, e solo dai giornali seppe della morte di Adriano. Andò in città per partecipare al funerale dell’amore della sua vita, e quella fu l’ultima occasione in cui uscì dalla sua tenuta. Già vedovo da sette anni, Carlo – a parte la servitù – visse totalmente solo il resto dei suoi giorni.
Morì nell’indifferenza generale il 9 maggio 1978, all’età di ottantasei anni; lo stesso giorno in cui venne ritrovato il cadavere di Aldo Moro.

Dario Carcano

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Terzo racconto scritto per noi da Dario Carcano:

Storia di due città

di B. Alexander

Introduzione

Alcuni anni fa mi fu diagnosticata la tubercolosi, decisi perciò di ricoverarmi in un sanatorio svizzero. Lì conobbi l’ambasciatore del regno di Newtown a Parigi, Edgar H. Humbert, persona colta che si esprimeva in ottimo francese; era lì anche lui per guarire dalla tubercolosi. Mi chiese se avessi letto “La libido. Simboli e trasformazioni” di Carl Gustav Jung; sfortunatamente no, gli risposi che però avevo letto “Tre saggi sulla teoria sessuale” di Sigmund Freud. Rimase deluso dalla mia scarsa conoscenza della psicologia analitica junghiana, ma nonostante questo conversammo molto a lungo per tutti i giorni in cui fummo insieme in quel luogo fuori dal mondo. Mi parlò molto del suo paese, della storia di Newtown e mi chiese se, essendo io docente di storia, non avessi già sentito nominare Newtown. Purtroppo dovetti rispondergli nuovamente di no, giustificandomi col fatto che mi occupo prevalentemente di storia medievale.

“Però un ortopedico sa che una gravidanza dura nove mesi, anche se non è specializzato in ginecologia!”

Dovetti convenire che aveva ragione. Ebbene, per rimediare alla mia ignoranza, uscito dal sanatorio iniziai a studiare la storia di Newtown e di Williamsburg, e dei loro fondatori, i fratelli Jones. Nel mio mestiere di storico mi è capitato di studiare comunità che fino ad un certo punto si sviluppano insieme e ad un certo punto scelgono di dividere le proprie strade. Tuttavia in nessun caso come in quello delle città di Newtown e Williamsburg il percorso che queste due comunità hanno seguito dopo la loro separazione è stato influenzato dalla personalità e dalle idee dei fondatori, ma soprattutto dal modo in cui la loro volontà è stata interpretata.

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I. Due fratelli

Abraham e William Jones erano due idealisti: erano disgustati dal degrado morale raggiunto nella loro città natale, Kingsburg, e perciò decisero di emigrare verso Ovest per fondare una nuova città, in cui creare una comunità che vivesse libera secondo valori di giustizia, libertà e uguaglianza. Erano carismatici, e riuscirono a convincere molti a seguirli nella loro impresa.
Per mesi la carovana vagò per le praterie occidentali in cerca del luogo più adatto in cui insediare una città. Poi lo trovarono: una valle circondata dalle montagne Nevose e tagliata in due dal fiume Rio. Nella valle la terra era fertile, il Rio era pescoso e le montagne pullulavano di selvaggina e legname, indispensabile per costruire gli edifici. Così nacque Newtown.
Lo scopo del viaggio era creare una comunità più egualitaria, in cui regnassero la giustizia e l’armonia sociale; e infatti il primo statuto di Newtown prevedeva la democrazia diretta: le decisioni principali erano prese dalla comunità riunita in assemblea, che faceva anche le funzioni di tribunale; per concretizzare le decisioni dell’Assemblea questa eleggeva un Presidente, che restava in carica un anno (ma poteva essere riconfermato un numero illimitato di volte).
Per alcuni anni le cose funzionarono, poi però iniziarono a sorgere alcuni screzi tra i due leader della comunità, cioè i fratelli Jones: inizialmente su questioni pratiche, se si dovessero o meno accettare i nuovi coloni che via via arrivavano a Newtown, se questi nuovi coloni avrebbero o meno votato nell’Assemblea;
Abraham era per una politica di chiusura, riteneva che i nuovi arrivati non dovessero avere gli stessi diritti dei coloni originari, in particolare, il voto nell’Assemblea; William invece riteneva che fosse giusto concedere ai nuovi coloni il diritto di voto.
L’Assemblea diede ragione ad Abraham. Fu la prima frattura tra i due fratelli.
I contrasti fra Abraham e William si spostarono su argomenti teorici quando William scrisse “Il tradimento dell’Uguaglianza”, in cui accusava il fratello di aver tradito lo spirito egualitario della loro impresa attraverso:

