Il vecchio maestro

di Andrea Marcobelli


Ed ecco due racconti ucronici in cui, in altrettanti mondi diversi dal nostro, la vita di un personaggio storico è stata indirizzata in maniera decisamente diversa...

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Mi ricordo ancora del mio vecchio maestro di Letteratura Tedesca al Liceo. A volte,mentre passeggio per il Prater, o mi chiudo in camera per comporre una delle mie storielle,e per non disturbare Martha,che a una certa ora vuole dormire, mi ritorna in mente tutto di lui: la voce rauca e rovinata dal troppo fumo,il passo leggermente strascicato (frutto di una vecchia ferita di guerra), i baffetti scoloriti, il viso rugoso e segnato (doveva avere sui sessanta anni, nel 1949), i denti giallastri, il tono declamatorio e pomposo,interrotto dai frequenti attacchi di tosse che rivelavano la sua passione per il tabacco...

Nella mia mente mantengo ancora vivide le immagini delle sue lezioni ispirate,forse più roboanti che corrette, sul ciclo dei Nibelunghi, sull'eredità germanica. O di quando io,che avevo allora solo quindici anni,venni interrogato da lui per la prima volta: le sue domande erano quasi degli ordini, declamati però con voce stanca e disfatta. Il suo alito era sgradevole: puzzava di birra e tabacco.

L'unico particolare che gli invidiavo,all'epoca, era il suo cane lupo,un bell'esemplare, ma cattivo come il fuoco e nero come il carbone. Lo aveva chiamato Friedrich, cosa che non capii finché non studiammo filosofia in terza.

E come dimenticare le sue parole sprezzanti sulla fine dell'Impero Austro-Ungarico, dissolto dalle lotte intestine appena dieci anni prima (troppo tardi,dicevano alcuni,ma c'era anche chi ne rimpiangeva le glorie tramontate), o sulla "corrotta alta società viennese" che gli ispirava un senso di ribrezzo. O gli scherni che rivolgeva a Pili, l'unico dei miei compagni di classe ad avere una madre giudea. O i suoi tentativi di pittura,l'unica cosa in cui brillasse almeno un po', senza essere un vero artista (anche se, diceva mia madre con quell'ironia contadina riservata ai toccati dalle muse,ne aveva il carattere e sopratutto l'odore).

Io,forse anche qualche mio compagno di classe,magari qualche ex-collega (se ce ne sono ancora vivi) ce ne ricordiamo,ma il grande mondo non sapeva nemmeno della sua esistenza. Ma a lui tutto questo dava fastidio: diceva sempre che,se non fosse stato per la codardia del nuovo Kaiser dopo la sorprendente morte del giovane Wilhelm Terzo, per i maneggi di Bismarck, per gli intrighi giudaici e l'inettitudine dell'Austria, la razza germanica avrebbe dato il colpo definitivo agli odiati latini e al leopardo d'Inghilterra. E scommetto che si immaginava,nella sua lucida follia,destinato a condurre la marea dei nipoti di Sigrifido alla conquista del mondo,mentre i suoi massimi eroismi erano stati il gradi di caporale nell'Esercito Imperiale nella guerra contro la Serbia del 1920, conclusasi con un disastro per il vecchio e fragile impero e con una ferita invalidante, che lo aveva costretto a congedarsi,per lui.

Povero vecchio illuso,mi verrebbe da scrivere. Povero soldato fallito e maestro mediocre,incapace di reggersi sui suoi piedi e dalla vita oscura e triste, fra i suoi boccali e il suo cane.

Vengo ora a sapere che è morto. Un piccolo,trafiletto anonimo, in un giornale locale che non avevo mai comprato ( e che per chissà quale strano presentimento ho preso oggi all'edicola ). Mi viene quasi da pensare che la sua fine, così misera e in sordina, sia proprio un bello sberleffo ai suoi sogni di gloria. Ma già che ci sono, riporterò io le ultime parole riferite a lui nella sua vita:

Oggi, 23 aprile 1964, è mancato ADOLF HITLER, figlio di Alois (nato Schicklgruber) venuto alla luce il 20 aprile 1889 a Braunau am Inn. Ne danno il triste annuncio gli amici del circolo delle bocce, i colleghi allo "Iohanneum Institute" di Linz e la sorella Paula. Riposi in Pace.

Ecco fatto,ho ricordato anche io quel poveruomo, quel "Signor Nessuno" a cui il mondo ha riservato un destino così misero. Ma per una strana sensazione mi viene da chiedermi per quale motivo ho riportato la sua morte, così insignificante e poco letteraria. L'unica risposta che so darmi è che,in un certo qual modo, il mio spirito irrequieto di scrittore si chiede, baloccandosi con un pensiero ozioso, che sarebbe successo se veramente i sogni di gloria di quell'ometto (era infatti piuttosto basso) si fossero avverati. Avrebbe guidato la Germanicità realmente verso destini radiosi o (più verosimilmente) l'avrebbe condotta alla rovina? Domande, queste, a cui nessuno può rispondere, e che risuonano come invocazioni al nulla. Eppure un motivo al mio ricordo c'è: fu il primo uomo in cui vidi all'opera il desiderio di grandezza frustato. E questo sì che è un tema degno di un racconto.

Finito di scrivere a Vienna, il 24 aprile 1964, nel mio studio.

Andrea Marcobelli

Questa sì che è un'ucronia!!

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E ora, l'idea di Enrico V.:

Un vecchietto al centro del mondo

Il 15 maggio 2000 le autorità di Barberton, Ohio, si recano a casa di Roland Lindemann per festeggiarlo in qualità di uomo più vecchio della città e dell'intero stato. A 110 anni, l'anziano signore, residente da circa un ventennio, viene visto di rado in giro e si vocifera di una sua malattia degenerativa. Infatti, l'infermiera ritira la consegna sulla soglia di casa e non permette ai giornalisti l'ingresso nell'abitazione.

Uno di questi, Alan Parker del West Side Leader, ha realizzato qualche ricerca negli uffici comunali e ha scoperto che Roland Lindemann, di chiare origini tedesche, ha cambiato la propria residenza per ben sei volte e prima del 1965 non se ne ha menzione nei documenti ufficiali, sebbene risieda in America dal 1925.

Prima di Barberton, Lindemann è vissuto a New York, Ridgefield (stato di Washington), Akron, Tallahassee (Florida), Miami (Florida) e Topeka (Kansas). Tutto questo senza mai essersi sposato, anche se risulta avere un figlio di nome Albert, nato nel 1931 a New York.

Più per curiosità personale, che per necessità lavorative, lo stesso Parker rintraccia Albert Lindemann a Chicago, ma, quando gli telefona, ottiene una risposta piuttosto brusca: "Non so di cosa lei stia parlando". Eppure Parker è sicuro, si tratta proprio del figlio di Roland Lindemann, l'ufficio anagrafe recita chiaro.

Evidentemente i rapporti all'interno della famiglia Lindemann non erano buoni, così pensa Parker che per alcune settimane lascia da parte i propositi di risalire alla vita dell'uomo più vecchio dell'Ohio e si rimette al suo lavoro ordinario.

A farlo ritornare sui suoi passi, nel mese di giugno, sono alcune telefonate minatorie e la contemporanea morte di Lindemann, avvenuta il 28/6 per una polmonite. I funerali si tengono in forma privata e la bara, su volontà dello stesso Lindemann, viene trasportata in Germania a Bad Harzburg dove era nato.

