Ala ye duba i ye, Mansa Qu!
(Bon voyage, Mansa Qu!)
di feder
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Lo scolaro arabo Al-Umari attribuisce al mansa Musa, ricordato per aver dimostrato al mondo la straordinaria ricchezza del Mali durante il suo pellegrinaggio alla Mecca (in proposito, si disse che l'economia egiziana sarebbe vissuta per anni di sue gentili elargizioni!), le seguenti parole:
« Il sovrano
che mi precedette non credeva che fosse impossibile raggiungere l'estremità
dell'oceano che circonda la terra, e volendo raggiungere quell'estremo termine,
persistette ostinatamente in quel disegno finché era in vita. Così, equipaggiò
duecento canoe piene di uomini, e altrettante piene d'oro, acqua e viveri
bastevoli per molti anno. Fatte queste cose, ordinò all'ammiraglio di non
tornare a meno che non avessero raggiunto la fine delle acque o avessero
esaurito le provvigioni. Ben disposti, partirono.
La loro assenza si protrasse per un lungo periodo, e, infine, un'unica canoa
ritornò. Interrogato, il capitano rispose: "Principe, abbiamo navigato a lungo,
finché non avvistammo nel mezzo dei flutti una stranezza, come se un grande
fiume stesse irrompendo con violenza. La mia canoa era l'ultima; le altre erano
prima di me. Non appena qualcuna di queste raggiungeva quel luogo malefico,
veniva assorbita nel mulinello e non ne usciva più. Io diedi ordine di invertire
la rotta per fuggire questa tremenda corrente."
Ma il Sultano (Mansa Qu) non volle credergli. Dispose che altre duecento canoe
fossero nuovamente equipaggiate alla stessa maniera, per lui e i suoi uomini, e
che un migliaio ancora lo seguissero come scorta, con vettovaglie varie
vettovaglie. Dopodiché mi affidò la reggenza dell'impero, in caso non tornasse,
e partì con la flotta per un viaggio al di là delle acque, per non tornare mai
più, né dare segnali di vita. »
E se invece all'alba di quel giorno lontano i venti non si fossero levati, evitando la formazione dell'acquazzone?
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La grande spedizione
Nel 1311, dopo aver ricevuto in gran sfarzo il ritorno della sua spedizione transatlantica, Mansa Qu è insoddisfatto: gli uomini che ha inviato oltre il Grande Oceano sostengono di non aver trovato che acqua, ed esaurite le provvigioni, sono stati costretti a ritornare in patria. Il visionario imperatore, però, non è scoraggiato: lasciato il potere sul Kurufaba nelle mani del suo amico Musa, fidato guerriero e consigliere, dà ordine di prepara una seconda spedizione per ulteriori esplorazioni, mentr'egli stesso, preso il comando della grande flotta di esplorazione, si imbarca e guida la spedizione. Siccome vagare senza meta per l'oceano non ha funzionato alla prima, Mansa Qu impone di costeggiare la terra, mentre si sorteggia la direzione da prendere. Forse per fortuna o per un sorriso della Provvidenza, è la via del nord a essere scelta; le canoe si mettono in coda come per attraversare il vasto fiume Niger, caro ai Mandinka. La navigazione in sé, con sommo scorno del mansa, si rivela molto noiosa, salvo per un episodio: lo sbarco presso l'impero rivale di Wolof, cui il Mansa tenta di imporre il proprio primato, si conclude in un disastro. Mansa Qu, accolto con l'inganno nella capanna del re di quella gente con cui vuole stringere amicizia, viene catturato e i tribali tentano di dargli fuoco, riconoscendo in lui il potente stregone da sempre antagonista suo e dell'irriducibile popolo che vive sul fiume Senegal. Per fortuna però, dopo qualche tempo i capitani delle canoe si insospettiscono e lanciano un attacco sul villaggio di Kayor, capitale del Damel e del regno locale, dove il mansa è tenuto prigioniero; la battaglia è durissima, giacché entrambe le parti sono motivate dallo stesso ardore e virtù guerriera, ma alla fine la superiorità numerica e la migliore tecnologia dei Mandinka ha la meglio. Il Damel è passato per le armi, e una sorte simile tocca alla sua tribù: le capanne sono date alle fiamme, gli uomini uccisi, mentre le donne e i bambini presi prigionieri dall'imponente flotta; alcuni kayoriti, tuttavia fungono presso Wolof, cui ricordano l'antico trattato di vassalizzazione e l'importo del tributo versato regolarmente, ma in quel momento è in atto una torbida guerra di successione fra i figli del capovillaggio di Linguére, la stessa da cui uscirà vincitore il primo grande imperatore dei Wolof, Ndiadiane Ndiaye, per cui non se ne fa nulla. Sarà slo una volta che quest'ultimo, invecchiato dagli anni, avrà consolidato il suo potere, che i Wolof guideranno il contrattacco: Kayor, il cui popolo ormai non esiste più, è ricostruita come città Wolof, e ne diventa molto presto la capitale, potendo beneficiare di una posizione ben più adatta per il dominio sul fiume Senegal rispetto all'antica Linguére, persa nel fitto della giungla. Più avanti, Ndiaye reclamerà per sé il titolo di unico di Bour ba (tradotto pigramente come imperatore universale), lanciando un attacco sulla provincia di Baraquri, situata sul corso del fiume Gambia e maggiore porto dell'impero; per molto tempo, complice l'assenza di Mansa Musa da Niani, governerà in quella regione da sovrano assoluto, finché il contrattacco Mandinka non lo scaccerà da quell'arteria vitale per il suo commercio.
Ma intanto, che ne è stato di Mansa Qu? La sua flotta, tremendamente appesantita dal bottino conquistato ai Wolof, esaurisce ben presto i viveri. I Mandinka non hanno nemmeno raggiunto capo Bojador, che l'imperatore, su consiglio di alcuni attendenti arabi, contava di doppiare per aprire una via diretta al commercio col Marocco che non fosse soggetta agli attacchi delle tribù beduine attraverso il Sahara. Avvillito, Mansa Qu dà l'ordine di ritorno. Sembra allora che l'epopea del Mali sul mare sia destinata a concludersi ingloriosamente, se non fosse che un'improvvisa quanto inattesa corrente rendirizza la nave verso Occidente. I marinai sono terrorizzati: tutti, infatti, conoscono la storia raccontata dalla prima flotta, secondo la quale oltre una certa distanza da terra non v'è che la morte per inedia; non sapevano quanto si sbagliavano. Dopo tre terribili mesi di navigazione in cui buona parte delle canoe si inabissa e affonda, e gli uomini devono sostentarsi di pesca senza che questa bastasse per tutti, i flutti sospingono ciò che resta della maestosa flotta regia sulle spiagge di una terra lussureggiante: i frutti sono enormi e pendono succosi dagli alberi, la selvaggina è abituata alla vita selvatica e non conosce certo i metodi di caccia Mandinka, venendo sterminata, il sole splende e il cielo è più azzurro che mai. Mansa Qu, sopravvissuto fortunosamente al viaggio, è raggiante: dopotutto, egli aveva ragione! C'è della Terra oltre il Grande Mare!