  1. L’esercizio della carica di Presidente per dodici anni consecutivi dalla fondazione di Newtown (fino a quel momento nessun altro era stato eletto a quella carica);

  2. Tendenze autoritarie manifestatesi nell’uso dei suoi fedelissimi per controllare l’Assemblea;

  3. Una distribuzione delle risorse che favoriva i fedelissimi di Abraham, come ricompensa per il punto precedente;

  4. Le promesse demagogiche fatte all’Assemblea, come la non concessione del diritto di voto agli immigrati.

Abraham reagì alle accuse del fratello giustificando alcune sue come misure necessarie, mentre le altre accuse furono rigettate. Per esprimere la sua opposizione alle teorie del fratello, scrisse “La Dottrina”, in cui argomentava che l’uguaglianza perché sia tale ha bisogno di una guida e di regole forti.
Intanto però creò l’Organizzazione per la Salvaguardia della Concordia e dell’Armonia, la famigerata OSCA, con cui Abraham e i suoi successori avrebbero mantenuto sotto strettissimo controllo Newtown.
Le prime vittime dell’OSCA furono i sostenitori delle tesi mosse da William. In un appassionato discorso di fronte all’Assemblea, William difese le sue idee e chiese la fine delle epurazioni. Quando fu messo di fronte ad un rifiuto, scelse la via dell’esilio.
Molti, soprattutto immigrati che a causa delle decisioni di Abraham non potevano votare, lo seguirono in questo esilio volontario. Non andò lontano William, semplicemente andò oltre il fiume Rio, dove c’erano alcuni insediamenti di boscaioli che si unirono a lui; gli abitanti di Newtown fedeli ad Abraham, spregiativamente, iniziarono a chiamare questi insediamenti Williamsburg, anche se William vi si riferiva chiamandoli Liberia; solo dopo la sua morte il nome Williamsburg si sarebbe affermato.

Paradossalmente, nessuno dei due fratelli voleva che questa separazione fosse definitiva: William voleva solo portare la sua protesta ad un livello estremo; Abraham si proponeva si colmare le distanze non appena le circostanze glielo avrebbero consentito, ma la morte lo colse due anni dopo la secessione di Williamsburg, e il suo successore era tutto fuorché intenzionato a far la pace col traditore William.
Ora la separazione era diventata definitiva.