Parker, giornalista trentaduenne tutt'altro che impegnato in temi di carattere sociale, teme che per qualche ragione le due cose possano essere correlate. Per prima cosa intervista i vicini il giorno successivo ai funerali. I coniugi Littock parlano di una persona gentile, ma molto schiva. In circa dieci anni di convivenza nello stesso isolato lo avranno visto una manciata di volte. Si era distinto solamente durante il primo Natale, quando Lindemann si era recato presso l'abitazione dei nuovi vicini per gli auguri. Per il resto tante visite di presunti parenti (ma l'unico indicato dall'anagrafe è sempre e solo il figlio Albert) ed uno spiccato accento tedesco, con qualche leggera (ed insolita) ispanica.

Anche le testimonianze dei Brotka (da 16 anni vicini di casa di Lindemann) e di Anthony Sullson (a Barberton da 4 anni) confermano quanto dichiarato dai Littock. Lindemann non ha mai fatto riferimento nè al figlio, nè al suo passato. Ha semplicemente dichiarato ai Brotka di essersi trasferito a Barberton dopo la morte della seconda moglie avvenuta nel 1987. La ex moglie, il cui nome non è noto, era proprietaria dell'appartamento.

Un figlio che non vuole parlare e due mogli. Ok, forse questa storia è andata un po' in là, commenta lo stesso Parker, che, tuttavia, riceve una visita inaspettata alla redazione del giornale. E' il 5 settembre.

Di fronte a lui, c'è Albert Lindemann, un signore canuto e piuttosto robusto. Si scusa per la scortesia di qualche mese prima, ma ha passato un brutto periodo dovuto alla scomparsa della moglie.

Dichiara di essere stato molto legato a suo padre sino al divorzio con la prima moglie Elena Haupte avvenuto negli anni '40. Lei aveva seguito il marito da Monaco dove risiedevano. Il padre aveva combattuto la prima guerra mondiale, ma era caduto in disgrazia dopo la sconfitta tedesca e non aveva più trovato lavoro. Con la famiglia, ha vissuto a New York fino al 1944, poi il padre ha girovagato per gli Stati Uniti assieme alla nuova compagna, erroneamente indicata come moglie, i due non si erano mai sposati. Il rapporto con il padre, incrinatosi dopo la separazione, è ripreso solamente negli anni '80 quando Roland era quasi centenario. Lo ricorda come un uomo allegro e molto legato alla sua terra d'origine, mai dimenticata.

E perchè quello strano accento? chiede Parker.

La domanda sembra spiazzare Albert Lindemann. L'uomo ha parlato serenamente durante tutta la conversazione, ma in questa circostanza non sa cosa rispondere. Dopo qualche secondo, dice di non essersene mai accorto e poi congeda Parker. La reazione di Albert alla domanda rimane molto strana, ma il giornalista interrompe le ricerche.

L'anno successivo, Parker commemora la scomparsa di Lindemann ad un anno di distanza. Il giorno dopo riceve una telefonata da Karl Reiter, un agente investigativo tedesco attivo a Kansas City da circa un mese. I due si incontrano 48 ore dopo ad Akron. Karl Reiter fa parte dei servizi segreti tedeschi, lavora da due anni negli Stati Uniti per conto del governo tedesco che ha raccolto alcune informazioni molto importanti su alcuni leader nazisti.

In un primo momento si era messo sulle tracce di Roland Lindemann perchè riteneva si trattasse del quasi omonimo Roland Lindmann, classe 1908, soldato semplice delle SS in Italia fatto prigioniero dagli Americani. Era stato attivo nello stesso corpo capeggiato da Kappler a Roma e lo considerava un possibile testimone di alcuni eccidi compiuti in Italia e dei quali alcuni responsabili risultano ancora in vita.

La realtà dei fatti, però, si è mostrata ben diversa. Una volta a Barberton, Reiter ha incontrato diverse volte Lindemann e, considerata l'età dell'individuo (convinto che Lindmann avesse mentito per poter usufruire prima dei benefici della pensione), ha concluso che questo personaggio non poteva aver combattuto la seconda guerra mondiale così lontano poichè i più anziani erano rimasti in Germania a difendere il paese durante gli ultimi giorni e l'assedio di Berlino. I pochi dubbi sono stati, peraltro, sciolti dall'assistente sociale che aveva in cura, nel 1998, lo stesso Lindemann: quest'uomo ha combattuto solo la Prima Guerra Mondiale.

Durante gli ultimi giorni di indagine, prima di recarsi a Boston per incontrare un ex detenuto di Treblinka, Reiter incontra in giardino Lindemann e si sorprende di una cosa: quell'uomo ha le fattezze di Adolf Hitler.
Senza consultarsi con i suoi superiori, Reiter rimane a Barberton per un'altra settimana, seguendo i movimenti dell'assistente sociale, tale Johanna Hattley. La donna, inizialmente, si reca alla propria abitazione, ma in due circostanze incontra alcuni individui chiacchierando intensamente pochi minuti dopo la visita giornaliera da Lindemann.

Le analisi anagrafiche non danno parecchi risultati, Lindemann risulta vivere a Barberton da una ventina di anni e vengono confermati tutti i dati dell'indagine preliminare svolta dalla Germania.

Passano due anni e Reiter, che aveva provato a raccontare la sua esperienza ai superiori, non ha più nessun incarico. Si teme che sia diventato un mitomane. Parte, in solitaria, per la Germania. L'obiettivo è quello di conoscere Albert Lindemann, il figlio di Roland, ma Albert più volte si nega al telefono. Dopo alcune settimane di buio, Reiter legge l'articolo in cui Parker spiega di essere stato in contatto con il figlio.

Parker racconta a Reiter dell'imbarazzo di Albert sul presunto accento spagnolo del padre e della bara trasportata a Bad Harzburg, un particolare sfuggito a Reiter, il quale dopo la morte di Lindemann aveva trovato ancora più ostacoli sul proprio cammino.

Tornato in Germania, Reiter entra in contatto con uno dei suoi superiori e lo convince a cercare l'impossibile.

Il 4 novembre 2001, alle tre del mattino, un gruppo di sei uomini entra nel cimitero comunale di Bad Harzburg e riesuma il corpo di Roland Lindemann per prelevarne un campione di dna.

Un mese dopo i risultati vengono comunicati, in via strettamente privata, a Karl Reiter. La notizia circola in via ufficiosa fra gli ambienti dei servizi segreti tedeschi e, in qualche modo, arriva alla bocca del presidente George W Bush. Le telefonate con Schroeder si sprecano, il cancelliere tedesco è incredulo, ma dopo un'indagine interna scopre la verità ed è intenzionato a dichiararla al mondo. L'ufficialità viene data il 3 gennaio 2002, con una breve conferenza stampa convocata dal Ministro dell'Interno tedesco Otto Schily.

"Cari amici, questo annuncio è dovuto ad una scoperta per noi estremamente complessa e dolorosa. Adolf Hitler, colui che ha insaguinato il nome della Germania con le sue azioni barbare e criminali, non è deceduto, come credevamo, nell'assalto a Berlino del 1945, ma ha continuato la sua esistenza in Cile e negli Stati Uniti d'America ed è morto il 28 giugno 2000 a Barberton, in Ohio, a 111 anni. La scoperta è stata fatta da un giornalista locale ed un ufficiale delle forze armate tedesche circa un anno fa e abbiamo deciso di rivelare questo angoscioso segreto nel rispetto del dolore di chi è stato colpito dalla follia del nazismo. A partire da domani pubblicheremo i documenti che testimoniano quanto appena dichiarato con i particolari della scoperta".