Che cos'era successo? Semplice, le beghe coi Wolof hanno attardato la spedizione, partita in piena estate com'era propizio presso il popolo di Niani, al punto tale che quand'essa riprende il mare soffiano i venti dell'inverno, gli stessi che i portoghesi iniziavano appena ad apprezzare per le proprie qualità, nominandoli orientali o commerciali, poiché sospingevano le galere dei navigatori verso Occidente, aprendogli la via per superare le temute correnti marine africane. Tra l'altro, è stato calcolato che in quel preciso momento storico l'oscillazione antartica fosse nella sua fase fredda, assicurando così alle canoe un'ulteriore spinta. Ma di queste nozioni scientifiche, il mansa non sa niente: egli è solo convinto di aver colto una fondamentale vittoria per la conoscenza dell'Umma, la cui ecumene si apre così alla scoperta di un Nuovo Mondo. Per giunta, egli è innamoratissimo dei suoi nuovi possedimenti: a riprova di ciò si testimoni il fatto che, dopo aver sepolto in profondità nel terreno uno scudo ricavato con i colori delle foglie e del mango su cui si denotano le insegne del Mali (potete vederlo qua sotto; si tratta del primo vessillo in assoluto a "garrire" nelle Americhe!), dà ordine di costruire un primo e primitivo insediamento, alla maniera degli antenati: sono erette capanne, delle quali la più grande è destinata ovviamente all'imperatore, e nelle quali si insediano le marinerie esauste dalla tremenda esplorazione. Essersi portati dietro delle donne, in questo caso fa comodo: gli uomini si sposano e cominciano ad avere prole in questo strano continente tutto da esplorare. Eppure esse, catturate in piccolo numero presso i Wolof, non bastano per saziare gli appetiti della truppa; si rischia una vera e propria insurrezione, allorché Mansa Qu è costretto, contro la sua volontà, a inviare alcuni uomini armati di tutto punto presso la vicina foresta, allo scopo di ricercare altre tribù da razziare.
Ricostruzione moderna dello scudo di Mansa Qu
I resoconti forniti dalle spedizioni illuminano il consesso dei capitani sulla terra dove sono capitati: il Nuovo Mondo è effettivamente abitato, da uomini e donne che vivono alla maniera dei padri del Mali: vanno in giro nudi, senza grandi armi e vivono in costante contatto con la natura, dalla quale traggono appena il necessario per vivere, in una situazione di comunismo primitivo. Non hanno legge né usanze; non venerano alcun dio, mangiano la carne cruda e si servono, quando capita di urla per comunicare fra loro, ché, vivendo sparsi nella giungla, non hanno bisogno di grande linguaggio. Gli uomini certamente esagerano i loro racconti per ottenere dal Mansa, il quale è effettivamente inorridito dall'inciviltà degli appena scoperti selvaggi, l'ottenimento del diritto di cacciarli come fossero bestie per ricondurli come schiavi all'accampamento. Mansa Qu tentenna; per alcuni giorni si chiude nella sua capanna, leggendo da cima a fondo, e ricominciando, la copia del Corano che si è portato fin in quel remoto angolo di mondo, cercando una giustificazione per ciò che la sua gente si apprestava a compiere nel nome di Allah. Dopo una settimana, i capitani, cui l'ingordigia ha fatto saltare i nervi, si trovano di comune accordo e fanno circondare l'abitato di paglia e fango dai loro uomini, intimando la resa all'imperatore. Questo, circondato dalle puntute lance dei suoi servitori, non può che accettare, pur di aver salva la vita; ma in cuor suo rifiuta quell'avvenimento e pensa con rammarico a quel giorno lontano in cui ha avuto la malsana idea di valicare le acque, senza sapere che avrebbe condannato, con quell'ignaro gesto, un'intera genìa di gente alla sudditanza eterna.
Dalla sua capanna, Mansa Qu osserva sagace lo svolgersi degli eventi: grazie al furto e alla rapina, l'insediamento cresce rapidamente. Una volta che le acque si calmano, ottiene dall'assemblea di capitani, oramai veri e propri capitribù che si arrogano discendenze nobiliari alla maniera dei governatori provinciali del Vecchio Mondo, il permesso di rilevare qualche schiavo per sé. Mansa Qu tratta i suoi servi umanamente: a differenza dei capitani, non li costringe alla fatica, gli corrisponde un piccolo stipendio nella forma di frutta (e non d'oro, il cui valore questi non capiscono), non costringe le coppie congiunte alla separazioni ed egli stesso, la cui moglie è rimasta sola al di là del mare e si crede ormai vedova, prende in sposa una fanciulla indigena, previo riconoscimento del padre, cui accorda una larga dote. È proprio con quest'ultimo, del quale la storiografia araba, profondamente razzista, non ci ha tramandato il nome, ch'egli stringe rapporti cordiali: riuscito nella non facile impresa di insegnargli un poco di arabo ed espressioni malinké, si fa narrare molte cose sui veri abitanti del Nuovo Mondo. Scopre, fra le altre cose che la terra è ricca non solo di alberi, frutti e animali mai visti prima, ma che in alcune miniere inesplorate si trovano risorse senza pari in patria, cui l'oro ancora non basta: ferro, rame, carbone e quant'altro ben di Dio. Il Mansa sfrutta saggiamente queste informazioni, inviando alcuni dei suoi schiavi presso questi luoghi e premunendosi che non fossero seguiti: con l'estrazione delle risorse combinato alla sua sapienza, mista con l'esperienza che si è fatto durante il viaggio, mette a punto modificazioni alle grandi canoe Mandinka che pure hanno permesso di effettuare il viaggio e, soprattutto, un nuovo tipo di lancia detta dai locali guanín: si tratta di un ricavato ottenuto con la prima fusione dei metalli effettuata nelle Americhe, costituita di 32 parti: 18 d'oro, 6 d'argento e 8 di rame.
Grazie all'egemonia offerta dal controllo delle risorse della ricca terra (per dire: Mansa Qu si aggiudica anche il primato per il conio di moneta nel Nuovo Mondo!), l'imperatore può riaffermare l'autorità sul collegio dei capitani, imponendo uno stop alle attività di pirateria a danno dei nativi. Subito dopo, egli incomincia ad istituzionalizzare l'appena riottenuta autorità: fa erigere dal nulla un sontuoso palazzo in pietra pomice e legno, nel mezzo preciso della città, allo scopo di tenere sotto controllo i sudditi. Di fronte, a delimitare la circonferenza, dispone la costruzione di un edificio di fattura simile, ma di dimensioni molto ridotte (è grande all'incirca la metà) rispetto al suo palazzo. Per completare la piccola piazza, impone la costruzione di una sontuosa moschea, come punto di raccordo fra i due nascenti edifici del potere, e per la quale non risparmia abbellimenti in oro e altri materiali preziosi, sia portati dal Mali, sia locali; in essa ordina che siano conservate le risorse raccolte dalla città a garanzia di neutralità tra le parti. Infine, fa circondare il nucleo abitato da una palizzata, onde proteggere i Mandinka e i loro schiavi dagli attacchi portati dai parenti di questi ultimi, allo scopo di riguadagnare alla libertà i propri cari; purtroppo, per la gioventù d'America, il loro tentativo si infrangerà contro le lance in guanín portate dai soldati dell'imperatore del Mali. Il nome della nuova colonia del Mansa verrà traslitterato dagli europei in Magnolia, per il colore della pelle degli abitanti indigeni: è l'anno 718 dall'Egira, 1318 dell'era cristiana. I Mandinka hanno battuto Colombo di quasi due secoli.
Mappa mundi disegnata da Mansa Qu
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Il Mali cambia volto
Dunque, come abbiamo visto, a
partire dall'inizio del XIV secolo Mansa Qu si è ritagliato un dominio lungo le
sponde della Magnolia. E nonostante si tratti di una terra ricca ed
eccezionalmente fertile, lo domina un solo cruccio: il pensiero di ritornare a
casa. Non che l'imperatore non conservi in segreto qualche remora sulla capacità
empatica dei suoi antichi sudditi: l'avventura presso Wolof e nel Nuovo Mondo
gli ha dimostrato ogni ragionevole dubbio che cosa è capace di fare un'armata
indisposta dall'avidità e dalle avversità. Lo spingono, perciò, il desiderio di
pubblicare la sua raccolta di storie di viaggio, insieme con una descrizione
geografica dei popoli, delle piante e degli animali di Magnolia, ch'egli trova
particolarmente interessante. Per tre volte egli invia un pugno di canoe
rinforzate sulla scia del sole, perché preannuncino al suo amico Musa la gioiosa
notizia del suo viaggio di ritorno.