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II. Newtown

Sulla deriva autoritaria in corso a Newtown William non aveva tutti i torti, ma si sbagliava quando la attribuiva ad Abraham, o perlomeno, al solo Abraham: il Presidente era sinceramente convinto che il fine giustificasse i mezzi, che l’uguaglianza e la libertà potessero giustificare la repressione sempre più pervasiva. Ma il responsabile per gli eccessi di questo processo era Albert Smith, capo dell’OSCA, ed eminenza grigia del Presidente Abraham, che raggiunse un potere tale da essere eletto suo successore dopo la sua morte.
Smith non solo era un ultra-dottrinario, cosa che lo spinse ad accentuare ulteriormente la repressione nel momento in cui successe ad Abraham, ma riteneva necessario imporre una svolta alla rivoluzione; sostenne “troppo spesso il popolo ha preso decisioni catastrofiche, è dunque necessario, per salvaguardare la libertà e l’uguaglianza, impedire che ciò avvenga in futuro sopprimendo l’Assemblea e trasferendo al Presidente tutti i poteri”. È quella che in psicologia viene chiamata “profezia che si autoavvera”, infatti in conformità con le argomentazioni di Smith l’Assemblea prese una decisione catastrofica: trasferì al Presidente tutti i propri poteri.
Poi, non ancora contento, Smith decise di rendere la carica di Presidente vitalizia ed ereditaria, instaurando de facto una monarchia personale; poi decise di proclamare che il defunto Abraham Jones, in punto di morte, lo aveva adottato come proprio figlio, falsificò i documenti che provavano quest’adozione e cambiò il proprio nome in Albert Abrahamson Jones. Infine completò il suo disegno politico: fece saltare fuori un documento con cui suo padre adottivo sosteneva che per difendere libertà e uguaglianza fosse necessario un Re, in quanto solo un sovrano sarebbe stato abbastanza forte per garantire questi valori. E il popolo di Newtown scese in piazza chiedendo che Albert A. Jones cingesse la corona.
Nel giorno del trentesimo anniversario dalla fondazione di Newtown, Albert Abrahamson Jones, nato Albert Smith, fu incoronato Re di Newtown col nome di Abraham II. Di fatto, la monarchia era iniziata già molto prima.
Ormai la prassi l’avete già intuita: quando Abraham II vuole legittimare una sua decisione agli occhi del popolo, magicamente salta fuori uno scritto di Abraham I che, casualmente, fornisce una base di legittimità alle volontà del sovrano. Però, studiando, ho scoperto che effettivamente negli scritti di Abraham Jones (quelli che sappiamo con certezza essere suoi) effettivamente sono presenti idee quali l’uomo forte garante della rivoluzione (che Abraham II renderà nella figura di un Re), assistito da una cerchia di “professionisti della rivoluzione” che costituiscono la classe da cui provengono i vertici militari e burocratici, in altre parole una aristocrazia, una classe nobiliare; infatti Abraham II introdusse dei titoli nobiliari che attribuì a quelli che furono i fedelissimi di Abraham I, e che ora erano la spina dorsale del suo regime.

Quindi, Abraham II ha tradito gli ideali libertari ed egualitari di Abraham Jones? Quest’accusa gli fu mossa soprattutto da William Jones (un motivo in più di odio tra i due), tuttavia, a ben guardare, libertà ed uguaglianza per come li intendeva Abraham Jones si prestavano ad interpretazioni autoritarie e monarchiche: libertà, ma solo per alcuni (i coloni della prima ora, da cui uscirà l’aristocrazia creata da Abraham II); uguaglianza, ma con l’uomo forte a fare da garante. Inoltre, è vero che c’era la polizia segreta, ma la sua istituzione era stata approvata dall’Assemblea popolare (ben prima che Smith la abolisse); Abraham II era un tiranno, ma ha sempre avuto un fortissimo consenso popolare.
È quindi difficile rispondere a questa domanda.

Certo è che i successori di Abraham II rafforzarono ulteriormente i caratteri autoritari del regime introducendo un elemento nuovo: la religione. Nei primi anni di regno di Abraham III, figlio di Abraham II (morto dopo sedici anni di regno), uscì una biografia di Abraham Jones in cui si mettevano in evidenza gli aspetti religiosi della sua personalità, quali la fede in Dio, la vita ascetica e i (presunti) miracoli. Che Abraham Jones sia stato profondamente e sinceramente credente è provato dalle biografie scritte da persone che lo conobbero in vita, per esempio quella scritta da John Dixon, che per cinque anni fu il segretario personale di Abraham I; ma in nessuna di queste si parla di miracoli, né si afferma (come nella biografia “ufficiale” pubblicata durante il regno di Abraham III) che Jones sentisse la voce di Dio e agisse secondo le sue istruzioni; ma serviva anche questo. Ancora sotto suo padre i documenti ufficiali recitavano:

“Re Abraham II, sovrano di Newtown per volontà del popolo sovrano, […]”

Dal il regno di Abraham III in poi, i documenti recano:

“Re Abraham, terzo nel suo nome, Sempre Augusto, sovrano di Newtown per volontà di Dio, suo profeta e difensore della vera Fede, […]”

Un cambiamento enorme. Soprattutto se paragonato al fatto che Abraham Jones ha sempre preteso che gli si parlasse dandogli del tu, rifiutando ogni forma di cortesia.