Poche parole, nessuna domanda. Il mondo non ci crede, ma il giorno dopo Albert Lindemann viene assaltato presso la sua abitazione e conferma tutto. Ovviamente lui non è il figlio legittimo di Adolf Hitler. Si tratta di un ex agente della CIA al quale, nel 1965, era stato affidato il compito di ricoprire tale ruolo per contrastare eventuali ricerche. Anche le infermiere e le assistenti sociali sono legate ai servizi segreti americani ed erano a conoscenza dell'identità di Lindemann.

aprile 1945: Adolf Hitler tratta privatamente la resa con gli Americani, viene prelevato dal suo bunker. La sua compagna Eva Braun viene uccisa assieme ad un sosia del Fuhrer, fatto ritrovare ai sovietici pochi giorni dopo.
maggio 1945: Hitler viene trasportato negli Stati Uniti, rimane per due anni in prigionia, riceve visite dai soli ufficiali statunitensi che vogliono utilizzare le conoscenze del Fuhrer per un eventuale conflitto con l'Urss, in cambio l'ex dittatore verrà liberato con una nuova identità nel 1950

settembre 1949: dopo quattro anni di prigione e con leggero anticipo, Adolf Hitler esce dal carcere per la prima volta. Si chiamerà Ulf Kassler sino al 1970 e dovrà risiedere in Argentina a Tucuman sotto stretta sorveglianza di alcuni agenti locali, debitamente informati.

maggio 1955: Kassler/Hitler torna negli Stati Uniti per un breve incontro con l'entourage militare statunitense. L'incontro è infruttuoso, le conoscenze di Hitler riguardo agli armamenti sovietici erano scarse già durante la seconda guerra mondiale. Il progetto si rivela un clamoroso buco nell'acqua. Il Fuhrer chiede un miglioramento delle condizioni, ma c'è il diniego

agosto 1961: a Tucuman un cittadino argentino dichiara pubblicamente di averlo riconosciuto. Kassler/Hitler è completamente calvo e privo di barba, ma i lineamenti, chiaramente, corrispondono.

marzo 1963: in via precauzionale, Hitler viene trasferito in Messico poiché le attenzioni della popolazione, dopo il presunto riconoscimento, si stavano facendo troppo vistose.

marzo 1965: Adolf Hitler ottiene la nuova identità di Roland Lindemann, cittadino tedesco realmente esistito a Syracuse e morto nell'ottobre dell'anno precedente. La CIA si incarica di "costruire" una vita attorno all'ex dittatore che, però, è costretto ad una vita da recluso.

ottobre 1971: a 82 anni Lindemann/Hitler subisce un leggero intervento cardiaco compiuto da una equipe di medici che lo seguiva da tempo.

maggio 1985: a 98 anni, Lindemann/Hitler per la prima volta viene accompagnato in Germania Ovest. L'ex capo del nazismo, assieme al presunto figlio Albert ed altri due agenti, visita per alcuni giorni Monaco di Baviera.

ottobre 1990: un curioso incidente complica i piani. In un supermercato, Lindemann/Hitler viene servito da un giovane di colore che viene apostrofato in maniera razzista. Il ragazzo è determinato a farsi valere in tribunale, ma dopo le scuse ufficiali del Fuhrer non procede.

Una vita tutto sommato priva di eventi. L'annuncio porta alla condanna unanime del mondo nei confronti degli Stati Uniti, responsabili di aver coperto l'esistenza di Hitler al mondo senza consegnarlo alla giustizia. George W Bush è costretto a scuse ufficiali con i reduci dei campi di concentramento ed il cancelliere Schroeder. Risulta che anche Clinton e Bush senior fossero a conoscenza di tale segreto. Si fa addirittura largo una voce che vuole John Kennedy ucciso perchè voleva rivelare al mondo la realtà dei fatti.

George Bush paga con la Casa Bianca. Nel 2004 non viene rieletto alle elezioni. Il corpo di Adolf Hitler viene riesumato dal cimitero di Bad Harzburg e gettato nel Mare del Nord per evitare che la tomba divenisse luogo di culto per i neonazisti. Il governo americano, nel 2008, perde una causa miliardaria con i reduci e i parenti delle vittime dei campi di concentramento.

Enrico V.

aNoNimo ha trascritto per noi un breve brano di "La svastica sul sole" ("The Man in the High Castle", 1962), capolavoro di Philip K. Dick:

Sali di corsa gli scalini con l'aria di uno che dovesse recitare un ruolo fondamentale negli eventi, ma in realtà non gli era nemmeno stato detto quale fosse l'oggetto di quella riunione.

Si erano già formati capannelli di persone; l'anticamera era animata da discussioni a bassa voce. Il signor Tagomi si avvicinò a diversi individui che conosceva, salutando con cenni della testa e assumendo un'aria solenne, proprio come loro.

Dopo breve tempo apparve un impiegato dell'ambasciata che li accompagnò in un grande salone. C'erano delle file di sedie, del tipo pieghevole. Tutti si diressero ordinatamente verso di esse e si misero a sedere silenziosamente, a parte qualche colpo di tosse e lo strascichio dei piedi. Le discussioni erano cessate.

Davanti a loro un funzionario con un fascio di carte in mano si fece strada verso un tavolo leggermente rialzato. Pantaloni rigati: un rappresentante del Ministero degli Esteri.

Vi fu un po' di confusione. Altri personaggi che discutevano sottovoce, le teste chinate una vicina all'altra.

«Signori» disse il funzionario con voce squillante, autoritaria. Tutti gli occhi si fissarono su di lui. «Come loro sanno, è giunta la conferma che il Reichskanzler è morto. C'è stata una dichiarazione ufficiale di Berlino. Questo incontro, che non durerà a lungo — sarete ben presto liberi di far ritorno in ufficio — ha lo scopo di informarvi della nostra valutazione in merito alle numerose fazioni in lotta fra loro nella vita politica tedesca, che adesso usciranno probabilmente allo scoperto e scateneranno una contesa senza esclusione di colpi per il posto lasciato vacante da Herr Bormann.

«In breve, questi sono i candidati più significativi. Il più noto, Hermann Göring. Vogliate perdonare le informazioni già risapute.»

Il Grassone, così chiamato per la sua corporatura, in origine coraggioso asso dell'aviazione nella prima guerra mondiale, ha fondato la Gestapo e ha rivestito incarichi di grande potere nel governo prussiano. Uno dei primi nazisti, fra i più spietati, ma in seguito alcuni eccessi sibaritici hanno dato origine all'immagine ingannevole di un personaggio amabile e dedito al vino, immagine che il nostro governo consiglia di non prendere affatto in considerazione. Quest'uomo, sebbene lo si definisca malsano, addirittura morboso in fatto di appetiti, ricorda più gli antichi Cesari romani, sempre pronti a indulgere sui propri difetti, il cui potere cresceva invece di diminuire, con il progredire dell'età. L'immagine sinistra di quest'uomo in toga con i suoi leoncini, proprietario di un immenso castello pieno di trofei e di capolavori artistici, è certamente accurata. Treni merci carichi di oggetti preziosi rubati arrivavano direttamente alla sua residenza privata, anche in tempo di guerra, a dispetto delle esigenze militari. La nostra valutazione: quest'uomo brama il potere assoluto, ed è in grado di ottenerlo. È più indulgente con sé stesso di qualunque altro nazista, ed è del tutto diverso dal defunto Heinrich Himmler, il quale viveva in condizioni di semi-indigenza con il solo stipendio. Herr Góring è il simbolo di una mentalità di rapina, che si serve del potere come strumento per ottenere la ricchezza personale. Una mentalità primitiva, anche volgare, ma l'uomo è intelligente, forse il più intelligente fra tutti i capi nazisti. Oggetto delle sue manovre: l'autoglorificazione, sul modello degli antichi imperatori.