Eppure la perseveranza non premia l'imperatore in questo caso: una si perde nel
vasto oceano (i vecchi lupi di mare Mandinka spaventano ancora oggi i più
creduli tra i turisti narrandogli di come avrebbero incontrato il fantasma dei
marinai), un'altra esce fuori rotta e si inabissa presso Capo Verde, costituendo
coi naufraghi una piccola popolazione di Mandinka che perciò si qualificherà
come primi abitanti in assoluto dell'arcipelago. L'ultima segue tutti gli step
indicati dal saggio mansa correttamente, ma sbarcata nel Baraquri è presto
sottomessa dalla guarnigione lasciata di stanza da Ndiadiane Ndiaye, imperatore
dei Wolof; il crudele destino vuole che i prodi navigatori di Qu scontino il
prezzo della pena commessa pochi anni prima, lavorando fino allo stremo nei
lavori di edificazione della nuova capitale Kayor, che l'imperatore desidera
essere più maestosa della rivale Niani in ogni più minuscolo aspetto. Le
ricchezze non gli mancano, poiché in quegli anni il Kurufaba paradossalmente
difetta di un monarca, pur avendo due monarchi, uno nelle Americhe, e l'altro a
pellegrinaggio presso la Mecca, ed egli può perciò prelevare quanto desidera dal
tesoro di Niani e razziare a piacimento le ricche miniere del Bambuk,
garantendosi un copioso afflusso di oro per finanziare la propria politica
espansiva. Tra l'altro, proprio in quegli anni l'ambizioso imperatore invia i
suoi uomini a presidio delle vie carovaniere nel deserto, parte per brama di
conquista, parte per estendere ancora una volta il suo dominio, facendosi nemici
anche i Tuareg del deserto, cui tradizionalmente da sempre era affidata questa
pratica. Essi si danno alla macchia, razziando le carovane che mettono in atto
il collegamento fra il Mali, il Marocco e l'Europa, causando una gravissima
inflazione, giacché quasi ogni moneta del Vecchio Mondo è coniata con oro del
sottoterra dell'impero, e dando alle fiamme per giunta numerose oasi, allo scopo
di evitare che i nemici ne facciano uso. Come risolvere questa pesantissima
impasse?
Per fortuna, lo scopritore e primo imperatore delle Americhe ha un piano per tutto. Stavolta, egli intuisce che ci dev'essere qualcosa che non va, oltre la naturale stupidità degli uomini; com'è chiaro, non sa niente della cattiva sorte della sua bella Niani, ma immagina bene che dev'essere successa una gran disgrazia, se su tre spedizioni inviate nel giro di sei anni non ne ritorna nessuna. Alla fine, l'irruenza ha la meglio sulla prudenza: Mansa Qu si scoccia di aspettare e, come suo solito, non crede alle consuete storie di sirene maligne e mostri marini raccontate dal consesso dei capitani al fin di scoraggiarlo (temono infatti che se la Magnolia ritornasse sotto l'effettiva autorità imperiale si vedrebbero decurtati dei loro privilegi). Il mansa li rassicura: ha capito ormai che il miglior modo per addestrare un cane impiega sia la carota, che il bastone. Ma in quanto a sé, Mansa Qu non ha il benché minimo dubbio: vuole sapere che diavolo sta accadendo, e perciò, senza fare troppi complimenti, ordina il restauro dell'antica flotta di canoe, parzialmente rovinata dagli anni di inazione. Nonostante l'accortezza dimostrata dal saggio imperatore, solo centocinquanta imbarcazioni si rivelano recuperabili; le altre, infatti, sono state invase dalla vita e dalla salsedine a causa dello stato di abbandono, e in una ha persino fatto la propria casetta una famigliola di scimmie dai pennacchi bianchi, che il divertito imperatore nomina per l'occasione uistitì da un'espressione locale per gran bighellone. Alcuni esemplari dell'animale saranno prelevati dal mansa, che sarà anche il primo in assoluto a fornirne una descrizione scientifica; purtroppo, il suo tentativo di tassonomia non verrà considerato da Linneo, che pure è stato fra le sue fonti di ispirazione poiché redatto in lingua araba e non latina, com'egli auspicava.
Copia europea di un disegno originale del Mansa andato perduto
Il 16 giugno del 1324 quindi, Mansa Qu ordina alla sua marina di salpare l'ancora. L'aria è fresca e l'imperatore sorride, ma non così la sua truppa, che si è piuttosto rassegnata, dopo aver trovato il paradiso e le sette vergini promessi da Maometto, a fare ritorno sulla terraferma (non si è ancora compreso, infatti, che Magnolia fa parte di un enorme continente). Ciò nonostante, ai marinai resta qualcosa di stupirsi, giacché, per la seconda volta, tutto fila liscio come l'olio, le provviste non si esauriscono, e la forza di braccia dei remi Mandinka basta per assicurare a questi ultimi un gentile rimpatrio, senza scontri con bestie di alcun tipo. Ancora una volta, il merito del trionfo va al mansa e alla sua acuta capacità di osservazione; tramite i suoi appunti, infatti, il sovrano africano ha potuto riportare alla mente i ricordi di quei venti tremendi che infuriavano in estate lungo la direzione opposta alla sua quando ancora si cercava di scoprirla, la Magnolia. L'ennesima vittoria sui mari attribuirà all'imperatore un posto di primo piano fra i più grandi esploratori di tutti i tempi.
Al contrario, lo sbarco non è affatto gentile. Già ad una grossa distanza le canoe sono funestate da una pioggia di dardi scagliati dai limitanei dei Wolof; per un soffio, si salva anche l'imperatore, che ha schivato di poco un'asta nemica. Mansa Qu, com'è costume degli uomini del suo tempo, urla a gran voce che si è trattato di un miracolo di Allah per la salvezza del suo protetto; galvanizzati dall'amicizia divina, allora, i Mandinka si lanciano all'attacco e massacrano i guerrieri del bour-ba, nonostante si trovino in palese inferiorità territoriale e numerica. I superstiti sono presi prigionieri dal mansa, che li fa tagliare l'indice e il pollice cosicché non possano più maneggiare le armi, in piena conformità con le antiche disposizioni tribali dell'Africa subsahariana; impietosito dal crudele gesto, però, ne risparmia uno soltanto, che per pura coincidenza è uno dei figli del re rivale. Il giovane Ndiaye è così battezzato nella fede islamica e gli viene imposto il nome di Sare, come la Sarai biblica, moglie di Abramo, poiché la sua straordinaria bellezza è per il Mansa grande piacere. Sare resta presso l'imperatore rivale, apprezzandone, nonostante i quasi trent'anni di età di differenza, la grande erudizione e la levatura morale, e i due si affezionano l'un l'altro (non poche sono le voci di un amore omosessuale, il che spiegherebbe anche perché il mansa non ha avuto figli); ovviamente Ndiaye schiuma di rabbia per la cattura di un membro della sua prole, che per di più si è venduto al suo più grande rivale, ma ora che è ritornato il re, non osa sfidare le armi del Mali, nettamente superiori alle proprie. A questa sconfitta i Wolof fanno ricollegare la loro leggendaria insofferenza nei confronti della religione predicata da Maometto, restando pagani ad oltranza (si convertiranno poi al cristianesimo solo quando avranno saputo dai francesi che la loro confessione è tenace e irriducibile avversaria dei musulmani).
