L'ucronia di Spartaco

di William Wallace


L'anno 73 a.C. vide la prima grande rivoluzione sociale della storia, 1800 anni prima della rivoluzione francese, e quasi duemila prima di quella d'Ottobre: uno schiavo trace, Spartaco, spezzato il giogo che ne faceva un ingranaggio della grande industria dello spettacolo romana, riesce ad impegnare per 3 lunghi anni le legioni di Roma, seminando il panico nelle campagne intorno a Capua e accendendo la fiamma della speranza nel cuore di centinaia di migliaia di schiavi. 70 anni prima di Cristo, un uomo sceglie le armi per denunciare l'abominio della schiavitù e per proclamare l'uguaglianza tra gli uomini, richiamando intorno a sé più di 150.000 persone. Per 3 anni il suo nome evoca la minaccia più grande per Roma, finché Crasso non riesce a porre fine alla "guerra servile" nel 71 a.C.: il corpo di Spartaco viene fatto a pezzi sul campo di battaglia e non sarà mai più ritrovato, mentre 6000 uomini del suo seguito vengono crocifissi sulla via Appia, nel tratto che da Roma porta a Capua, ove tutto ebbe inizio. Fin qui i fatti come la storia ce li ha riportati. Ma cosa sarebbe successo se...

Ecco l'idea di William Wallace: Spartaco marcia verso sud, non perde la battaglia con Crasso, si allea con i pirati che ne agevolano lo sbarco in Sicilia, la terra degli schiavi per eccellenza. questi, appena saputo dello sbarco, si sollevano contro i romani e nel giro di pochissimo tempo conquistano l'isola. Spartaco viene acclamato "tiranno" così come Dioniso 200 anni prima, ma questi opta per un triumvirato, il primo della storia, con al fianco Crixo e Davide. I pirati trovano nell'isola un rifugio sicuro e divengono flotta ufficiale dei ribelli, prendendo di mira le navi romane e le navi che commerciano con Roma. Spartaco si rende conto che il suo governo non può durare a lungo se Roma richiama le proprie legioni e dunque decide di stipulare un accordo segreto con Cartagine, che ha profondi motivi di risentimento verso la stessa Roma. Spartaco abolisce la schiavitù in Sicilia, che da quel momento diviene casa sicura per i fuggiaschi di qualsiasi tipo. il grano da lei prodotto viene smerciato a tutti eccezion fatta che per Roma e i regni ad essa collegati, in un periodo storico in cui produceva grano per quasi la metà del mondo civilizzato. L'alleanza con Cartagine daà i suoi frutti, tanto che questa osa espellere i sorveglianti romani che la città eterna aveva imposto a seguito delle pesanti condizioni di pace. Ma veniamo al testo.

 

Spartaco ha un volto dai lineamenti decisi, avvolto da folti capelli neri e ricci, ma addolcito da un'espressione strana, che certo non dovrebbe appartenere ad un uomo della sua condizione. E' innamorato della vita e alla vita si aggrappa con tutte le sue forze. Batiato lo pesca nelle miniere di Nubia, il luogo più inospitale del mondo, ove incatenato, per 14 ore al giorno, insegue le vene aurifere all'interno della montagna. La vita media di uno schiavo in quelle miniere è di 2 mesi. Spartaco vi sopravvive per 3 anni. Finché un emissario di Batiato appunto, non lo acquista per poche ghinee sbarcandolo ad Anzio.

Ma la presa di coscienza del suo essere inizia molto prima del suo arrivo a Capua. Spartaco non è che un ragazzino quando segue attentamente gli insegnamenti del padre. Impara a memoria i poemi omerici affinché si rammenti sempre del popolo al quale appartiene.

Gli insegnamenti migliori è la vita ad offrirglieli: a 7 anni perde entrambi i genitori, a 12 vede il fratello morire stroncato dai postumi di un incidente in miniera. Cresce in fretta Spartaco. E con lui cresce il desiderio di giustizia.

"Gladiatore, non farti amici tra i gladiatori", il consiglio con il quale Batiato accoglie ogni nuovo atleta, rimbomba ancora nelle orecchie di Spartaco, mentre sbatte velocemente gli occhi che ancora faticano ad abituarsi alla luce del sole. Respira a pieni polmoni Spartaco, memore di quando in miniera avrebbe barattato volentieri il suo pasto per una boccata d'aria fresca, e lentamente comincia a riassaporare la vita. Stringe subito amicizia con Crixo, un gallo, e con Davide, un ebreo, vincendo la loro diffidenza con le sue armi migliori: il sorriso e quell'aria innocua che, complice il naso rotto, gli valgono il soprannome di "faccia da pecora".

Sulla sabbia dell'arena si guadagna invece il rispetto del lanista e una certa fama tra le schiere di nullafacenti che si affollano davanti ai cancelli della scuola per seguire gli allenamenti degli atleti.

Ma la conquista più bella per Spartaco è Varinia, una schiava gallica che Batiato gli mette a fianco per scherno, ma che finirà per essere la sua compagna per tutta la vita. E' spaventata, Varinia: ha appena rifiutato il lanista, che ora spera di essere vendicato nell'onore dal suo gladiatore.

Spartaco le parla tranquillo, prima in latino, poi in greco per essere sicuro che abbia capito: dormirà sulla pietra, lasciandole il suo giaciglio.

Varinia lo guarda in modo strano, ma fa cenno di sì con la testa. L'indomani si svegliano entrambi sulla pietra: nessuno dei due ha avuto il coraggio di toccare il giaciglio.

I giorni passano velocemente e mentre Varinia impara ad amare l'uomo che le è stato messo accanto, questi impara a primeggiare con la spada trace, divenendo in breve uno dei migliori protagonisti degli spettacoli di Lentulo Batiato.

Una sera, poco dopo che la pesante porta della loro cella si è richiusa alle loro spalle, Spartaco si avvicina a Varinia, i cui occhi sono ora accesi di una nuova luce, e le chiede di sposarlo. Le spiega, incerto se lei capisca fino in fondo, che non sarà il contubernium a legarli, ma il matrimonio secondo l'usanza trace, quello che tuttora i contadini di quell'antica e fiera regione, liberi dal giogo romano, praticano. Varinia comprende solo ora quali siano i suoi sentimenti verso quell'uomo, e solo ora, forse, comprende davvero quanto grande sia quel piccolo schiavo. Spartaco le prende la mano e la stringe forte nella sua, poi cinge le loro mani con un nastro e con l'altra le porge un pezzo dello stesso pane, mentre lei fa altrettanto con lui. Il loro amore, nato nel silenzio e al riparo dagli sguardi del mondo, viene celebrato così in eguale silenzio, protetto dalle spesse mura di pietra che li circondano.

In una delle prime giornate di giugno la scuola è pervasa da una certa agitazione che scuote gli atleti: alcuni nobili sono giunti da Roma per godere di uno degli spettacoli di Batiato e hanno raggiunto l'accordo per lo scontro di tre coppie all'ultimo sangue. Spartaco è tra i prescelti, che vengono immediatamente isolati dal resto del gruppo, portati alle vasche dove vengono lavati e cosparsi di olii ed essenze e massaggiati. Il silenzio più cupo regna intorno questi uomini, ma Spartaco non perde la sua espressione serena. Si guarda intorno in cerca di Varinia, per poterla osservare, chissà, forse per l'ultima volta. Il numida che gli è stato messo contro gli si avvicina e gli sussurra che non combatterà e che non morirà dando soddisfazione ad un romano. Spartaco non capisce, ma lo tranquillizza con lo sguardo e con la gentilezza dei suoi modi. I servi di Batiato conducono gli atleti alle porte dell'arena in legno improvvisata dal lanista, ove vengono loro consegnate le armi. Spartaco e il numida combatteranno per ultimi. Mentre al di là delle porte le urla e lo scintillio delle armi della prima coppia si affrontano, Spartaco osserva il suo avversario sudare copiosamente e ripetere come una cantilena che non combatterà per dileggiare i romani. Gli altri atleti lo credono pazzo, ma Spartaco sente che qualcosa dentro di lui si sta risvegliando. E' scosso e non sa più che pensare. Vede il padre e ne osserva le labbra muoversi articolando parole che però non riesce a distinguere. "Non ti sento padre, parla più forte", lo implora.

"Gladiatore, è il tuo turno". La voce di uno dei soldati romani che Batiato ha ingaggiato a difesa dei cancelli della scuola, lo riporta alla realtà. La coppia entra nell'arena, mentre sugli spalti il gruppo di nobili romani applaude. La sabbia è inzuppata di sangue ed ha la consistenza del fango. A spartaco sembra di affondare su quella viscida superficie e a fatica guadagna il centro dell'arena. "Gladiatori! Che gli dei vi donino una morte gloriosa, e che noi possiamo godere di un tale spettacolo!" La voce del lanista rimbomba nelle orecchie di Spartaco: è un attimo, il numida lancia un urlo infernale e si lancia verso le tribune. Travolge due soldati romani, squarciandone i corpi con il tridente, e inizia la scalata al muro che lo divide dagli spettatori. Ha appena poggiato una mano sulla balaustra quando avverte un bruciore al fianco e poi un altro e un altro ancora. Le daghe romane affondano nella sua carne e ne fanno scempio. Spartaco è scosso, ma la voce del padre è finalmente chiara nelle sue orecchie "Metti fine a questo spettacolo. Spezza il giogo e distruggi questa macchina infernale che fa del disprezzo della vita umana il suo emblema. Il numida aveva capito, Spartaco".

