Pasticcio in salsa longobarda

Re Autari in una miniatura delle Cronache di Norimberga

La discussione parte da questa proposta di William Riker:

Nel 588 il re longobardo Autari respinge un attacco da parte dei Franchi e, per contrastarli meglio, cerca un'alleanza con i Bavari, nemici storici dei Franchi, fidanzandosi con la principessa Teodolinda. Nel 590 tuttavia il re franco Childeberto gioca d'anticipo, si accorda con i duchi longobardi di Bergamo, Treviso, Parma, Reggio Emilia e Piacenza, ed attacca i Longobardi che perdono tutta l'Emilia. Autari è costretto a trincerasi a Pavia, mentre Childeberto spezza in due il regno longobardo, occupando Verona ed infilandosi nella Valle dell'Adige fino a Trento. Tuttavia il caldo, le epidemie e un'esondazione dell'Adige che quasi travolge l'esercito franco consentono ad Autari di risollevarsi e di sconfiggere ad Asti re Childelberto che, provato e deluso, si accorda con lui e ripassa le Alpi. Ma che accade se Childeberto riesce a prendere Pavia e a trarre prigioniero Autari? Fine anticipata del regno longobardo (si mantengono indipendenti solo i ducati di Spoleto e di Benevento), e i bizantini riescono a mantenere molto più a lungo le loro posizioni nel centro d'Italia; il potere temporale dei Papi non sorge.

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Ed ecco il commento del grande *Bhrg'howidhHô(n-):

Sì, e si possono argomentare ulteriori conseguenze di grandissimo peso sui fenomeni di lunga durata.

E' pressoché sicuro che il confine linguistico tra retoromanzo e cisalpino non esisterebbe (la Lombardia e il Veneto sarebbero ladini); l'intera Cisalpina costituirebbe parte integrante del galloromanzo (verosimilmente a sua volta solcata dai confini interni di quest'ultimo; in particolare, il provenzale e il francoprovenzale sarebbero estesi fino alla Pianura Piemontese) e, soprattutto, la Linea Massa-Senigallia rappresenterebbe il più importante confine linguistico interno (tra galloromanzo e italoromanzo) della Romània. Inoltre, la lingua veicolare transalpina avrebbe vigore virtualmente incontrastato fino agli Appennini.

Tutto ciò è praticamente documentabile e non sussistono dubbî sulla sua inevitabilità. Verosimilmente si sarebbe avuta anche una differente dinamica macrosociolinguistica in Austria / Baviera: il ladino sarebbe rimasto la varietà principale di Salisburgo, Innsbruck e Coira e la colonizzazione tedesca della Slavia Alpina sarebbe stata 'sostituita' almeno in parte da un'espansione alpinoromanza.

Di per sé non ci sono motivi cogenti per ritenere che la Longobardia / Lombardia (non più rinominabile classicamente "Italia") non dovesse confluire nel Sacro Romano Impero della Nazione Germanica come nella Storia reale. Diventa invece quasi necessario che l'imperialismo francese dei secoli XVI.-XIX abbia la conquista del Bacino Padano come obiettivo non più solo principale, ma assolutamente prioritario e quindi lo consegua, anche precocemente (di sicuro tra l'inizio e la fine del XVIII secolo). In ogni caso, da Napoleone III la Francia includerebbe definitivamente i Dipartimenti cisalpini.

Molto più opinabile il profilo della Penisola: tra le molte possibilità, una delle più economiche è forse - specialmente in assenza dello sviluppo storico di uno Stato Pontificio - quella di una Monarchia di origine ispanonapoletana (eventualmente non borbonica, dato che la politica di equilibrio europeo avrebbe evitato a qualsiasi costo una presenza della Dinastia reale francese sul Trono di Spagna).

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Falecius vuole dire la sua:

Interessanti proposta e risposta. Le conseguenze sono importanti: i Bizantini potrebbero recuperare il controllo di tutta la Penisola? A questo punto forse Carlo Magno affermerebbe le sue pretese imperiali conquistandola (assieme forse alla Dalmazia), e la divisione dell'Impero alla sua morte come avverrebbe? (immagino linee su Alpi e Reno). Con un'area francese cisalpina, Lione potrebbe essere la capitale? E che effetti avrebbe la presenza normanna?

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Allora *Bhrg'howidhHô(n-) replica come lui solo sa fare:

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Phalaikeios:

I Bizantini potrebbero recuperare il controllo di tutta la Penisola?

*Bhrg'howidhHô(n-):

Sembra molto verosimile; in effetti i Principati sviluppatisi dal Ducato di Benevento sono realmente rientrati nella sfera di influenza bizantina (Basilio II) alla stessa stregua delle tradizionali dipendenze costituite dai Ducati di Gaeta, Napoli e Amalfi. Qui si tratterebbe di ipotizzare lo stesso per il Ducato di Spoleto, stretto tra quelli di Roma e Perugia e la Pentapoli.

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Phalaikeios:

A questo punto forse Carlo Magno affermerebbe le sue pretese imperiali conquistandola (assieme forse alla Dalmazia)

*Bhrg'howidhHô(n-):

Di sicuro, tale sarebbe stato il suo principale disegno geopolitico. Se ci allontaniamo il meno possibile dalle effettive congiunture della Storia reale, forse possiamo affermare che ci sarebbe riuscito, almeno provvisoriamente.

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Phalaikeios:

E la divisione dell'Impero alla sua morte come avverrebbe? (immagino linee su Alpi e Reno).

*Bhrg'howidhHô(n-):

Sembrerebbe, â posteriôrî, la soluzione più spontanea, ma fino ad allora le spartizioni erano avvenute tenendo in considerazione i soli confini delle Diocesi (nemmeno quelli delle Arcidiocesi, per non parlare dei grandi Ducati), quindi potremmo prendere in considerazione una frantumazione delle dipendenze cisalpine tra i varî eredi, a seconda delle Diocesi (per esempio: Milano a uno, Como a un altro, Pavia a un terzo, Genova di nuovo al primo e così via).

D'altra parte, sempre se ci teniamo stretti alle vicende della Storia reale ogni volta che è possibile, possiamo anche 'copiare e incollare' le divisioni realmente avvenute dopo Carlo Magno.

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Phalaikeios:

Con un'area francese cisalpina, Lione potrebbe essere la capitale?

*Bhrg'howidhHô(n-):

Effettivamente, anche nelle vicende reali, l'emersione di Parigi come centro della Francia avviene solo con i Capetingi; in precedenza, dal punto di vista linguistico il centro innovatore risulterebbe Orléans, anche se d'altra parte i Giuramenti di Strasburgo sembrano piuttosto riflettere il pittavino (benché la questione sia tuttora controversa, a quanto pare).

Molto probabilmente Lione sarebbe perlomeno una delle capitali; quali potessero essere eventuali altre omologhe dipende dal numero di divisioni (nel senso di "parti divise") dell'Impero che postuliamo. In assenza della tradizione longobarda dopo Ariberto I, è difficile che Pavia conservasse il primato: a questo punto diventerebbe quasi inevitabile un'egemonia milanese.

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Phalaikeios:

E che effetti avrebbe la presenza normanna?

*Bhrg'howidhHô(n-):

E' vero che le vicende dei Normanni appaiono come molto contingenti e legati a vicende quasi personali, quindi difficili da inserire in un'interpretazione geopolitica (per quanto post êuentum), ma se non altro si può dire che si è trattato di un episodio dello scontro tra la Pars Occidentis e la Pars Orientis, più specificamente entro la categoria degli scontri "per procura" attuati attraverso componenti etniche di recente "arruolamento".

La localizzazione (Meridione italico) è il luogo per eccellenza dello scontro tra le tre linee espansionistiche mediterranee (romano-germanica, greca imperiale e arabo-'islâmica), quindi si può considerare inevitabile come punto di massima tensione.Anche il ruolo dei Normanni in quanto tali (componente etnica germanica entrata per ultima nel blocco imperiale dell'Occidente romano-germanico) risulta la scelta più probabile in quella fase storica. In alternativa, se per qualche motivo non dovessero restare disponibili (ma con questo ci allontaneremmo più del necessario dalla Storia reale), il secondo miglior candidato potrebbero essere i Bretoni...

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Vi è poi la proposta di Liutprand:

Figlia del duca dei Bavari, Teodolinda era una principessa di stirpe regale, discendente per parte materna della casata longobarda maggior portatrice del "carisma" regale, i Letingi. Per suggellare l'alleanza tra Bavari e Longobardi venne data in sposa ad Autari, re dei Longobardi, asceso al trono dopo una fase di assenza di potere regio. Il Duca Azzone invece era un giovane nobile longobardo, che fu inviato in Baviera con l'ambasceria per portare in Italia la futura Regina, sino alla Basilica di Lomello, dove si sarebbero svolte le nozze. Il Duca Azzone (Herzog Azzo, in longobardo) era veramente un bel giovine e piacque molto a Teodolinda, tanto è vero che anni dopo, a una festa di corte, quando le fu chiesto chi o che cosa l'avesse veramente convinta a quelle nozze, che cambiarono le sorti d'Europa, e che cosa l'avesse spinta verso il mondo dei Longobardi, che i Bavari avevano sempre considerato come un po' selvaggi, la nobile regina rispose, con uno sguardo sognante: "Herzog Azzo!" E se Teodolinda invece fugge con Azzone e pianta in asso Autari, rifugiandosi presso i Franchi o a Roma o a Costantinopoli? Per riavere la sua consorte, Autari scatenerà una guerra globale? O Azzone farà le scarpe ad Autari e regnerà al suo posto sui Longobardi? Con quali conseguenze?

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L'immancabile *Bhrg'hówidhHô(n-) gli replica:

Ogni volta uno o più Punti di Divergenza epocali... Se nessuno - Teodolinda compresa - avesse portato alla conversione dei Longobardi dall'Arianesimo al Cattolicesimo, la Germania arriverebbe fino alla Calabria Citeriore, non esisterebbe la nozione di una Nazione «italiana» (ci sarebbero 'solo' quelle veneziana, romana, pugliese-calabrese, siciliana e sarda come parti della grande Nazione «latina»).

Dettaglio minore: in longobardico ricostruirei *herizôgo.

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Anche Renato Balduzzi ha voluto dire la sua:

Nella nostra timeline sembra che la lingua longobarda sia completamente scomparsa solo nell'anno 1000. Supponiamo invece che in certe aree dell'Appennino tosco-emiliano sopravvivano comunità longobardofone per tutto il Secondo Millennio. Nel corso dei secoli le comunità appenniniche potrebbero sentire il forte influsso culturale della vicina Toscana e adottare, per i documenti ufficiali, il toscano, ma parlando comunque il longobardo nella vita di tutti i giorni. La lingua si arricchirà notevolmente di prestiti lessicali e grammaticali dell'italiano ma rimarrà una certa specificità etnica, analogamente a quella dei Cimbri del Veneto. Qualche comunità potrebbe trasferirsi nel contado delle città prossime all'Appennino, come Firenze o Arezzo, e influenzare le parlate locali che poi, dopo il grande fenomeno dell'inurbamento del 1200, influenzeranno a loro volta anche le parlate cittadine. Forse la lingua germanica porterà i longobardi dell'Appennino ad essere più portati alla fedeltà imperiale, e quindi ad essere disposti ad ospitare l'esule Dante Alighieri, di simpatie politiche ghibelline. La Divina Commedia quindi potrebbe essere intrisa di costrutti di origine germanica che per forza di cose entrerebbero nella futura lingua italiana. Quali? Solo un bravo germanista potrebbe rispondere...

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Cui risponde il solito *Bhrg'hówidhHô(n-):

Una delle tesi che sostengo da un quarto di secolo (heheh...) è che la nobiltà ghibellina abbia compreso al proprio interno una parte significativa di persistenza della nazione longobarda. Le aree maggiormente indiziabili dovrebbero quindi trovarsi all'interno delle varie anfizone geopoliticamente caratterizzate dalla frantumazione in Feudi Imperiali (non solo l'Appennino, a fortiori non solo quello Tosco-Emiliano).

Un indizio positivo in tal senso è l'attestazione, in epoca sveva, del toponimo Haenohim a Morbegno (Sondrio; allora Contado e Diocesi di Como), una formazione non solo integralmente germanica (*hagena-awa-haimi-z "casa avìta nel boschetto") come gran parte dei nomi di luogo longobardi, ma addirittura partecipe delle trasformazioni fonetiche medio-altotedesche, quindi rimasto tedesco (e perciò verosimilmente longobardo) dopo il 1000 (del resto, il gallico è rimasto parlato in Val d'Ossola fino al XIII. sec.).

Più che a Dante, tuttavia, penserei prima a Fazio degli Uberti. Il resto però è tutto da 'conquistare': quanto più avesse resistito la nazione longobarda (cioè tedesca), tanto maggiore sarebbe stato il contrasto con quelle romanze. L'esito sarebbe stato simile - benché per cause in parte opposte - alla polverizzazione degli insediamenti tedeschi in Europa centro-orientale; anzi, un'eventuale continuazione della Confessione ariana (assai indicata come fattore di identità nazionale) avrebbe creato una situazione paragonabile all'Ebraismo ashkenazitico di lingua yiddish / jiddisch (un altro parallelo è dato dalla nobiltà hussitica boema, stavolta in funzione di resistenza nazionale slava antitedesca). Ancora, Movimenti simili ai Valdesi avrebbero trovato probabilmente un'accoglienza favorevole nelle Valli Ghibelline.

Col tempo, la situazione sarebbe diventata insostenibile; tra lo Scisma d'Occidente e la Guerra dei Trent'Anni il rischio di una persecuzione come quella contro gli Ugonotti sarebbe stato altissimo (cfr., nello stesso periodo, la Caccia alle Streghe contro le sacche di Paganesimo in ultima analisi preromano). Come per i Maestri carpentieri gallici, comunque, è prevedibile una confluenza nella Massoneria; paradossalmente, però, questa è stata contro la Nobiltà francone e in generale germanica transalpina, mentre a Sud delle Alpi ci si attenderebbe un'alleanza con la Nobiltà germanica (in effetti più longobarda che francone, anche se quest'ultima era ugualmente una componente fondamentale del Ghibellinismo cisalpino).

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E ora. la nuova ucronia longobarda ideata dal nostro webmaster William Riker:

Alla morte del re longobardo Cuniberto, nel 700 d.C., gli succede il figlio minorenne Liutberto, affiancato in qualità di tutore da Ansprando, duca di Asti. Tuttavia Ragimberto, duca di Torino, affronta Ansprando presso Novara, lo vince e depone Liutberto dopo appena otto mesi di regno. Alla morte di Ragimberto gli succede il figlio Ariberto II, che fa catturare ed uccidere la moglie e i figli di Ansprando, tranne il più giovane, Liutprando, che il padre è riuscito a tenere con sé. Nel marzo 712 finalmente, con l'aiuto dei Bavari, Ansprando riesce a raccogliere un esercito e cala in Italia, ingaggiando battaglia con l'esercito di re Ariberto II; lo scontro si protrae fino al calare delle tenebre ed ha un esito incerto fino all'ultimo. In un primo momento Ariberto II sembra avere la meglio, tanto che i Bavari sono sul punto di abbandonare il campo, ma a questo punto il re commette un grave errore, rientrando immediatamente a Pavia per celebrare il successo. I suoi soldati, offesi da quello che ritengono un atto di viltà, lo abbandonano, e le sorti della battaglia si capovolgono all'improvviso. Ariberto II tenta di abbandonare la capitale e di rifugiarsi presso i Franchi, ma annega nel Ticino, trascinato a fondo dal tesoro che cercava di portare con sé. Gli stessi partigiani di Ariberto II, conquistati dal suo carisma, eleggono Ansprando come loro sovrano, tuttavia questi muore dopo appena tre mesi di regno e lascia il trono al figlio Liutprando, il più grande tra tutti i sovrani longobardi. Ma che accade se Ariberto II non lascia il campo di battaglia, vince ed uccide sia Ansprando che Liutprando? Sul trono longobardo permane la dinastia bavarese. L'alleanza tra Bavari e Longobardi potrà impedire a Carlo Magno di conquistare il regno longobardo? E i Longobardi riusciranno a unificare l'Italia?