Eppure le molte vittorie hanno stancato il mansa. Si fa vedere poco in pubblico, poiché si vergogna di avere la barba bianca e la schiena incurvata; tutto il suo tempo lo passa fra lo studio e la redazione della sua personale odissea oltre l'oceano alla volta di Magnolia, e le amorevoli cure di Sera, che è di fatto il vero detentore del potere imperiale nel biennio 1324-1326. L'impero è amministrato saggiamente, e grazie alla saggia guida dopo un periodo di crisi, i villaggi si espandono nuovamente; persino l'oro, appianati i contrasti coi nomadi Tuareg, ricomincia a fluire verso l'Europa, decretando l'inizio e la fine di non si sa quanti contendenti nelle lotte di potere fra antagonisti e rivali. Finalmente, nel 1326 Mansa Musa ritorna dal suo pellegrinaggio alla Mecca. Sulle prime, non è affatto contento di dover rimettere la sua autorità nelle mani del suo vecchio amico, che trova cambiato e profondamente stremato dalle sue fatiche oceaniche; narra la leggenda, che i due non riuscirono nemmeno a riconoscersi. L'abile Sera però si fa avanti e suggerisce un accordo per rappacificare le parti: a Qu andrà il titolo imperiale, con annessa percentuale sulle riserve d'oro, e si insedierà sul fiume Gambia, nella ripresa Baraquri, da dove il suo animo rotto potrà rinfrancarsi ogni giorno grazie all'osservazione delle acque lontanissime e dei ricordi di una gioventù che ormai si è spenta, accompagnato, com'è naturale, dal suo servitore Ndiaye; Mansa Musa, invece, terrà corte presso Timbuktu, onde sovrintendere ai traffici con il Vecchio Mondo, occupandosi di sovrintendere alla costruzione di infrastrutture per una comunicazione rapida e una forte urbanizzazione dei principali centri di popolazione, tecniche che ha appreso lungo il suo viaggio in Egitto e in Arabia.
Il Mali beneficia grandemente di questo periodo di reggenza: la situazione economica si sblocca, giacché l'oro estratto dalle miniere non è più inviato sommessamente altrove, ma investito oculamente in questa o quella attività produttiva. In questo, bisogna dire che Mansa Qu coglierà il suo ultimo trionfo, e forse il più grande e duraturo (insieme alla pubblicazione del suo libro di viaggi, s'intende); la creazione di una rete di canoe che mantenga il contatto con la sua amata colonia d'oltreoceano e ne assicuri il pagamento a corte di un tributo permanente, come si fa per ogni altra provincia dell'impero. I capitani, ristretti fra la foresta selvaggia e il mare infinito, accettano, consci come sono che necessitano di un flusso costante di individui per gestire e colonizzare il Nuovo Mondo, giacché i poveri magnoliani sono di stirpe incivile e di costituzione fragile, e vengono falcidiati in massa dal lavoro forzato imposto dai possidenti terrieri nelle miniere e nelle piantagioni di ortaggi esotici, che iniziano appena a raggiungere il territorio proprio dell'impero, provocando un'ulteriore e imponente esplosione demografica. Sarà Mansa Musa, da poco asceso al trono, a trovare la soluzione a questo problema, disponendo la costituzione di un'armata permanente, primo nucleo dell'esercito da fermo Mandinka, deputata al saccheggio perpetuo delle tribù della giungla che non si sottomettono all'impero: il Kurufaba possiede una sete d'uomini insaziabile, e quando le lucrose prospettive di lavoro implementate nelle nuove città Mandinka non sono sufficienti ad attrarre gente, non è considerato intollerabile procacciarsi servi da inviare in catene sulle canoe oceaniche. Tutti questi fattori concorreranno a fare la triste fama del Kurufaba in Europa come l'impero degli schiavi per antonomasia, dove non esiste alcuna libertà.
La magnifica moschea di Djinguereber voluta da Mansa Musa in una stampa francese del secolo scorso
Mansa Musa, comunque, non è soltanto uno zelante trafficante di schiavi, ma anche uno zelota di profondissima fede e un grande legislatore. Sotto la sua corona, si posero le basi per lo sfruttamento efficace delle scoperte di Mansa Qu; se quest'ultimo è Cesare conquistatore di genti, si potrebbe dire infatti che il Musa fu piuttosto l'Ottaviano Augusto del Mali. Il nuovo mansa s'imbarcò perciò in una grandiosa opera di costruzione: voleva che il suo impero non fosse solo ricco, ma anche civile, al pari di come i suoi architetti andalusi gli narravano che fossero le corti dei loro sultani. Si cercò di fare in modo che ogni città possedesse almeno una sua propria moschea, e i villaggi quantomeno una madrasa, dove istruire il suo popolo all'obbedienza. Anche la prime università dell'Africa, istituite a Sankore (diritto), Djenné (teologia) e Ségou (medicina), risale a questo periodo: tramite il supporto dei dottori e del clero, egli poté cementare il proprio potere, che diventava così effettivo e burocraticizzato sul territorio, anticipando, per molti versi, la centralizzazione che i lontani Stati nazionali europei avrebbero effettuato solo a partire dal secolo seguente. La gran via della Magnolia veniva edificata allora per collegare tra di loro tutte le principali città dell'impero; nel network commerciale così istituito, centrale era il ruolo rivestito soprattutto da Timbuktu e da Kansala, nel Baraquri, che, costruita praticamente da zero come unico porto del Kurufaba sull'Atlantico, conoscerà una rapidissima crescita. Nella rada di quest'ultima città trova posto la grande flotta del Mansa Qu, ormai rinconvertita a scopo commerciale tra la Magnolia e il Mali; i successi della navigazione per mare, ben presto supereranno in percentuale gli insuccessi, grazie all'esperienza guadagnata col tempo. Qui si ha per la prima volta una differenziazione fra canoe da mare e canoe da fiume; sulle prime, mutuando tecniche di costruzione straniere, si adotterà l'impiego di vele perlopiù latine, ad imitazione dei dhow arabi, mentre le seconde, permanendo più fedeli allo sviluppo originale, subiranno un mostruoso aumento di dimensioni, allo scopo di traghettare pesantissimi merci sui letti del Gambia, del Senegal e del Niger senza affondare. Lo sviluppo dell'impero, nel suo complesso, è travolgente e non manca di investire anche la Magnolia stessa, che grazie ad un flusso continuo di coloni pone, di volta in volta, il confine sempre più a meridione.
Un nuovo contendente però si affaccia ai confini con l'impero, la cui rinascita generale non poteva evitare di occupare almeno per una parte anche i popoli vicini. Il regno mossi di Yatenga, di tutt'altra stirpe rispetto ai Mandinka, tenta il colpaccio nel 1330: sbucato dalla giungla alla testa di qualche migliaio di feroci guerrieri, prende d'assalto la grande capitale del Mali, Timbuktu. Il suo tentativo, certamente dettato dal tentativo di entrare a prendere parte dei commerci con il mondo arabo e l'Europa che aveva in Timbuktu il suo centro vitale; fallisce solo perché l'imperatore Musa si trova in quel momento in tour presso Kansala, onde ispezionare la flotta che tiene attivi i contatti con la Magnolia, e valutare la possibilità di una seconda spedizione. Tanto per essere chiari, i mossi distruggono il palazzo da cui il mansa amministrava il Kurufaba, tanto che oggi non ce n'è rimasta pietra su pietra e per conoscerlo non ci resta che affidarci alla descrizione che ne fanno i cronisti arabi. Il mansa tuttavia è ben lungi dall'essere sconfitto; presto richiama a sé i cacciatori di schiavi e raduna una grande armata nella vecchia capitale, arrivando a tempo di record presso Timbuktu grazie alla navigazione del fiume Niger; le armate del regno Mossi, vinte, si disperdono e il mansa decreta formalmente che non si sposterà più dalla città, fin troppo importante per l'impero a causa del suo ruolo di crocevia. Con il centro del potere che si sposta verso est, anche l'estensione del dominio Mandinka, che ha il suo punto di massima autorevolezza intorno alla capitale per poi decentralizzarsi in un sistema semi-feudale nella periferia dell'impero, si modifica di conseguenza: le canoe permettono di sospingere il primato dei Mansa lungo il fiume Niger, ostacolate in quest'intento, però, dai bellicosi guerrieri songhai, con cui iniziano le prime lotte.