Varinia lo riabbraccia e piange, felice di riavere il marito fra le sue braccia. "Che gli dei siano lodati per averti riportato da me salvo, Spartaco".

Varinia lo fa sdraiare e prende a massaggiarne i muscoli ancora tesi, sperando di risvegliare la vita in quel corpo stanco. Spartaco, in realtà, non si è mai sentito più vivo che in quel momento. Sente il sangue scorrere con nuova foga nelle sue vene, la mente libera da ogni legame col mondo. E prega, Spartaco, per il numida che gli ha aperto gli occhi.

L'indomani gli atleti sono riuniti nel cortile centrale per il pranzo. C'è silenzio ovunque perché Batiato è infuriato con tutti. La fama della sua scuola e la sua di allenatore hanno subito un grave danno. Perderà molto denaro a causa della follia del suo atleta. La mattina stessa ha fatto uccidere un numida come monito per gli altri gladiatori. Tra i tavoli serpeggia il malumore e dilaga l'odio. Gli sguardi che gli atleti si scambiano elettrizzano l'aria. Crixo si avvicina a Spartaco: "Facciamolo ora. Ci sono solo 5 soldati, gli altri sono fuori dalle porte del refettorio. 20 in tutto. E noi siamo 70. E valiamo molto di più di loro, amico mio".

Spartaco fa di sì con la testa. I gladiatori si alzano tutti insieme e si scagliano sulle guardie uccidendole. Spogliano i cadaveri delle armi, mentre dalle cucine le donne accorrono portando coltelli, pentole ed ogni altro oggetto che possa essere usato come arma dai loro uomini. La porta della sala viene aperta dai soldati romani presenti all'esterno che, attirati dal rumore, sono pronti ad intervenire per sedare l'ordine. Gli atleti si scagliano con rabbia contro i soldati uccidendoli tutti. Il caso vuole che sia un numida ad uccidere l'ultima guardia. E'la benedizione del cielo a quella piccola impresa.

I gladiatori e gli schiavi della scuola, 200 in tutto, iniziano una lunga marcia verso le campagne di Capua, cercando di allontanarsi il più presto possibile dalla città e soprattutto dalla corte urbana lì distaccata. La notizia della rivolta nella scuola si diffonde presto e raggiunge le orecchie del comandante della corte urbana di Capua, il quale decide di partire con i suoi uomini per sedare la ribellione. La corte urbana sfila per le strade di Capua avvolta in manti finissimi adornati da schinieri e armature di bronzo. E'composta dai rampolli della borghesia e della nobiltà alla loro prima esperienza nell'esercito ed è assegnata a compiti di ordine pubblico per il quale contano più il luccichio delle vesti che la forza della spada. La marcia attraverso le campagne è una sofferenza per i soldati romani. Gli schinieri e l'armatura in bronzo diventano roventi sotto il sole estivo e bruciano le carni degli uomini. I sandali stretti causano bolle e fiacche ai piedi di quel manipolo. L'inesperienza fa il resto.

I circa 200 uomini della corte urbana, sorpresi dalle tenebre, decidono di montare il campo nelle campagne. I gladiatori ne vengono immediatamente informati dai sempre più numerosi schiavi che scappano dalle ville romane per unirsi ai fuggitivi. Spartaco si consulta con Davide e Crixo. Decidono di attaccare il campo durante la notte. I soldati romani vengono giustiziati nel sonno. I pochi che si svegliano si ritrovano con la gola squarciata prima di riuscire a comprendere che cosa stia accadendo. Viene risparmiato un solo soldato, affinché porti un messaggio al Senato: "Che Roma inizi a tremare, perché la sua fine è vicina". Le armi e le armature della corte urbana vengono ammassate su un carro e portate via.

"Che cosa facciamo adesso?", domandano a Spartaco. Lui non risponde, in realtà non sa cosa fare. Sa di odiare Roma per quello che rappresenta.

Vorrebbe vederla distrutta, mettere a ferro e fuoco il Senato, cuore e mente di quell'essere diabolico, ma sa anche di non poterla affrontare con quel suo manipolo d'uomini. Non ancora perlomeno. "Marceremo verso Sud", annuncia Spartaco.

Gli uomini si rimettono così in cammino, iniziando una lunga marcia vittoriosa nelle campagne campane che frutta loro centinaia di nuove forze: alcuni hanno ucciso i loro padroni, altri sono semplicemente scappati, molti portano con sé tutto quanto nella fuga sono riusciti ad accaparrarsi ritenendolo utile alla causa. E così, da un manipolo di uomini, Spartaco, Crixo e Davide si ritrovano a comandare una schiera che cresce inesauribilmente di numero, giorno dopo giorno.

Al Senato, intanto, è il giorno del superstite risparmiato dagli schiavi perché annunciasse a Roma la sua fine. Viene fatto entrare nell'assemblea e incoraggiato a parlare descrivendo gli avvenimenti di cui era stato testimone. L'uomo racconta così delle notizie confuse che giunsero a Capua quel pomeriggio, riguardo una ribellione di schiavi alla scuola di Lentulo Batiato e della decisione del comandante della milizia cittadina di mettersi immediatamente alla ricerca dei ribelli per sedare la rivolta. Racconta della sfilata dei soldati, racchiusi nelle loro lucenti armature da parata, e delle due ali di folla che si aprivano al loro passaggio, acclamandoli e della sensazione di smarrimento che si impossessò del gruppo non appena questo si trovò a poche miglia dalle porte cittadine. Il silenzio che regnava nelle campagne appesantiva l'aria e gli uomini rallentavano il passo guardandosi intorno con circospezione, nel timore di una qualche imboscata.

Fu così che a nemmeno una decina di miglia dalla città la notte li sorprese.

Il racconto dell'uomo procedeva a fatica, sospinto dall'impazienza dei patres. E così, tra le lacrime, l'uomo raccontò di quella maledetta notte.

Il comandante aveva scelto come posto per montare il campo le campagne vicino ad una villa, ove era certo avrebbero trovato di che sfamarsi per quella notte, ma il manipolo mandato ad approvigionare il resto del gruppo tornò a mani vuote e con le facce sconvolte: i proprietari erano stati trucidati dagli schiavi e quanto alla villa, questa era stata ripulita da cima a fondo di ogni cosa. Si decise così di montare il campo, ma si trascurò di porre in essere le fortificazioni che solitamente accompagnano ogni campo romano in vista della ripresa immediata della marcia all'alba, limitandosi a porre in essere una sola cerchia di sentinelle. Certo di aver adempiuto ai suoi doveri di comandante e del fatto che nessuno schiavo avrebbe mai osato attaccare un esercito di Roma, l'illustre C. si ritirò nella tenda dalla quale certamente non sospettava non sarebbe mai più uscito. Il racconto si interruppe nuovamente e questa volta i senatori non trattennero la stizza: "Maledetto idiota, prosegui, che è successo dopo?!".

L'uomo riprese a parlare tra gli insulti del suo pubblico, mentre lacrime di dolore presero a scendere copiosamente sul suo viso. Gli uomini smisero le armature e si coricarono mentre il fuoco ardeva al centro dell'accampamento.

Anche lui prese sonno e nessuno si accorse che gli schiavi avevano tagliato la gola alle sentinelle ed erano penetrate nel campo. Si svegliò che era ancora buio, ingannato dal calore che si diffondeva lentamente sul suo corpo. Aprì gli occhi, si tastò il petto e subito sentì la mano impregnarsi di un liquido denso e caldo. Scosse il suo vicino che si voltò con gli occhi sbarrati e una profonda ferita alla gola. Fu preso dal panico, vide figure di spettri che si aggiravano nella notte, saltando da un corpo all'altro e mietendo quel tetro raccolto. Si infossò sotto il compagno ucciso e trattenne il fiato e ogni più piccolo movimento fino all'alba. Con le prime luci lo spettacolo si fece ancor più tremendo: ovunque era una distesa di corpi senza vita e la terra era impregnata dell'odore e del sapore del sangue. Gli spettri ora si aggiravano tra i cadaveri esaminandoli uno ad uno e finendo quelli che ancora non erano morti. Voltarono anche il suo compagno e così trovarono lui, che ancora tratteneva il respiro. Lo schiavo stava per ucciderlo quando una voce alle sue spalle gli ordinò di fermarsi. "Che c'é, Davide?" e quello rispose "Portiamolo a Spartaco". Fu così che un romano vide per la prima volta in faccia Spartaco il ribelle; stava seduto nella tenda del comandante, a fianco del letto in cui C. giaceva senza vita, scrutando il sopravvissuto da dietro quei suoi grandi occhi neri. L'uomo venne spinto in avanti e si avvicinò con riluttanza a quello che aveva capito dover essere il capo di quella accozzaglia di uomini. Stette immobile per degli attimi che parvero inteminabili, poi Spartaco, guardandolo negli occhi, disse: "E così tu saresti espressione di quella razza d'uomini che si vanta di aver soggiogato il mondo. E spiegami, come ci siete riusciti? Combattendo con valore come avete fatto questa notte? Porterai un messagio ai padri senatori: Che Roma inizi a tremare, perché la sua fine è vicina".