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Ed ecco come l'amico *Bhrg'hówidhHô(n-) ha commentato e sviluppato l'ucronia:

Nonostante il grande ritardo di questa risposta (purtroppo il tempo è molto minore al desiderio), non voglio che vada perduta l'occasione di discutere una proposta così interessante: sul tema di fondo mi ero ossessivamente appassionato e arrovellato nel 1984 e nel 1986; spero adesso di essere libero dalle preclusioni di allora. Discutiamo passo passo la proposta di ucronia.

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Riker:

Che accade se Ariberto II non lascia il campo di battaglia, vince ed uccide sia Ansprando che Liutprando? Sul trono longobardo permane la dinastia bavarese.

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*Bhrg'howidhHô(n-):

Paradossalmente, fra l'altro, dal momento che permane grazie alla vittoria militare contro i Bavari (ma non è un fatto inaudito; le politiche dinastiche erano svincolate dai legami etnici e appunto perciò è verosimile che Ariberto II potesse arrivare a una politica diamicizia coi Bavari, in particolare attraverso l'autorità dei Franchi a sua volta raggiungibile con la mediazione degli Alemanni, coi quali il re lithingo era in ottimi rapporti)

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Riker:

L'alleanza tra Bavari e Longobardi potrà impedire a Carlo Magno di conquistare il regno longobardo?

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*Bhrg'howidhHô(n-):

A Carlo Magno forse (certo due circostanze aggiuntive - l'assenza di sconfitte arabe come a Poitiers e soprattutto una conquista 'islâmica di Costantinopoli - basterebbero ciascuna ad aumentare in modo decisivo la probabilità della permanenza dei Longobardi nello status di alleati e non sudditi dei Franchi); tuttavia, più in generale, la mancata confluenza del Regno Longobardo nella compagine imperiale dei Franchi avrebbe comportato due alternative 'peggiori' dal punto di vista della germanicità della stirpe: 1) la regionalizzazione in Ducati locali (soprattutto Pavia, Spoleto, Benevento) destinati a lungo termine a essere assorbiti dal sistema delle città romano-italiche (Ravenna, Roma, Napoli ecc.) nell'àmbito di una egemonia pontificia indipendente da Bisanzio 2) oppure - all'epoca meno probabilmente - l'annessione diretta all'Impero d'Oriente.

Naturalmente, col IX. secolo, comincia a porsi seriamente un'ulteriore possibilità, la conquista araba di Roma e della Penisola.

Tra i quattro scenarî (riconquista bizantina, Longobardia franca, Italia regionalizzata- cattolica, Italia 'islâmica) forse sarebbe stato più probabile quello della frammentazione in Ducati vagamente legati da vincoli di alleanza subordinata a Roma: immagino che non dispiaccia a Riker, ma d'altra parte è ben diverso dall'idea di una sorta di pre-Stato proto-'nazionale' tra le Alpi e il mare e in (almeno) tutta la Penisola Appenninica che, a quanto credo di capire, costituirebbe la possibile (e mancata / rimpianta) occasione storica per la Monarchia lithinga nella proposta "in salsa longobarda" qui discussa.

Per tale motivo è interessante cercare quali spazî possono essere stati disponibili nel secolo VIII. per un quinto scenario - all'origine una variante del secondo (Longobardia franca) in prospettiva più 'conservatrice' - nel quale, sostanzialmente, la massima parte dell'Italia bizantina passasse sotto controllo longobardo (e specificamente della sede regale, Pavia) evitando al contempo un legame con la Monarchia franca che andasse oltre i limiti di una stretta alleanza (per quanto subordinata).

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Riker:

E i Longobardi riusciranno a unificare l'Italia?

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*Bhrg'howidhHô(n-):

Verosimilmente sì, anche se nel giro di qualche secolo e con diverse possibilità di successo a seconda della regione, ossia dei confini che intendiamo porre alla nozione di "Italia". Di fatto, una parte notevole di queste vicende "alternative" coincide con quelle della Storia reale; l'unica differenza - davvero trascurabile dal punto di vista etnico - è che i Re a Pavia sono stati di stirpe carolingia e non bavarese.

1) L'Esarcato di Ravenna, la Pentapoli, il Ducato di Perugia, la Corsica e (con Desiderio) l'Istria sono stati realmente annessi, sia pure molto tardi o solo temporaneamente, dai Re longobardi dopo Ariberto II (specialmente Liutprando e Astolfo): ciò che è stato possibile a loro lo sarebbe stato anche ad Ariberto II e ai suoi successori Lithingi, nell'ipotesi qui seguìta che mantenessero una politica di alleanza con i Franchi (e i Bavari).

2) Il Ducato di Roma, sempre più svincolato dall'Impero d'Oriente, non è mai stato conquistato dai Longobardi, ma con Carlo Magno si è venuto di fatto a trovare sotto la sovranità del Re franco che era al contempo anche Re d'Italia: ciò è significativamente avvenuto a séguito della massima pressione longobarda su Roma (quindi quando è stato chiaro che la conquista longobarda sarebbe stata imminente, a meno di un mutamento geopolitico più grande, che infatti è stato abilmente provocato) e in ogni caso rappresenta esso stesso la versione 'morbida' di una confluenza del Papato nel sistema del Regno egemone in Italia (quindi possibile anche nell'eventualità, qui discussa, che ciò che è stato il Regno d'Italia da Carlo Magno in poi rimanesse - anche di nome - Regno dei Longobardi).

3) I Ducati di Gaeta, Napoli e Amalfi sono stati lentamente ma progressivamente erosi dal Ducato di Benevento e poi dai suoi successori (Principati di Salerno e di Capua); tuttavia l'unificazione politica si è avuta solo a opera dei Normanni, che territorialmente hanno rappresentato una gemmazione dei Principati Longobardi: nel quadro della proposta qui discussa possiamo ipotizzare, per massimo di economia, che le conquiste normanne avvenissero, nel X. secolo, entro l'àmbito ormai presumibilmente feudale del postulato Regno Longobardo non conquistato dai Franchi.

4) La stessa ipotesi è lecita per i residui Temi di Apulia (Laggobardía) e Calabria di ininterrotta continuità bizantina, con l'ulteriore conforto della politica di Ottone II di Sassonia, da cui risulta che, se l'unificazione politica del Meridione d'Italia è stato un obiettivo primario della più settentrionale delle Dinastie imperiali tedesche (nella prospettiva di una restaurazione dell'Impero Romano, Occidentale in stretto legame con quello Orientale, sulla base delle quattro principali componenti etniche - Romana, Germanica e Slava di fronte naturalmente a quella Greca), almeno altrettanto è ipotizzabile che lo fosse per i virtuali Sovrani Longobardi del X. secolo.

5) La Sicilia non viene mai nominata tra gli obiettivi territoriali, anche se remoti, dei Longobardi, anche per il motivo che non aveva fatto parte dei dominî gotici (in quanto soggetta ai Vandali), aspirazione ultima di Alboino. Naturalmente, il legame della Sicilia col Meridione della Penisola è stato particolarmente forte in tutte le epoche di egemonia greca, fino ai Bizantini inclusi; dopo di allora e in conseguenza della fase araba è stato continuato dai Normanni e da quanti, sul loro esempio, hanno tentato la conquista dell'Impero d'Oriente a partire dall'Occidente (dagli Svevi fino alle progettate 'Riconquiste' di Costantinopoli ottomana). L'ipotesi qui portata avanti suggerisce dunque di considerare la Sicilia come possibile obiettivo remoto di un Regno Longobardo in fase avanzata di espansione in direzione meridionale grazie a una qualche forma di 'controllo' della forza di conquista dei Normanni (cfr. punto 3.).

6) la Sardegna è stata in alcune occasioni oggetto di mire territoriali da parte longobarda. In realtà, una conquista dal Continente ha avuto luogo solo molto più tardi, a opera di Repubbliche Marinare dove la tradizione longobarda è stata relativamente (Genova) o decisamente (Pisa) tarda; l'unico periodo in cui si può parlare di un effettivo, per quanto indiretto, legame con l'Impero (Sacro Romano Germanico) è quello di Re Enzo, dunque irrecuperabilmente lontano da quello longobardo, anche se in continuità logica con le direttrici geopolitiche di espansione a partire dai Principati Longobardi meridionali: Normanni - Sicilia - Svevi - Federico II - Re Enzo (mentre gli effettivi tentativi longobardi storicamente avvenuti erano partiti da più a Nord).

7) Venezia è stata sottomessa ai Franchi nell'805-806(-807) - insieme a Zara e al resto della Dalmazia - e nell'810-812 (in quest'ultima occasione, dal punto di vista veneziano, il Re Pipino era giustamente considerato "longobardo"); in entrambe le occasioni la conquista è stata evitata dall'arrivo della Flotta Bizantina (misura eccezionale e mai più ripetuta in séguito) e non è stata ritentata perché marginale nell'àmbito della politica generale con cui i Carolingi hanno perseguito il disegno di passare da una percezione geopolitica in cui l'unico Impero era quello Romano - d'Oriente - a una nuova in cui il titolo imperiale (sia pure non romano) era riconosciuto anche a loro.

Ciò che avrebbero fatto i Longobardi sarebbe potuto essere in parte diverso: se all'epoca della conquista di Ravenna Astolfo aveva ottenuto la neutralità dei Veneziani (più tardi ricompensandoli territorialmente) , dopo la conquista dell'Istria da parte di Desiderio si è creata una frattura interna al Dogato, poiché, mentre le autorità politiche preferivano la dipendenza (generalmente solo nominale) dalla lontana autorità di Costantinopoli, il Patriarcato a Grado era invece costretto a preferire la sottomissione a chi controllava l'Istria piuttosto che l'esistenza di un confine tra la Sede Patriarcale e i territorî (istriani) dipendenti.

Quanto avvenuto a séguito della campagna di Desiderio in Istria è perfettamente concepibile anche nell'eventualità di una permanenza della dinastia lithingia al potere: conquista dell'Istria, più tardi sottomissione di Venezia, Grado, Zara e resto della Dalmazia. A questo punto si sarebbe creata una situazione fino ad allora inedita: città costiere di tradizione romana sotto dominio longobardo di contro a un vasto Entroterra appartenente ad altra compagine politica (nel caso specifico, i Croati).

8) Il confine alpino, fin dal VI. secolo sotto il controllo dei Franchi (diretto, nelle Alpi Occidentali; attraverso Coira o con la mediazione dei Bavari nelle Alpi Centrali).

Ariberto II aveva particolari legami con gli Alemanni, presso i quali in particolare (all'interno del variegato complesso delle dipendenze dei Franchi) è verosimile che intendesse rifugiarsi. La documentazione archeologica del Sopraceneri (Canton Ticino), in particolare nell'area presso Bellinzona, ha fatto ipotizzare che Longobardi e Alemanni condividessero alcuni presidî militari e, a Nord dello Spartiacque Alpino, sono state riconosciute tracce toponomastiche longobarde in alcune aree vallive laterali (meridionali) della Sopraselva (Canton Grigioni), che apparteneva politicamente ed eccelsiasticamente alla Rezia Curiense (Coira). Ciò non può, naturalmente, significare che la persistenza di un Regno Longobardo avrebbe fatto gravitare su di esso gli Alemanni, ma suggerisce due considerazioni per quanto riguarda i fenomeni di lunga durata che avrebbero potuto interessare l'ipotizzata continuazione della Monarchia lithingia: a) l'appartenenza di tale Regno Longobardo all'àmbito 'imperiale' dei Franchi - da postulare per necessità geopolitica - avrebbe trasformato una politica di alleanze dinastiche intragermaniche (in piena continuità con la situazione politica ricostruibile per la fase preromana, con la differenza - non del tutto tale, a ben vedere, data la costanza della centralità della Gallia - che allora si trattava di una circolazione etnicamente gallo-germanica) in un (ri)modellamento delle identità etniche delle popolazioni 'arimanniche' (di guerrieri germanici non appartenenti alla nobiltà) coinvolte; b) come per gli Alemanni (specialmente a Sud dell'Altipiano Elvetico) e i Bavari (nella regione di Salisburgo) - nonché gli stessi Franchi nella Valle della Mosella - (per i quali tutti il processo di germanizzazione delle regioni un tempo romane - e in quanto dislocate lungo il Limes renano-danubiano linguisticamente romanizzate in misura relativamente intensa - risulta attuarsi in forme definitive solo molto tardi, nei secoli X.-XII.), così anche per i Longobardi sarebbe forse concepibile qualche possibilità di espansione assimilatoria sul piano etnico e linguistico, sia nelle aree di stanziamento più intenso (Neustria e "Austria", quest'ultima nell'accezione longobarda territorialmente coincidente con la Rêgiô X augustea di Venetia et Histria) sia in quelle meridionali peninsulari (Benevento) in cui comunque risultano dalla documentazione un forte impatto socioeconomico e una particolare arcaicità di tipo marginale-'coloniale' dei Longobardi.

Si può obiettare che il momento storico, nel 712, fosse ormai troppo tardo per conseguenze di tal genere, ma va tenuto presente che anche un possibile miglior candidato, il regno di Grimoaldo (di cui quello di Ariberto II. aveva e avrebbe ripreso molti caratteri, se non altro per continuità di parte politica, per reazione 'nazionale' longobarda dopo la fase di romanizzazione e italicizzazione con Bertarido e Cuniberto), si era svolto dopo l'epoca - convenzionalmente fatta terminare nel 643, anno dell'Editto di Rotari - in cui da qualche decennio a questa parte (proprio dal 1984...) la ciclica successione delle polemiche accademiche tende a collocare la fine dell'uso attivo della lingua longobardica.

Senza dubbio, il 'successo' storico dei Longobardi - se non altro, la sopravvivenza della loro etnia anche al di fuori dei lignaggi genealogici delle famiglie ghibelline di nobiltà pre-francone - sarebbe stato facilitato dalla concomitanza dei seguenti fattori: i) persistenza di una divisione religiosa del Regno (Politeisti, Ariani, Ebrei, Cattolici Tricapitolini, Cattolici Ortodossi, eventuali Cattolici Monoteliti), che avrebbe comportato la continuità etnica entro ciascuna Religione / Confessione (come nelle Diocesi Asiatiche dell'Impero) e la sopravvivenza linguistica delle tradizioni a esse associate (incluse, nel caso dei Longobardi Ariani, la Liturgia e la Bibbia Gotiche); ii) prevenzione di accordo diretto in funzione antilongobarda tra il Papato e i Franchi - sarebbe stata possibile se i Franchi da un lato non avessero avuto particolare necessità di appoggio papale nel perseguimento - soprattutto contro Costantinopoli - dell'obiettivo imperiale e dall'altro avessero avuto particolare convenienza ad associarsi il Regno Longobardo secondo modelli e modalità 'bavaresi' (ossia senza unione personale a scapito della dinastia locale) ai fini di ulteriore espansione verso Oriente; iii) maggiore debolezza o addirittura crollo di Bisanzio (di fronte ai Persiani e Avari prima o agli Arabi e Bulgari poi) e conseguente precoce eliminazione di uno dei principali centri di irriducibile ostilità, Ravenna; iv) precoce pressione arabo-'islâmica nel Tirreno, in modo tale da indebolire o neutralizzare, da un lato, la superiore potenza bizantina nelle Isole, nel Meridione e lungo le coste della Penisola e da coagulare, dall'altro, intorno a Pavia e ai Ducati (in particolare Benevento) le forze prevedibilmente anti-'islâmiche (anzitutto il Pontefice) come avvenuto più tardi con conseguente rafforzamento delle Marche Carolinge e dei Normanni.

Come si vede, alcuni dei fattori citati (soprattutto il primo) avrebbero avuto massima efficacia nei primi tempi del Regno Longobardo, ma altri (in particolare l'ultimo) sarebbero stati decisivi solo in fase tarda, quindi la consueta tesi dell'intrinseca 'condanna al fallimento' dell'esperienza storica longobarda deve essere riveduta alla luce dell'analisi di tutte le dinamiche geopolitiche ed etniche allora in atto e che più spesso del solito sono state in bilico tra esiti macroscopicamente diversi.