Anche il grande rivale del Mali, Ndiadiane Ndiaye, morirà nel 1370, dopo un lunghissimo regno passato fra gli agi della corte di Kayor e la mischia selvaggia alle frontiere col Kurufaba, nel tentativo disperato di evitare l'assorbimento del suo regno da parte di Niani; dopo aver atteso a lungo l'assegnamento di un'armata da Timbuktu, il figlio Sera gli subentrerà, sotto la protezione del Mansa Mari Djata II, pronipote di Musa e suo quinto successore al trono, anche e soprattutto perché sperava di levarsi di torno l'intrigante cortigiano. Nonostante le sue capacità tuttavia, Sera non riuscirà mai ad abbattere le rimostranze dimostrate dai Wolof nei suoi confronti, specie per la clausola di sudditanza che lo legava al Mansa. Per tutta la durata del suo regno, i Mandinka dovranno essere sottoposti alla leva militare per sostenere lo sforzo militare continuo di Kayor per sottomettere l'entroterra ribelle. I Wolof liberi, come si facevano chiamare, combattevano con una tattica mordi e fuggi, nascondendosi nella boscaglia e attaccando all'improvviso le canoe che traghettavano uomini e rifornimenti per tutto il corso del Senegal. Sarebbe stata proprio questa politica, tuttavia, a segnare in maniera definitiva il declino del regno Wolof, giacché i mercanti arabi si indirizzarono una volta per tutte verso Kansala, deprecando una rotta continuamente funestata da incursioni di incontenibili uomini selvatici, com'erano definiti da settentrione.
Sandaki l'Usurpatore comanda all'elefante (l'anima
razionale) e al leone (la forza bruta) di combattere per lui
Nemmeno il periodo felice, però era esente da conflitti interni alla corte di Timbuktu. L'idillio, infatti, era stato bruscamente interrotto dall'incalzare della peste nera, cupo segnale che anche il Mali era entrato a pieno diritto nel circolo dei commerci internazionali; come risultato, si conoscono una serie di nomi di mansa della dinastia Keita di rilevanza infima e che regnano tutti per un brevissimo periodo, prima di venire anch'essi stroncati dalla terribile malattia. La più grave delle crisi tuttavia non è che un effetto dell'epidemia diffusa, fra le altre cose, proprio a causa dell'insorgere di città popolose e senza alcuna norme igienica, sconosciute, queste, del tutto ai popoli dell'Africa subsahariana: durante il regno del debole mansa Musa II (1374-1387), succeduto a Mari Djata II seppur costretto a letto dalla malattia, l'impero era mandato avanti nei fatti dal suo sandaki (alto consigliere): Mari Djata, che non aveva nessuna parentela con il precedente sovrano di questo nome, ma lo aveva sicuramente assunto al momento della sua penetrazione nell'impero, essendo di probabile etnia mossi. Attirato inizlamente da semplici prospettive di lavoro come manovale presso un artigiano della capitale, egli scalò ben presto la gerarchia di potere, accumulando un notevole gruzzolo, a dimostrazione dell'incredibile mobilità speciale del Mali di quei secoli, si dimostrò un leader capace e soprattutto implacabile. Uno dei suoi provvedimenti più importanti fu la riforma dell'esercito, che assunse finalmente una struttura centralizzata: ogni suddito Mandinka delle terre centrali era tenuto a combattere per l'imperatore, se questi lo richiedeva, ma di fatto erano solo i ricchi, futuri aristocratici, a venir chiamati alle armi, giacché la quantità di denaro necessaria per procurarsi un armamentario decente e magari una cavalcatura, ricadeva interamente sulle spalle del portatore, risultando perciò, in molti casi, molto proibitiva. Ai sovrani vassalli, che governavano su popoli diversi dalle stirpe Mandinka, era richiesto invece un tributo ben più esoso di ausiliari appiedati, che venivano molto spessi impiegati come carne da macello mentre l'imperatore, alla guida dei suoi cavalieri nobili, aggirava i nemici nell'aperta savana, caricandoli dalle retrovie in campo aperto. La tattica era a dir poco abusata, ma le piccole tribù della prateria avevano poco con cui difendersi e spesso questa era più che sufficiente; quando non era così, bastava affidarsi ai dardi incendiari per spazzare letteralmente via il quadrato di foresta o capanne dove i ribelli all'autorità imperiale si annidavano.
Come detto, al Sandaki la carica non bastava; così, quando il malaticcio Musa II finalmente morì e si aprì uno spiraglio per la successione, l'usurpatore scavalcò i diritti legittimi detenuti da suo fratello Maghan II, sfidandolo a una lotta a mani nude come nell'antica consuetudine tribale. Benché la pretesa fosse assolutamente anacronistica e fuori contesto, Maghan II non poteva semplicemente passare oltre e ignorare l'ingiuria: bisognava vendicare l'attacco, pena la perdità di onore agli occhi dei suoi soggetti. Così, suo malgrado, il duello si tenne. La notte prima dello scontro, Sandaki si recò da Maghan, offrendogli una bevanda in segno di amicizia e pietà verso suo padre, di cui si proclamava sempre stato grande e leale servitore. Maghan, ingenuamente, accetta; in realtà, la bibita è tutto meno che succo di un frutto della Magnolia, come sostiene Sandaki, ma veleno di vipera diluito con acqua quanto basta per ottenebrare lo spirito e il corpo. Grazie all'inganno, la mattina seguente Maghan si presenta alla disputa barcollante, il corpo pervaso dal dolore bruciante; ma ancora, vuole tenere fede al giuramento e l'incontro si svolge comunque. E questo si conclude brevissimamente, a dire la verità: all'usurpatore basta tirare un pugno ben piazzato in mezzo al petto per gettare al tappeto il mansa e sollevargli lo scialle color della porpora dalle spalle esauste, effige materiale dell'autorità imperiale. Molti, presenti alla lotta, si lamentano, sostenendo che il mansa fosse un uomo possente e di bello aspetto, e che non ci fosse alcun modo che il gracile Sandaki avrebbe potuto legalmente sconfiggerlo con tanta facilità. Di tutta risposta, il nuovo mansa, imperioso, zittisce tutti, e sorte ancor peggiore capita a chi scopre di star cospirando contro di lui, venendo esiliato nel fitto della giungla mossi oppure ancor più lontano, oltre il Grande Mare, nell'inesplorata Magnolia selvaggia.