Il soldato romano cadde in ginocchio davanti ai senatori come se il racconto avesse consumato tutte quante le energie che gli erano rimaste. Fu raccolto da due inservienti che lo portarono via, chiudendo alle loro spalle la porta della sala, lasciando i padroni del mondo soli di fronte alle proprie responsabilità.

Spartaco marcia alla testa dei suoi schiavi, cercando di mettere quanto più spazio possibile tra sé e Roma, costringendo i suoi uomini ad una marcia forzata. Vengono percorse 20 miglia ogni giorno, per una settimana. Poi, finalmente, Spartaco decide di fermarsi e far riposare la sua schiera eterogenea, composta non solo di uomini, ma anche di donne, bambini e anziani. Tutti per la prima volta respirano un'aria che sa finalmente di libertà. Si guarda attorno, Spartaco, e pensa a come quel manipolo d'uomini che solo 10 giorni prima era costituito dai suoi pochi compagni d'armi, vada infittendosi sempre più, aumentando a dismisura. Le campagne a Sud di Capua sono ormai deserte, le ville distrutte e quel poco che non è stato distrutto, saccheggiato. Non c'è più uno schiavo nel raggio di 40 miglia dalla schiera capeggiata dal trace. E' una prima, piccola vittoria. Varinia osserva il suo uomo, cercando di intuirne i pensieri; ne segue lo sguardo, che sembra perdersi ora oltre gli appennini che ne sbarrano la marcia, ora oltre l'orizzonte alle sue spalle, dova immagina essere Roma. A niente valgono, però, i suoi tentativi di varcare la cortina dietro cui Spartaco nasconde i propri pensieri. 
Spartaco sembra accorgersi solo ora dello sguardo di Varinia: sorride, le stringe la mano e attirandola a sé la avvolge in un abbraccio.

"Onorevoli patres, avete sentito tutti il racconto del soldato. Tocca a noi lavare l'onta subita e decidere come sedare la rivolta. Cedo la parola al venerabile senatore Gaio" Un uomo non più giovane si alzò e si diresse a passi cadenzati al centro della sala, prendendo posizione davanti al suo uditorio. "Senatori, sarò breve" esordì. "Roma ha subito un duro affronto, è vero. E non spetta certo a me rammentarvi delle proprietà che molti onesti cittadini e alcuni di noi possiedono nella zona dove questo Spartaco e i suoi stanno facendo razzia in questo preciso istante. Sono quindi dell'opinione che serva un'azione energica e rapida, per estirpare la gramigna prima che questa germogli e si moltiplichi infestando l'Italia. Propongo a voi, miei cari colleghi, di richiamare la legione di stanza in Apulia e di inviarla a fronteggiare gli schiavi". Un brusio si alzò dagli spalti e il vecchio Gaio indovinava , leggendo lo stupore sui volti dei senatori, lo sdegno che aveva suscitato la sua richiesta conclusiva. Richiamare la legione significava ammettere che Roma temeva la sua feccia. "Onorevoli patres, vi prego, ordine. Il senatore Gaio ha espresso la sua opinione. Vi prego, silenzio. Il senatore Tiberio chiede la parola". Un giovane dai lineamenti sottili si alzò, raccogliendo gli incoraggiamenti dei compagni che gli sedevano vicino, e, con voce sicura, prese a parlare. "Senatori, il nostro venerabile Gaio tradisce la sua età: è proprio dei vecchi, infatti, scorgere il pericolo laddove non c'è o sopravvalutare quello esistente. E converrete con me che smuovere una legione sarebbe come usare un mortaio per schiacciare un insetto" le risate dei patres interruppero il giovane che, volgendo un ampio sorriso al collega Gaio, riprese: "Vi chiedo, padri, di votare a favore della mia proposta: inviare le milizie urbane e le riserve di Napoli e Misenum ad affrontare questo schiavo" Un fragoroso applauso accolse questa richiesta e non vi fu dubbio neglio occhi di Gaio sull'esito delle votazioni ancor prima che queste avessero luogo. Il vecchio senatore osservava calmo il suo giovane avversario, nascondendo la rabbia che ribolliva dentro di sé per il modo in cui Tiberio lo aveva ridicolizzato davanti al suo uditorio. Ricordava bene il padre di quell'uomo, Aureliano, suo acerrimo avversario ai tempi dell'ascesa di Silla e partigiano di Mario: inevitabilmente la caduta di quest'ultimo aveva finito per trascinarlo con sé e fu il primo nome che Gaio fece a Silla per l'epurazione del senato. Ora Gaio aveva di fronte il figlio, e si rese conto di quanto questi assomigliasse al padre. Rimpianse i tempi delle purghe e dentro sé pregò affinché Spartaco vivesse abbastanza da concedergli la sua vendetta. 

Gli schiavi avevano improvvisato un campo, nell'intenzione di fermarsi l'indispensabile per recuperare le forze in vista della ripresa della marcia, ma Spartaco e gli altri, al momento di riprendere la marcia, dovettero fare i conti con la ritrosia dei più, ancora doloranti per le miglia percorse. Spartaco si consulta con i suoi due luogotenti, Crixo e Davide, e decide di concedere altri tre giorni di sosta ai suoi uomini, con la promessa che saranno pronti per la ripresa della marcia all'alba del quarto giorno. 
Nel frattempo, Crixo viene mandato con un piccolo manipolo a pattugliare la zona circostante in un raggio di 20 miglia a ovest del campo, la direzione da cui Spartaco teme di poter essere attaccato. Davide, invece, si reca a Sud, alla ricerca di una strada che permetta agli schiavi di varcare l'appennino campano senza troppe difficoltà. Spartaco, nel frattempo, muove verso Nord alla ricerca di cibo insieme ad un piccolo gruppo di suoi compagni della scuola di Capua. La vita al campo prosegue nell'illusione che tutto possa durare e così, accanto alle esercitazioni militari cui Spartaco costringe tutti gli uomini, si scorgono donne che rassettano il campo e si occupano delle tende come se fossero le ville romane nelle quali, in un tempo che pareva loro lontano, avevano lavorato.

"Dimmi Stico, da quanto sei al mio servizio?" chiese il senatore Gaio al suo giovane servo.
"Dalla nascita, mio signore" rispose quello.
"Bene, mio caro Stico. Ti sei sempre trovato bene qui con me, vero? Ricordo ancora tua madre, una bellissima donna. Ho amato molto tua madre, ma questo lo sai. Ciò che forse non sai è che anche tu mi sei caro. Eh sì, invecchio, e per tua sfortuna non ho figli perciò sei tu a dovermi sostenere, Stico". Il vecchio fece una pausa, per essere certo di aver aperto una breccia nel cuore del suo schiavo, e poi riprese: "Ho un compito molto delicato per te. Avrai certamente sentito parlare della rivolta degli schiavi di Capua. E sono sicuro che anche tu sai che moriranno, tutti. Ma non è ancora giunto il tempo in cui questo avverrà. Voglio che ti dirigi a Sud e che ti unisca a loro. Voglio che tu dica a Spartaco, il capo dei ribelli, che Roma sta inviando loro incontro le milizie urbane e i riservisti da Napoli e Misenum, forse un migliaio d'uomini in tutto. Digli che viaggeranno a marce forzate e che li raggiungeranno per il nascere del sole da qui a cinque giorni. Naturalmente dirai di essere fuggito da una villa della campagna capuana. Ecco, è tutto. Prendi Icaro, e fai in fretta" Stico fece un cenno col capo, si inchinò e si voltò, dirigendosi verso l'uscio. "Ah, dimenticavo! Tieni lontano quella mandria dai miei vigneti di Benevento" 
Stico chiuse la porta dietro di sé e si diresse verso le scuderie. Qui montò in sella ad Icaro, un puledro arabo cui Gaio era affezionato, ma che avrebbe sacrificato per la sua causa, e si diresse al galoppo verso Sud, lasciandosi alle spalle la città eterna. 