Lo scenario più lontano dalla Storia reale, ma pur sempre nei limiti della verosimiglianza storica, tra quelli ricavabili dal quadro esposto dovrebbe essere: i) cristallizzazione delle appartenenze religiose anche nell'(ex-)Impero d'Occidente senza politiche assimilatorie o persecutorie; in Longobardia, sarebbe la Confessione Ariana a rappresentare l'affiliazione non marcata dell'etnia longobarda, caratterizzata dal mantenimento delle lingue germaniche a tutti i registri (dalla lingua informale, praticamente altotedesca, fino alla Liturgia e alla Sacra Scrittura, in gotico) e distribuita soprattutto nelle aree di colonizzazione recente (disboscamenti in area padana, alpina e appenninica) nonché, in forme di coabitazione di tipo 'centroasiatico' (città multietniche con diversità linguistica quartiere per quartiere o addirittura casa per casa), intorno alle Sedi dei Ducati e delle Gastaldie; ii) neutralizzazione del controllo territoriale sulle città romano-italiche e in particolare sul Ducato Romano da parte del Pontefice; politica di conquiste franco-longobarde in area adriatica orientale, mediodanubiana e balcanica fino alla Grecia (espansione in territorio slavo fino al punto di rendere superflua l'operazione di 'provocazione' dei Magiari in funzione antimoravo-bizantin a); iii) Costantinopoli musulmana con sette secoli di anticipo; verosimile arabizzazione delle coste egeo-anatoliche ellenofone; successive espansioni califfali in luogo delle Rinascite bizantine; temporaneo vuoto di potere nell'Italia ex-bizantina e conseguenti conquiste longobarde; iv) spartizione arabo-longobarda dell'eredità bizantina nel Tirreno meridionale e successivo tentativo di conversione dei Longobardi all'Islâm (realmente preso in considerazione nel VII. secolo in Italia); presumibile insuccesso e conseguente scontro, con prevedibile superiorità araba e corrispondente rafforzamento presso la Chiesa Romana della percezione di assedio, quindi politica di massima distensione nei confronti della Monarchia longobarda.

Resta al di fuori della presente ipotesi l'eventualità che lo sbarco 'saraceno' a Roma dell'846 porti alla conquista definitiva dell'Urbe o meno. E' ovvio che un parallelismo spinto con la storia iberica comporterebbe, con l'omologo appenninico della Reconquista, una più radicabile settentrionalizzazione (e, in quest'ipotesi, almeno parziale germanizzazione) della Penisola, ma d'altro lato è anche ragionevole pensare che la conquista arabo-'islâmica di entrambe le Capitali imperiali cristiane (Costantinopoli nel 673-677 o nel 712-718, Roma nell'846), soprattutto se affiancata dall'espansione nella Penisola Iberica e, se possibile, in almeno parte della Gallia, avrebbe potuto rendere definitiva l'islamizzazione e in notevole misura più estesa l'arabizzazione delle coste mediterranee settentrionali. Tutto ciò, comunque, è già stato ampiamente discusso in altre occasioni e, se influenza questa ucronia, non ne viene in pari misura influenzato.

*Bhrg'hówidhHô(n-)

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Questo è il parere in proposito di Paolo Maltagliati:

Giuridicamente, dal punto di vista medievale, oltre che del concetto di nazione, le domande da porsi secondo me sono queste.

Se il Rex Langobardorum fosse divenuto anche Rex Totius Italiae (peraltro, credo che Grimoaldo già così si facesse chiamare), per conseguenza logica inesorabile, occorre chiedersi se il re 'Langobardorum (nazione) ET Totius Italiae (territorio)', avrebbe avanzato la pretesa di essere 'Imperator Semper Augustus Pars Occidentis Romanorum Imperium'. In altre parole, Imperatore.

Il punto è lì, non si scappa. Siamo sempre influenzati dalla retorica manzonian-risorgimentale, tale per cui la priorità (fallita) dei longobardi fosse quella di completare l'unità d'Italia per creare la nazione italiana. Ma allora le parole 'Italia' e 'italiani' nemmeno esisterebbero più! Perché il territorio che appartiene allo stato italiano (e il nome stesso di tale stato) e i suoi abitanti di chiamerebbero 'Lombardia' e 'lombardi'.

Detto in altro modo, se ci pensate, i Franchi hanno invece completato l'unità della... Gallia (che poi sarebbero le Gallie, al plurale). Ma allora perché non si sono fatti chiamare 'galli'? Perché non c'era una nazione 'gallica' a differenza di quella 'italiana'?

Oh, certo che c'era. Solo che non si chiamava né gallica presso i territori dominati dai franchi, né italiana presso i territori dominati dai longobardi... Ed era la stessa. Si chiamava nazione 'romana'.

Ora andiamo nel (geo)politico. I re romano-germanici, si consideravano giuridicamente 'doppi'. Erano sovrani di quella nazione (franca, gota, longobarda) E di quei romani che erano sotto la loro giurisdizione/protezione.

La conseguenza storica, con l'andar del tempo qual è? Semplice, che il loro desiderio recondito è essere legittimati come sovrani dei 'romani'. Di TUTTI i romani. Il punto è che questa legittimazione può avvenire solo in due modi: per diritto di conquista, ossia unificare tutti i territori 'romani'; per legittimazione da parte dell'imperatore romano. Perché un imperatore c'è. Solo che non sta a Roma, ma a Costantinopoli. Capirete da soli che l'imperatore romano d'oriente deve essere pazzo, stupido o piuttosto disperato prima di cedere volontariamente la sua pretesa di essere il SOLO provvisto dell'autorità su tutti i romani e cederne un pezzo (la cosiddetta pars occidentis) a delle 'bestie bionde rozze e puzzolenti' (leggere Liutprando di Cremona vi fa capire che l'idea quella era).

Allora che si fa? Idea, ci si legittima attraverso il dominio dell'antica capitale!

Il problema dei longobardi è tutto lì. Hanno fallito nella 'conquista' di Roma. Ho messo conquista tra virgolette perchè non la intendo solo da un punto di vista militare, ma da un punto di vista ideologico. I longobardi non sono mai riusciti a presentarsi a Roma come candidato legittimo per diventare protettore e signore dei romani d'occidente. E Roma era incarnata da una persona: il Papa. Il papa ha fatto coscientemente una scelta tra le molte che poteva fare: dare il bastone del comando (con nessuna autorità per farlo, si sarebbero detti a Costantinopoli) sui romani d'occidente ai franchi, anziché ai longobardi. A pescindere dal perché, che è un altro discorso, l'ucronia sta qui. SE i papi avessero 'benedetto' i longobardi come protettori (poi veri e propri imperatori) della intera nazione romana d'occidente oppure no.

Allora sì, i longobardi avrebbero unificato sotto il loro dominio quello stato che adesso viene chiamato Italia (anche se, come detto sopra, non con questo nome), ma non si sarebbero certo fermati! Avrebbero quantomeno tentato la conquista (prendete la parola in tutte le accezioni possibili, non solo militari) di tutti i territori dei 'romani'. Né più nemeno di quello che han fatto storicamente i franchi.

In sintesi, se vogliamo l'Italia come 'nazione' entro i confini dell'attuale stato, è molto difficile, non sarebbe esistita comunque (se non, appunto come un sostanziale 'fallimento' dei lon(go)bardi).

Molto più interessante sarebbe invece porre l'ucronia secondo l'aspetto che dicevo prima: se il papa avesse 'scelto' come popolo custode dei romani i longobardi anziché i franchi?

Che poi, a dirla tutta, la 'deromanizzazione' ideologica (che, paradossale e assurdo quanto si vuole, ma vero, corrisponde a una degermanizzazione) avviene dai capetingi, non prima. Infatti la Francia NON è più impero romano. È altro, non ne fa più parte. Il rex francorum avoca a sé il diritto di non essere nemmeno formalmente suddito dell'imperatore ed estende questo suo diritto preteso a tutti i suoi vassalli veri o presunti.

Se non è impero, cosa allora è, di preciso, ancora all'inizio non si sa. Poi man mano si esplora la possibilità che sia IL regno 'cristianissimo', più e meglio dell'imperatore (che per ovvi motivi è per definizione teorica cristiano in quanto imperatore e imperatore in quanto cristiano). Non per niente si crea il mito a posteriori del trattato Strasburgo e il giuramento di Verdun come pietra miliare di tale 'separazione consensuale'(che ovviamente consensuale non è, ma, per dirne una, gli ottoni avevano ben altro cui pensare che a far cambiare idea ai capetingi, per certi aspetti più importante).

Non so fino a che punto sia meditata o un sottoprodotto inconsapevole, ma la letteratura volgare, patrocinata dalle corti, delle chansons des gestes non per niente è l'affermazione di una indipendenza raggiunta anche culturalmente

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Iacopo Maffi ha proposto:

Forse la maniera più rapida per ottenere questo risultato sarebbe una vittoria dei Goti (contro i Franchi) nel 506, un fallimento della Guerra Gotica e un sostituzione dei Goti con i Longobardi (opportunamente convertitisi) in tutto l'Occidente. La riunificazione della Parte Occidentale è purtroppo condizione necessaria (ma non sufficiente) alla riunificazione della Penisola.

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Alessio Mammarella invece ha un'altra idea:

Propongo una alternativa: vittoria dei mori a Poitiers, con morte di Carlo Martello. Quella di Poitiers fu in realtà una piccola battaglia, e in caso di sconfitta i franchi non avrebbero certo dovuto temere una sorte simile a quella dei visigoti... tuttavia, una sconfitta di Carlo Martello avrebbe forse messo fine all'ascesa della sua famiglia, ed Regno dei Franchi come candidato più valido per un progetto di nuovo "Impero".

Visto che in quegli anni regnava Liutprando (forse uno dei sovrani longobardi più forti e autorevoli) mentre le relazioni tra Roma e Costantinopoli si erano fatte alquanto difficili, forse si sarebbe aperta una finestra di opportunità per un riconoscimento dei sovrano longobardi come "augusti". Con la benedizione ecclesiastica i sovrani longobardi sarebbero intervenuti nel vicino regno dei franchi (debole e diviso) principalmente per impedire la conquista musulmana e anzi rilanciare le forze cristiane nella vicina Spagna. Poi i longobardi avrebbero potuto anche combattere i sassoni e lavorato per estendere la cristianità nelle regioni ancora pagane del continente... insomma ripercorrere le stesse vicende dei carolingi.

Non possiamo però stabilire se le vicende dinastiche avrebbero portato il loro Impero a dividersi come accaduto a quello carolingio, e dove sarebbe stato il baricentro dell'Impero dopo l'eventuale divisione.

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Dario Carcano ha iniziato a scrivere una Timeline basata su questa discussione:

Storia dei Re di Tutta l’Italia

Scopo di questa ucronia è arrivare ad avere un'Italia in cui si parla (in prevalenza) un idioma germanico, cioè il Longobardo. Lingue romanze sopravvivrebbero nel Lazio, in Sardegna e a Venezia, mentre in Sicilia, Salento e nella punta meridionale della Calabria si parla greco.

Autari (584-616)

Figlio del re Clefi, Autari fu eletto Re dei Longobardi nel 584, dopo dieci anni di anarchia ducale trascorsi dall’assassinio di suo padre nel 574. Autari dunque ascese al trono in un contesto di forte frammentazione del dominio longobardo, sottoposto alla duplice pressione dei Franchi e dei Romei, eppure ottenne un deciso sostegno dai duchi, che gli assegnarono un tesoro pari alla metà dei propri beni.

Il Regno Longobardo all’inizio del regno di Autari

Nel tentativo di trasformare il suo popolo in una stirpe unitaria, si attribuì il titolo di Flavio, riferendosi a una tradizione che risaliva a Odoacre e a Teodorico il Grande. Si trattò di una precisa scelta politica, volta ad affermare la legittimità del potere longobardo non solo sulla propria stirpe, ma sulla totalità della popolazione italica, in larga maggioranza di stirpe latina, richiamandosi esplicitamente (in chiave anti-romea) all'eredità dell'Impero Romano d'Occidente.
Tentò una convivenza pacifica con i Franchi e tentò il matrimonio con la sorella del re dei Franchi Childeberto II, ma il fallimento di questo matrimonio fece naufragare il suo tentativo. Respinse un primo attacco franco nel 585 e un secondo tre anni dopo, aiutato da un’alluvione dell’Adige che travolse l’esercito di Childeberto.
Nella prima fase del suo regno Autari, ariano, cercò cautamente di avvicinarsi al cristianesimo romano, e in quest’ottica sposò la cattolica Teodolinda, figlia del duca di Baviera Garibaldo, con cui cercava anche un’alleanza contro i Franchi.
Tuttavia, Autari rifiutò sempre di convertirsi al cattolicesimo, e quando nel 591 Teodolinda partorì la loro figlia, Gundeperga, il rifiuto di Autari di battezzarla come cattolica inasprì i rapporti tra lui e la moglie. Teodolinda iniziò allora a cospirare contro il marito, allo scopo di porre sul trono dei Longobardi un sovrano più filocattolico; nella congiura furono coinvolti suo fratello Gundoaldo, duca di Asti, e Agilulfo, duca di Torino, a cui Teodolinda promise il trono una volta morto Autari.
Non sono del tutto chiare le ragioni che inasprirono il rapporto tra Autari e Teodolinda al punto da spingere quest’ultima a meditare l’assassinio del marito; Paolo Diacono scrive che Teodolinda temeva che, assicurata la pace con i Franchi, Autari stesse meditando di espandersi verso nord, a danno della Baviera di suo padre. Eginardo invece accenna al fatto che forse Autari, stanco delle interferenze della moglie, avesse posto Teodolinda di fronte ad una scelta: o convertirsi all’arianesimo o essere ripudiata e tornare in Baviera.
Ad ogni modo, questo è ciò che è stato scritto da autori posteriori di due secoli ai fatti qui trattati; oltretutto entrambi cattolici, dunque entrambi intenzionati, consapevolmente o meno, a porre l’ariano Autari nella peggior luce possibile.
L’unica cosa sicura dunque, è che non sapremo mai le vere motivazioni della congiura di Teodolinda.
Ma ne conosciamo l’esito: nel 592 Autari, informato della cospirazione della moglie, mise Teodolinda agli arresti e marciò con il suo esercito sui possedimenti di Gundoaldo e di Agilulfo, arrestando entrambi per tradimento.
Teodolinda fu ripudiata e tornò in Baviera dove si farà monaca, invece Gundoaldo e Agilulfo furono entrambi uccisi con l’accusa di tradimento.
Dal 592 ha dunque inizio una nuova fase del regno di Autari. Se nella prima parte del suo regno era stato filocattolico, nella seconda fu un tenace oppositore dei romani.
Innanzitutto, dichiarò che i duchi longobardi che si erano convertiti al cattolicesimo avrebbero perso la loro carica, a meno che non si convertissero all’arianesimo; poi nel 593 fu rinnovata la proibizione di celebrare battesimi di rito romano, ingiungendo che i genitori che trasgredivano questa norma sarebbero stati privati del bambino e condannati al pagamento di una multa pecuniaria.
Fu proibito il possesso della Bibbia in latino, a meno che non si fosse autorizzati dal sovrano. Fu proibita la presenza nella stessa città di più di una chiesa di rito romano (quelle in eccesso furono riconvertite al rito ariano o allo scismatico rito tricapitolino). Per indebolire ulteriormente i cattolici del suo regno, Autari decise di rafforzare gli scismatici tricapitolini che facevano riferimento al Patriarca di Aquileia, con cui intrattenne buone relazioni e a cui furono risparmiate le persecuzioni invece riservate ai cattolici romani.
Altro importante tassello della politica religiosa di Autari fu la sua decisione di tradurre in lingua longobarda la Bibbia. Il re Autari infatti si era reso conto che ormai il suo popolo faceva sempre più fatica a capire il gotico della Bibbia di Ulfila, e decise di commissionarne la traduzione nella sua lingua.
Questa Bibbia era scritta in longobardo ma con molti prestiti linguistici dal gotico; questa lingua sarà detta “Longobardo ecclesiastico”, e anche quando i Longobardi si sarebbero convertiti al cattolicesimo, continueranno per secoli ad usare una versione della Vulgata nella lingua della Bibbia di Autari.
Le decisioni di Autari in ambito religioso non furono esenti da proteste, né da reazioni. Nel 598 ci fu una rivolta dei duchi cattolici e filocattolici, alimentata probabilmente dai Franchi e da Costantinopoli, che si concluse con la vittoria di Autari nella battaglia di Bergamo. I duchi, sconfitti, accettarono la volontà di Autari, mentre quelli che rifiutarono furono condannati a morte per tradimento. Ma la vittoria militare nella battaglia di Bergamo non segnerà la fine del “partito cattolico” interno al regno longobardo, che sarebbe riemerso alcuni anni dopo una volta morto Autari. In particolare, molti duchi cattolici pubblicamente si (ri)convertirono all’arianesimo ma in segreto continuarono a professare il cattolicesimo.
Repressa la rivolta dei duchi cattolici, Autari riprese la guerra contro l’Impero Romano-bizantino, e tra il 599 e il 603 furono conquistate Parma, Piacenza, Padova, Monselice, Este, Cremona e Mantova, mentre a sud anche i duchi di Spoleto e Benevento ampliavano i propri domini a danno dei romei.
Nel 604 Gundeperga sposò il duca di Torino Arioaldo, già da diversi anni collaboratore del padre e di fatto co-sovrano al fianco di Autari. Con quel matrimonio Autari, che non aveva avuto figli maschi e non si era risposato una volta ripudiata Teodolinda, sistemò il problema della sua successione.
Autari morì nel 616, probabilmente di vecchiaia. Gli successe il genero Arioaldo.