«Poi Herr J. Goebbels. Da giovane ha avuto la polio. In origine era cattolico. Brillante oratore e scrittore, mente agile e fanatica, arguto, educato, cosmopolita. Molto attivo con le signore. Elegante. Colto. Estremamente capace. Lavora moltissimo; attività dirigenziale quasi frenetica. Si dice che non riposi mai. È un personaggio molto rispettato. Può essere affascinante, ma pare abbia una vena di fanatismo senza paragone rispetto a quella di altri nazisti. Le sue tendenze ideologiche ricordano il punto di vista gesuitico e medievale, esacerbato da un nichilismo postromantico tedesco. Viene considerato il solo, vero intellettuale della Partei. Da giovane aveva ambizioni da drammaturgo. Pochi amici. Non è amato dai subordinati, tuttavia e il più raffinato prodotto di molti fra i migliori elementi della cultura europea. La sua ambizione non nasconde l'autogratificazione, bensì la ricerca del potere per il potere. Tendenza organizzativa nel senso più classico dello stato prussiano.

«Poi c'è Herr R. Heydrich.» Il funzionario del ministero degli Esteri fece una pausa, alzò gli occhi e osservò i presenti. Quindi riprese:

«Molto più giovane del precedente, che ha contribuito alla rivoluzione del 1932. Ha fatto carriera con l'élite delle SS. Subordinato di H. Himrnler, potrebbe avere avuto  rilievo nella morte ancora misteriosa dello stesso Himmler, nel 1948. Eliminò ufficialmente gli altri contendenti all'interno dell'apparato di polizia, come A. Eichmann, W. Schellenberg e altri. Si dice che quest'uomo sia temuto da molti esponenti della Partei. È responsabile del controllo degli elementi della Wehrmacht, dopo la chiusura delle ostilità nel famoso scontro fra esercito e polizia, che portò alla riorganizzazione dell'apparato governativo da cui uscì vincitore il partito, il NSDAP. È sempre stato dalla parte di Martin Bormann. Prodotto di un addestramento di élite, ma anteriore al cosiddetto Sistema del castello delle SS. Si dice che sia del tutto privo di mentalità affettiva, nel senso tradizionale del termine. Enigmatico per quanto riguarda le sue ambizioni. Si può dire forse che abbia una visione della società in cui gli sforzi dell'uomo sono solo le varianti di una sorta di gioco; uno strano distacco, quasi scientifico, che si ritrova anche in certi ambienti tecnologici. Non partecipa alle dispute ideologiche. Conclusione: si può definire il più moderno come mentalità. È il tipico soggetto postilluministico, privo delle cosiddette illusioni necessarie come il credere in Dio, eccetera. L'implicazione di questa mentalità, diciamo, realistica non può essere valutata appieno dai sociologi di Tokyo, perciò quest'uomo deve essere considerato un punto interrogativo. In ogni caso è opportuno sottolineare che il deterioramento dell'affettività si manifesta nella schizofrenia patologica.»

Mentre ascoltava, il signor Tagomi cominciò a sentirsi male.

«Baldur von Schirach. Già comandante della Gioventù Hitleriana. È considerato un idealista. Ha una figura attraente, ma viene ritenuto poco esperto e poco preparato. Crede sinceramente negli obiettivi della Partei. Si è assunto la responsabilità di prosciugare il Mediterraneo e di bonificare vastissime zone coltivabili. Ha anche mitigato le crudeli politiche di sterminio etnico in terra slava, all'inizio degli anni Cinquanta. Si è rivolto direttamente al popolo tedesco per ottenere che gli slavi sopravvissuti potessero continuare a esistere in regioni chiuse, tipo riserve, nel cuore dell'Europa. Ha richiesto la cessazione di certe forme di eutanasia e di sperimentazioni mediche, ma senza successo.

«Il dottor Seyss-Inquart. Già nazista austriaco, adesso responsabile della politica nei possedimenti coloniali del Reich. È forse l'uomo più odiato in tutto il Reich. Si dice che abbia istigato quasi tutte, se non proprio tutte, le misure repressive a danno dei popoli conquistati. Ha lavorato con Rosenberg a progetti ideologici del tipo più allarmante, come il tentativo di sterilizzare l'intera popolazione russa sopravvissuta dopo la cessazione delle ostilità. Non esistono conferme certe, quanto a questo, ma è considerato uno dei maggiori responsabili della scelta dell'olocausto nel continente africano, creando in tal modo le premesse per un vero e proprio genocidio della popolazione nera. Forse è il più vicino, come temperamento, al primo Führer, Adolf Hitler.»

Il portavoce del ministero degli Esteri cessò la sua tiritera lenta e monotona.

Mi sembra di impazzire, pensò il signor Tagomi.

Philip K. Dick

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E ora, la parola a Paolo Maltagliati:

La guerra delle idee

Vi presento il bellissimo racconto scritto dalla mia studentessa Giorgia Furfaro di 3DL a.s. 2023/24, a partire dalla traccia segiente:
« La guerra delle idee: il valore della democrazia VS un mondo governato da una elite culturalmente preparata: pro e contro. Immaginate un dibattito tra soggetti animati da questi rispettivi valori. »

I colpi alla porta sul retro avevano risuonato per diversi minuti prima che qualcuno aprisse finalmente l’entrata al solito ritardatario. Non li si poteva però biasimare: ogni volta che i ragazzi entravano in quella casa il mondo esterno sembrava sparire.

Ciacco varcò la soglia trafelato, come se avesse corso. Aveva fatto passare lo sguardo da destra a sinistra tre volte per lato prima di chiudersi la porta alle spalle: era paranoico, gli altri glielo dicevano sempre. Aveva ancora, forse per via della giovane età, quella profonda sensazione di star combinando qualcosa di sbagliato, di star facendo qualcosa che non andava fatto.

Virgilio sembrava ancora più vecchio dell’ultima volta, nonostante fosse passata solo una settimana da quando lo aveva visto: era visibilmente stanco ma mai manifestava ai ragazzi nemmeno la minima voglia di non averli dentro casa, nonostante le conseguenze che ciò avrebbe potuto provocargli.

Ad ogni modo, Ciacco si stava, ancora una volta, perdendo nella sua testa, salutò Virgilio con un sorriso, dopo che questo gli diede il benvenuto. Dall’altra stanza si levarono urla degli altri ragazzi con “Ecco Ciacco! “, “Alla buon'ora!” e un lieve “La prossima volta iniziamo senza di te!” che lui si premurò di seguire recandosi in salotto dove una cerchia di 4 ragazzi seduti: lo stavano attendendo con l’aria di chi avesse aspettato per giorni.

I 4 ragazzi si guardarono tra di loro, Dante scosse la testa con un sorrisetto di scherno e Ugolino scoppiò a ridere per prima, con tutti gli altri al seguito.

Tutti in quella stanza sapevano che a Ciacco più che agli altri pesava il mancato rispetto del coprifuoco, sapevano che aveva paura e seppur ci fossero Ulisse e Francesca, che cercavano di non farglielo pesare più di tanto e lo capivano, gli altri due erano assai noiosi sull’argomento, e spesso le loro continue filippiche su come soprattutto i giovani dovessero lottare contro il sistema diventavano insopportabilmente pesanti da sostenere.

Virgilio entrò anche lui nel salotto, e gli mise una delle grandi mani vissute sulla spalla, un peso piacevole che gli confermava, ancora una volta, che andava tutto bene, che gli altri erano fieri di lui per avercela fatta anche solo ad uscire di casa.