Nel primo pomeriggio del secondo giorno concesso da Spartaco ai suoi uomini, Crixo e i suoi ritornano al campo trafelati: cercano Spartaco, interrogano Varinia, ma nessuno ha idea di dove il trace possa trovarsi. Un bambino infine suggerisce loro di provare lassù, sopra un piccolo promontorio su cui Spartaco sembra spesso trovare la solitudine. Crixo si precipita a grandi falcate su quello spuntone di roccia e trova Spartaco assorto, lo sguardo perso oltre l'orizzonte. "Amico" esordì ansimante il gallo, "abbiamo grandi novità. Durante uno dei nostri giri di perlustrazione ci siamo imbattuti in uno schiavo. Ti aspetta al campo, ha cose importanti da riferirti" Spartaco balzò in piedi e non senza fatica prese a correre dietro al compagno, incuriosito da ciò che aveva potuto mettere le ali ai piedi di quell'uomo così tozzo. 
Giunsero in breve a valle, ove il gruppo di schiavi, che ammontava ormai a qualche migliaio di anime, si era stretto in cerchio attorno ad un uomo e al suo magnifico cavallo. Spartaco si aprì la strada tra due muraglie di uomini che si aprivano e richiudevano al suo passaggio e raggiunse l'uomo. Questi era un giovane sulla ventina, alto, ben strutturato e ben nutrito. "Eccomi, sono Spartaco. A quanto pare hai qualcosa di urgente da riferirmi. Ma prima dimmi il tuo nome." Il giovane fece un passo in avanti, si inchinò per forza d'abitudine, suscitando l'ilarità dei presenti, e rispose "Mi chiamo Stico, servivo in una villa di Capua prima che la rivolta scoppiasse. I miei padroni hanno lasciato la casa subito dopo lo scoppio dei disordini e sono tornati a Roma, mentre io e i miei compagni abbiamo trovato la fuga. Ci siamo incamminati verso Sud, seguendo le voci di quanti avevano visto passare la tua schiera, ma ieri ci siamo imbattutti nell'avanguardia di un esercito che, dicono, sia stato inviato ad annientarti. I miei compagni sono caduti per loro mano, mentre io solo sono riuscito a mettermi in salvo. Ed ora sono qui, per avvisarti che milizie sono in arrivo, a non più di un paio di giorni di marcia da qui. Ma ora ti prego, concedi a me e alla povera bestia che mi ha portato fin qui un po' di riposo". Gli occhi di Spartaco scrutano quel giovane dall'aria elegante e l'animale che lo aveva condotto fin lì, mentre Stico prega che la storia da lui preparata regga la diffidenza di quegli occhi scuri come la pece. Il volto di Spartaco si apre in un sorriso, poggia il braccio intorno le spalle del giovane, e dà lui il ben venuto in mezzo agli uomini liberi. Fa' un cenno a Varinia, affinché accompagni il suo ospite in una tenda e dia lui di che placare la fame. Poi, lentamente, si dirige verso la propria tenda, seguito da Davide e Crixo.
"Non mi fido di lui, Spartaco" cominciò Davide non appena la tenda si chiuse alle sue spalle."Guardalo, così ben in carne e con quell'aria da... romano. Uno come lui di certo non serviva in una villa di campagna. E' istruito, parla con linguaggio forbito. Da' retta a me, amico, quel ragazzo non mi convince" 
"Andiamo Davide! Voi ebrei non vi fidate mai di nessuno. E' solo un ragazzo. Chissà, magari è figlio di un qualche nobile caduto in disgrazia, magari è un greco. I greci sono colti di loro, guarda il nostro Spartaco!" ribatté Crixo.
Spartaco se ne stava seduto in silenzio, e infine disse: "Che sia o no quel che dice di essere, tre due giorni sapremo se ha mentito o meno. Dì agli uomini di prepararsi, Crixo".

L’avanguardia dell’esercito romano fu in vista a metà del secondo giorno, come Stico aveva preannunciato. Spartaco e i suoi luogotenenti se ne stavano quieti sulla rupe a lui tanto cara, osservando le schiere romane infittirsi. Contarono un migliaio di uomini, suddivisi in tre gruppi. Gli uomini erano armati alla leggera, e Davide riconobbe nelle loro insegne il simbolo delle milizie urbane. A quanto pare Roma era cocciuta e la lezione inferta ai “figli” della città di Capua non aveva dato i suoi effetti. In Crixo l’adrenalina cresceva e a stento riusciva ormai a trattenere l’eccitazione per la battaglia imminente. L’aria si era fatta pesante in tutto l’accampamento, che era stato velocemente abbandonato. Le donne e quanti non erano in grado di combattere furono fatti arretrare di circa mezzo miglio e Spartaco stesso aveva salutato la sua donna con un lungo e silenzioso bacio che a Varinia parve sapere di morte. La ragazza scacciò il pensiero e, tra le lacrime, strinse forte a sé il suo dio prima di sentire le sue mani scivolarle lentamente di dosso, abbandonando la presa. Stico si fece incontro a Spartaco e ansimando per la breve corsa disse: “Concedi a me l’onore di farti dono di Icaro, il cavallo del mio padrone. E’ veloce come il vento e certo degno di essere cavalcato da un uomo come te, Spartaco. E se vorrai, ordina pure che io combatta al tuo fianco” Spartaco sorrise, poggiò una mano sulla spalla di quel giovane e rispose: “Entrambi sappiamo che vi sono uomini nati per la guerra ed altri, amico mio, per le lettere. Tu certo appartieni a questa schiera, giovane Stico. Ma non te ne dolere, perché più grandi di Achille furono Omero e gli altri poeti. Prendi questa spada e va’, ti affido la mia donna. E se dovessimo uscire sconfitti, fuggite lontano. Quanto a Icaro, mi fai un grande onore. Ti ringrazio” Spartaco baciò il giovane che rimase turbato dalla profondità delle parole di quell’uomo. Si era sentito sempre superiore agli altri schiavi, perché per metà figlio di un uomo nobile e libero. Pensava di essere parte di un’elite e malediceva la condizione di sua madre, che gli aveva tarpato le ali, impedendogli di godere a pieno titolo dei diritti che gli spettavano. Ora, invece, se ne stava basito a guardare uno schiavo cavalcare con un portamento degno di un sovrano orientale. Quanto era strana la vita. 

Il brusio che aveva percorso l’aula cessò non appena fece il suo ingresso il senatore Gaio. Il suo passo cadenzato era ulteriormente rallentato dai suoi colleghi che gli si avvicinavano stringendogli la mano o inchinandosi al suo passaggio, in segno di rispetto. Aveva ottenuto la sua piccola rivincita. Solo Tiberio e i suoi fedelissimi se ne stavano seduti in un angolo della sala, masticando amaro. Il senatore più anziano aprì la seduta. “Nobili colleghi, certamente anche voi saprete della sconfitta nella quale sono incorse le nostre truppe in Campania. Il migliaio di uomini che avevamo inviato su proposta del nobile Tiberio è stato battuto. D’altro canto in Oriente Mitridate si fa sempre più insolente e dopo aver rifiutato di ritirare le sue truppe dalla Bitinia, ha attaccato un nostro avamposto distruggendolo. Per quanto riguarda la questione spagnola, Sertorio sta impegnando duramente l’esercito di Pompeo che, a quanto ci risulta, è bloccato ai Pirenei. Come vedete vi sono molte questioni importanti da discutere. Cedo la parola al nobile Gaio”
Gaio si alzò e si diresse al centro della sala. Prese a camminare avanti e indietro, come per solleticare la sua mente a mettere in ordini i suoi pensieri e a dar loro voce, mentre il senato lo osservava con crescente attenzione e curiosità. Che attore, pensò Tiberio. Poi, d’improvviso, alzò lo sguardo e, come meravigliato della presenza dei suoi colleghi, iniziò: “Miei cari, vi chiedo perdono, ma da povero vecchio quale io sono ho bisogno di un po’ di tempo per illuminare i miei pensieri” Un sorriso comparve sui volti dei senatori, che certo colsero l’ironia di Gaio all’indirizzo del giovane Tiberio. “Tre settimane fa, vi dissi che sarebbe stato più utile per Roma far marciare la legione su quel branco di miserabili. Certo, allora sembrò che l’onore di Roma ne potesse uscir danneggiato: se combattiamo delle bestie con le legioni, allora dovremmo schiacciare gli insetti a colpi di mortaio. Quali onori sono invece derivati alla nostra città dall’esser stata sconfitta per due volte dai nostri schiavi! Ma è tardi ormai per rimpiangere il passato. Quanto ai giovani che siedono in quest’aula, vorrei che il loro entusiasmo non li spingesse troppo in alto, affinché non capiti loro come al giovane Icaro e a noi, venerandi colleghi, di piangere come Dedalo la morte dei nostri figli” Gaio fece una pausa, cercando con lo sguardo Tiberio, per assicurarsi che avesse recepito il suo messaggio. Lo vide mordersi il labbro, e capì di aver colto nel segno. “Tre settimana fa richiesi una legione. Ora vi chiedo tempo” Il parlottare tra sentori si fece brusio e il brusio si impossessò dell’aula intera, costringendo il presidente a richiamare tutti all’ordine. Gaio proseguì: “Come allora anche oggi raccolgo brusio. Ma lasciate che mi spieghi meglio. Perché costringere gli schiavi al combattimento? Perché non lasciare che sia il tempo a giocare per noi? Tra non molto sarà autunno e poi verrà l’inverno. Le nostre messi lasceranno il posto ai pascoli e la terra diverrà dura come la pietra. Non troveranno più nulla di che sfamarsi e saranno costretti a tornare come pecore all’ovile, implorando pietà. Ciò che vi chiedo, colleghi, è di far terra bruciata intorno a loro nel raggio di miglia. In Apulia veglia la nostra legione, che sbarra loro la via verso Est. A Nord c’è Roma. Non rimane che il Sud. Sbarriamo loro la strada a Sud e poi spingiamoli verso Est, attraverso gli Appennini, verso la legione. Circondati e senza nulla di che vivere chiederanno la resa. Vi chiedo di inviare truppe a Sud e di concederne il comando al nobile Crasso” Gaio tornò a sedere, mentre i senatori presero a discutere animatamente fra di loro. Un senatore della fazione di Tiberio, un certo Caio, chiese e ottenne la parola. “Colleghi senatori, non possiamo permettere che una schiera di maiali vaghi incontrollata per tutta la Campania. L’onore macchiato di Roma va lavato col sangue e non certo con altro fango. Come potete concedere che si faccia terra bruciata intorno agli schiavi? Concordo col senatore Gaio quando questi suggerisce di costringerli a varcare l’Appennino, spingendoli incontro alla legione. Ma suggerisco di concedere il comando delle truppe a Marco Druso, un generale certo più esperto del giovane Crasso” Il senatore tornò a sedere, mentre l’anziano pater metteva ai voti le due proposte.
“Per quanto riguarda la proposta di inviare un esercito che da Sud incalzi gli schiavi: approvata.
Per quanto riguarda la proposta di fare terra bruciata intorno agli schiavi: respinta.
Per quanto riguarda la proposta di nomina a generale di Licinio Crasso: approvata.
Per quanto riguarda la proposta di nomina a generale di Marco Druso: respinta.
Bene. Ora passiamo ad analizzare gli altri argomenti all’ordine del giorno”