Sandaki possiede un ego davvero smisurato, e per competere con le glorie dei Mansa Qu e Musa si rende conto di non potersi soltanto limitare alla vita di corte, per la quale si è fatto forgiare un copricapo enorme onde nascondere la sua piccola statura. Al fine di dimostrare all'impero la sua potenza, quindi, ordina la leva generale e si mette al comando di un poderoso esercito per regolare i conti una volta per tutte con i Wolof, che hanno devastato le rotte commerciali del Mali fin troppo a lungo; re Sera, ancora tenacemente in sella nonostante la strenua resistenza dei Wolof liberi, si rende conto che neppure tutte le sua proverbiali capacità possono salvarlo da un nemico tanto forte, e perciò prende la decisione straordinaria di abdicare, recandosi presso l'accampamento del mansa per consegnargli il suo scettro, simbolo del potere. Resosi successivamente conto che neppure la rinuncia diretta al suo potere rappresenta una possibilità di aver salva la vita dal megalomane imperatore, poiché molti vedono in quello che ai loro occhi è ancora lo splendido principe Ndiaye di cinquant'anni prima una speranza per liberarsi dal giogo imposto al Mali da Sandaki l'usurpatore, fuggirà lui stesso in Magnolia, portandosi dietro la salma del suo amato Mansa Qu e anticipando di pochi mesi un analogo provvedimento dell'imperatore.
Dal canto suo, quest'ultimo è già felice così: lasciato un presidio militare a consumare le punte di lancia Mandinka contro l'irriducibile resistenza Wolof presso Linguére e un altro presso Kayor, smuove e si reca ad est. I suoi soldati, speranzosi, credono che questo basti a soddisfare le sue velleità di conquista; non conoscono l'entità del loro errore. Sandaki trascina l'impero in una furiosa guerra col nascente regno songhai, a est lungo il corso del fiume Niger. Strappatagli con la forza la sua capitale, Gao, presto associata a Timbuktu come grande città Mandinka, il cupido sovrano si illude di averne sottomesso le genti, e perciò dà ordine che venga preparata una stupefacente canoa dorata presso il delta interno del fiume, da cui intanto ridiscenderne il corso onde salutare e accogliere con calore i suoi nuovi sudditi. Adulanti cortigiani e famiglia cercano di dissuaderlo, ben consci che la fortuna del nuovo clan Mari Djata che stava nascendo dipendeva tutta da lui; ma al contempo, gli aristocratici rivali gli lanciano addosso occhiate di sfida e i re vassalli si lamentano di non voler obbedire a un imperatore codardo, sottraendogli il supporto delle proprie truppe. Sandaki non può davvero rifiutare; così, gettati indietro gli ultimi ripensamenti, si fa portare in trono sulla gran canoa dorata, insieme ad una considerevole fetta del suo tesoro. Inutile dirlo, ma ovviamente il re songhai, che è tutto meno che battuto, ne viene a sapere immediatamente dai suoi esploratori e dispone la creazione di un agguato poco dopo Gao, vicino al villaggio di Ansongo, dove il Niger si divide brevemente in due braccia distinte. In un'ora casuale della notte, mentre l'equipaggio della grande canoa dorme, il timoniere si accorge troppo tardi di non star più guidando la barca, che è rimasta impantanata nel terreno paludoso, a causa dell'oscurità; subito i prodi guerrieri songhai ne approfittano, prendendo d'assalto la canoa e trucidando tutti i marinai. Il re songhai, che ovviamente riprende frettolosamente possesso del suo regno, prende il Sandaki prigioniero, volendo riservare per l'usurpatore una fine particolare. Al sorgere del sole, lo fa gettare in acqua dalla sommità della sua stessa barca, mentre questa, in segno di disprezzo verso le ricchezze del Mali, è data alle fiamme; lo splendido conquistatore, appesantito dal suo armamentario prezioso, non può nuotare per risalire a galla, e così, viene trascinato sempre più a fondo dalla palude semibuia. Il re dei songhai intanto si fa una grassa risata. "Chi troppo abbraccia, nulla stringe, Mansa Sandaki!", si dice abbia pronunciato in quell'occasione il sovrano barbaro, mentre l'imperatore veniva divorato vivo dai coccodrilli.
L'Impero del Mali con le conquiste di Mansa Sundaki alla sua morte, avvenuta nel 1390 (da questo sito)
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Nuove virtù, nuovi danni
Le avventure e, soprattutto, la morte ingloriosa di Sandaki in terra straniera, avevano lasciato l'impero in una situazione pericolosissima: senza monarca e coi re vassalli in semi rivolta, con l'aggiunta del confine aperto a est contro i songhai, il Mali sembrava a un passo dal venire invaso e spartito fra i suoi potenti vicini. A complicare le cose ci si mettevano anche i Wolof e la migrazione Fulani, che calavano in quel periodo da nord onde stabilirsi in terre fertili dal clima gentile, così da godere di miglior vita. Questi erano stati inizialmente bloccati dalle milizie imperiali, ed erano stati anzi preda per i cacciatori di schiavi Mandinka; con l'apertura dei confini e il declino dell'autorità centrale, tuttavia, poterono penetrare liberamente all'interno del Kurufaba, e per salvare la facciata Timbuktu fu costretta a riconoscergli il diritto di prendere dimora presso la fertile valle del Niger alto, indirizzandoli lungo il corso del grande fiume onde trattenere l'impeto guerriero dei songhai. La manovra ebbe successo, nel senso che Gao, presa, venne mantenuta; il necessario prezzo per quest'azione fu la perdita dell'antica arte militare Mandinka, giacché, col tempo, i Fulani presero la difesa dell'impero, popolando gli eserciti. Anche questa mossa, tuttavia, si spiega facilmente: i popoli del Sahel riconoscevano tutti, bene o male, un primato d'onore al mansa e alla sua gente. I Mandinka erano considerati culturalmente superiori agli altri popoli, con la dinastia Keita che aveva ricevuto il manto della dominazione sul fiume Niger direttamente dalle mani degli antichissimi re del Ghana, al momento della decadenza di questo impero; o almeno, questo era quanto gli imam e gli istituti religiosi andavano predicando nel mentre che erano inviati a convertire le genti straniere, vedendo nell'istituzione imperiale la maggior garante del proprio status. L'epoca classica del Mali (1230-1390), dalla fondazione alla caduta del Mansa per mano dei barbari, era ormai finita; con l'assimilazione dei Fulani all'interno dell'egida Mandinka sarebbe derivato l'odierna popolazione del Kurufaba, e questo stesso fenomeno ora decretava il passaggio d'età al Medioevo africano.
Pure se il popolo aveva gioito nella restaurazione di Maghan III al soglio imperiale, il declino della compagine Mandinka era evidente e si palesava nella personalità dello stesso mansa, di fatto imperatore ritirato, costretto dall'aristocrazia nel suo serraglio, da dove avrebbe scritto per tutta la vita poesie in persiano sulla cattività della propria prigionia: sommerso dai piaceri, desiderava solo di uscire dall'angusta caverna nel mondo, per avere consapevolezza della sofferenza umana. Il suo suicidio fu coperto abilmente dai notabili, che posero al suo posto il figlio Musa III, energico generale che contava al suo servizio molti Fulani e persino alcuni songhai. Se i ricchi pensavano dunque, di avere per le mani una marionetta da poter controllare come preferivano, si sbagliavano di grosso: con Mansa Musa III pareva di vedere riuniti in un sol uomo le virtù guerriere del Sandaki usurpatore e l'abilità di governo del suo antenato omonimo. L'imperatore radunò un grande esercito, composto principalmente di contadini e pastori sottratti alle campagne, giacché l'aristocrazia adduceva pretesti per non servire, allo scopo di ricondurre i Wolof all'obbedienza. La campagna del mansa, in realtà, iniziò con un'impresa di politica interna: passando per Djakhaba, si assicurò la sottomissione dei duchi del Bambuk, capofila del partito interno d'opposizione, e il loro importante tesoro, con il quale poté finanziare la costruzione di una grossa flotta di canoe per risalire il fiume Senegal e foraggiare il proprio esercito. Sare II, però, era di tutt'altra pasta rispetto al rassegnato padre: preso un pugno di fedelissimi guerrieri con sé, si diede alla macchia nella giungla e condusse una resistenza infinita contro chi attaccava il fiero popolo del Wolof, ch'era naturalmente portato, diceva, a ricercare la libertà da ogni straniero.