L’Italia alla morte di Autari

Arioaldo (616-636)

Ariano, come il suocero, Arioaldo nel corso del suo regno cercò di mantenere relazioni amichevoli coi cattolici. Ciò scontentò la parte di nobiltà longobarda desiderosa di riprendere il conflitto con i romei, ma placò il “partito cattolico”.
Un importante atto della politica conciliante del re Arioaldo fu, nel 626, l’incontro con papa Onorio I. Secondo Paolo Diacono il sovrano rassicurò il pontefice che dal regno dei Longobardi Roma non aveva nulla da temere, ma quando Onorio gli chiese di revocare le disposizioni di Autari sul cattolicesimo nel regno Longobardo, Arioaldo gli rispose che non era possibile, in quanto la nobiltà ariana non lo avrebbe accettato, e perché aveva paura che i cattolici potessero essere ancora un pericolo.
Arioaldo è ricordato positivamente da Paolo Diacono perché respinse un’invasione Avara del Friuli, anche se non vi è certezza sulla data. Cercò anche di portare avanti una politica di inclusione dei vinti, i romanici; il primo passo simbolico in questo senso fu l’adozione del titolo di Rex totius Italiae (Re di tutta l’Italia) al posto del precedente Rex Langobardorum (Re dei Longobardi); attenuò alcune delle disposizioni anticattoliche di Autari, ma dall’altro lato continuò la politica di rafforzamento degli scismatici tricapitolini, cui impose l’uso del longobardo in luogo del latino, ma per cui continuavano a non valere le disposizioni di Autari.

Rotari (636-652)

Arioaldo morì nel 636, senza lasciare eredi. Essendo la sua legittimità alla corona derivata dal matrimonio con la figlia di Autari, la scelta del nuovo sovrano spettava alla regina Gundeperga, che scelse di risposarsi col duca di Brescia, Rotari.
Egli fu un grande legislatore, e la sua memoria è legata al celebre Editto con cui codificò il diritto orale dei Longobardi; promulgato alla mezzanotte tra il 22 novembre ed il 23 novembre 643, costituisce assieme alla Bibbia di Autari una delle prime testimonianze della lingua Longobarda. Secondo il principio della personalità della Legge, l’editto di Rotari era diretto solo ai Longobardi, in quanto per i Romanici continuava a valere il Digesto giustinianeo. L'Editto ricapitolava e codificava le norme e le usanze germaniche, ma introduceva anche significative novità, segno del progredire dell'influsso latino sugli usi longobardi. L'Editto proibì la faida (vendetta privata) a favore del guidrigildo (risarcimento in denaro) e conteneva anche drastiche limitazioni all'uso della pena di morte.
Ma un sovrano barbaro è anche un capo guerriero, e Rotari fu un grande guerriero. Egli condusse numerose campagne militari, che portarono quasi tutta l'Italia settentrionale sotto il dominio del regno longobardo. Ciò fu possibile in quanto l'Impero Romano-bizantino attraversava una grave crisi interna, che lo distoglieva dall'Occidente. Rotari, pertanto, nel 642 conquistò la Liguria (compresi il capoluogo Genova e Luni) e Oderzo. Tuttavia, neppure la schiacciante vittoria ottenuta sull'esarca bizantino di Ravenna, sconfitto e ucciso insieme a ottomila suoi uomini nella battaglia dello Scultenna (presso il fiume Panaro), fu sufficiente a sottomettere l'Esarcato.
Rotari governò con energia e colpì con durezza i duchi che gli si opponevano, facendone eliminare molti; questo tuttavia non gli alienò il sostegno e l'affetto del suo popolo, che in lui ammirava il legislatore e, soprattutto, il guerriero. Anche il Ducato di Benevento, che durante il suo regno espanse a sua volta il suo dominio conquistando la Puglia e la città di Salerno, riconobbe l'autorità del re; il duca Arechi inviò alla corte di Milano il proprio figlio ed erede Aione.
Sotto un punto di vista religioso, Rotari, ariano, rinnovò le disposizioni anticattoliche di Autari, che sotto il regno di Arioaldo erano state in gran parte dimenticate. Molte diocesi cattoliche furono sciolte o accorpate, la detenzione non autorizzata di un libro di culto in latino era punita col pagamento di una multa e la distruzione del suddetto libro, furono reintrodotte le limitazioni ai battesimi cattolici, attenuate da Arioaldo. Siamo sicuri che queste disposizioni trovarono concreta attuazione, perché ci sono giunti i verbali di processi per detenzione di libri di culto in latino.
Probabilmente fu soprattutto in questo periodo che molti cattolici, a causa delle persecuzioni, abbandonarono le chiese di obbedienza romana aderendo al cattolicesimo tricapitolino.

Rodoaldo il Pio (652-688)

A Rotari successe il figlio Rodoaldo. Pur essendo ariano come il padre, Rodoaldo cercò di stabilire buone relazioni col pontefice, da cui sperava di ottenere un appoggio per completare la sottomissione dell’Italia. A Martino I, in rotta di collisione con Costantinopoli a causa delle differenti vedute sul Monotelismo, avere un alleato in più non dispiaceva, anche se barbaro e ariano.
Quando nel 653 il pontefice seppe che l’Esarca di Ravenna Teodoro I Calliope stava venendo a Roma per arrestarlo e portarlo a Costantinopoli, fece in tempo ad inviare una richiesta d’aiuto a Rodoaldo, il quale radunò un esercito e marciò su Roma liberando Martino.
Liberata Roma, Rodoaldo si proclamò protettore dell’Urbe affidando Roma al pontefice e ai suoi successori. Altra importante scelta, gravida di conseguenze, fu la scelta di Rodoaldo di convertirsi al cattolicesimo, e la revoca di tutte le disposizioni anticattoliche di Autari e Rotari.
Ma c’era un problema: a causa delle persecuzioni non c’erano più nel regno Longobardo preti che sapessero parlare il latino, e anche i libri sacri e i testi di culto in latino erano introvabili. Invece era molto più diffusa la Bibbia di Autari, in lingua longobarda, così come i libri liturgici dei cattolici tricapitolini, anch’essi in longobardo.
Nacque così il rito lombardo, che univa rito ambrosiano, rito tricapitolino e l’uso (dai riti ariani) del longobardo ecclesiastico nella liturgia; di fatto, con la conversione al cattolicesimo dei longobardi finiva anche lo scisma tricapitolino: infatti Rodoaldo immediatamente si adoperò per ricomporre lo scisma, mediando tra il pontefice e il Patriarca di Aquileia, e secondo Paolo Diacono lo scisma poteva dirsi del tutto ricomposto attorno al 660 attraverso un sinodo convocato a Pavia.
Sempre Diacono afferma che nel regno di Rodoaldo sparì del tutto l’arianesimo tra i longobardi; probabilmente Paolo Diacono esagera, le testimonianze e le prove archeologiche a nostra disposizione ci permettono di dire, con un certo grado di sicurezza, che l’arianesimo continuerà ad essere professato almeno per un altro secolo. Tuttavia, è vero che alla conversione di Rodoaldo e all’alleanza col Papa – che valsero al Re il soprannome Pio – seguì una rapida conversione della maggioranza dei nobili longobardi, che rese gli ariani una sparuta minoranza.
Forte del sostegno del Papa, nel 654 Rodoaldo iniziò una nuova campagna contro i romei invadendo l’esarcato di Ravenna, che nel 659 fu completamente conquistato e annesso.
La reazione di Costantinopoli non si fece attendere: nel 663 mentre Rodoaldo stava preparando l’assedio di Venezia, ultimo bastione romeo nel nord Italia, l'imperatore Costante II lanciò il suo tentativo di riconquistare l'intera Italia, sbarcando con forti contingenti militari nel Meridione; irruppe nei territori della Puglia sottomessi al ducato di Benevento, ottenne alcuni successi sul duca Grimoaldo e cinse d'assedio la stessa Benevento. L'intervento in forze di Rodoaldo costrinse tuttavia l'imperatore a ritirarsi a Napoli, dopo aver subito gravi perdite. In seguito, il duca Grimoaldo passò all'offensiva e occupò l'intera Puglia, con la sola eccezione di Otranto e del Salento.
Rodoaldo governò con ancora più energia e vigore di suo padre: impose duchi a lui leali a Spoleto e nel Friuli; rafforzò ulteriormente il controllo dell'Italia centro-meridionale assoldando un contingente di Bulgari guidato da Alcek e insediandolo dapprima nel ravennate, e poi nel poco popolato territorio compreso tra Sepino, Boiano e Isernia in un gastaldato creato ad hoc. La sua opera di rafforzamento del potere regio, avviata fin dal momento della sua ascesa al trono in continuità col padre Rotari, proseguì favorendo l'opera di integrazione tra le diverse componenti del regno. Offrì ai suoi sudditi un'immagine in continuità con quella di suo padre, al tempo stesso saggio legislatore (aggiunse nuove leggi all'Editto), mecenate (eresse a Pavia una chiesa intitolata a Sant'Ambrogio) e valente guerriero.
Intanto, l’Impero Romano-bizantino, fallito il tentativo di riconquista di Costante II, manteneva in Italia la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, il Salento, i ducati di Napoli e Calabria e la Venezia Marittima. Persa Ravenna, la sede dell’Esarca d’Italia fu trasferita a Siracusa, in modo tale da poter controllare meglio la Sicilia dopo la perdita della costa nordafricana, ricevendo autorità anche sulla Sardegna e sulla Corsica (in precedenza parte dell’Esarcato d’Africa assieme alle Baleari).
Attorno al 690 fu però deciso di separare le isole e i possedimenti sul continente; nacquero quindi l’Esarcato di Sicilia, con sede a Siracusa e responsabile per la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, e l’Esarcato d’Italia, con sede a Reggio Calabria e responsabile per Calabria, Napoli e il Salento, e teoricamente anche per la Venezia Marittima, che però era nei fatti autonoma, eleggendo il proprio duca indipendentemente da Costantinopoli o dall’Esarca.
Uno degli ultimi successi di Rodoaldo il Pio fu, nel 681, la “pace eterna” con i Romei, con cui i longobardi rinunciavano ad ulteriori attacchi ai territori romano-bizantini in Italia (Napoli, Calabria, Salento, Sicilia, formalmente Venezia) e in cambio Costantinopoli riconosceva la sovranità longobarda su gran parte dell’Italia.
Il re morì nel 688, per le conseguenze di una caduta da cavallo. A succedergli fu il figlio diciassettenne Cuniperto.

L’Italia alla morte di Rodoaldo il Pio

Cuniperto (688-712)

Poco dopo la morte di suo padre, Cuniperto dovette affrontare la ribellione del duca di Trento, Alachis e della nobiltà Austriana. La crisi derivava anche dalla divergenza che vedeva contrapposte le due regioni della Langobardia Maior: da un lato la Neustria, le regioni occidentali fedeli ai sovrani Arodingi, cattoliche e sostenitrici della politica di pacificazione con Costantinopoli e Roma; dall'altra l’Austria, le regioni orientali ariane e in qualche caso pagane, legate alla tradizione longobarda che non si rassegnava a una mitigazione del carattere guerriero del popolo.
La battaglia decisiva tra Cuniperto e Alachis fu combattuta nel 689 a Coronate, lungo l'Adda che segnava il confine tra Austria e Neustria. La battaglia, nella quale Alachis cadde, si concluse con la vittoria del legittimo sovrano. Nello scontro di Coronate si era distinto il duca di Asti Ansprando; egli già stato un collaboratore di Rodoaldo, e dopo la vittoria di Coronate assunse un ruolo sempre maggiore nella vita di corte, diventando di fatto un vice-Re. L’alleanza tra Cuniperto e Ansprando fu sugellata nel 691, col matrimonio tra Ansprando e Vigilinda, sorella di Cuniperto. Riferisce Paolo Diacono che Ansprando aveva già avuto una moglie, Teodorada, ma che l’unione era stata sterile e per questo fu ripudiata.
Dal matrimonio tra Ansprando e Vigilinda nacquero due figli maschi, Liutprando e Sigiprando. Cuniperto, che non aveva avuto figli maschi dal suo matrimonio, inizialmente designò Ansprando suo erede, e dopo la morte del duca di Asti nel 709, il suo figlio primogenito Liutprando.

Liutprando (712-744)