Spartaco torna al campo al galoppo: freme all’idea di riabbracciare Varinia e annunciarle la vittoria. Dalle grida di giubilo che si levano in lontananza capisce che la notizia lo ha preceduto, ma non per questo perde il sorriso che si apre occupando tutto il suo volto. Eccola Varinia, figura solitaria che primeggia in bellezza tra le sue compagne. Eccola gettare a terra la ciocca di capelli che ha rubato nel sonno al suo uomo. Eccola correre incontro al suo cavaliere, disarcionarlo come solo i migliori opliti sanno fare, abbracciarlo e baciarlo mentre questi cade rovinosamente sul prato. Eccoli piangere e ridere e piangere ancora. Spartaco le sussurra qualcosa all’orecchio. Varinia ride e fa cenno di sì con la testa. Spartaco si rialza, monta a cavallo e issa la sua compagna sulla groppa dell’animale, dà di sprone alla bestia e scompare all’orizzonte. Da dietro un albero Stico osserva la scena. Freme di gelosia, ma è solo un attimo: presto riacquista il controllo di sé e il suo sorriso amaro si trasforma in un ghigno malefico.

Crasso fece il suo ingresso nel salone addobbato, accolto da un servo che lo invitò a sedere e ad assaporare la prima uva di quella stagione, nell’attesa che il proprietario di casa li raggiungesse. Il giovane generale prese posto su una comoda poltrona e deliziò il palato col gusto dolce e succose di quell’uva. Quando Gaio entrò nella stanza, il generale non si accorse di nulla e Gaio fu costretto a sollevarsi dall’imbarazzo con un colpo di tosse. “Nobile senatore, perdonatemi se non mi sono accorto di voi” disse il generale balzando in piedi e abbozzando un inchino “ma le vostre messi producono cibo divino”
“Sono contento che apprezziate le mie viti, fortunatamente Spartaco e i suoi si sono tenuti a distanza dai miei poderi e con tutta probabilità il prossimo anno assaporerete il miglior vino che abbiate mai bevuto. So che vi è costato molto essere qui questa sera”
“Siete voi ad avermi fatto un grosso onore con il vostro invito, senatore” Crasso si rendeva conto di avere su di sé gli occhi indagatori di quell’uomo potente: da parte sua, si domandava come mai la scelta di affidare le manovre militari a Sud fosse ricaduta su di lui. Certo era un giovane di nobile stirpe, certo era un buon soldato, ma certo vi erano molte persone degne per quell’incarico. Una su tutte Marco Druso, il vecchio generale. 
“Forse ti starai chiedendo, mio caro generale, che cos’è che mi abbia spinto a rischiare la mia influenza in senato scegliendo te. La risposta è molto semplice: tu sei un ottimo cavallo, ed io raramente sbaglio quando si tratta di puntare su quello giusto. Sei giovane, è vero. Ma questo dopotutto non è un difetto. Hai appoggiato Silla e ci hai reso degli ottimi servizi” Crasso ebbe un sussulto: Silla faceva parte di un passato che aveva scelto di lasciarsi alle spalle. “Lo so, ti starai chiedendo come io faccia a sapere tutte queste cose: il fatto è che il denaro è un ottimo informatore, mio caro. Ma siedi e godi dei piaceri di questa tavola perché, a quanto dicono, il rancio nell’esercito non è gran ché”
Crasso si sdraiò su un soffice triclinio di seta purpurea e assaggiò un boccone di cinghiale ancora fumante.
“Toglietemi una curiosità, nobile Gaio” proruppe il generale “perché chiedere al senato di mettere a ferro e fuoco le campagne campane?”
Gaio sorrise, incredulo di fronte all’innocenza del proprio ospite. “Per una ragione molto semplice: controllo circa un terzo del grano proveniente dalla Sicilia e le messi campane arrivano sul mercato ad un prezzo che non deve scontare il costo del trasporto via mare. Avrei certo ottenuto un gran vantaggio, non credi? Ad ogni modo c’è Spartaco: i suoi schiavi hanno messo a ferro e fuoco le campagne e molti miei compagni senatori piangono la perdita dei loro raccolti. Ecco, ciò che ti chiedo è di lasciare che quel branco di disperati si aggiri affamato nelle campagne ancora per un po’. Giusto il tempo, diciamo, che i poderi perdano il loro valore e che gli sventurati proprietari si rivolgano al misericordioso Gaio affinché acquisti le loro proprietà per un prezzo ragionevole, diciamo la metà del loro valore. Vedi, finché Spartaco si aggira per la Campania nessun proprietario con un po’ di cervello coltiverà le proprie terre per poi veder mietere il raccolto dagli schiavi. E una terra incolta è buona solo per pascolare le pecore, senza contare che sul mercato vale meno della metà di un terreno fertile” Gaio sorrise al suo giovane interlocutore che non sembrava ancora convinto.
“Ma anche voi, senatore, possedete delle terre in quelle campagne, non è vero? Non temete che gli schiavi possano distruggere anche i vostri raccolti?”
“Mio caro, giovane generale. Non preoccupatevi delle mie terre. Anzi, lasciate che vi sveli un segreto. La maggior parte degli uomini ricchi si crede proporzionalmente intelligente all’ammontare delle proprie ricchezze. Nascono in un paesino merdoso e vengono a Roma in cerca di fortuna. Una volta messo da parte un discreto gruzzolo tornano nel loro paesino merdoso e comprano tutte le terre nel raggio di 20 miglia da quel buco che ha dato loro i natali. E così, basta una grandinata, o una stagione particolarmente secca, una carestia e quegli uomini ritornano ad essere quello che sono: degli idioti che provengono da un paesino merdoso. Le terre che posseggo laggiù non rappresentano neanche un decimo delle mie proprietà. Posseggo miniere in Africa, uliveti e campi di grano in Sicilia, a Taranto e a Brindisi, vigneti in Etruria. Che volete che mi importi di perdere un poggio di pochi ettari nel beneventano? E poi ho un buon motivo per credere che Spartaco non toccherà quelle terre. Diciamo che ha un debito di riconoscenza” Gaio scoppiò in una risata che strappò un sorriso al giovane Crasso. “Sia ben chiaro, mio generale: avrete anche voi la vostra parte. Sono pronto a ripagare i vostri servigi con moneta sonante”.
“A quanto ho capito tutto ciò che devo fare è non fare nulla”
“Non la metterei proprio così. Ricordati che del tuo operato rispondo io al senato. Diciamo solo che non mi interessa annientare Spartaco. Ciò che voglio è che viva abbastanza da renderci immensamente ricchi. Affrontalo, attaccalo, ma non trasformare una scaramuccia in una battaglia. Fai in modo che il senato non possa lamentarsi di come stai dirigendo le operazioni sul campo. Al resto penserò io, mio buon amico. E ora basta parlare di politica, lo trovo un argomento alquanto tedioso. Parlami piuttosto delle due orientali che mi hai portato in dono” 

“Voglio la testa di Gaio!” 
“Tiberio, controllati! Anche i muri hanno orecchie e Gaio è un uomo potente, un senatore! Non puoi pensare di ucciderlo e di cavartela. Ci saranno inchieste, senza contare il fatto che tutti sanno dell’astio che nutri nei suoi confronti. Da’ retta a me, non lasciare che l’ira ti annebbi la mente”
“Hai ragione, Caio, perdonami. Ma non posso sopportare l’idea che quel vecchio possa tenere in mano il senato. E come se ciò non bastasse, Pompeo e Crasso obbediscono ciecamente ad ogni suo ordine. Quell’uomo ha troppo potere, Caio” Tiberio tornò a sedere, abbandonando le sue membra stanche alla morbida poltrona orientale che suo padre aveva ricevuto in dono da Mario, parecchi anni prima. La rabbia per le sconfitte in senato lo aveva fiaccato nel corpo e nello spirito e il sogno di veder vendicato suo padre sembrava ormai sempre più lontano. Il potere di Gaio in senato si era enormemente accresciuto e le sue ricchezze sembravano aver comprato chiunque a Roma. Solo Caio e un gruppo ristretto di cavalieri avevano concesso il loro appoggio al giovane senatore che, sempre più solo, cercava un modo per risalire la china. 
“Mitridate” sbottò d’improvviso Tiberio.
“Cosa?” chiese Caio.
“Mitridate. Il senato non ha ancora trovato una posizione univoca al riguardo. Poniamo Lucullo a capo delle operazioni contro Mitridate e bilanceremo sul piano militare le forze di Gaio”
“Mi sembra un’ottima idea, Tiberio. Ma ti prego, lascia che sia io a parlare in senato”
“Sta bene. Alla nostra, Caio” I due amici brindarono riempiendo le loro coppe dell’ottimo vino rosso per cui le vigne di Gaio erano famose in tutta Roma. 