Ma Abraham III è ricordato soprattutto perché sotto il suo regno ebbe inizio la “guerra infinita” contro Williamsburg: nel regno di suo padre c’erano stati scontri armati tra le due comunità, ma erano episodi isolati; la guerra vera e propria fu iniziata da lui, quando nel sesto anno del suo regno proclamò la guerra santa contro gli “atei traditori di Williamsburg”.
Appunto, Williamsburg; ma cosa era successo a Williamsburg dopo che William Jones lasciò Newtown?

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III. Williamsburg

Abraham Jones era un uomo pratico, che si era occupato di teoria solo quando dovette scrivere “La Dottrina” per confutare le tesi del fratello. Al contrario, William Jones era portato all’astrazione e alla riflessione filosofica. Il punto di partenza di William per creare una società diversa da quelle che aveva lasciato fu il modo in cui il fratello resuscitò la morale religiosa. William infatti era contro la famiglia, definita nei suoi scritti “covo di odi e ipocrisie”, e odiava la religione, ritenuta un narcotico somministrato alle masse per far accettare disuguaglianze e ingiustizie.
In particolare, nei suoi scritti sostenne l’idea che la libertà politica parte dalla libertà sessuale, la quale è il primo passo per liberare l’uomo dal condizionamento sociale, ovvero la paura del giudizio degli altri; liberato dal condizionamento sociale l’uomo è veramente libero.
Questa la teoria, ma la pratica? Lo statuto di Williamsburg scritto da Jones si fondava su tre punti fondamentali:

1) Eguaglianza e democrazia diretta, mutuate dal primo statuto di Newtown; venivano previsti:

  1. L’Assemblea Popolare, formata da tutti i cittadini dotati dei diritti politici, espressione diretta della volontà popolare e massimo organo legislativo;

  2. Il Direttorio, organo esecutivo formato da sette direttori eletti dall’Assemblea Popolare che restano in carica un anno. William Jones, fino alla sua morte, ogni anno sarà confermato direttore;

  3. La Magistratura, responsabile per il potere giudiziario, è formata da magistrati eletti dall’Assemblea Popolare su proposta del Direttorio.

2) Condanna del giudizio sociale: nessun uomo può giudicare un altro uomo per le sue azioni;

3) Abolizione dei reati immaginari: nessun uomo può essere condannato perché accusato di reati immaginari (cioè invenzione del conformismo reazionario). Sono reati immaginari: omosessualità; stregoneria; eresia; suicidio; vilipendio alla religione; lesa maestà; apostasia; miscredenza; adulterio; pedofilia; incesto; uso personale di droga o alcol; prostituzione; aborto; eutanasia.

Con le migliori intenzioni si creano i mostri. Quella che doveva essere una utopia egualitaria in breve divenne una delle peggiori distopie: già negli ultimi anni di vita di Jones fu approvata dal Direttorio la creazione dell’Ufficio per il Contrasto delle Attività Antirivoluzionarie, l’UCAA, che aveva lo scopo di individuare “gli elementi controrivoluzionari il cui scopo è distruggere la rivoluzione dall’interno”. Dopo la morte di William Jones, il capo dell’UCAA, Joe Baxter, diede inizio al “Terrore”: persone arrestate e condannate ai campi di lavoro per aver usato “signore” anziché “compagno/camerata/fanatico”; uomini condannati al carcere perché in casa nascondevano un crocefisso o una copia della Bibbia; madri denunciate dai figli perché avevano parlato contro l’ortodossia rivoluzionaria, magari appigliandosi al fatto che William Jones aveva detto che la libertà di parola e di pensiero deve essere assoluta.
Appunto, Jones aveva detto molte cose che dopo la sua morte furono disattese. Quindi? Si scrive una vulgata ufficiale che legittima le politiche degli eredi del fondatore. Così per il venticinquesimo anniversario dalla fondazione di Williamsburg, sei anni dopo la morte di William Jones e dopo sei anni di Terrore, uscirono le versioni ufficiali della biografia di William Jones e dei suoi scritti postumi. Questi ultimi, rispetto agli scritti pubblicati mentre Jones era in vita, giustificavano la repressione come male necessario per la salvaguardia della Rivoluzione, la sovranità popolare e la democrazia diretta venivano descritte come cose giuste, ma per cui il popolo ancora non era preparato.
Albert Smith aveva sfruttato le ambiguità del pensiero di Abraham Jones, ma Joe Baxter e i direttori avevano completamente stravolto il pensiero di William Jones.