Era ormai un anno che andava avanti così, per gli altri qualcosa in più dato che lui era l’ultimo arrivato: una o due volte a settimana si trovavano, di nascosto, a casa di Virgilio e Dante, e lì potevano essere chi volevano, leggere i testi che volevano, ascoltare ogni tipo di storia che non gli era consentito sapere altrimenti; tra quelle mura potevano conoscere per davvero il passato, conoscere il mondo.

Non potevano dire a nessuno ciò che imparavano, ovviamente; Virgilio non avrebbe dovuto nemmeno parlare di quelle cose a loro né tanto meno a suo nipote: metteva in campo i suoi studi umanistici, dispensando tutte le sue conoscenze ed i libri messi sottochiave. Virgilio avrebbe dato tutto per trasmettere le sue conoscenze, era convinto che queste avrebbero salvato il mondo o anche solo qualcuno, seppur, fino a quel momento, avevano fatto l’opposto.

Gli era rimasto solo Dante adesso, il nipote, un bambino interamente allevato da lui, una sorta di enciclopedia umana che parlava fluentemente greco antico e latino.

Per quanto riguarda gli altri ragazzi, invece, Ciacco non sapeva molto: non dovevano conoscersi all’esterno di quello che erano in quella stanza, e lì erano solo dei fruitori di tutto ciò che di più bello c’è al mondo: la conoscenza. Non usavano nemmeno i loro veri nomi, e la pratica dell’anonimato che era inizialmente nata per una questione di sicurezza, era presto sfociata in un gioco per cui ognuno di loro avrebbe avuto per gli altri il nome di uno dei personaggi dell’Inferno della Commedia dantesca, anche se per Virgilio si trattava del suo vero nome. Non c’era però idea migliore che racchiudesse il fare da guida da parte dell’omonimo uomo anziano a dei ragazzi che stavano vivendo in quello che era una sorta di loro inferno oltre quella casa.

Francesca era sicuramente la preferita di Ciacco. Anche se la ragazza lo trattava come un fratellino fastidioso manteneva sempre un atteggiamento gentile, calmo. Nessuno parlava della propria vita con gli altri, nessuno sapeva nulla oltre quello che traspariva dai dibattiti, e ciò che Ciacco sapeva su Francesca era solo, oltre alla sua incredibile passione per la filosofia greca, l’ipotesi che la ragazza dovesse aver avuto un’importante delusione d’amore per scegliersi proprio quel nome.

Ulisse, il più grande del gruppo, era il più chiassoso e curioso. Spesso fastidioso, il ragazzo era sicuramente un appassionato di storia.

Dante era il nipote di Virgilio, sicuramente colui che sapeva più di tutti essendo stato cresciuto dal vecchio sin dalla tenera età; aveva una conoscenza così ampia che non era nemmeno chiaro quale materia preferisse tra tutte; parlava le lingue classiche a un livello avanzato, cosa che faceva pensare a Ciacco che probabilmente lui e il nonno le parlassero spesso nel quotidiano di casa loro.

Ugolino, invece, al contrario del conte infernale, era una ragazza: con la fitta chioma riccia a coprirle gli occhi aveva sostenuto di non sopportare come tutte le poche femmine all’inferno fossero unicamente tra i lussuriosi, e aveva poi scelto il tragicamente peggiore tra i mostri maschili da interpretare e impersonare.

Infine, c’era lui, Ciacco, il più piccolo del gruppo, soprannominato in quel modo dagli altri perché, la prima volta che aveva partecipato, aveva sgranocchiato patatine per tutta la lettura dei primi 6 capitoli dei Promessi Posi (si malediceva tuttora per averlo fatto).

“Dunque”, Pronunciò Virgilio mentre si sedeva sulla sua personalissima sedia a dondolo: “dove eravamo rimasti la scorsa settimana? “.

Dante prontamente rispose a suo nonno: “Ci avevi letto l’ultimo libro della Repubblica, nonno”.

Questa attività permetteva non solo a Virgilio di parlare di ciò che più gli andava, di ciò che magari aveva semplicemente il bisogno di esternare a qualcuno che non fosse la sua mente, permetteva anche ai ragazzi di sviluppare una qualche conoscenza trasversale, di non annoiarsi mai e di poter sviluppare discorsi filosofici molto più ampli.

''Ma certo! ” Virgilio sembrò ricordarsi in quell’istante della settimana precedente.

Spesso, se si affrontava un argomento particolarmente interessante, Virgilio insinuava interrogativi, proponeva fonti e spunti per una cosa che lui chiamava ‘Dibattito’, un metodo che sosteneva allenasse i ragazzi a pensare e che reputava essenziale per lo ‘sviluppo delle loro personalità e attitudini’. All’inizio il tutto risultava forzato, nessuno di loro era abituato a farsi così tante domande in merito a questioni così poco specifiche, ma a distanza di più di un anno risultava normale, automatico, e spesso i giovani sapevano cosa avrebbe chiesto ancora prima che finisse di illustrare l’argomento.

Ulisse si mise a emulare la voce del vecchio, parlando con tono profondo e a tratti tremolante: “Qual’è, ragazzi, la forma di governo che ritenete migliore?”. Ripetè la domanda che aveva fatto Virgilio prima della fine dell’incontro della settimana prima.

Ugolino, come sempre, fu la prima a rispondere: “Facile”, disse: “La democrazia.”

Ma “L’oligarchia!” disse Francesca contemporaneamente.

Ugolino sgranò gli occhi guardando verso l’altra ragazza, che era seduta sul divano mentre lei era invece seduta a terra con le gambe incrociate: “Non puoi pensarlo davvero” disse con fare disgustato.

Francesca, dal canto suo, corrucciò lo sguardo: “Certo che lo penso” rispose tranquilla, inclinando la testa.

Virgilio non si intrometteva mai nei dibattiti, non faceva mai emergere il suo pensiero, in quanto non voleva condizionare i ragazzi nel loro; si limitava invece a rispondere alle domande storiche, umanistiche o di altra materia, che gli altri ritenevano utili per argomentare.

Anche in questo caso, quindi, il suo sguardo passava da una ragazza all’altra consapevole di ciò che aveva scatenato, conscio della pericolosità della discussione ma con un’aria, comunque, soddisfatta per essere riuscito a provocarla.

"La democrazia è una forma di governo pericolosa", spiegava Francesca a Ugolino: "Il popolo non ha la capacità di prendere decisioni importanti in modo razionale. Hanno bisogno di essere guidati da coloro che sono culturalmente preparati e che hanno la conoscenza necessaria per governare con saggezza."

L’altra giovane scosse la testa con disapprovazione. "Ma la democrazia dà voce al popolo, permette a tutti di partecipare al processo decisionale. Non è giusto che solo pochi privilegiati abbiano il potere di decidere per gli altri. Grazie alla democrazia, è possibile esprimere liberamente le proprie opinioni, partecipare attivamente alla vita politica del Paese e difendere i propri interessi in maniera legale, non sono forse cose che vorresti per te stessa?” Ugolino era animata da vera passione in quello che diceva, sembrava, in quel momento, che convincere Francesca fosse questione di vita o di morte e, forse, per lei lo era.

Fu allora che Dante intervenne ad aiutarla: ‘Pensate alla Rivoluzione Francese di fine 1700 ragazze, che ha portato alla fine del regime monarchico assoluto e all'instaurazione di un governo democratico basato sui principi di libertà, uguaglianza e fratellanza. Il fallimento oligarchico lo si vede anche con la Russia zarista, dove l'aristocrazia conservatrice ha soffocato ogni forma di dissenso, portando alla rivoluzione e alla caduta del regime anche in questo caso.”