Spartaco, rinchiuso nella sua tenda in compagnia di Davide e Crixo, cerca una soluzione per quello che sarà un ostacolo arduo da superare: la venuta dell’inverno e le numerose gravidanze cui molte ragazze del campo sono andate incontro. Varcare gli Appennini in autunno inoltrato, col rischio di essere sorpresi dall’inverno ancora sui passi montani e di rimanervi bloccati, sembrava un azzardo. D’altro canto il bisogno di cibo e la necessità di sfamare 30000 persone era un problema la cui soluzione era impossibile da risolvere giorno per giorno. Occorreva un piano preciso, che permettesse loro di superare l’inverno senza troppe perdite, senza contare il fatto che avrebbero dovuto fronteggiare nuovamente Roma e i suoi eserciti. 
“Muoviamo verso Ovest, lasciandoci alle spalle le montagne. In pianura riusciremo certamente a procurarci di che sopravvivere con maggiore facilità. Certo c’è da tenere conto che i romani non ci lasceranno vagare del tutto indisturbati, ma preferisco morire combattendo che di freddo e stenti in montagna”
“E’ vero, Davide ha ragione. Varcheremo le montagne in primavera e sarà una passeggiata. Muoviamo verso il mare e solleviamo tutti gli schiavi che incontreremo sulla nostra via. Dopo la campagna di reclutamento invernale potremo anche decidere di marciare verso Roma e metterla al sacco”
Spartaco osserva i suoi due compagni indeciso sul da farsi. Anche lui non ha alcuna intenzione di mettere in pericolo la vita dei suoi compagni sui passi appenninici, e tuttavia non riesce a lasciarsi convincere dagli argomenti dei suoi amici. E’ certo che Roma non lascerà vagare per la pianura la sua schiera affamata e tuttavia non vede altra soluzione alla proposta dei due. Decide di rimanere da solo per riflettere e, abbandonati i suoi generali nella tenda, si incammina alla ricerca di un’ispirazione. Anche Varinia, come molte altre donne del campo, è incinta e Spartaco non ha alcuna intenzione di mettere al mondo un altro schiavo. Vuole la libertà per sé, per suo figlio e per tutte le altre persone che lo hanno appoggiato nella rivolta. Si convince che marciare verso Ovest sia la soluzione più semplice, anche se non la meno pericolosa. Spera nelle stelle e nel fato che fino a quel momento ha accompagnato le gesta dei suoi, torcendo il destino e riplasmandolo a loro favore. Immerso nei suoi pensieri raggiunge una piccola fonte nascosta tra gli alberi e scorge, seduto su un masso al centro dello specchio d’acqua, una figura di vecchio. L’uomo finge di non accorgersi della sua presenza e, immerso in una profonda meditazione, prende ad intonare una litania con foga crescente. D’un tratto il vecchio si alza in piedi e si getta nell’acqua gelida scomparendo. Spartaco si tuffa a sua volta, immergendosi più volte alla ricerca del corpo di quel vecchio; infine, vinto dal freddo, prende la via della riva. Tremante, di getta a terra, gli occhi fissi sulla roccia dalla quale quell’individuo ha spiccato il balzo mortale. “Sono qui, Spartaco” Spartaco ha un sussulto, si volta e vede di fronte a sé il vecchio, avvolto in un pesante mantello. L’uomo, dai lunghi capelli bianchi, appoggiandosi ad un bastone, si fa avanti, raggiungendo il giovane trace. 
“Chi sei? E come sai il mio nome?” mormora lo schiavo. 
“Mi chiamo Velauno. Quanto alla seconda domanda, non ti meravigliare. A Roma il tuo nome riecheggia addirittura in senato” 
“Non hai risposto alla mia domanda, vecchio. Chi sei?” 
“Sono uno schiavo, ragazzo. O meglio, lo ero. Ma nella mia vita precedente, prima di essere catturato nella battaglia di Aquae Sextiae, ero un druido. Tu sai cos’è un druido, non è vero, Spartaco?” L’uomo sorrise al cenno con cui Spartaco manifestava la sua ignoranza a riguardo.
“Vedi” continuò il vecchio “i druidi sono uomini molto importanti nella loro gente. Come i sacerdoti presso i romani, anche i druidi hanno il dono di saper leggere i segni del destino e di predire il futuro. Ma sono molto più potenti.”
“La tua preveggenza non ti ha permesso di predire la sconfitta al tuo popolo?” 
“Spartaco, Spartaco. La consapevolezza che nutri del fatto che Roma non smetterà mai di dare la caccia a te e ai tuoi uomini, ti permette forse di deporre le armi e ritornartene a Capua? Per quanto una previsione possa essere veritiera, esiste sempre la speranza. Ed esistono uomini come te, ragazzo mio, che rendono incredibilmente difficile ogni previsione” Il druido si sedette vicino a Spartaco e prese a masticare un’erba strana, dall’odore pungente. Sputò a terra e proseguì: “Una volta, quando ero ancora molto giovane, ebbi un sogno. Vidi la mia casa bruciare, senza che potessi fare nulla per salvarla. Mentre osservavo il fuoco divorare il legno mi parve di scorgere una figura d’uomo prendere forma dalle fiamme. Urlai all’uomo di venire fuori e mettersi in salvo e d’un tratto la mia casa smise di bruciare. Guardai in faccia quell’uomo e ne scorsi lineamenti diversi da quelli della mia gente. Non ebbi dubbio di aver avuto un segno. Anni dopo la mia casa e tutta la regione che aveva dato i natali a me e prima di me a mio padre e al padre di mio padre, venne messa a ferro e fuoco dall’esercito romano. Invocai invano l’uomo che mi era apparso in sogno, ma questi non comparve. Vissi gli anni della mia schiavitù nello sconforto, addormentandomi a sera nella speranza, destinata a rimanere delusa, di avere un’altra visione. Stavo ormai per lasciarmi vincere dallo sconforto quando poco più di tre mesi fa tornasti a popolare i miei sogni, Spartaco. Ora che ti ho di fronte a me, riconosco nei tuoi lineamenti i tratti appena abbozzati dell’uomo che mise fine alla distruzione della mia casa. E così eccomi qui da te, ragazzo mio”.
Spartaco aveva ascoltato rapito il racconto del vecchio, senza staccare per un istante gli occhi dal volto di quell’uomo. Aveva visto i suoi occhi inumidirsi e le sue lacrime solcarne le guance. Aveva letto la sincerità nelle sue parole e l’onestà nel suo sguardo.

William Wallace

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Anche Federico Sangalli ha voluto dire la sua in merito:

Partiamo dal presupposto che, nel corso della Terza Guerra Servile, Spartaco e i suoi vincano (non ci interessa esattamente come) e riescano a guadagnare il controllo su tutta o parte della penisola italiana (in senso geografico stretto, visto che prima di Augusto l’Italia non si estendeva più a Nord dell’Appennino).
Gettiamo innanzitutto uno sguardo sul resto della Repubblica Romana, che in quel momento si estendeva dalle Colonne d’Ercole all’Egeo e dalle Alpi alla Tripolitania. A Ovest si combattevano ancora gli strascichi della Guerra Civile che aveva contrapposto Silla e Mario anni prima, nella figura del generale Quinto Sertorio, lealista mariano che aveva rifiutano di deporre le armi dopo la morte del suo leader e si era rifugiato in Spagna. Qua aveva radunato le forze mariane e guadagnato il sostegno delle genti iberiche e si era dimostrato un abile condottiero, sconfiggendo ripetutamente le armate romane guidate dal giovane Gneo Pompeo ed estendendo la sua influenza anche su parte dell’Africa romana. Nella nostra Storia Sertorio fu tradito e ucciso da un suo ufficiale, che fu poi battuto dal futuro triumviro, permettendogli di lanciare una carriera politica di grande successo. Possiamo invece immaginare che, con il collasso del fronte romano in patria, Sertorio rimanga in sella e sconfigga definitivamente Pompeo, che morirà ridotto a una nota a piè di pagina dei libri di Storia. Sertorio accoglierà migliaia di esuli romani, aristocratici e mercanti in fuga dalle orde di Spartaco, guadagnando una classe dirigente con cui edificare un solido stato romano-iberico che col tempo aggiungerà ai suoi domini l’Africa e probabilmente, quando la pressione gallica si farà più minacciosa, anche la Gallia Narbonense. Sembra che Sertorio fosse in contatto con Spartaco e con Mitridate per cercare un coordinamento contro il comune nemico romano, dunque ci si può aspettare che questa sistemazione trovi soddisfazione attraverso un accordo tra gli alleati vittoriosi. A Est proprio Mitridate era impegnato nella Terza Guerra Mitridatica, che in HL lo avrebbe visto definitivamente sconfitto ed esiliato in Crimea. In questa Storia possiamo invece immaginare una sua vittoria che lo porti a guadagnare il controllo di gran parte dell’Anatolia e probabilmente anche sulla Grecia, che nei precedenti conflitti si era sollevata accogliendolo come un liberatore e un novello Alessandro Magno. I Dalmati invece potrebbero ricreare un regno autonomo in Illiria, dove la loro sottomissione era ancora fresca, visto che pochi decenni più tardi insorsero alla notizia della morte di Cesare. Resterebbero fuori le isole, in particolare la Sicilia, all’epoca governata dal famigerato Verre. Questo corrotto personaggio avrebbe tutte le chance per provare a ergersi a signorotto locale ma la sua forte impopolarità presso i siciliani porterebbe alla sua caduta, magari sempre per mano di quel Cicerone, allora magistrato locale noto per la sua onestà, che impressionò i siciliani a tal punto da farlo scegliere come loro rappresentante, che in HL lo fece mandare in esilio per le sue malefatte. Per evitare poi di cadere presa dei pirati alleati di Spartaco, Cicerone negozierebbe la protezione dello stato sertoriano. Abbiamo visto il destino di molti celebri personaggi storici (Pompeo, Cicerone, ovviamente Crasso), ma un nodo aperto sarebbe quello di Cesare, che all’epoca si trovava in Frigia, allontanato dall’Urbe per volere di Silla, dove in un celebre episodio venne anche catturato dai pirati. A seconda dell’esatto svolgersi degli eventi e della loro cronologia si possono immaginare vari esiti: massacrato assieme agli altri cittadini romani all’arrivo di Mitridate, rientrato dall’esilio per presentarsi come un nemico della vecchia aristocrazia senatoria e provare a fare carriera a Roma, riparato in Spagna con gli altri esiliati romani facendo leva sulla sua passata fede mariana che lo accomunerebbe a Sertorio, prigioniero dei pirati ai quali non viene versato alcun riscatto a causa del succedersi degli eventi e poi venduto come schiavo in qualche lontano mercato dove cercare di riguadagnare la libertà e il potere (Egitto? Siria? Ponto? O magari ancora più in là, in Persia o in Armenia?).

Ma veniamo ora a Spartaco e alle conseguenze della sua vittoria. Roma sedurrebbe il suo barbaro conquistatore, come molte volte sarebbe accaduto in seguito, inducendo il Trace a sedersi sul trono capitolino? Oppure invece Spartaco, in forza del fatto che era sì un illetterato ma non un estraneo affascinato dalla esotica cultura latina bensì qualcuno che conosceva bene la societa romana, specie del suo lato peggiore, avrebbe ribaltato ogni schema nella sua furia iconoclasta? Nel dubbio eviterei il dibattito sull’abolizione della schiavitù. L’idea che i singoli individui potessero avere opinioni che contassero qualcosa, unendosi per formare opinioni pubbliche mosse da ideali di massa da promuovere nelle sedi pubbliche, è un concetto successivo alla Rivoluzione Francese. Aspettarsi che il pensiero di qualche pensatore potesse innescare un arguto e appassionato dibattito come quello che prese vita nelle migliori parrocchie e piazze dell’America lincolniana appare poco credibile. Semmai mi concentrerei sulla possibile coazione del succedersi degli eventi e dell’urgenza della necessità che si fa virtù, due pratiche che hanno plasmato la Storia molto più delle grandi decisioni precedute da esaurienti ed estesi dibattiti. Data la disparità delle forze, è plausibile - anzi, condizione imprescindibile della vittoria - la sollevazione della quasi totalità degli schiavi presenti in Italia. Appare naturale che tali schiavi, così come le loro famiglie di non combattenti e gli schiavi di quei padroni che troveranno la morte negli scontri, ottengano automaticamente la libertà. Già con questa semplice provvisione possiamo concludere che al momento della fine della Terza Guerra Servile (gli daranno un altro nome, gli storici? Grande Rivolta? Guerra di Affrancamento? Guerra Spartachista?) la schiavitù sarà pressoché estinta in Italia. Questo non preclude che non possa tornare in un secondo momento ma per capire se ciò accadrà soffermiamoci su quale sistema politico potrebbe emergere da questo sommovimento sociale. Gli schiavi ribelli hanno ottenuto la libertà ma ora Spartaco si ritrova a dover gestire parecchie migliaia di uomini in tempo di pace, privi di attività economiche che li sostentino, nullafacenti, per lo più poco pratici o con scarsa esperienza in qualsivoglia attività, in un contesto di instabilità sociale ed economica, dove in molte parti della penisola vigono l’anarchia e le vendette private e la maggior parte dei mercanti e dei proprietari terrieri è morta o fuggita. L’ipotesi più naturale è che la nuova leadership si cimenti in una sorta di riforma agraria. Sarebbe uno sbocco logico e in linea con il pensiero comune: i legionari erano ricompensati con un lotto di terra a termine del servizio, fare lo stesso permetterebbe di offrire sicurezza economica ai ribelli, di qualificarsi come dei combattenti regolari e non come una banda di predoni e briganti, di costruire una classe di piccoli proprietari terrieri che sostituisca i grandi latifondisti e di crearsi una base più solida di sostegno. Su quest’ultimo punto la ricerca di alleati prima e dopo la vittoria sarebbe fondamentale e la redistribuzione della terra potrebbe essere lo strumento giusto per ottenerli. Sul piano esterno mi è venuto subito in mente che pochi anni prima della rivolta di Spartaco si era tenuta la Guerra Sociale, in cui una alleanza di città e popolazioni sannite, umbre, etrusche e simili denominata Lega Italica si era opposta a Roma per ottenere un miglioramento del proprio status sociale. I ribelli erano stati sconfitti - anche se il Senato aveva dovuto acconsentire all’allargamento della cittadinanza agli italici - ma forse sotto la cenere covava ancora sufficiente rancore per far guadagnare a Spartaco almeno dei collaboratori. Sul piano interno mi sembra palese che la plebe urbana rappresenterebbe la principale alleata del nuovo regime, tutto teso a presentarsi come il liberatore degli oppressi, vittime delle angherie di una classe di sanguisughe aristocratiche che meno di mezzo secolo prima avevano brutalmente ucciso i fratelli Gracchi (che probabilmente in questa TL verrebbero ricordati come l’ultima seria chance di riforma del sistema repubblicano prima della guerra civile tra Mario e Silla e della rivolta spartachista). La distribuzione di terre offrirebbe agli italici la possibilità di riguadagnare il controllo sui propri territori nativi e ai plebei l’agognata stabilità economica. La fine della grande proprietà terriera e la fuga dei mercanti leverebbe il principale motore dello schiavismo. L’economia, dato il livello tecnologico dell’epoca, resterebbe incentrata sul ricorso al lavoro manuale ma la combinazione dei fattori venutasi a creare (piccoli appezzamenti coltivabili invece che grandi proprietà, ceto di mercanti-artigiani piuttosto che ricchi cavalieri, abolizione dei giochi gladiatori) deporrebbe a favore dell’uso di piccole quantità di lavoratori fissi, da alloggiare in dependance, cioè in pratica dell’avvento della servitù della gleba in sostituzione della schiavitù. Col tempo naturalmente una parte degli artigiani si farà mercante e i possidenti terrieri si allargheranno, ma l’istituto della servitù, assolutamente compatibile con il lavoro agricolo e con il progresso tecnologico (fino a un certo punto, almeno, la Russia zarista sta lì a dimostrarlo), ormai consolidatosi, sopravviverebbe. In conclusione la Repubblica Romana verrebbe abolita, sostituta da quella Lega Italica battuta anni prima e che qua rientrerebbe dalla finestra. Roma festerebbe la città-stato più grande e importante della Lega, ma il suo territorio non si estenderebbe oltre il Lazio. Al suo interno il Senato e il Consolato, simboli dell’aristocrazia senatoria, sarebbero aboliti ma la città manterrebbe la diarchia sotto forma dei Tribuni della Plebe. Sull’evoluzione di una società così siffatta chiederei il contributo anche di Dario, che ha fatto una serie di interventi molto esaustivi e interessanti quando discutemmo dell’economia schiavista a Roma e del ruolo giocato da questa nel suo declino, per capire come l’avvento di una “società medievale” anticipata (campagne organizzate sulla base della servitù della gleba, pur di assenza di feudatari; città-stato governare dalle proprie magistrature stile liberi comuni) possa influenza la futura storia della penisola.