Cuniperto morì nel 712, scrive Paolo Diacono a causa di una malattia, e gli successe al trono il nipote Liutprando, che già si era associato nel 710.
Liutprando in un primo momento perseguì una politica di pacificazione con l'Impero Romano-bizantino, nel solco del trattato di pace siglato nel 680 con Costantinopoli da Rodoaldo, tanto da costringere il duca di Benevento, Romualdo II, a restituire ai romei il porto napoletano di Cuma. Tuttavia, la debolezza dell'Impero Romano-bizantino, sconvolto dalle lotte interne seguite alla fine della dinastia di Eraclio I, favoriva l'allontanamento delle province italiane, provate da un'insostenibile pressione fiscale. L'inazione, da parte di Liutprando, avrebbe a quel punto potuto alienargli il sostegno popolare, sempre incline, tra i Longobardi, a non lasciar cadere lo spirito guerriero che li aveva sempre caratterizzati. La facilità stessa del colpo di mano su Cuma aveva dimostrato come la situazione fosse favorevole a una ripresa dell'espansione ai danni dei domini romei in Italia. Nel 717 quindi, sfruttò l'attacco degli Arabi all'impero per riconquistare Cuma. Contemporaneamente il Duca di Benevento si impadronì di Sorrento. I colpi di mano portarono alla conquista di due importanti città marittime, ma gli esiti furono di breve durata: presto Liutprando si ritirò a nord, mentre il duca romeo di Napoli, Giovanni, riconquistò Cuma e Sorrento.
Nel 726 Liutprando sfruttò le agitazioni causate dalla politica iconoclasta dell'imperatore bizantino Leone III per intraprendere una nuova campagna. Costantinopoli appesantì la pressione fiscale anche sull'Esarcato d'Italia. Per reazione, divamparono rivolte contro l'Impero Romano-bizantino in diverse città. Liutprando, approfittando del clima infuocato, attaccò l’Esarcato e sottomise il Ducato napoletano. Tuttavia, anziché unirlo al Ducato di Benevento, come chiesto dal duca Romualdo II, decise di mantenerlo separato rendendolo direttamente soggetto a Pavia. In segno di pacificazione coi romanici, Liutprando rimise ai nobiliores napoletani la scelta del duca, ed essi elessero Teodoro, già duca romeo della città.
Ulteriore conquista di Liutprando fu la Corsica, sottratta ai romei nel 741.
Con Liutprando si ebbe un ulteriore rafforzamento della struttura amministrativa del Regno. La solidità del suo potere si fondava, oltre che sul carisma personale, anche sulla riorganizzazione delle strutture del regno che aveva intrapreso fin dai primi anni. Rafforzò la cancelleria del Palazzo reale di Pavia e definì in modo organico le competenze territoriali (giuridiche e amministrative) di sculdasci, gastaldi e duchi. Molto attivo fu anche nel settore legislativo: fin dal suo primo anno di regno intervenne sul corpus legislativo longobardo, emanando sei norme giuridiche di integrazione all'Editto di Rotari. Tra il 713 e il 735 promulgò altre centocinquantatré leggi, divenendo dopo Rotari il più attivo legislatore longobardo. Introdusse riforme legali ispirate al diritto romano e le nuove leggi erano contenute in dodici volumi. Rese efficienti i tribunali e modificò la tradizione longobarda del guidrigildo, ovvero del denaro dato in risarcimento per offese o omicidi, aggiungendo alla pena pecuniaria anche la confisca dei beni del reo (di cui una metà andava ai parenti della vittima, l'altra metà nelle casse reali).
L'attività di redazione e di promulgazione delle nuove leggi erano eventi che rafforzavano l'unità dei Longobardi, poiché avvenivano in occasione dell'assemblea del popolo che si teneva ogni anno a Pavia il primo marzo. Liutprando presentava le nuove leggi come frutto di un accordo con i duchi e i gastaldi e si mostrava all'assemblea dei suoi guerrieri come il saggio signore, guidato da Dio, di un regno saldo e coeso.
L'obiettivo generale dell'attività legislativa fu di garantire la certezza del diritto, per ridurre i rischi di conflitti interni. Operò quindi in particolare negli ambiti più frequentemente forieri di contrapposizioni: il diritto di famiglia, la compravendita e l'abigeato, la validità dei documenti, il diritto di pegno. Favorì l'attività dei giudici per ottenere sentenze rapide e si prodigò per i deboli, senza limitarsi ad affermazioni di principio: tutelò dal rischio di perdita di beni i minorenni e le donne libere, difese i debitori dagli interventi troppo brutali dei creditori, proibì la vendita di ex liberi come schiavi al di fuori dell'Italia, difese l'integrità del matrimonio tra i membri delle classi inferiori (aldii e schiavi).
Tutelò la Chiesa cattolica, nella quale ormai si riconosceva la stragrande maggioranza dei Longobardi, riconoscendo tra l'altro alle chiese l'inviolabilità, ponendo le monache sotto la sua diretta e particolare protezione, vietando alcune pratiche pagane e introducendo nel diritto matrimoniale longobardo le prescrizioni del diritto canonico.
Per rafforzare la tutela del demanio regio, emanò norme che impedivano ai gastaldi e agli altri amministratori l'alienazione di beni pubblici senza la sua esplicita autorizzazione.
Già a partire dal VII secolo la struttura socio-economica del regno era andata progressivamente modificandosi. La crescita demografica favorì la frammentazione dei fondi, tanto che crebbe il numero dei Longobardi che cadeva in stato di povertà, come attestano le leggi mirate ad alleviare le loro difficoltà; per contro, anche alcuni Romanici cominciarono ad ascendere nella scala sociale, arricchendosi con il commercio, con l'artigianato, con le professioni liberali o con l'acquisizione di terre che i Germani non avevano saputo amministrare proficuamente. Liutprando intervenne anche in questo processo, riformando la struttura amministrativa del regno e liberando dagli obblighi militari i Longobardi più poveri. Ciò è anche indice del fatto che ormai si stava perdendo la distinzione tra Romanici e Longobardi; ne è un ulteriore prova il fatto che Liutprando fin dai primi anni del suo regno estese anche ai Romanici l’editto di Rotari, che fino ad allora valeva solo per i Longobardi.
Nel 732, dopo la morte del duca di Benevento Romualdo II (sposato da una nipote di Liutprando, dalla quale aveva avuto un figlio, Gisulfo, ancora minorenne), dovette fronteggiare l'opposizione della fazione autonomista, capeggiata dal gastaldo Audelais. Liutprando depose l'usurpatore e insediò come duca, in attesa della maggiore età di Gisulfo, un altro suo nipote (Gregorio, già duca di Chiusi), riportando il ducato sotto il suo pieno controllo.
Altre minacce alla sua opera di consolidamento del potere centrale gli vennero dal potente duca del Friuli, Pemmone. Nel 737 sfruttò una contesa che opponeva il duca al patriarca di Aquileia Callisto, per deporre Pemmone e sostituirlo con il fedele Rachis, nipote del re.
I sovrani longobardi avevano dedicato scarse attenzioni alle relazioni con gli altri regni europei. Liutprando, al contrario, già prima di salire al trono aveva maturato ampia esperienza sia del Ducato di Baviera, sia del regno franco. Una volta salito sul trono, intervenne più volte nelle vicende politiche europee, mirando soprattutto a mantenere un equilibrio di pace - ma che lo vedeva comunque protagonista - con i popoli confinanti (Franchi e Avari).
Nel 717 intervenne nei contrasti interni della Baviera, sostenendo il fratello di sua moglie Guntrude, Ucberto, anche occupando alcune fortificazioni di confine nel territorio di Merano.
Con il regno dei Franchi, nominalmente governato dai Merovingi ma di fatto dai maggiordomi di palazzo Carolingi, i rapporti furono inizialmente tesi, a causa della tradizionale ostilità tra questi e i Bavari alleati di Liutprando. La situazione mutò quando Carlo Martello, nel 725, intervenne a sua volta nei conflitti interni bavaresi e sposò una nipote di Guntrude. Tra il maggiordomo di palazzo franco e Liutprando prese forma uno stretto legame che si consolidò, intorno al 730, in un'alleanza formale.
Il legame con Carlo Martello venne rafforzato nel 737, quando il sovrano de facto dei Franchi inviò a Pavia suo figlio Pipino affinché Liutprando lo adottasse. Il re lo accolse benevolmente, lo fece rasare all'uso longobardo e lo rimandò al padre con ricchi doni. L'episodio rappresentò un passaggio fondamentale nella storia dei Franchi: attraverso quell'adozione Pipino divenne figlio di re e quindi legittimato, nell'ottica del tempo, ad assumere formalmente il trono a danno della dinastia Merovingia (cosa che fece nel 751).
Nel 738 Liutprando sostenne nuovamente Carlo Martello che, impegnato in quel momento a nord contro i Sassoni, non poteva far fronte al contemporaneo attacco degli Arabi che, a sud, avevano invaso il territorio di Arles. Liutprando mobilitò il suo esercito, penetrò in Provenza e volse in fuga gli invasori. La vittoria sugli "infedeli" rafforzò anche le sue vesti di difensore della cristianità, già messe in luce quando, pochi anni prima, aveva messo in salvo dalla Sardegna (minacciata sempre dagli Arabi) quelle che si supponeva fossero le reliquie di sant'Agostino d'Ippona.

Moneta di Liutprando

Moneta di Liutprando

Guerra dinastica (744-751)

Liutprando morì nel 744 senza lasciare eredi; il suo matrimonio con Guntrude era stato sterile, e il Re, contrariamente a quanto fatto da Cuniperto con lui, si era rifiutato di nominare suo successore il nipote Ildebrando. Paolo Diacono non offre spiegazioni chiare in merito; dunque questa va ad aggiungersi alle cose che si sono perse nei meandri della Storia.
Morto il sovrano senza aver lasciato eredi, i duchi si riunirono per eleggere il nuovo Re di tutta l’Italia.
Subito emersero due fazioni: i duchi fedeli a Liutprando sostenevano l’elezione di suo nipote Ildebrando, mentre i duchi che avevano osteggiato la politica accentratrice del precedente sovrano si radunarono attorno al duca del Friuli Rachis, anch’egli nipote di Liutprando.
Le assemblee si susseguirono per giorni, senza che le due parti riuscissero ad arrivare ad un accordo. Quando finalmente sembrava che le due fazioni avessero raggiunto un’intesa sul nome del duca di Vicenza Peredeo, questo morì improvvisamente, riportando tutto al punto di partenza.
A questo punto le fonti a nostra disposizione si fanno discordi.
Secondo il Liber Pontificalis i sostenitori di Ildebrando si radunarono all’insaputa dei sostenitori di Rachis, approfittando della loro assenza per eleggerlo re; i partigiani di Rachis, per tutta risposta, abbandonarono la chiesa di Santa Maria alle Pertiche e si diressero alla basilica di Sant’Ambrogio, dove elessero Rachis.
Invece, secondo Paolo Diacono, Ildebrando sarebbe stato eletto alla presenza di Rachis e dei suoi sostenitori, i quali terminata la votazione avrebbero dichiarato illegittima l’elezione, e pertanto avrebbero abbandonato la sala e proclamato Rachis Re dei Longobardi.
Comunque sia andata, l’esito era lo stesso: il regno aveva due re opposti l’uno all’altro.
Papa Zaccaria tentò di mediare tra i due contendenti, ma senza esito. La guerra civile era inevitabile.
Di nuovo, si ebbe la contrapposizione tra Austria e Neustria: la nobiltà austriana si era in gran parte schierata con Rachis, mentre i duchi neustriani sostenevano in maggioranza Ildebrando.
Lo scontro militare inizialmente fu favorevole a Rachis, che conquistò Pavia nel 745 costringendo Ildebrando a rifugiarsi nel ducato di Benevento, retto da Gisulfo II. Tuttavia, Rachis scontentò i suoi sostenitori: per cercare di emarginarsi dai duchi che lo sostenevano emanò leggi che rafforzavano i gasindi (la piccola nobiltà), i liberi che si stavano impoverendo e la massa della popolazione romanica. Lui stesso sposò una donna romana, Tassia, e lo fece seguendo il rito romano anziché quello tradizionale longobardo. A partire dal 746 si attribuì, al posto del tradizionale titolo di Re dei Longobardi, quello romaneggiante di Princeps: chiara manifestazione della sua volontà di porsi, sulla scorta degli imperatori romani, al di sopra delle diverse etnie che abitavano il suo regno.
Queste scelte politiche, rafforzate dall'ammissione a corte di caratteristiche filoromane, suscitarono la reazione dei tradizionalisti longobardi, irritati anche dal fatto che il re cercasse una pace duratura coi Romei. Per rispondere al crescere di queste pressioni invertì la rotta della sua politica nel 749, attaccando la Venezia Marittima, ma fu sconfitto dai romei e da un’epidemia di malaria che decimò il suo esercito.
il prestigio di Rachis tra i suoi uomini subì così un colpo decisivo.
Nel luglio del 749 l'assemblea dei Longobardi, riunita a Milano, dichiarò Rachis decaduto e insediò al suo posto il fratello Astolfo. Rachis non accettò la cosa, e radunò i suoi fedelissimi, e intanto anche Ildebrando, grazie all’aiuto del duca di Benevento, era riuscito a radunare un esercito ed era tornato nella Longobardia Maior.
Il conflitto fra i tre durò nel complesso due anni, e dopo varie fasi alterne vide la vittoria di Astolfo e la morte di Ildebrando, mentre Rachis si ritirò in convento.
Come primo atto Astolfo cercò di compiere ciò in cui il fratello aveva fallito: conquistare la Venezia Marittima. Ma di nuovo, la malaria decimò l’esercito longobardo, e lo stesso Astolfo morì, dopo meno di un anno di regno.
Rachis si rifece vivo, cercando di riprendersi il trono, ma stavolta trovò l’opposizione di Desiderio, duca di Tuscia, che radunò attorno a sé gli oppositori al casato friulano di Rachis e Astolfo, ed ottenne anche il sostegno del re dei Franchi Pipino il Breve e di papa Stefano II.
Rachis abbandonò i suoi propositi, ritirandosi definitivamente a vita monastica, e Desiderio divenne unico sovrano dei Longobardi.

Desiderio (751-776)

Fin dall’inizio del suo regno cercò di riportare sotto il controllo di Pavia i ducati di Spoleto e Benevento, che avevano approfittato della debolezza del potere regio per rendersi di fatto indipendenti: Spoleto aveva nominato duca Alboino senza il consenso del re, e a Benevento Giovanni, reggente del minorenne duca Liutprando, agiva anch’egli in autonomia da Pavia.
Attraverso la Pentapoli Desiderio penetrò nel Ducato di Spoleto e imprigionò il duca Alboino; poi proseguì verso Benevento, da dove cacciò Liutprando e il reggente Giovanni, insediando come duca il proprio genero Arechi. Invece Desiderio amministrò direttamente il ducato di Spoleto, nominando un nuovo duca solo nel 759: Gisulfo. In questo modo ripristinò il controllo regio sull'intera Italia longobarda, gravemente compromesso negli anni della guerra dinastica.
Anche la rete dei monasteri italiani divenne strumento di dominio. Nel 753 con sua moglie Ansa fondò a Brescia, la sua città natale, il monastero di San Salvatore, dotato di un'eccezionale ricchezza e affidato come badessa alla figlia Anselperga. Alla giurisdizione di San Salvatore sottomise un'intera rete di complessi monastici tra Lombardia, Emilia e Toscana, creando una federazione da lui direttamente controllata. Un altro monastero da lui fondato in terra bresciana fu la Badia leonense, terminata di costruire nel 758 e guidata da monaci Benedettini giunti alla Badia situata a Leno direttamente dal monastero di Montecassino creato da Benedetto da Norcia nel 529.
L'opera di rafforzamento del potere regio di Desiderio culminò, nel 759, con l'associazione al trono del figlio Adelchi.
Desiderio cercò inoltre di rafforzare l’alleanza con i Franchi, iniziata con Liutprando, facendo sposare sua figlia Berterada a un figlio di Pipino il Breve, Carlo, che sarebbe diventato re dei Franchi nel 768 assieme al fratello Carlomanno, poi da solo alla morte prematura di quest’ultimo nel 771. L’alleanza era ulteriormente rafforzata dal matrimonio tra Adelchi e Gisela, sorella di Carlo.
Un’altra figlia di Desiderio, Liutberga, andò in sposa al duca dei Bavari Tassilone III, che riceveva l’aiuto del suocero per arginare gli Avari sul confine orientale del suo ducato.
Desiderio morì nel 776. Gli successe il figlio Adelchi.

Adelchi il Grande (776-814)