Ma su una cosa il pensiero di Jones era stato seguito in maniera addirittura pignola: la liberazione sessuale. A Newtown per pudore venivano coperte anche le gambe dei tavoli, al contrario a Williamsburg veniva incoraggiata la massima libertà sessuale. Bene, ma cosa si intende con libertà sessuale? Su questo argomento ci furono discussioni molto accese nel direttorio e anche tra i semplici cittadini su come si dovesse interpretare il pensiero di Jones: siccome riteneva il concetto di “perversione sessuale” invenzione della morale reazionaria, è sufficiente che il superamento di questo concetto avvenga a livello metacognitivo? O piuttosto, il superamento deve avvenire anche con la pratica? In altre parole, per consentire la liberazione sessuale bisogna rendere obbligatorio l’incesto? Questo il punto principale delle discussioni che animavano i circoli politici di Williamsburg. Dopo lunghe discussioni e una attenta analisi degli scritti di Jones, l’Assemblea Popolare si espresse:

“ I Compagni Fanatici dell’Assemblea Popolare hanno approvato la seguente legge;

Art. 1

Disposizioni per la Liberazione sessuale dei compagni cittadini di Williamsburg

1) In attuazione del Capitolo VI del saggio ‘Libertà e Liberazione sessuale’ del fu direttore compagno William Jones, la presente legge individua, in ambito nazionale, l'Autorità per la Liberazione Sessuale e gli altri organi incaricati di svolgere, con modalità tali da assicurare azione coordinata, attività di organizzazione e di controllo sulla liberazione sessuale dei compagni cittadini di Williamsburg.
2) […] ”

L’assemblea popolare rese obbligatorio almeno un rapporto sessuale fratello-sorella o genitore-figlio/a; il suddetto rapporto deve essere comprovato da una certificazione scritta.

Il fatto di questa storia che a mio modesto parere sembra paradossale, è che la volontà di creare una società che negasse Newtown, le sue ipocrisie e la sua repressione, ha finito per creare una società altrettanto repressiva, forse solo meno ipocrita. Inseguendo un utopia, William Jones ha creato un incubo.

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IV. Guerra e odio

È impossibile parlare della storia di Newtown e Williamsburg senza almeno accennare alle lunghe e sanguinose guerre che si sono combattute tra le due città. Abbiamo accennato che la guerra vera e propria ebbe inizio con Abraham III, senza però dire perché si sia arrivati a quel punto.

Newtown si trovava nella parte della valle del Rio più ricca di giacimenti di minerale ferroso e carbone; al contrario, la parte della valle dove sorgeva Williamsburg era povera di queste risorse, ma ricca di boschi e foreste, fonte di legname (che invece scarseggiava nella parte in cui era Newtown). Di conseguenza, dopo la separazione di Williamsburg divenne la prassi che ognuna delle due città organizzasse spedizioni di razziatori per rubare all’altra quello che a loro mancava, iniziando contemporaneamente ad organizzare difese per proteggersi dai razziatori nemici.
Fu quindi una escalation: io mando da te i miei razziatori e metto guardie per proteggermi dai tuoi; armo i miei razziatori per permettergli di affrontare le tue guardie, e per proteggere le mie fortifico i magazzini; per espugnare i tuoi magazzini fortificati mando più razziatori, e aumento il numero delle guardie ai miei; ecc.