La guerra senza fine portata dal Mansa al Wolof era decisamente troppo da sopportare per i minatori del Bure, che dovevano svolgere turni doppi per estrarre oro a sufficienza per supportarla adeguatamente dal punto di vista finanziario, e si prestava male alle pretese belliche dell'aristocrazia, che ricercava gloriosi scontri all'arma bianca in campo aperto, e non un conflitto fatto di continue imboscate e attacchi di sotterfugio. I duchi del Bambouk, com'era prevedibile, fiutarono l'occasione e sobillarono gli animi del popolo alla rivolta contro l'imperatore di poco cuore; d'accordo con Sare II, la nobiltà pagò di propria tasca un consistente tributo in oro a un guerriero del Wolof perché assassinasse il Mansa nella tenda al centro del suo accampamento. Così avvenne; e subito fu il caos, perché ovviamente, senza il mansa a guidarli, i Fulani considerarono il proprio legame di fedeltà con l'impero esaurito, e si diedero al saccheggio selvaggio delle terre circostanti. In Timbuktu, città all'epoca ancora senza mura, scoppiò il terrore, giacché l'armata di Musa III era l'unica disponibile per la difesa; allora i re vassalli, nel timore di perdere i propri possedimenti, si videro costretti a richiedere il supporto del fratello del mansa, Gbèré (lett. di pelle rossa, quindi irruente, forte), generale supremo delle forze Fulani a oriente deputate a proteggere il confine coi songhai. Gbèré voleva accettare, ma per sua disgrazia i suoi Fulani, lungi dall'essere i barbari che erano dipinti dagli eunuchi di corte, erano ben consci della situazione e del peso che si erano trovati a ricoprire nello Stato, e opposero un netto rifiuto alla leva che Gbèré gli aveva imposto.
Guerriero Fulani nel tradizionale assetto da combattimento
Il pericolo fu risolto solamente grazie a un compromesso: il popolo di Fulo ottenne dal promesso imperatore il comando in perpetuo dell'esercito, assicurandosi la nomea di casta guerriere del Mali; in cambio, essi giuravano di proteggere in ogni contesto l'impero e sopra ogni altra cosa, la dinastia Keita. Il promesso imperatore accettò queste condizioni, che gli consentivano di conquistare il potere e potevano dare inizio ad un'epoca di stabilità, dopo il pericoloso periodo di instabilità che si era aperto con la successione di imperatori deboli e piegati alle condizioni dell'aristocrazia. Così rifornito, Gbèré raccolse la chiamata d'aiuto della nobiltà e, evitando accuratamente di entrare nella capitale Timbuktu (era sacrilego che vi entrasse un armata che non fosse quella del legittimo imperatore), sconfisse l'incursione dei Fulani ribelli presso Dioma, insediandoli presso Djakhaba, sostituendoli ai riottosi duchi del Bambouk, e soprattutto gli fece dono del fiume Senegal, dove in realtà governavano ancora i Wolof, con l'implicito compito di tenere impegnata quella stirpe indomita.
La gran parte dei Fulani, tuttavia, lo seguì nel suo cammino trionfale verso la capitale, dove l'aristocrazia feudale ne riconobbe il diritto a regnare. Dopo anni di incertezza dunque, Gbèré fu incoronato con il nome di Uli II: egli sarebbe stato un imperatore forte, forse il più importante dei Keita inferiori (com'è logico, si pone un distinguo fra la dinastia prima dell'usurpazione, e quella che seguì). Egli, sempre supportato dai fedeli Fulani, si impegnò per restaurare l'autorevolezza dello Stato su tutto il territorio imperiale, stringendo patti con i notabili, assicurando la pace ai popolani, e riprendendo i contatti con la Magnolia, che non aveva ancora ben chiaro cosa stesse accadendo in patria. Per mantenere lo stato saldo e coeso, accettò di riconoscere le pretese dei nobili sull'amministrazione delle loro province; fu così che l'impero, in procinto di crollare, si preservò adottando una struttura feudale. Le regioni originarie erano sette, contando la Magnolia ed escludendo dal calcolo il Sahel e il medio Niger, con le metropoli di Ualata, Timbuktu, Gao e Tadmekka, cuore amministrativo, economico e culturale dell'impero, ch'era affidata in modo perpetuo al demanio del mansa; come già detto, dove possibile, l'imperatore insediò vassalli Fulani, considerati maggiormente fedeli dei re originali, perché non essendo legati al territorio, dipendevano per la loro carica unicamente dall'imperatore. Molti, tuttavia, non accetterano questa imposizione, preferendo alla sedentarizzazione la consueta vita da pastori nomadi, composta, fra le altre cose, anche di saccheggio e razzia, totalmente vietate dal nuovo ordinamento che mirava a salvaguardare la quiete della traballante compagine Mandinka; questi, allora, si misero in marcia, riprendendo con sé le armi, e si unirono all'altro ceppo del loro popolo. I Fulani liberi, come vennero chiamati in parallelo all'epopea dei Wolof, ridiscesero il Niger vendendosi qua e là come mercenari al re dei Songhai e alle città-Stato Hausa, finché non trovarono un brandello di terra fertile disabitato fra il sopracitato Hausaland e l'impero del Kanem; qui i Fulani si insediarono, facendo della cittadina di Sokoto la propria capitale e funestando il commercio tra il Mali e gli Hausa, comunque già pesantemente limitato dalle limitazioni imposte dai Songhai, con luttuose incursioni.
Aree di insediamento dei Fulani fra il XV e il XVIII secolo
Uli II, delle vicissitudini Fulani, però, sapeva il giusto; e cioè quanto bastava per ingaggiare in battaglia i songhai e sperare di reggere il confronto con l'ardore di quelle genti. Non che l'opera non stesse dando i risultati sperati: l'impero risultò consolidato dalla politica del Mansa e, rinvigorito, poté tornare a inverdire i fasti dei mansa Musa e Qu, estendendo la propria supremazia dalla Magnolia al medio corso del Niger. Il Senegal, però, era perso per sempre, nonostante le rimostranze presentate dai mansa, che continuarono a considerare i Wolof loro sudditi, imponendo loro l'esazione di un tributo, mai riscosso, quale ottava provincia (tale usanza è all'origine del famoso detto Mandinka per cui l'otto sarebbe un numero fantasma).
Dalla metà del secolo, tuttavia, la restaurazione incontrò le prime vere difficoltà, incarnate dall'arrivo dei portoghesi. Questi, rapidamente riconosciuti come gli al-masihi di cui parlavano con superiorità i mercanti arabi che sopraggiungevano da nord, i franchi che avevano attaccato la città santa di Gerusalemme con le loro devastanti incursioni. Nemmeno i portoghesi, costernati dall'incontro con una nuova (e considerevole) potenza musulmana oltre il capo Bojador, furono esattamente entusiasti: la reazione di Enrico il Navigatore, in particolare, fu memorabile, perché, come avrebbero ricordato gli ambasciatori che gli comunicarono la notizia, il ferreo principe fece un balzo sul seggio, considerando che le spedizioni per aggirare l'Africa erano pure inutili, se questa era tutta musulmana, e poteva bloccare le navi che necessariamente dovevano costeggiarla in ogni momento!