Francesca non sembrò risentirsi dell’appoggio di Dante, che lei stimava chiaramente molto, a Ugolino; ciò sembrò invece spronarla ad approfondire il suo punto di vista contrario: “E voi pensate allora alla Repubblica di Venezia di fine 1200: il potere era concentrato nelle mani di un piccolo gruppo di nobili ed esperti amministratori. Questo regime oligarchico garantì alla città lagunare una lunga e prospera esistenza, permettendo lo sviluppo culturale ed economico di Venezia. Un governo di pochi saggi e culturalmente preparati permette uno sviluppo più rapido, è utilissimo, per esempio, anche in stati che sono poco stabili: serve a tenere unito un popolo che altrimenti si sfalderebbe.”

“E, sentiamo,” Ugolino mantenne un tono cinico: “sulla base di cosa sceglieresti questa élite?”

“Sulla base della preparazione amministrativa, penso, e anche alla loro cultura del territorio. Un’élite di uomini privilegiati non può governare su un popolo in difficoltà, devono conoscere ogni problematica per saperla gestire.” Ulisse espose la sua idea, che però, non appena finì di essere proposta, venne contestata da Dante: “Ma, amico, se metti solo un’élite di uomini al potere, quello È un gruppo di privilegiati.”

“Platone scriveva che per lui l'organizzazione statale doveva essere amministrata da un governo di filosofi saggi, in quanto per lui erano gli unici dotati di autocontrollo.” Francesca recitava Platone come se fosse il suo personale testo sacro, e lo illustrava come se gli altri non ne fossero a conoscenza, anche se lo avevano letto insieme.

“Ma la proposta di Platone era infattibile; ricordi che vietava ai governanti di avere famiglia?” Chiese Ugolino retoricamente: “Non considerava il popolo in quanto popolo, ma lo divideva semplicemente in lavoratori o guerrieri sulla base di attitudini che per lui erano naturali e proprie di ogni individuo; per poi sostenere che tutti dovessero essere governati da un’élite di saggi. Platone propone un governo di saggi in quanto saggio, senza curarsi delle altre due categorie, che lui non riteneva adatte ai ruoli amministrativi della sua città ideale, città che finiva in questo modo per essere ideale soltanto per i filosofi come lui.”

“Se vogliamo dirla tutta però Platone non considerava questa sua proposta una vera e propria oligarchia, non era pro all'oligarchia in generale; infatti, si era posto contro i tiranni; d'altro canto, ovviamente, non considerava la democrazia un'opzione, perché colpevolizzava il governo ateniese dell'uccisione di Socrate; state discutendo sul nulla ragazze.” Ulisse spiegò, e intanto diede un’occhiata a Virgilio, che ascoltava attentamente il tutto, come per chiedere conferma della veridicità di ciò che aveva detto.

Virgilio gli annuì ed aggiunse: “Ciò che dici è vero, Ulisse. Ad ogni modo il modello di cui state parlando, quello della Repubblica, rimane un modello semi oligarchico, cioè ascrivibile all'oligarchia, perché è una sofocrazia dove il governo non è un’élite di nicchia, ma un’élite di intelligenti, indipendente dalle classi sociali, quindi È qualcosa di diverso. Ma comunque trattandosi di un gruppo ristretto rientra nella proposta oligarchica.”

Ugolino, a questo chiarimento, riprese la parola: “Il vantaggio della democrazia, ovviamente, era che dava la possibilità di ciascuno di contribuire alla società. È vero, Platone propone un'élite oligarchica che superi i limiti di classe, ma una proposta democratica permette di dare a ciascuno, ad ogni cittadino, la possibilità di contribuire e di partecipare attivamente alla vita politica indipendentemente dalle classi sociali. È qualcosa di nettamente superiore che non comprendo come non facciate ad appoggiare!”

Virgilio tornò a spiegare: “Ma considerate che la polis greca, ragazzi, in qualunque ordinamento politico, anche oligarchico, manteneva forte senso di comunità e di partecipazione, anche dove questa fosse marginale: anche a Sparta, che più che oligarchia aveva una costituzione mista, c’era sempre qualche organo di assemblea; perché anche quando il popolo non aveva il diritto di voto c’era almeno un sistema per cui poteva, per esempio, approvare o meno le proposte, anche se con un ruolo decisionale minimo.”

“Ma la democrazia era una cosa comunque diversa,” prese a parlare il nipote: “soprattutto quella avanzata di Atene, perché non è più soltanto il permettere a chiunque di avere un ruolo in società attivo, potere esecutivo e giudiziario, ma perché, poi, molte cariche sono diventate ad estrazione.”

Francesca, a questo, riprese a parlare: “Ecco,” disse: “l'estrazione delle cariche è tra i più grandi fallimenti, in pace, che un governo democratico possa fare: non ripaga la meritocrazia, non mantiene un briciolo di logica; distrugge ogni possibilità del governo di essere competente. La democrazia è un'illusione che porta solo al caos e all'instabilità, solo l'oligarchia può salvare gli Stati dalla distruzione.”

Dante replicò immediatamente: “Nelle cariche tecniche venivano comunque scelti solo cittadini competenti, ma quando non serviva altro che un cittadino comune era giusto che il popolo facesse sentire il proprio ruolo ed ottenesse, per estrazione, un posto al potere. Gli ateniesi erano legati alla possibilità di partecipare alla vita politica, e così ognuno di loro avrebbe avuto la possibilità di farlo.” Chiarì.

“Eppure, la storia ci insegna che la democrazia fallisce di continuo” replicò Ulisse, tornando a ragionare sulla classicità: “Guardiamo alla vostra cara Grecia antica, dove la democrazia diretta ha portato all'instabilità e alla corruzione. E se non voleste più parlare di Grecia, pensate alla Roma imperiale, in cui la democrazia è stata alla fine sacrificata al potere personale.”

Francesca si accodò all’alleato nel dibattito: “Un governo controllato da un’élite di esperti permette di ‘prendere decisioni rapide ed efficaci’, sosteneva Machiavelli, che parlava di come con la democrazia si rischi di rimanere bloccati in discussioni interminabili. È vissuto a cavallo tra il 1400 e 1500 ed era convinto che fosse l'oligarchia il sistema che assicurava la continuità e l'efficienza del governo.”

Ciacco, fino a quel momento sintonizzato sul botta e risposta, con gli occhi che rimbalzavano tra i suoi compagni, superò il timore ed intervenì: “Se è vero che per Platone la democrazia era pericolosa perché permetteva alle masse di prendere decisioni irrazionali, non potete neanche omettere come”, spostò lo sguardo su Francesca e Ulisse, “Aristotele sosteneva invece che l'oligarchia fosse soggetta al rischio di degenerare in un regime di pochi privilegiati che sfruttano il popolo.”

“Esatto!” Si animo Ugolino, che sembrava non si aspettasse da Ciacco quel tipo di intervento: “L’oligarchia può favorire la corruzione dei governanti, che agiscono più per il proprio interesse che per il bene comune; inoltre, il sistema elitario può generare disuguaglianze sociali ed economiche che in democrazia si cercherebbe di evitare. La società sotto un'oligarchia si divide tra i pochi ricchi e la maggioranza di poveri, ed è per questo che nascono le tensioni sociali che poi hanno portato a rivoluzioni e guerre. Tutto ciò, con un sistema democratico, si eviterebbe, e non ci sarebbero scontri inutili.”