Ma ciò che rese la guerra tra Newtown e Williamsburg realmente tale fu lo scontro ideologico, che vedeva contrapposto al monarchismo teocratico di Newtown l’egualitarismo antireligioso di Williamsburg. Entrambi si chiamavano con soprannomi che facevano riferimento agli stereotipi degli uni sugli altri: per gli abitanti di Newtown, quelli di Williamsburg erano i “sisters-fuckers”; per gli abitanti di Williamsburg, quelli si Newtown erano gli “houses-burners”.
Ad ogni scontro tra gli eserciti delle due città, i livelli di violenza erano difficilmente immaginabili: capitò più volte che i nemici catturati fossero fucilati sul posto, che i prigionieri fossero torturati, oppure che se in un villaggio sparavano contro i soldati, i militari per rappresaglia radunavano gli abitanti in un edificio per poi dargli fuoco.

Questo però vuol dire anche che i soldati di entrambi gli schieramenti erano estremamente motivati, in entrambi gli eserciti si disertava pochissimo perché la guerra contro i “sisters-fuckers” o gli “houses-burners” era fatta molto volentieri. Entrambe le parti erano convinte di essere nel giusto, e per portare avanti la propria causa venivano usati anche i mezzi più crudeli.

Una guerra infinita, anche perché in fondo nessuna delle due parti voleva realmente prevalere sull’altra in maniera definitiva: come giustificare la repressione, la polizia segreta, e la costante mobilitazione totale senza un nemico?
Quindi, lo scopo delle varie battaglie che si sono combattute era prendere quel ponte sul Rio, conquistare quella fortezza, occupare il tale villaggio, ecc.

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V. Conclusioni

Chi crede che una delle due società sia migliore dell’altra, si sbaglia: entrambe sono indesiderabili, repressive, autoritarie.
Entrambe sono nate dall’aver inseguito un utopia dimenticandosi dove si mettono i piedi; così, entrambe sono finite nel burrone dell’intolleranza. Entrmabe hanno negato i valori che volevano seguire, hanno imposto per liberare, represso il dissenso per rendere eguali.

Ritengo di non poter esprimere un giudizio morale sui personaggi che abbiamo incontrato, per il semplice motivo che la loro morale era diversa dalla mia, e soprattutto, tutti erano convinti di agire nel giusto. Azioni infime e scopi sublimi..

Dario Carcano

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C'è anche il contributo di Generalissimus:

La maggior parte degli esponenti dell'"Era d'Oro della Letteratura russa" vissuti nella prima parte del 19° secolo terminò prematuramente la propria esistenza (soprattutto gli scrittori romantici).

E se invece per loro le cose prendessero una piega diversa? Aleksandr Griboedov riesce a gestire meglio la faccenda dell'eunuco armeno fuggito, e non viene trucidato da una folla inferocita a Teheran (anche se prima o poi sarebbe comunque entrato in conflitto con lo Zar Nicola I: Griboedov aveva le capacità diplomatiche per far entrare la Persia nell'orbita russa, ma propugnava anche l'autonomia per i Cristiani del Transcaucaso, mentre lo Zar e il suo protetto Paskevič erano a favore della completa russificazione, senza contare che le sue opere più caustiche avrebbero certamente dato fastidio alle alte sfere).

Aleksandr Bestužev, alias Marlinskij, sopravvive alle campagne nel Caucaso.

Aleksandr Puškin vince il suo duello con Georges d'Anthès, termina le sue opere incompiute (tranne Il Negro di Pietro il Grande) e continua a scrivere.

Il clima di Napoli giova davvero alla salute malferma di Evgenij Baratynskij, che non si spegne all'ombra del Vesuvio.

Nikolaj Gogol' non fa amicizia con lo starec Matvej Konstantinovskij, non si convince che il suo lavoro d'immaginazione è peccaminoso e non brucia la seconda parte delle Anime Morte: l'assenza della sua crisi mistica non solo gli prolunga la vita, ma oggi potremmo godere anche (tra le altre sue opere) della terza parte delle Anime Morte, in cui Čičikov riuscirà finalmente ad ottenere (con mezzi più che leciti) il suo agognato appezzamento di terreno nella regione di Cherson e ad essere addirittura d'esempio agli altri.