Quello di Desiderio era stato, nel complesso, un regno pacifico, in cui il re si era dedicato soprattutto alla ricostruzione della sua autorità dopo le guerre dinastiche. Ciò aveva lasciato scontenti i “falchi” della nobiltà Longobarda, che chiedevano nuove campagne militari, in cui guadagnare ricchezze e gloria personale.
Per questo motivo, quando nel 777 Tassilone III chiese l’aiuto del genero contro gli Àvari, che avevano sconfinato in Baviera, Adelchi non lasciò cadere la richiesta di aiuto, e iniziò a studiare un’invasione della regione. C’era in realtà anche un altro motivo per cui Adelchi accolse immediatamente la richiesta di aiuto di Tassilone: l’oro degli Àvari; la loro tesoreria di stato era infatti colma di ricchezze accumulate dai tributi che gli imperatori romano-bizantini versavano nelle loro casse.
La prima mossa urgente era ovviamente quella di ricacciare gli Àvari fuori dalla Baviera, operazione che riuscì pienamente, con pochi interventi militari, grazie anche agli alleati bavari. Ma la minaccia non era ancora debellata. Vennero istituiti dei comandi militari alla frontiera come il ducato di Carinzia, per meglio coordinare le manovre dell'esercito e nel 781 le truppe longobarde e bavare procedettero all'invasione, percorrendo il Danubio su entrambe le sponde. L'esercito a nord era guidato dal duca Tassilone e accompagnato da una flotta di chiatte e barconi incaricata di trasportare rifornimenti e permettere una rapida comunicazione tra le due sponde. Contemporaneamente un altro esercito si muoveva sul versante sud del fiume, comandato personalmente da Adelchi.
Il primo scontro, vittorioso, fu sostenuto da Rotgaudo, duca del Friuli, che attaccò gli Àvari dal confine friulano, ma successivamente il nemico si ritirò, concedendo pochi scontri e lasciando ai Longobardi qualche centinaio di prigionieri e alcune fortificazioni, sistematicamente distrutte. Fino all'autunno i Longobardi penetrarono in territorio àvaro, ma dovettero interrompere le operazioni a causa della stagione avanzata che causava problemi di collegamento tra i reparti, rendendo difficili le comunicazioni. Pur non avendo dovuto impegnare grandi scontri, la fama di Adelchi come “castigatore” dei pagani crebbe moltissimo: aveva debellato il popolo che da tanto tempo teneva in scacco, esigendo tributi, gli imperatori romei.
Le devastazioni comunque provocarono il malcontento tra i diversi capi Àvari che incominciarono una politica indipendente dall'autorità del loro Khan. La situazione portò a una guerra civile, durante la quale morì lo stesso Khan, e che generò divisioni del potere e un generale indebolimento politico e militare. La nuova guida del paese, Tudun, rendendosi conto di non poter più fronteggiare i Longobardi, nel 785 si recò personalmente con un'ambasceria da Adelchi, nella sua capitale di Pavia dove, dichiaratosi anche disposto a convertirsi al Cristianesimo, fu battezzato dallo stesso re, salvo poi, appena tornato in patria dove lo aspettava una forte opposizione alle sue scelte, rinnegare la nuova religione e l'alleanza con i Longobardi.
In seguito, la debolezza degli Àvari permise ad Adelchi, nel 787 e nel 788, di compiere due incursioni in territorio Àvaro e impossessarsi di buona parte del loro tesoro. Fece seguito alla seconda incursione la sottomissione di Tudun e l'opera di evangelizzazione delle popolazioni àvare rimaste sul territorio. Il regno àvaro era caduto come un castello di carte.
Adelchi, nonostante le ripetute rivolte protrattesi nel tempo, non tornò mai personalmente nell'area, delegando a svolgere le operazioni militari le autorità locali (duchi del Friuli e di Carinzia) e gli alleati Bavari, che impiegarono qualche anno a stroncare la rivolta, in seguito a una vera e propria guerra di sterminio.
Adelchi, coadiuvato dal suo consigliere Paolino d'Aquileia, ebbe una forte influenza sulle decisioni ecclesiastiche: nel 794 fu il principale promotore del Concilio di Firenze, con cui fu presa una posizione fortemente critica verso l’iconoclastia ma anche verso i (presunti) eccessi iconoduli del secondo Concilio di Nicea, convocato nel 787 dall’imperatrice romea Irene.
Cinque anni dopo, nel 799, Adelchi promosse un nuovo concilio, questa volta per dirimere la questione dell’eresia adozionista promossa dal vescovo Felice di Urgell. Il concilio di Pavia, cui parteciparono i vescovi franchi e longobardi, vide la vittoria delle tesi anti adozioniste sostenute da Paolino d’Aquileia. Il papa in tutto questo fu poco più di uno spettatore.
Ciò conferma il fatto che ormai i papi vedevano nel re dei longobardi il loro protettore, e dimostra la forte influenza sul papato dei sovrani di Pavia.
Nell’estate del 799 scoppiò a Roma un'insurrezione contro papa Leone III, capeggiata dai nipoti e sostenitori del defunto pontefice Adriano I. Il primicerio Pasquale e il sacellario Campolo, che già ne avevano contestato l'elezione e lo accusavano di essere assolutamente inadatto alla tiara pontificia, in quanto "uomo dissoluto", in un attentato riuscirono a catturare Leone e rinchiuderlo in un monastero, da dove fuggì rocambolescamente per rifugiarsi in San Pietro, da dove fu poi trasferito al sicuro presso il duca di Spoleto. Da qui, non si sa se di sua iniziativa o su invito di Adelchi, si fece condurre presso il re, che si trovava a Monza, sua residenza estiva.
Adelchi decise di scendere a Roma, per punire la ribellione e rimettere al suo posto Leone. Il re longobardo e il papa entrarono in città il 29 novembre del 799, accolti con uno sfarzoso cerimoniale e con grandi onori dalle autorità e dal popolo. Le accuse a Leone (e le prove che ci si affrettò a distruggere) si rivelarono presto difficili da confutare, e Adelchi si trovò in estremo imbarazzo, ma non poteva certo lasciare che si diffamasse e si mettesse in discussione il capo della cristianità.
Il 1º dicembre il re longobardo, invocando il suo ruolo di protettore della Chiesa di Roma, costituita un'assemblea composta da nobili e vescovi d'Italia (una via di mezzo tra un tribunale e un concilio) aprì i lavori dell'assemblea che doveva pronunciarsi sulle accuse rivolte contro il papa. Basandosi su principi (erroneamente) attribuiti a papa Simmaco (inizio del VI secolo) il concilio sentenziò che il papa era la massima autorità in materia di morale cristiana, così come di fede, e che nessuno poteva giudicarlo se non Dio. Leone si dichiarò disposto a giurare la propria innocenza sul Vangelo, soluzione a cui l'assemblea, ben conoscendo la posizione di Adelchi che si era schierato da tempo dalla parte del pontefice, si guardò bene dall'opporsi. Dunque il papa fu “pregato” dal re di prestare il giuramento a cui si era impegnato. Occorsero tre settimane per mettere a punto il testo del giuramento, che il 23 dicembre Leone prestò solennemente nella basilica di San Pietro, di fronte all'assemblea di nobili e alti prelati, venendo dunque confermato legittimo rappresentante del soglio pontificio. Pascale e Campolo, già preventivamente arrestati, non erano stati in grado di provare le accuse mosse al papa, e vennero condannati a morte, insieme a numerosi loro seguaci (pena in seguito commutata nell'esilio).
Il 25 dicembre 799, nel corso della messa di Natale, papa Leone III incoronò Adelchi Imperatore dei Romani, titolo che in occidente non era più usato dal tempo di Romolo Augustolo. Questo atto all’epoca era giustificato dal fatto che l’imperatrice romea Irene d’Atene era un’usurpatrice, essendosi proclamata basileus al posto di suo figlio, Costantino VI, vero detentore del titolo imperiale, accecato e ucciso dalla madre.
Dunque, a occidente la sede imperiale era vista come vacante, e ciò permise ad Adelchi di soddisfare il suo desiderio di rendersi pari agli imperatori di Costantinopoli. La nascita di un nuovo Impero d'Occidente ovviamente non fu ben accolta dall'Impero Romano-bizantino che tuttavia, nonostante le minacce di Irene, non aveva i mezzi sufficienti per intervenire militarmente. L'imperatrice dovette così assistere impotente a ciò che stava avvenendo a Roma; ella si rifiutò sempre di riconoscere il titolo di imperatore ad Adelchi, considerando la sua incoronazione, consacrata dal papa, un atto di usurpazione di potere. Nell'802 Adelchi tentò di risolvere il problema inviando dei messi a Costantinopoli per proporre a Irene di sposarlo in modo da «riunificare l'Oriente e l'Occidente». Tuttavia, le negoziazioni non andarono a buon fine perché nello stesso anno l'Imperatrice Irene fu detronizzata da una congiura che pose sul trono Niceforo I il Logoteta.
Nella Venetia Marittima, ultima roccaforte romea nel nord Italia, si fronteggiavano due partiti: uno filolongobardo capeggiato dalla città di Equilio, e quello filoromeo, con roccaforte ad Eracliana: nell'805 l'aperto conflitto esploso tra i due centri spinse il doge Obelerio Antenoreo a raderli al suolo e deportarne la popolazione a Metamauco. Messa così a tacere ogni opposizione, il doge si risolse nell'806 a porre il ducato sotto la protezione di Adelchi, ma un blocco navale romeo lo convinse ben presto a rinnovare la propria fedeltà all'Imperatore d'Oriente, trasformando il ducato in una base per le azioni militari romee in Italia.
Nell'809, in risposta alle aggressioni condotte dai Romei su Comacchio, l'esercito longobardo comandato dal duca del Friuli Ariperto invase la Venetia, assediando Metamauco e costringendo il Dux a rifugiarsi nelle isole interne della laguna, presso la città di Rivoalto. Il conflitto ebbe termine nell'810, quando la flotta veneziana riuscì a intrappolare e distruggere quella longobarda nelle secche tra Metamauco e Popilia. La vittoria portò al potere il partito filoromeo, che approfittò immediatamente dell'occasione per sbarazzarsi dell'odiato Antenoreo e sostituirlo con il nobile eracleense Angelo Partecipazio, il quale, nell'812 trasferì definitivamente la capitale a Rivoalto, decretando così l'effettiva nascita di Venezia.
Al sicuro nella nuova città, il ducato veneziano rimase un'isola romea nel mare del Medioevo d'occidente. Tuttavia, nei due secoli successivi le istituzioni e la politica veneziane si distaccheranno progressivamente sempre più dalle vicende di un impero sempre più lontano, la cui sovranità si farà sempre più meramente formale. È in questo periodo che, a fianco dei tentativi di costituire un sistema politico su modello imperiale romano-bizantino (con il tentativo di rendere ereditaria la carica ducale tramite l'adozione del sistema di associazione al trono di un erede "co-Dux"), si venne sviluppando un sistema di famiglie patrizie in concorrenza per il potere (segno ne furono le frequenti rivolte e deposizioni dei "Dogi", tonsurati, accecati ed esiliati), nucleo della futura oligarchia mercantile a capo della Repubblica di Venezia.
A Adelchi, morto di vecchiaia nell’814, successe come re e imperatore il figlio Liutprando, nato dal matrimonio con Gisela.

Statuetta equestre di Adelchi II il Grande

Liutprando II (814-840)

Divenuto imperatore alla morte del padre, Liutprando II ereditava un impero per la prima volta in pace dopo decenni. I rapporti coi vicini erano buoni: i Franchi erano alleati, e non avevano interesse verso l’Italia; i Romei, nonostante lo sgarbo dell’incoronazione imperiale, per il momento erano concentrati sulle guerre contro gli arabi; il Papa era un alleato di ferro, così come i Bavari; gli Avari erano stati cancellati dalle campagne di Adelchi.
L’unica azione militare condotta da Liutprando II durante il suo regno fu quando nell’828 – su pressione del papa – aiutò l’Esarca di Sicilia a difendere l’isola dagli invasori arabi, in una campagna durata complessivamente tre anni, e che si concluse con la sconfitta degli arabi nell’831.
L’aiuto di Liutprando II ai romei riavvicinò Pavia e Costantinopoli, e conferì all’Imperatore la fama di castigatore di pagani che già era stata di suo padre.

Adelchi II l’Impreparato (840-855)

Se quello di Liutprando II fu un regno pacifico, a parte la spedizione in Sicilia in aiuto dei romei, il regno di Adelchi II e dei suoi successori fu caratterizzato dalle incursioni saracene: partendo dalla Spagna, dalle Baleari e dalla Sardegna (ormai autonoma da Costantinopoli vista la lontananza della capitale romea) iniziarono a compiere scorrerie lungo le coste provenzali e italiane. Genova, che nel corso del lungo regno e pacifico regno di Liutprando II aveva abbattuto la propria cinta muraria per ricavare nuovo materiale da costruzione, fu saccheggiata nell’842 e nell’848. Poi i Saraceni si spinsero anche sulle coste toscane e laziali, arrivando nell’846 ad assediare Roma. Gli arabi levarono l’assedio solo quando videro i falò dell’esercito imperiale, ma prima di andarsene fecero in tempo a saccheggiare le basiliche di San Pietro e San Paolo (a quell’epoca al di fuori delle mura aureliane) dopo aver sterminato la guarnigione longobarda, che si batté fino all’ultimo uomo. Dopo questo evento fu eretta una cinta muraria a protezione di San Pietro e del Vaticano, le mura leonine, che presero il nome da papa Leone III, che per primo aveva elaborato un simile progetto (seppur senza realizzarlo concretamente); Adelchi II ne finanziò la costruzione.
L’Imperatore ebbe maggior successo due anni dopo, nell’848, quando il figlio Liutprando il Giovane assieme al duca di Benevento Radelchi I sconfisse i saraceni vicino a Salerno.

Liutprando III il Giovane (855-875)

Figlio di Adelchi II, come il padre dovette affrontare il problema rappresentato dai saraceni. Già durante il regno del padre aveva preso parte alle sue spedizioni contro i saraceni, e oltre ad aver guidato l’esercito contro i Saraceni nell’848, nell’851 aveva liberato Bari dagli arabi.
Nell’865 stabilì che avrebbe compiuto una spedizione contro i Saraceni. Inizialmente cercò l’appoggio dell’Imperatore romeo, occasione nella quale cercò di affermare la propria dignità imperiale rivendicando il titolo di “Imperatore dei Romani” anziché quello di “Imperatore dei Longobardi”. Ma i negoziati con Costantinopoli si conclusero in un nulla di fatto, dunque l’imperatore chiese aiuto alle città marittime del regno, Napoli e Amalfi in particolare. Nell’869 la spedizione ebbe luogo con lo sbarco dei longobardi in Sardegna, dove i saraceni avevano stabilito proprie basi. La spedizione si concluse con una vittoria, completata due anni dopo con la riconquista di Bari, (ri)conquistata dai saraceni che vi avevano stabilito una propria base. Ma già cinque anni dopo, nell’876, le nuove scorrerie saracene spingeranno la città pugliese a chiedere la protezione dello stratego romeo di Otranto, Gregorio, facendo così tornare Bari nell’orbita romea.
Da segnalare anche, nell’860, il saccheggio di Luni da parte dei normanni del capoguerriero Hastein.

Liutprando IV l’Ignavo (875-899)

Figlio di Liutprando III e ultimo sovrano della dinastia Adelchingia, dovette affrontare una grave crisi del regno: infatti i romei a sud avevano ripreso slancio, e l’Esarca Niceforo Foca il Vecchio inflisse molte sconfitte ai duchi di Benevento, arrivando a conquistare la città campana nell’891.
Tuttavia, Liutprando non intervenne mai direttamente, cercando piuttosto una mediazione coi romei, ma senza esito. Nell’891, dopo la cattura di Benevento, inviò nella Longobardia Minore il cognato, il duca di Tuscia Ildebrando al comando di un esercito. Pur non riuscendo a riconquistare Benevento, Ildebrando sconfisse i romei e ne arrestò l’avanzata stabilizzando il fronte e mettendo in sicurezza Napoli e Salerno. Complice dei successi di Ildebrando fu il trasferimento di Niceforo in Siria a combattere i musulmani.
Nell’899 una forte incursione ungara penetrò i confini del Regno d’Italia, costringendo l’Imperatore ad agire: radunò un potente esercito e marciò contro gli ungari, affrontandoli sulla Brenta. Ma i longobardi furono pesantemente sconfitti, e lo stesso Liutprando IV morì nello scontro. Essendo morto senza figli, il trono passò a Ildebrando, marito di Ermengarda, sorella di Liutprando. Con Ildebrando ebbe inizio la dinastia Aldobrandesca (o Ildebrandesca).