“Ugolino, non puoi ignorare che la democrazia non sia automaticamente un Paradiso.” Controbatté Ulisse: “Se la maggioranza ha il potere, non significa automaticamente che questa non possa schiacciare e sopprimere le minoranze, limitando i loro diritti. Ci sono numerosi esempi storici su questo, pensa anche solo al nazismo tedesco della prima metà del ventesimo secolo: la democrazia è stata usata distorta e strumentalizzata da un partito che poi ha promosso ideologie totalitarie e discriminatorie.”

“Il potere democratico”, continuò il suo discorso Francesca, “è facilmente soggetto a manipolazioni e corruzioni da parte dei gruppi di potere, che possono influenzare le decisioni politiche a proprio vantaggio. Ci sono numerosi scandali di corruzione che hanno coinvolto molti politici in diversi paesi democratici e che non hanno fatto altro che minare la fiducia dei cittadini nel sistema politico. Non è automatico che la democrazia garantisca l'assenza di abusi di potere, Può essere, anzi, una facciata per mascherare un governo in realtà chiuso.

Ipoteticamente tutti dovrebbero avere gli stessi diritti, tutto però svanisce quando una parte di loro opprime le altre pensando solo a sé stessa. Non puoi chiamarla oligarchia di un'élite culturalmente preparata e adatta, è solo, in questo caso, una conseguenza di una democrazia mal riuscita.”

“Niente è mai stato davvero democratico, se lo fosse realmente stato, tutti avrebbero partecipato ed avrebbero evitato l'errore!” ribattè Ugolino.

Il dibattito divenne poi un botta e risposta continuo tra Ugolino e Ulisse.

“Questo tuo atteggiamento di superiorità democratica, di diritti garantiti solo attraverso la democrazia, è quello che ha portato nella storia il soggiogamento, da parte di nazioni democratiche, di popoli che democratici non erano, con la scusa di ‘liberarli‘ e ‘salvarli’.” Ulisse mimò le virgolette con le dita mentre parlava: “ancora più avanti, negli anni di Virgilio” disse, e lo osservò mentre palava, “il presidio israeliano della Palestina, e il conseguente genocidio, sono stati compiuti da uno Stato che almeno in teoria era nato rappresentando il modello di democrazia così come tu lo intendi, con elezioni libere e una società pluralista che doveva rispettare i diritti umani e la libertà di espressione. E come è finito questo tuo modello democratico? A non rispettare diritti e libertà del popolo palestinese che cercava di difendere la propria identità e la propria autodeterminazione contro le occupazioni, gli espropri e le discriminazioni. Il conflitto rappresenta la messa in discussione delle basi stesse su cui dovrebbe essere costruita una società equa e giusta, è irrealistico conferire alla democrazia, e solo ad essa, la capacità di promuovere la pace sia socio-nazionale, che tra popolazioni diverse.”

“Lo stesso vale per l'America, che negli anni della guerra fredda faceva propaganda su quanto fosse democratica e su quanto la sua via democratica fosse la migliore per la tutela della libertà, quando nei fatti si è sporcata le mani In Vietnam, In Afghanistan e sullo stesso suolo americano con una politica del terrore imposta ai cittadini con una forte manipolazione mediatica.” Francesca continuò con un altro esempio.

La discussione sembrò quindi diventare una gara di continue proposte riguardati i fallimenti dei due metodi di governo: “E l'oligarchia per voi ha garantito più libertà?” Chiese retoricamente Dante, “oltre agli esempi che abbiamo già proposto vi ricordo anche l'oligarchia Fiorentina, che nel quindicesimo secolo comprendeva un gruppo di famiglie nobili della città di Firenze che la governavano in maniera dispotica e corrotta. I problemi dell'oligarchia si ripercuotono in primo luogo sugli abitanti dello Stato oligarchico stesso ed il malcontento tra i cittadini portò infatti alla ribellione popolare.”

“Lo stesso accadde in America Latina, nel XX secolo,” Ugolino sembrò riacquistare colore dopo l’intervento di Dante, e riprovò a parlare ancora, spiegando: “Diversi paesi dell’America Latina erano governati da organi d'élite economiche, politiche e militari che causarono disuguaglianze estreme a livello sociale e un'instabilità politica caratterizzata da una diffusa corruzione che ebbe come unica conseguenza rivolte e colpi di Stato per riuscire a rovesciarli. Non potete dirmi che l'oppressione oligarchica sia meglio di quella che voi chiamate instabilità e che in realtà è libertà.”

Dante riprese subito a parlare agganciandosi a questo: “Non potete attaccare la democrazia come forma di governo riferendovi a momenti in cui il concetto stesso di democrazia, quello quindi letterale di potere popolare, era irrilevante.”

Francesca rispose subito: “Se le decisioni sono prese da un presidente eletto democraticamente, Dante, la loro responsabilità ricade anche sui cittadini che lo eleggono. Per questo sto dicendo che, in un sistema democratico, l’accesso a decisioni così importanti ricade su persone, non certo tutte, ma ne bastano alcune, che prendono la cosa alla leggera, che non comprendono il potere che hanno.”

“E per questa regione, secondo voi, non dovrebbero proprio averlo?”disse Dante.

“Per questa ragione,” Ulisse sembrò calibrare le parole prima di riprendere: “a livello teorico sicuramente un’oligarchia è più funzionale, ed eviterebbe queste situazioni.”

Ugolino era particolarmente animata adesso: “Se con la democrazia il popolo ha potere e responsabilità, cosa che, certo, può sfociare in catastrofi, ma come succede con ogni altra forma di governo mai esistito, nell’oligarchia i cittadini non hanno nemmeno l’opportunità di avere alcuna responsabilità;” le scese una lacrima, una sola, e nemmeno sembrò accorgersene perché continuò con un tono più alto del precedente: “il popolo, in questo modo, risulta quasi passivo, non ha opportunità di votare per ciò che ritine giusto, di pentirsi dopo decisioni politiche che a posteriori gli sembrano sbagliate, di opporsi politicamente in modo legale e diplomatico, elementi che la democrazia garantisce.” Non c’era esitazione in quello che diceva, la voce non tremava nonostante gli occhi fossero lucidi: In un solo discorso dai suoi occhi era trapelata un’intrinseca infelicità, forse mischiata all’invidia per ciò che stava difendendo e che avrebbe tanto voluto avere; si erano percepite rabbia, disgusto e alla fine la ragazza sembrava solo molto stanca, come svuotata: “Davvero ragazzi, nemmeno Platone era convinto tanto quanto voi che la democrazia degenerasse immediatamente in scompiglio e anarchia: siete così frustranti!”

A Ciacco scappò una risata all’ultimo commento della ragazza, perché era sembrata così seria e dinamica per tutto il discorso che avrebbe convinto chiunque del suo punto di vista, e nessuno si aspettava si lasciasse scappare l’ultimo pensiero con tono così esasperato.

Ugolino si lasciò andare in un sorriso a tratti imbarazzo per via del silenzio intorno a lei e della consapevolezza di essersi presa forse un po’ troppo per l’argomento, finendo per avere il respiro pesante, affannato. Sapeva di essersi quasi arrabbiata, cosa che Virgilio le diceva sempre di evitare durante i dibattiti, in quanto un coinvolgimento emotivo troppo marcato risultava, secondo lui, uno svantaggio.

Gli altri, ancora, non fiatarono, limitandosi a fissarla.

Gli altri ragazzi seguirono Ciacco che nel mentre si era diretto in cucina, Dante chiamó Ugolino: la ragazza era rimasta seduta in sala a fissare un punto indefinito sul pavimento, persa nella sua testa.