Michail Lermontov si vede restituire il favore del colpo sparato in aria da Nikolaj Martynov, l'uomo che lo aveva sfidato in duello, e in seguito anche lui approderà verso il realismo.

Come cambia il panorama letterario russo (e mondiale) grazie a questi avvenimenti?

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Chiudiamo con un quarto breve racconto, sempre dello stesso autore:

L'indifferente

“Bene dottore, credo che il mio problema sia che nella mia vita è come se non mi importasse di nulla. Lei forse si starà chiedendo come sia possibile, ed è la stessa cosa che mi chiedo anch’io. Me ne sono accorto la prima volta tre anni fa, quando morì mia madre. Mi ricordo molto bene che in quei giorni non provavo assolutamente nulla, la morte di mia madre mi era del tutto indifferente. Non ci feci subito caso, pensai che forse era perché nel periodo prima che morisse non era più autosufficiente, quindi dovevo stare lì con lei costantemente, e che quindi sentivo la sua morte come una liberazione… ma poi circa un anno fa mi capitò che al lavoro un mio collega si era appropriato di un mio progetto, spacciandolo per suo. Avrei dovuto indignarmi, protestare e rivendicare la paternità della mia opera… e invece di nuovo il nulla, il vuoto assoluto. Non reagì in nessun modo. Di nuovo dottore, la cosa mi era del tutto indifferente anche se non avrebbe dovuto esserlo.

È dopo quell’episodio che ho iniziato a riflettere seriamente sulla cosa. Perché non è la prima volta che sono indifferente a una cosa che non dovrebbe lasciarmi indifferente. Perché vede dottore, io anni fa da giovane volevo fare il disegnatore di fumetti, però mia madre mi disse, o forse sarebbe meglio dire che mi impose, di studiare economia perché secondo lei avrei avuto più sbocchi lavorativi. Così studiai economia, e ora sono bloccato in un lavoro stabile ma monotono e con scarse prospettive di carriera.

A volte vorrei lasciare tutto per inseguire il mio vecchio sogno, ma l’ansia mi assale. E se non fossi più capace di disegnare? E se nessuno volesse pubblicare le mie storie? E se non avessi successo? Così mi rassegno a andare avanti col mio lavoro monotono ancora un altro po’, poi si vedrà. Ma ormai sono anni che faccio così, continuo a rimandare.
E con le donne è la stessa storia. Non ho una ragazza da quando andavo alla scuola media, e ogni volta che penso che forse dovrei uscire e interagire con gli altri, specialmente di sesso femminile, di nuovo l’ansia mi assale. E se non mi trovano interessante? Se non vogliono parlare con me?

Oltretutto dottore non riesco mai a dormire, sono sempre stanco… lei potrebbe dire che soffro di depressione, ma questo è il mio stato normale, da che ricordo sono sempre stato così, anche da giovane… Dottore, ma lei mi sta ascoltando? Dottore?”

E si accorse solo in quel momento che il Dottore era addormentato sulla sua poltrona.

“Dottore! Si svegli!”

“Eh!? Scusi mi ero un attimo assopito. Per la seduta sono cinquanta euro, come sempre ci vediamo la prossima settimana.”

“Va bene dottore, alla settimana prossima.”

Dario Carcano

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Così commenta Never75:

"La psicoanalisi è una confessione senza assoluzione." (Gilbert Keith Chesterton)

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E Federico Sangalli aggiunge:

Mi viene in mente quella battuta di Groucho sul metodo freudiano:
"L'altro giorno il mio psicologo mi ha rivolto la parola per la prima volta in dieci anni di terapia..."
"Embé, non sei contento? Che ti ha detto?"
"Je ne parlé pas l'Anglais..."

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Per far sapere all'autore che ne pensate, scrivetegli a questo indirizzo.


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