Ildebrando il Forte (899-939)

Ildebrando ereditò un regno in piena crisi: molti nobili longobardi erano morti nella battaglia della Brenta; gli Ungari stavano devastando il Friuli ed erano arrivati a minacciare la capitale Pavia; a sud i Romei, saputo della disfatta occorsa a Liutprando sulla Brenta, erano passati all’attacco e stavano assediando Napoli e Salerno; anche i saraceni avevano riacquistato forza, tanto che a Minturno, sul Liri, avevano stabilito una loro base da cui saccheggiavano l’entroterra laziale.
I cronisti dell’epoca descrivono quegli anni con toni apocalittici, in molti erano certi che la fine del Mondo fosse vicina, che Dio fosse in collera con la cristianità. Serviva un grande Re per salvare il regno d’Italia, e Ildebrando lo era. Radunò un esercito, mettendo assieme ciò che si era salvato dal disastro della Brenta con civili di Pavia, Monza e Milano armati alla meno peggio, e nel 901 riuscì a sconfiggere gli Ungari sull’Adda, e poi di nuovo a Cividale.
Poi si diresse a Roma, a piedi, in pellegrinaggio. Pregò tre giorni e tre notti nella basilica di San Pietro, vestito di sacco e col capo coperto di cenere, chiedendo perdono a Dio per le colpe del suo regno. Molti storici moderni cercano di attribuire a questo gesto un significato politico, che sarebbe il desiderio dell’Imperatore di ricevere una legittimazione dalla Chiesa. Ma come abbiamo detto prima, l’opinione degli uomini dell’epoca era che le disgrazie che stavano colpendo il regno fossero una punizione divina, e l’Imperatore non era esente da quest’idea. Dunque, il gesto di Ildebrando ha senso (per un uomo dell’epoca) anche senza cercare doppi fini politici.
Nel 902 l’Imperatore sconfisse i Saraceni nella battaglia del Garigliano, scacciandoli da Minturno, e nel 903 volse la sua attenzione ai Romei, che avevano conquistato Salerno e Napoli. Riconquistò le due città portuali incontrando blanda resistenza, poi avanzò verso Benevento, che riconquistò dopo un assedio durato quasi un anno, poi affrontò l’Esarca Melisseno, sconfiggendolo nella battaglia del Tanagro, coi cui riconquistò la Lucania caduta in mano ai Romei. Dopo la battaglia del Tanagro Melisseno decise di trattare con Ildebrando, che era ben disposto ad accettare una pace coi Romei dopo più di dieci anni di guerra.
Il risultato delle trattative tra Longobardi e Romei fu il trattato di Potenza, con cui venivano stabiliti i confini tra territori longobardi e romei, cioè i fiumi Basento per la Puglia e il Crati e il Mucone per la Calabria, sancendo quindi il ritorno della Lucania nei domini longobardi.
Il trattato fu redatto in tre lingue: Longobardo, Greco-bizantino e Latino. Il 1° ottobre 903 avvenne la lettura del trattato, di fronte agli eserciti in armi: Melisseno lesse il trattato in Longobardo di fronte a Ildebrando e al suo esercito, poi Ildebrando lesse il trattato in Greco-bizantino di fronte all’Esarca e all’esercito Romeo.
Il trattato di Potenza è importantissimo anche per tracciare l’evoluzione della lingua Longobarda, e testimonia l’affermazione del Longobardo in luogo del Volgare Romanzo già nei primi anni del X secolo; il Volgare Romanzo resisteva ormai solo nella Venezia Marittima, nel Lazio e in Sardegna, mentre in Puglia, Calabria e Sicilia si stava affermando il Greco.
Pacificato il Sud Italia Ildebrando si diresse a Nord, dove gli Ungari avevano ripreso a saccheggiare la pianura padana. Nel 905 colse una nuova vittoria contro gli Ungari a Vicenza, e per impedire ulteriori incursioni nel suo regno istituì alla frontiera orientale un nuovo comando militare, che si aggiungeva al ducato di Carinzia, il ducato di Slavonia (in seguito anche chiamato ‘ducato di Carniola’). Questo permise a Ildebrando di mettere in sicurezza i confini orientali.
Sempre del 905 Ildebrando dovette affrontare una scomoda questione riguardante Roma: l’Urbe era nel caos dopo che il cardinale Cristoforo si era proclamato papa in opposizione a Leone V; Leone V, scampato a un tentativo di assassinio ordito da Cristoforo, nel 903 aveva trovato rifugio presso l’Imperatore Ildebrando, in quel momento impegnato contro i Romei e poi contro gli Ungari. Nel frattempo, a Roma l’ambizioso cardinale Sergio con l’aiuto del senatore di Roma Teofilatto aveva deposto Cristoforo proclamando sé stesso papa. Gli Imperatori longobardi successori di Adelchi il Grande raramente erano intervenuti nelle faccende della Chiesa, ma ora il fatto che ci fossero due papi rendeva necessario l’intervento di Ildebrando.
Nel 905 Ildebrando scese a Roma per incontrare Sergio III; durante il soggiorno dell’Imperatore nell’Urbe Marozia, figlia di Teofilatto e, secondo alcuni cronisti, amante di Sergio III, tentò di sedurre Ildebrando per portarlo dalla parte di Sergio. Liutprando da Cremona scrive che Marozia “bella come una dea e focosa come una cagna”, andò nelle stanze dove era ospite Ildebrando vestita solo con un mantello, e al cospetto del Re d’Italia si denudò, mostrando al sovrano la sua bellezza. Ma l’Imperatore, che Liutprando da Cremona descrive “forte nel fisico come nello spirito”, non cedette.
Ildebrando depose Sergio III, e restaurò sul soglio pontificio Leone V. Sergio III fu confinato in un convento, dove sarebbe rimasto fino alla sua morte nel 911, e Marozia portata a Pavia al seguito di Ildebrando; secondo Liutprando da Cremona da quel momento Marozia fu sempre al seguito di Ildebrando, fino alla sua morte nel 935.
Negli anni successivi Ildebrando approfittò della relativa pace per rafforzare il regno, e consolidare il suo potere: il fatto che molti duchi fossero morti nel disastro della Brenta gli aveva già permesso, nel 901, di emanare l’editto di Monza con cui veniva revocata l’ereditarietà dei ducati, che da quel momento in poi sarebbe stata subordinata alla volontà dell’Imperatore. Questo atto rafforzò enormemente il potere del sovrano, andando ad indebolire i duchi la cui trasmissione del feudo ai figli non era più automatica. Contemporaneamente fu stabilità l’ereditarietà del regno, attraverso una primogenitura di preferenza maschile. Il sovrano sarebbe stato eletto dall’assemblea dei duchi solo in assenza di eredi.
In realtà questo potere fu esercitato abbastanza raramente, e lo stesso Ildebrando non se ne è mai avvalso durante il suo regno, ma la possibilità che potesse succedere era sufficiente a mantenere i duchi leali al sovrano. Questo fu in seguito il punto di partenza di una riforma più ampia cominciata nel 907: Ildebrando infatti rafforzò la piccola nobiltà (i gasindi), aumentò le competenze di sculdasci e gastaldi, che rispondevano direttamente al sovrano, ed emanò leggi a tutela degli uomini liberi.
In particolare gli sculdasci, nati per risolvere contenziosi legati ai debiti, si evolsero diventando veri e propri giudici, togliendo questa competenza ai duchi e ai gastaldi. Infatti, a una sentenza di uno sculdascio ci si poteva appellare solo di fronte all’Imperatore.
Ildebrando fu anche attivo sul piano religioso, promuovendo la riforma cluniacense e la costruzione di conventi a abbazie.
Ildebrando il Forte morì di vecchiaia nel 939, all’età di oltre settant’anni, dopo quarant’anni di regno. È ricordato unanimemente come il sovrano che salvò il regno dalla sua crisi più buia. Gli successe il figlio Gherardo.

L’Italia alla morte di Ildebrando

Appendice: le lingue d’Italia

Lingua Lombarda/Longobarda

Parlata in: Italia, Argentina, Slovenia, Croazia
Numero locutori: 107 milioni (madrelingua), 6 milioni (seconda lingua)
Filogenesi: Lingue indoeuropee => Germaniche => germaniche occidentali => Lombardo

Lingua Grika/Grecanica/Katoitaliótika

Parlata in: Sicilia, Puglia, Calabria
Numero locutori: 8,6 milioni (madrelingua), 2,4 milioni (seconda lingua)
Filogenesi: lingue indoeuropee => Greche => Attiche => Griko

Lingua Romana/Laziale

Parlata in: Lazio
Numero locutori: 3 milioni (madrelingua), 2 milioni (seconda lingua)
Filogenesi: lingue indoeuropee => Italiche => Romanze => italo-occidentali => italo-dalmate => italo-romanze => Romano

Lingua Veneta

Parlata in: Veneto, Slovenia, Croazia, Brasile
Numero locutori: 2,5 milioni
Filogenesi: lingue indoeuropee => Italiche => Romanze => italo-occidentali => italo-dalmate => italo-romanze => Veneto

Lingua Sarda

Parlata in: Sardegna
Numero locutori: 1,3 milioni
Filogenesi: lingue indoeuropee => Italiche => Romanze => romanze meridionali => Sardo

Lingua Corsa

Parlata in: Corsica
Numero locutori: 330.000 (circa)
Filogenesi: lingue indoeuropee => Italiche => Romanze => romanze meridionali => Corso.

Dario Carcano

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E adesso, tocca all'idea di Basileus TFT:

I rapporti franco-bizantini, come ben sappiamo, furono inizialmente abbastanza buoni tanto che si cercò un matrimonio fra l'erede di Bisanzio e la figlia di Carlo Magno. Carlo cercò in ogni caso di mantenere il confine con l'Impero abbastanza sottile da fare si che le due potenze non avessero disguidi territoriali di ampia portata. Forse per questo motivo le terre dell'Esarcato, strappate ai Longobardi, non furono restituite a Bisanzio ma vennero date al Papa, creando un cuscinetto neutrale fra le due forze. Se invece Carlo cerca una maggiore legittimazione da parte dei bizantini e per ingraziarseli gli restituisce la Pentapoli e le zone precedentemente occupate in Romagna e Umbria? E se questa amicizia va a buon fine e i franchi partecipano al concilio di Nicea contro l'iconoclastia?

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Gli risponde stavolta Enrica S.:

La maggior conseguenza è l'assenza di uno Stato della Chiesa. Questo sì che cambierebbe decisamente la storia dell'Espressione Geografica (che forse non sarebbe più tale)

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MattoMatteo domanda:

Quante possibilità ci sarebbero, in questa situazione, che il papato si trasferisca a Costantinopoli?

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Ma Iacopo Maffi scuote la testa:

Vicine a zero, ma ci si può lavorare su. Secondo me avremmo tanti Ducati analoghi per storia e dinamiche a quello di Napoli, e basta. La vera differenza? Nel dodicesimo secolo la conquista Normanna non si schianta contro uno Stato esteso da mare a mare e dotato di tradizione e autorità anche feudale. I Normanni, magari nel nome del Comneno, unificano l'Appennino.

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Basileus TFT torna alla carica:

A partire da Pipino il Papa aveva comunque acquisito un potere tutto sommato notevole e Bisanzio aveva bisogno di qualcuno di tranquillo che gestisse il Lazio, anche se la scelta non era proprio ottimale comunque il Papa era tutto sommato un buon candidato per fare le veci di Bisanzio, stando pur attenti alla sua politica temporale che sfruttava con pretesti religiosi. In ogni caso a parer mio una restituzione dell'Esarcato avrebbe appianato di molto i rapporti con i Franchi, tanto che i loro vescovi sarebbero stati convocati al concilio niceno. In questo frangente, per quanto veda lo spostamento del papato come molto improbabile, sicuramente il suo potere viene molto limitato rispetto alla nostra timeline.
Negli anni successivi in questa timeline abbiano l'Italia divisa fra il Regno d'Italia a nord e i dominii bizantini nel centro e nel sud più qualche possedimento papale e il ducato spoletano. Sicuramente l'Esarcato non ha motivo di cadere nei decenni successivi, attorno al 1000 potrebbe inglobare tutto il sud Italia e con una base più solida anche la Sicilia rimarrebbe bizantina o al più farebbe la fine dell'emirato di Bari e riconquistata da Basilio II ( o Giorgio Maniace). Niente riforma del Catapanato e tutto ciò che ne consegue. Con un'Italia simile che faranno i Normanni?

- Potrebbero essere scoraggiati e decidere di invadere direttamente la Tunisia, col beneplacito di Bisanzio
- Potrebbero invadere la Sicilia ma, incontrando forte resistenza, decidere di non invadere l'Italia peninsulare ma la Sardegna o la Corsica o entrambe
- Potrebbero tentare lo stesso il colpaccio, ma ce la farebbero? Di sicuro non riuscirebbero ad arrivare fino a Tessalonica

E il Papa? Alessio si rivolgerà a lui comunque per la Crociate? Se la sua autorità non è abbastanza forte potrebbe rivolgersi direttamente il Basileus ai vari sovrani e in questo caso:

- Avviene quello che Alessio sperava, cioè l'invio di truppe di supporto professioniste, come avvenuto nel 1097-98
- Avviene un fenomeno analogo alla nostra HL.

Conseguenze?

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Iacopo però obietta:

Secondo me il mantenimento dell'Esarcato e della Pentapoli renderebbe la posizione di Bisanzio in Italia più difficile e fragile, non più solida.

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Basileus TFT non si mostra d'accordo:

E come? Salvo un'invasione dei franchi da nord non ci sono altri rivali nell'area. Spoleto e Benevento sono due nani, gli Arabi in Sicilia potrebbero essere un problema ma con l'Italia centrale l'Impero ha più soldi e più manpower da usare nella difesa (Sicilia e Sardegna erano parti dell'Esarcato, quindi formalmente dipendenti da Ravenna, dopo la caduta dell'Africa bizantina).

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Iacopo insiste:

Manpower e soldi dall'Italia centrale nell'ottavo,nono e decimo secolo? Non credo. Quanti soldati e quanto denaro ha ottenuto il Papa da quelle stesse regioni?

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Ma Tommaso Nazzoni non è da meno:

Tieni conto della diversa amministrazione e continuità territoriale con il resto del mezzogiorno Bizantino; Anche il semplice fatto di poter far arrivare le merci da Napoli a Ravenna significa un giro di soli più ampio.

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Interviene Paolo Maltagliati:

Non esattamente nello stile degli imperatori del VII e del VIII secolo ma...Se Costantinopoli mollasse il colpo su Ravenna e Pentapoli prima, affidandola ad un Esarca di nomina locale in stile Venezia?
Anzi, meglio ancora: se attribuisse tale ruolo(ma ciò è ancor meno in stile bizantino) al patriarca ravennate, che unirebbe così potere temporale e spirituale?

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E Iacopo gli replica:

Si ripropone la situazione del Ducato di Napoli in tutta la Romania. Forse alla lunga resisterebbe solo Ancona, che potrebbe riunirsi alla Grecìa italica (diventando un'enclave greca).

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Paolo tuttavia insiste:

Enclave greca? No, non direi. La Romagna non era abitata da un numero talmente rilevante di greco-parlanti. Ma trovo interessante il termine "resistere". A cosa? Alla dominazione longobarda? franca? papale?
Ciò che volevo sottolineare non era tanto la sopravvivenza formale ad un potere superiore, chiunque esso sia. Piuttosto, ciò che mi interessa è l'autonomia di fatto, tale da costruire uno sviluppo istituzionale ed economico paragonabile (e sostituibile, in effetti) a Comacchio o, nel migliore dei casi, a Genova o Venezia.
A ciò ho aggiunto l'importante questione dell'autonomia ecclesiastica, che annullerebbe le pretese romane che poi saranno il punto fondante della (ri-)costruzione dello stato pontificio.

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Basileus TFT torna alla carica:

Non la vedo una grossa possibilità, sono più convinto che lascerebbe delle autonomie locali un po' come aveva fatto fino ad allora, pur ristabilendo la figura dell'Esarca nominato da Costantinopoli. In questo frangente i comuni si formerebbero lo stesso, anche se sarebbero politicamente legati a Bisanzio. Venezia presumo diventerà comunque semi-indipendente, difficile dire se la presa doppia di Bisanzio nell'Adriatico soffocherà i suoi traffici commerciali ma ne dubito.
Posto che i Normanni non vadano nell'Italia peninsulare, dopo il 1204 cosa succede? La zona si divide in 2 regni post bizantini, uno grecofono a sud e uno latinofono a nord? E dopo il 1453? E le guerre d'Italia? E l'Unità?

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Iacopo balza subito sulla sedia:

Perchè l'assenza dello Stato Pontificio dovrebbe spingere i Normanni altrove?

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Allora Basileus TFT mette in chiaro:

Perchè anzitutto i bizantini non hanno bisogno di mercenari normanni per combattere gli arabi, visto che la Sicilia è presumibilmente rimasta nelle loro mani. Inoltre i Normanni approfittarono di una situazione di vantaggio con un meridione ancora frammentato. Se invece in questa Timeline esiste un blocco bizantino solido, con un Esarca che comanda da Adria a Siracusa, potrebbero benissimo puntare su una preda più facile.

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Chiudiamo per ora con questa osservazione di Alessio Mammarella:

Cosa accadde nel 751?

Cari amici, forse a nessuno, sul momento, verrà in mente ciò che accadde nel 751. Lo riepilogo velocemente. Astolfo, da poco diventato Re dei longobardi, sconfisse l'Esarca d'Italia (non ce ne sarebbe stato più un altro) e si insediò a Ravenna. Papa Stefano II, allarmato per un probabile attacco verso Roma, si risolse a chiedere aiuto per la prima volta al Regno dei Franchi. Per ottenerlo, fece una cosa senza precedenti: riconobbe Pipino il Breve (che aveva usurpato il regno all'ultimo esponente della dinastia Merovingia) come Re dei Franchi. Una operazione politica forse illegittima, perché formalmente tutti i regni romano-germanici erano dipendenze dell'Impero Romano, seppure in pratica fossero indipendenti da Costantinopoli.

Pipino, da parte sua, si impegnò a sconfiggere i longobardi ed a cedere i territori liberati alla chiesa (non lo fece, inizialmente, lo farà poi suo figlio Carlo Magno) invece che restituirli a Costantinopoli. Da questa alleanza scaturirono:

- l'idea che la cristianità potesse/dovesse avere un sovrano universale incoronato dal Papa;
- il potere temporale della S. Sede;
- una tendenza di fondo della politica estera della monarchia franca/francese a proteggere Roma ed il Papa.