Ugolino alzò così lo sguardo, ancora un po’ stordita, e lo posò su Virgilio, che era rimasto anch’esso seduto senza parlare, fermo a guardarla.

La fissava con orgoglio, erano i momenti così che lo facevano continuare a fare ciò che faceva; era la possibilità di insegnare ai ragazzi a pensare con la loro testa, l’opportunità di permettere loro di attingere alle più lontane conoscenze e di sviluppare un pensiero critico complesso e allo stesso tempo lineare, che scorresse da solo e che li coinvolgesse superando l’astrazione della teoria e diventando pieno di ripercussioni fisiche, emotive e concrete. Il vecchio non disse nulla però, limitandosi a sorridere a Ugolino, annuendo lentamente; le fece l’occhiolino e mosse il capo verso la cucina, per indicarle di raggiungere gli altri.

Giorgia Furfaro

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Diamo ora la parola a Dario Carcano:

Cuore di cane

Era sera, e sulla città era scesa la nebbia. Un'impenetrabile coltre bianco latte aveva fatto sparire i palazzi alla vista di Giosuè Venezia, che stava rincasando dal lavoro come tutte le sere. Quella sera aveva però fatto una strada diversa dal solito, infatti per la nebbia aveva preferito evitare la zona dei cantieri, dove si stavano costruendo le nuove case, per sostituire quelle distrutte nella guerra. Erano infatti gli anni di quello che sarebbe entrato nei libri di Storia come “Miracolo economico Italiano”, in cui l’economia era prospera e la disoccupazione era minima, se non inesistente. C’era ottimismo, c’era voglia di ricostruire dalle macerie della guerra appena finita.

Giosuè però aveva poco per cui essere felice. Lui, patriota e volontario nella Grande guerra, un giorno di agosto aveva scoperto che non era italiano. O meglio, che non aveva il diritto di considerarsi italiano; lui, che assieme al fratello aveva fatto la guerra sul Carso, sull’Isonzo, sul Piave e a Vittorio Veneto. Lui che aveva perso suo fratello nella guerra.

Ma era solo l’inizio. Per sua fortuna aveva evitato le camere a gas e le marce della morte. Lui e suo figlio più giovane.

Ma la moglie, Liliana, e gli altri due figli non si erano salvati. Loro erano passati dal camino.

Ma quello era il passato, per quanto doloroso, e Giosuè si stava sforzando di guardare avanti. Quella sera camminando scorse una figura che avanzava nella nebbia, verso di lui. Una figura ordinaria, che però attirò la sua attenzione: un uomo che portava a pisciare il cane.

C’era un motivo se quella figura attirò la sua attenzione: il cane, uno schnauzer gigante, appena aveva visto Giosuè aveva iniziato a tirare il padrone verso di lui, e raggiunto Giosuè aveva iniziato a fargli le feste. Come se fosse lui il suo padrone.

E in effetti lo era: quello era il suo cane, Max, e quando lui e la sua famiglia erano stati deportati, era rimasto in casa. E riconobbe anche il padrone, il suo ex vicino di casa, Tolomeo Piccolomini, che evidentemente dopo la deportazione della sua famiglia non si era fatto scrupolo a entrargli in casa, prendendogli quel poco che gli era rimasto. E il cane era tra queste.

Tolomeo ci aveva provato a evitare l’incontro, ma il cane lo aveva costretto a sottoporsi a quello sgradevole incontro. Dunque non gli restava che far finta di niente:

“Giosuè! Non ti avevo riconosciuto, dove eri finito? Sono anni che non ti vedo.”

“E me lo chiedi? C’eri anche tu quando i tedeschi e i fascisti sono venuti a prendere me e la mia famiglia.”

“Ah, già che stupido… e come sta tua moglie?”

“È morta.”

“Ah… salutamela. E i tuoi figli?”

“Si è salvato solo Alberto; Primo e Anna sono morti.”

“Mi dispiace… e adesso cosa fai?”

“Lavoro in un impresa edile, come dovresti ben sapere…”

“In che senso?”

“Lo sai benissimo, non fare il finto tonto. Quando la legge proibì agli ebrei di possedere fabbricati io ti intestai lo stabilimento. E se non sbaglio è ancora tuo…”

“No, l’ho venduto.”

“Non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che quello stabilimento era mio, non tuo.”

“Per la legge era mio! E non potevo andare contro la legge.”

“Già… ed è per rispetto alla legge che tu denunciasti me e la mia famiglia ai fascisti.”

“Non insultare adesso! Io non ho denunciato nessuno!”

“Me la ricordo l’espressione che avevi quando ci portarono via… eri felice, perché finalmente senza di me la fabbrica era tua!”

“Perché dici che la fabbrica era tua? Era mia.”

“Io te la intestai perché pensai che dandola a te, che eri nel Partito, sarebbe stato più facile recuperarla in seguito… col senno di poi fu una pessima scelta. Ma questo non giustifica ciò che hai fatto. Io mi ero fidato di te, e tu mi hai pugnalato alle spalle.”

“Non sono un traditore…”

“Lo sei invece. E sei anche un vigliacco.”

“Insultami pure se vuoi, ma da me non avrai nulla… anzi, questo cagnaccio puoi anche riprendertelo.”

E il signor Piccolomini se ne andò mentre mandava Giosuè a quel paese.

Egli mentre riprendeva la strada verso casa sua si rivolse al cane, e gli chiese:

“Ma tu pisci ancora sui tappeti?”

Ed entrambi sparirono nella nebbia.

Dario Carcano

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Aggiungiamo un altro intervento di Dario Carcano:

Questa sono sicuro che non la conoscevate: i film preferiti dei dittatori!

Muʿammar Gheddafi: Le avventure di Buckaroo Banzai nella quarta dimensione (Si dice che Gheddafi avesse creato un canale televisivo in cui questo film era trasmesso 24 ore al giorno)

Idi Amin Dada: Tom & Jerry (In questo caso, c’è la conferma del figlio)

Iosif Stalin: Tarzan, l'uomo scimmia (come Hitler, a cui arriveremo, apprezzava anche i film western statunitensi)

Thein Sein: Le furie umane del kung-fu

Benito Mussolini: Estasi (il primo film a contenere una scena di nudo femminile integrale, oltre ad un orgasmo simulato, il che vuol dire che per gli standard degli anni ’30 era quasi un porno)

Saddam Hussein: Nemico pubblico (in generale, Saddam apprezzava i thriller di spionaggio. Tra i suoi preferiti figurava anche Il giorno dello sciacallo, oltre a Il padrino e Il vecchio e il mare)

Kim Jong-il: apprezzava le saghe di James Bond, Venerdì 13 e i film di Rambo (era anche un fan di Elizabeth Taylor e Michael Jordan). L'ironia di Kim Jong Il che ama un film su un veterano del Vietnam è a dir poco stridente!

Bashar al-Assad: Harry Potter e i Doni della Morte (sia il primo che il secondo): probabilmente cerca ispirazione per un piano B

Vladimir Putin: Lo Scudo e la Spada (film della propaganda sovietica del 1968, che avrebbe ispirato Putin a intraprendere la carriera da spia nel KGB)

Mao Zedong: Il furore della Cina colpisce ancora

Adolf Hitler: Biancaneve e i sette nani (era anche appassionato degli western e dei film su King Kong). Tra l'altro Biancaneve era vietato nel III Reich, il Führer se lo guardava in proiezione privata.

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Per farci conoscere il vostro parere in proposito, scriveteci a questo indirizzo.


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