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Perchè No? ha voluto aggiungere:

Ecco il fumetto ucronico sullo stesso argomento. Spartaco e i suoi riescono a passare in Sicilia dove fanno insorgere gl schiavi. Fondano una città e una repubblica degli schiavi, prendendo il controllo di tutta l'isola. Anni dopo Roma è pronta a sistemare i conti con loro conto sotto la guida di Cesare...

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E, per finire, ecco il contributo di Dario Carcano:

Il feudalesimo ha un grande vantaggio, rispetto sia allo schiavismo che al capitalismo: è un sistema potenzialmente molto stabile, che in assenza di grandi stravolgimenti può durare anche secoli, al contrario dello schiavismo - che entra in crisi non appena termina l'afflusso di nuovi schiavi, senza i quali è impossibile espandere l'economia - e del capitalismo - sistema acefalo che si sviluppa in maniera incontrollata, e che a causa di ciò è periodicamente soggetto a crisi economiche potenzialmente devastanti.

Prerequisito indispensabile del feudalesimo è la società tripartita o trifunzionale, ossia la suddivisione della società in tre ordini, ciascuno dei quali aventi una precisa funzione: i guerrieri, ossia coloro che passano il tempo ad addestrarsi per combattere; gli intellettuali, ossia coloro che di professione si dedicano allo studio; e infine i lavoratori, ossia artigiani, mercanti, contadini liberi e servi, che passano il tempo a lavorare.
Questa tripartizione non è esclusiva del feudalesimo, è tecnicamente presente anche nello schiavismo, ma è nel feudalesimo che diventa preponderante.
Generalmente, come nel caso del feudalesimo europeo, i guerrieri sono la classe aristocratica, e gli intellettuali sono rappresentati da esponenti del clero.

Il feudalesimo è più stabile di capitalismo e schiavismo (o meglio: ha il potenziale per essere più stabile) perché sono presenti numerose reti di protezione sociale che permettono ai ceti più deboli di sopravvivere; mantenendo l'esempio del feudalesimo europeo, la prima di queste reti di protezione sociale è la Chiesa, che usa le donazioni della parte abbiente della popolazione per finanziare mense per i poveri, ricoveri per i senzatetto, ospedali, e che non ha problemi a cooptare al proprio interno persone capaci seppur provenienti da ceti poveri, ed elevarne la condizione sociale.
La seconda rete di protezione sociale è l'aristocrazia: essere un servo ha sicuramente i suoi svantaggi rispetto all'essere un contadino libero, ma se sei un servo hai un padrone che deve provvedere ai tuoi bisogni primari, perciò se il raccolto va male hai più probabilità di cavartela e non morire di fame.
La terza rete di protezione sociale è costituita dalle varie gilde, corporazioni e associazioni di cui un uomo libero può essere membro, cui verso la fine del feudalesimo europeo si aggiunse la Massoneria.
La quarta e la quinta rete di protezione sociale sono la comunità locale, che può aiutare i ceti deboli permettendo ai contadini non proprietari di arrotondare coltivando terre comuni, oppure organizzando vendite di pane a prezzo politico nei periodi di carestia, e il nucleo familiare, la base di ogni rete di protezione sociale.

Non è un caso che il passaggio dal feudalesimo al capitalismo sia stato contraddistinto dal sistematico attacco a queste reti di protezione sociale (esproprio dei beni ecclesiastici, perdita di potere ed egemonia culturale dell'aristocrazia in favore della borghesia, abolizione delle gilde e delle corporazioni, eliminazione dei privilegi delle comunità locali e chiusura delle terre comuni), e ad ogni forma di welfare in generale: in nome del profitto a ogni costo, il capitalismo libera i servi (perché comunque la servitù comporta degli obblighi da parte del padrone) e li costringe a scegliere tra il morire di fame e il lavorare in condizioni inumane.
Ti rifuti? Liberissimo, tanto ho un esercito industriale di riserva di decine di migliaia di disoccupati dal quale posso attingere, e senza lavoro sei condannato a morire di fame.

Terminata questa lunga premessa, una Lega Italica feudale avrebbe negli ex combattenti dell'esercito spartachista e nei loro discendenti la base del proprio ordine aristocratico-guerriero: solo i discendenti di coloro che hanno combattuto assieme a Spartaco avranno il diritto di portare armi, e probabilmente almeno all'inizio saranno vietati i matrimoni misti con membri di altri ordini. Nel corso del tempo la ricchezza si concentrerà soprattutto nelle loro mani, ma almeno all'inizio, con l'attuazione delle riforme agrarie descritte da Federico, il loro ruolo sociale sarà soprattutto militare, e il loro peso economico marginale.
Non saprei dire chi sarebbe il ceto intellettuale, perché il paganesimo ha il difetto di non avere un clero in qualche modo organizzato. Probabilmente, come nell'Islam, sarà l'aristocrazia - nel bene e nel male - la principale protrettrice del ceto intellettuale, che sarà molto più fluido rispetto a quello dell'Europa medievale, non essendo monopolizzato da una unica gigantesca istituzione.

Il fatto che la Lega Italica sia feudale anziché schiavista vorrà dire che sarà molto più stabile socialmente e politicamente rispetto ai suoi vicini, in primis la Spagna sertoriana, che sarà la trasposizione iberica della Res Publica romana, coi suoi pregi e i suoi difetti.

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Federico torna alla carica:

É affascinante pensare a come questa identificazione etno-castale delle categorie sociali si sia poi riverberata inconsciamente nella formazione delle coscienze nazionali: i francesi/galleschi, che nel Medioevo erano considerati detentori del monopolio intellettuale, hanno mantenuto questo tratto, almeno nel loro modo di vedere sé stessi (pensiamo all'Illuminismo, alla Rivoluzione Francese e più in generale alla tendenza francese a ritenersi "l'educatrice del mondo"); i tedeschi, che invece possedevano l'appannaggio delle arti belliche, hanno maturato un'idea militaresca e bellicosa della propria identità nazionale, nata "dal ferro e dal sangue", attitudine che hanno ripetutamente e sempre più frequentemente messo alla prova della Storia fino alle più estreme conseguenze; gli italiani, a cui invece veniva attribuita una particolare propensione alle cose di chiesa, hanno finito per sviluppare una identità nazionale molto legata, storicamente e culturalmente, all'idea del magistero cattolico.

L'analisi di Dario mi sembra precisa e delinea una evoluzione plausibile della società "spartachista". Peraltro la rivolta di Spartaco avverrebbe appena un secolo prima della nascita del Cristianesimo ed è credibile immaginare che, senza una forte aristocrazia pagana e senza imperatori dediti al culto di sé stessi, la penetrazione di questa fede religiosa possa essere accelerata nella società della Lega Italica, finendo così per fornire l'ultimo elemento per una transizione a un pieno e più stabile assetto feudale (la nascita di un clero organizzato con una teologia unitaria, la consapevolezza di un ruolo sociale e l'attenzione verso le altre classi sociali), anche se comunque bisognerebbe poi approfondire le esatte circostanze dell'ascesa del Cristianesimo alla luce delle mutate condizioni politiche (per dire, non è detto che in questa TL il centro della Chiesa si identifichi con Roma, anzi). Particolare curioso: la Res Publica sertoriana si riterrebbe il legittimo erede di Roma, stile Bisanzio, ma al tempo stesso il suo modello finirebbe inevitabilmente per differenziarsi dall'originale. In particolare, la città dell'Iberia non possedevano minimamente la popolazione e la prosperità della Città Eterna sicché, almeno in una prima fase, vi sarebbe una forte componente rappresentata dal patriziato esule da Roma e dai mercanti (fuggiti tutti con navi piene d'oro, ci dice con certezza il celebre storico latino di orientamento spartachista Valerio Massimo Album Mortis). Questa egemonia del patriziato sarebbe accresciuta anche dal fatto che la plebe locale, soprattutto di estrazione iberica, non era abituata a svolgere un ruolo politico come invece quella romana, oltre ad avere una minore forza demografica per farlo, per cui il paradosso è che una repubblica fondata da un populares come Sertorio si evolverebbe probabilmente nella direzione di una società castale-oligarchica fortemente centrata sul potere dell'aristocrazia patrizia e latifondista e sulle grandi famiglie dei mercanti, un po' tipo Venezia, anche se questo potrebbe cambiare col tempo.

Comunque ho provato a realizzare una mappa con MapChart, inserendovi qualche leggera modifica rispetto alla prima versione, in particolare ho aggiunto la Dacia che in quel periodo stava entrando nell'apogeo del regno di Burebista, ho integrato la Gallia Cisalpina nella Lega Italica e ho scelto di far assorbire l'Africa Romana al Regno di Numidia (che erroneamente avevo considerato come soppresso durante le guerre giugurtine in un primo momento, ma ho poi ho scoperto essere sopravvissuto in forma di vassallo romano fino alle grandi guerre civili).

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