Il 1871 è stato un anno davvero rivoluzionario, se pensiamo che, in seguito all'esito della guerra Franco-Prussiana:

- non esiste più alcun sovrano con pretesa di essere "universale", il nuovo Reich tedesco a guida prussiana si pone esplicitamente come uno stato nazionale;
- lo Stato Pontificio smette di esistere, e nasce la III Roma teorizzata da Mazzini;
- la Francia diventa una Repubblica stabilmente (non più una Repubblica destinata a sfociare in un regime bonapartista) e si fonda sulla laicità.

In sintesi, dal 1871 ci sono delle nazioni che sono libere da un "ruolo" assegnato ad esse molti secoli prima (essere la nazione della chiesa, quella "cristianissima" che protegge la chiesa, quella "imperiale") e possono quindi diventare delle nazioni dei rispettivi popoli e per i rispettivi popoli.

Potrei essere sovversivo e concludere che secondo me il Medioevo è proprio quello che va dal 751 al 1871? I fatti del 751 hanno influenzato tutto questo periodo all'insegna di valori eminentemente "medievali"...

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Gli risponde il grande Bhrghowidhon:

Anche questa volta concordo praticamente in tutto (dato che non ha espresso giudizi di valore) con Alessio. La data è un ottimo punto di equilibrio, le stesse identiche riflessioni (o quasi), che abbiamo fatto una volta a cena con alcuni di voi, mi inducevano a oscillare fra il 568 e il 774, perché di fatto lo Stato della Chiesa – come anche Venezia – ha continuato, pur seceduto, a esercitare una Geopolitica 'bizantina senza Bisanzio'. Una periodizzazione 774-1866 (fine della Confederazione Germanica) sarebbe più appropriata per l'Europa Centrale, ma se vogliamo ricalibrare la Storia scolastica il 568 ci offre un aggancio coerente con la Storia romana: esattamente otto mesi fa ne avevo già accennato sul Gruppo proponendo di far iniziare la Storia Romana dal 327 a.C. (adesione di Napoli alla Repubblica Romana; prima di allora, la Storia di Roma è quella di una regione qualsiasi come tantissime altre) per 895 anni in tutto, poi dal 568 d.C. (allorché il centro geopolitico della Repubblica e dell’Impero inizia definitivamente un periodo di contrapposizione destinato a durare per 1291 anni) fino al 1859 sarebbe il Medioevo (non certo Età di Transizione).

Le tre date sono scelte perché sono quelle del primo episodio di un processo che dopo di allora prosegue senza più esaurirsi fino alla successiva data: dal 327 Roma non è più una semplice Lega etnica, ma l'embrione che si svilupperà nell'Impero, riunificato fino a Giustiniano e definitivamente ridiviso a partire dall'arrivo di Alboino, il quale a sua volta, nei confronti di Roma, dà inizio a un Regno alternativo che confluirà in quello di Carlomagno e rimarrà con brevissime interruzioni la massima Potenza a Sud delle Alpi fino al 1859. Il crollo definitivo degli Eredi dell'Impero (sia d'Occidente sia d'Oriente) sarà alla fine del 1918 e nei mesi seguenti, ma il processo inizia senza più interruzioni nel 1859.

In questo modo avremmo quattro Periodi, delimitati dai due centrali: 327 a.C.-568 d.C. Storia Romana, 568-1859 Storia Medioevale (periodizzazione valida soprattutto per l'Europa centromeridionale).

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E Alessio aggiunge:

Quindi riepilogando:
327 a.C.
568 d.C.
1859 d.C.

Sulla prima data non ho da ridire: per quanto io pensi che svolta "imperialista" di Roma siano state le guerre puniche (perché sono convinto che se Roma avesse scelto di non entrare in contrasto con Cartagine, di non diventare una potenza marinara, forse avrebbe avuto un tipo di sviluppo diverso) la data del 327 segna comunque l'inizio del ciclo di espansione romana.

A proposito della seconda data... anch'io, come dicevo, ho preso in considerazione il regno di Giustiniano, sia perché si tratta dell'ultimo Imperatore che tenta di restaurare un impero romano unito sia perché sotto il suo regno si verificò la catastrofica epidemia di peste che probabilmente alterò l'equilibrio demografico tra romani e germani, rendendo irreversibili i cambiamenti geografici che c'erano stati nel corso del secolo precedente. Il 568 mi sembra però una data legata esclusivamente all'Italia, e invece sarebbe interessante trovare una data a valenza più generale. Che potrebbe essere anche semplicemente il 565, ossia la fine del regno di Giustiniano. Tuttavia...

Come ha evidenziato Henri Pirenne nel suo famoso "Maometto e Carlo Magno", una delle ragioni principali per cui il vecchio sistema romano fu superato, e sostituito con un nuovo sistema imperiale, fu l'espansione araba. Di fronte al pericolo arabo, e vista la capacità di contenimento dimostrata dai franchi, il papato scelse di "divorziare" da ciò che restava dell'Impero Romano e favorire la nascita di un nuovo ordine. L'avanzata di Astolfo fu solo la ragione per così dire "immediata", l'occasione propizia per una svolta, ma forse la cosa era già allo studio da tempo a Roma, (probabilmente già dopo Poitiers, che destò una notevole impressione, pur non essendo stata una così grande battaglia).
Nel 568 Maometto non era ancora neppure nato, e quindi probabilmente manca uno degli elementi caratterizzanti di quella che sarà poi la politica medievale.

Per quanto riguarda il 1859, anche in questo caso mi sembra una data legata troppo all'Italia. Oltretutto, a quella data la protezione francese su Roma c'era ancora, una delle interpretazioni politiche sull'esito finale della Spedizione dei Mille è che Napoleone III, pur di non mettere a rischio Roma, accettò che il regno borbonico fosse conquistato ed annesso da quello sabaudo. La "protezione" francese su Roma viene appunto a cessare nel 1870.

Potremmo dire, per tracciare un'altra linea di collegamento, che Vittorio Emanuele II riprende da dove aveva lasciato Astolfo. Ma allora, se V. E. II riprende un discorso (l'unità d'Italia) rimasto "sospeso" per 11 secoli, non ci sono dubbi che la Corona Ferrea conservata a Monza spettasse a lui (questo, ovviamente non cambia la valutazione storica sui suoi successori e sull'opportunità che l'Italia abbia oggi istituzioni repubblicane).

Nota a margine sulla Prussia, che mi viene in mente mentre scrivo: il Regno di Prussia, distruttore dell'Impero Germanico (quella del 1866 è solo l'ultima di una serie di guerre contro l'Impero o comunque contro la fazione che vi risultava egemone) e dello Stato Pontificio (indirettamente, rimuovendo lo scudo francese) era nato da una regione cristianizzata e germanizzata da un ordine di monaci guerrieri, frutto della cooperazione tra Papato ed Impero. Una nemesi quasi da romanzo...

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Allora Bhrghowidhon torna alla carica:

Terminavo con la precisazione: «periodizzazione valida soprattutto per l’Europa centromeridionale». È quindi dichiarato che questa periodizzazione è fatta su date «legate troppo all’Italia»; ricopio un’altra frase: «Una periodizzazione 774-1866 (fine della Confederazione Germanica) sarebbe più appropriata per l’Europa Centrale». Per unire entrambe le prospettive (Europa Centrale e Centromeridionale), i compromessi che ho proposto sono 568 (in quanto inizio di un processo mai più arrestatosi di sgretolamento dell’Impero Giustinianeo, che poi la Rivoluzione Musulmana ha molto accelerato, ma non ha inaugurato, mentre la Guerra dei Quattrocento Anni fra gli Imperi Romano e Persiano era un fattore strutturale della Storia stessa dei due Contendenti e quindi non è il vero e proprio catalizzatore della loro fine, ne è la condizione) e 1918.
Quindi: 327 a.C. – 568 d.C. = Storia Romana; 568-1918 = Storia Medioevale (in accezione assolutamente non negativa, ma anzi con accentuazione del suo ruolo centrale: Medioevo come Evo Centrale in quanto di Mezzo).

L’«altra linea di collegamento» tracciata («Vittorio Emanuele II riprende da dove aveva lasciato Astolfo») mi trova invece fermamente contrario. In uno Stato Centralista, più ancora dei confini è la Capitale a impostare la Geopolitica e comunque la distanza fra la Capitale e i Confini dello Stato non lascia più alcuna incognita geopolitica, per cui uno Stato con Roma quale Capitale e i Confini del Regno d’Italia del 1861 (ma anche del periodo fra le due Guerre Mondiale o del Secondo Dopoguerra) ha una Geopolitica prevedibile; ¿a quale somiglia di più, a uno Stato con Pavia Capitale e i Confini del Regno Longobardo oppure a uno Stato con Roma Capitale e i Confini dello Stato Pontificio (mi raccomando: Feudi inclusi, perché ne determinavano la Geopolitica, quindi compresi i Regni delle Due Sicilie e di Sardegna e Corsica nonché l’Eredità Matildina; escludo l’Aragona e l’Inghilterra perché non sono rimasti tali nei secoli della “resa dei conti” geopolitica, XVI-XVIII)?

La scelta sembrerebbe ardua, ma se consideriamo che 1) i Longobardi erano, per tutta la durata del Regno (indipendente), una Comunità Etnica distinta da quella dei Romani, nonostante la prevalente comunanza di Confessione dopo il 612, 2) benché di fatto di origine mista (come del resto gli altri Germani che hanno avuto Regni Romano-Germanici), nella percezione si consideravano ed erano considerati Germani, quindi intrinsecamente più vicini (per tutto) ai Franchi, Alamanni, Bavari &c., insomma ai Tedeschi in generale (tanto che parlavano tedesco, in particolare altotedesco, come Alamanni e Bavari e a differenza dei Franchi), 3) con Carlomagno il Regno Longobardo non cessa in alcun modo di esistere, ma solo comincia ad avere per lo più Re di origine – patrilineare – franca (poi alamannica), allora diviene chiaro che, a meno di voler troncare la Storia Longobardica con la sconfitta di Desiderio (ma per quali ragioni? Sarebbe come troncare la Storia d’Inghilterra da Guglielmo il Conquistatore in poi), la maggior parte della Storia Longobardica è stata parte della Storia Tedesca e ha avuto Capitale e Confini inglobati da una Capitale esterna e da Confini più ampi; perciò la risposta alla domanda di cui sopra è che la Geopolitica dell’Italia con Capitale Roma è piuttosto la continuazione della Geopolitica dello Stato (Pontificio) con Capitale Roma che dello Stato (Longobardo e Tedesco) con Capitali Pavia (e Aquisgrana, Praga, Vienna &c.).

Di conseguenza, Vittorio Emanuele II non riprende da dove aveva lasciato Astolfo: è Carlomagno che riprende da dove aveva lasciato Astolfo, dopo di lui i suoi Successori fino a Carlo il Grosso, poi Ottone Magno e i suoi Successori, poi sicuramente Enrico IV, il Barbarossa, Federico II il Grande di Svevia, Arrigo VII, Ludovico il Bavaro, Sigismondo, Carlo V, Giuseppe I (la Guerra di Comacchio! Quanto dista da Ravenna?), Carlo VI e perché no Metternich (Ferrara...) da Francesco II/I a Francesco Giuseppe. Nella lista potremmo includere anche Napoleone, certo, come pure Umberto I, che significativamente risiedeva a Monza e intendeva cingere la Corona Ferrea, ma allora anche Hitler, se la medesima Corona è stata preventivamente trasferita fuori dalla Repubblica Sociale (ma ormai il destino del Reich era segnato dalla Dichiarazione di Guerra agli Stati Uniti e quindi si tratta di episodî condannati a finire abortiti).

Vittorio Emanuele II di fatto annette il Regno di Sardegna (nel frattempo estesosi al Lombardo-Veneto e alle Secondo- e Terzogeniture Asburgiche e Borboniche, comprese le Due Sicilie) allo Stato Pontificio, che viene trasformato in Monarchia Ereditaria della Dinastia Sabauda, ma resta uno Stato con Capitale Roma (reintegrato – tranne Avignone, la Corsica e la Reichskirche, a parte poi Trento, Bressanone e già prima Aquileia – di tutti i suoi Feudi, che non aveva mai cessato di rivendicare). Così come lo Stato di Milano – che pure era Feudo Imperiale, quindi non Sovrano – viene considerato lo stesso sia che fosse sotto gli Arcivescovi (per esempio Ariberto d’Intimiano) sia con i Torriani, i Visconti o gli Sforza e perfino gli Asburgo (anche da parte della Storiografia Risorgimentale, incredibile a dirsi), così lo Stato di Roma – anch’esso considerato il medesimo in continuità storica, prima come Ducato Bizantino, poi come Vassallo dell’Impero, poi Sovrano – è rimasto tale anche quando è passato (inversamente che la Polonia-Lituania) da un Sovrano Elettivo a uno Ereditario Dinastico (solo per cinque mesi – esclusi gli anni nell’Impero Napoleonico – Roma non è stata Capitale dello Stato di cui faceva parte): il movimento per Roma Capitale è stato di... capitale importanza storica, perché ha trasformato un ex-Stato dell’Impero in un insieme di Provinc(i)e dello Stato Romano (prima Monarchia, poi Repubblica Romana).

Per riassumere: Astolfo perseguiva una Geopolitica da Re dei Longobardi, il Regno dei Longobardi è inconfutabilmente continuato sotto Carlomagno fino a Francesco II, poi in pratica è rinato con Napoleone e di nuovo innegabilmente continuato nel Lombardo-Veneto col medesimo Francesco I fino a Francesco Giuseppe: molti di loro, quando hanno potuto, hanno usato come Capitale (anche) Pavia o Milano, mentre solo Ottone III ha posto la Capitale a Roma. Invece Vittorio Emanuele II ha sùbito spostato la Capitale a Roma appena ne ha avuta la possibilità e quindi è stato come Guglielmo il Conquistatore nel caso dell’Inghilterra. La continuità istituzionale, politica e geopolitica è dunque da un lato Alboino-Astolfo-Carlomagno-Francesco Giuseppe, dall’altro dai Papi a Vittorio Emanuele II alla Repubblica Italiana.
Questa non è un’opinione, è continuità concreta e giuridica dello Stato; ma la Storiografia Borbonica, Prussiana e Sabauda (nonché Pontificia) negano la prima (dalle Dinastie Longobarde ai Carolingi e agli Asburgo) e occultano per contrapposti interessi la seconda (dal Papato all’Italia), altrimenti non ne discuteremmo.

In sede ucronica è prevedibile la domanda: se Astolfo o un suo Successore avesse conquistato Roma, vi avrebbe spostato la Capitale?

Relativamente ai suoi Successori, il fatto è realmente accaduto e la risposta storicamente esatta è: no, tranne Ottone III; quanto ad Astolfo o ai suoi immediati Successori, il fatto che non vi fosse nessun indizio di voler spostare appena possibile la Capitale a Ravenna fa escludere, a maggior ragione, Roma. È un punto fondamentale e ancora una volta ci mostra la differenza fra Astolfo e Vittorio Emanuele.

Per le altre Città Imperiali, che la Capitale fosse a Vienna o a Roma comporta una differenza relativamente ridotta; per lo Stato in generale e la sua Geopolitica, tuttavia la differenza è cruciale, non perché Vienna abbia trascurato direttrici geopolitiche che Roma avrebbe avuto, ma perché Roma ha trascurato direttrici geopolitiche che Vienna avrebbe avuto e ciò per il rapporto (cui accennavo nel penultimo messaggio prima di questo) fra Capitale e Confini: la distanza da Roma ai Confini dello Stato Italiano è il raggio di una circonferenza che può comprendere al massimo gli obiettivi immediati dell’Imperialismo Italiano e che si ritrovano, per esempio, sull’etichetta (rotonda) del formaggio Galbani, mentre la – molto maggiore – distanza da Vienna ai Confini del suo Stato include come minimo tutta la Germania, l’Italia, l’Ungheria e la Polonia o meglio, in generale, la Slavia Romana, dunque quattro delle cinque Nazioni (l’altra è la Spagna) di cui gli Asburgo sono stati la principale Dinastia Nazionale. In pratica, la Geopolitica dell’Italia Romana è un sottoinsieme, (meno di) un quinto della Geopolitica Asburgica. Per questo l’“Indipendenza Italiana” (= l’annessione della metà meridionale del Sacro Romano Impero allo Stato di Roma) è così gradita alle Potenze esterne...

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