In realtà, la disparità tecnologica fra Mandinka e portoghesi era evidente, già in pieno '400; Uli II non avrebbe potuto far occupare continuativamente il braccio di mara che separava Kansala dalla Magnolia dalle sue belle canoe, per quanto maestose e splendide; i diplomatici cristiani, a questo proposito dissero che "fosse già una bella concessione di Maometto, se le galere negre poterìano mantener in atto la cerniera fra i due sponde dell'Oceano". E in effetti, nonostante lo splendore della corte del mansa, che le cose stavano proprio così si vide subito: nel 1462, dopo aver effettuato un viaggio d'esplorazione preliminare già nel 1456, i portoghesi scipparono senza fare troppi complimenti le isole di Capo Verde al Mali, dove, dai tempi di mansa Qu, era stanziata una piccola popolazione Mandinka che viveva commerciando il sale estratto dall'isola di Ulil coi pescatori Wolof che giungevano sovente dalla costa, in cambio di frutta e pane. L'episodio fu all'origine dei primi dissapori fra i franchi, com'erano detti i portoghesi alla corte del Mali, e i barbari, com'erano definiti i popoli dell'impero da parte dei visitatori occidentali. Il re del Portogallo, pendendo dalle labbra degli esploratori che gli inviavano resoconti di città sovraffollate e miniere da cui si estraeva oro zecchino, sovrastimò grandemente le forze dell'impero rivale e ingiunse ai suoi ambasciatori di appianare frettolosamente i dissapori, per timore che il gran Preto (gran Negro, com'era conosciuto il mansa presso gli occidentali) chiudesse la promessa via dell'India ai navigatori portoghesi. Perciò, egli gli inviò un'ambasceria sontuosa, con doni e regali d'ogni tipo, onde offrire una dimostrazione di forza, ma soprattutto trovare un accordo per la convivenza pacifica di commercianti bianchi e intermediari neri. Durante questo incontro, i cacciatori di schiavi, già preesistenti, fiutarono per primi l'affare; il Portogallo, come molte altre monarchie europee, era funestato da continue epidemie, e l'apporto di servi era non solo necessario per mantenere in piedi l'apparato parassitario dei latifondi, ma anche auspicato e confermato dal Papa, che nel 1455 emise una bolla a questa proposito con cui confermava la tratta, purché la merce venisse umanamente convertita al cristianesimo. Uli II, d'altra parte, non aveva reale interesse a fare la guerra agli infedeli, che si trovavano distantissimi da lui e con cui, tutto sommato, era più conveniente trovare un modus vivendi; perciò, dopo una lunga trattativa resa difficile dagli errori di comprensione, dovuti a loro volta alla mancanza di intermediari fra latino e arabo, e allungata dalle grandi distanze, si giunse agli accordi di Djakhaba del 1478, con il quale l'impero si impegnava a fornire al Portogallo una quota di schiavi neri ogni anno che si aggirava tra i 1000 e i 2000, come testimoniato dal cronista portoghese Zurara, membro della delegazione che trattò il commercio e che sarebbe rimasto poi alla corte del gran Preto come ambasciatore in sede fissa.
Lo stesso Zurara, citando un
discorso a suo dire pronunciato da Uli II in quel contesto, ce ne restituisce
una descrizione più vivida che mai:
"A sud e a ovest di qui, oltre il confine ben protetto... ci sono altre genti
nere, che noi chiamiamo Fing (Mossi) e Lamlam (Songhai). Sono di stirpe barbara
e infedele: si dipingono gli occhi e la faccia, accecandosi con i veleni di riti
perseguiti da Allah. I miei re (vassalli) di Kong e del Songhai ne invadono
spesso il Paese, e inviano coloro che sono catturati ai mercanti, che li
trasportano verso al-Gharb (l'Occidente, n.d.r. la Magnolia) e il Maghrib. Lì,
costituiscono l'ordinaria massa di schiavi. Ma oltre loro, a sud, non c'è
nessuna civiltà in alcun senso. Ci sono solo esseri umani che sono più vicini a
stupide bestie che a persone razionali. Vivono in capanne e grotte alla maniera
dei padri, e mangiano erbe e grano raccolto alla maniera dei padri dei padri. Si
mangiano di frequente fra loro. Non possono essere considerati esseri umani."
Due momenti fondamentali della vita di Uli II: a sinistra, entra da giovane a Timbuktu alla testa delle sue guardie speciali Fulani; a destra, sempre ritratto con l'armatura rituale seppur invecchiato, raccoglie alla sua corte il tributo dai Portoghesi con il quale gli storici moderni fanno simbolicamente iniziare la tratta degli schiavi e il commercio triangolare fra Europa, Africa e Americhe
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La quarta parte del Mondo
Durante i primi 200 anni di storia coloniale della Magnolia, lo sfruttamento economico del territorio era basato inizialmente sulla schiavitù dei nativi, che diedero al territorio il suo nome; ma dal XV secolo, con l'estinzione fattuale degli abitanti, si affermò un'economia di piantagioni complementari a quelle della madrepatria: spiccavano la produzione di zucchero, tabacco e cotone, che lucravano molto sulla bilancia internazionale del commercio. Gli schiavi, specie di etnia Mossi, giacché la sottomissione dei Songhai avvenne tra mille difficoltà molto più tardi dell'epoca del primo impatto con la colonizzazione, fornirono la maggior parte della forza lavoro per l'economia d'esportazione della Magnolia, specialmente dopo il breve periodo che richiese l'annullazione degli indigeni. L'oro e i diamanti diedero un'ulteriore, enorme spinta al processo di addomesticamento della terra selvaggia: conosciuti fin dall'epoca del Mansa Qu, non erano mai stati veramente sfruttati poiché il Kurufaba tutto ne era ricco. Verso la fine del XVI secolo, però, i giacimenti mandinka, che erano sfruttati da almeno un buon millennio, iniziarono ad esaurirsi, e fu necessario per i minatori specializzati emigrare nella Magnolia, dove poterono reinserirsi nel circuito produttivo senza troppe possibilità e risultare ancora utili all'impero.
Nel 1494, mandinka e portoghesi firmarono il trattato di Capo Verde, con cui i primi accettavano di rinunciare alle pretese sull'isola di Ulil, e veniva tracciata una prima linea di spartizione fra i nascenti possedimenti lusitani e quelli africani, che avrebbe tenuto a lungo, assicurando ai due contendenti un'epoca di pace. La contrapposizione con i nascenti domini europei nelle Americhe servì anche a far stagliare alcuni aspetti peculiari dell'amministrazione magnoliana: se gli occidentali, infatti, tendevano ad istituire vicereami con giurisdizione limitata ad alcuni agglomerati territoriali, la colonia imperiale era ancora governata dai discendenti dei capitani dell'antica flotta di Mansa Qu, che se n'erano progressivamente spartiti il territorio e riconoscevano solo nominalmente il primato del duca fulani inviato dall'imperatore, il quale sedeva a Befee Muhammad (o, com'è nota in occidente, Baia del Profeta) con il potere nominale di radunare il consesso dei capitani in caso dell'emanazione di leggi o dell'invio degli ausiliari militari all'esercito del Kurufaba in caso scoppiasse una guerra (quasi mai inviati, a dire il vero). Inoltre, egli riscuoteva un tributo sulle attività economiche di ogni capitano, che ammontava al 40% del loro patrimonio; inutile dire che erano le regioni più ricche e patirne di meno, giacché, per un capitano povero, esigere quasi metà del reddito come pagamento si configurava spesso come una vera e propria rapina, mentre per un capitano ricco, era una cosa da niente che non gli impediva, spesso, di tenere una corte ben più sfarzosa di quella del governatore.
Capitanerie generali della colonia di Magnolia
Presto, sulla costa si iniziarono a fomare città grandi e piccole, di importanza ben minore rispetto a quelle della madrepatria, ma che come queste ultime erano fondamentali come sedi della vita istituzionale della religione e dello Stato, così come fungevano da basi per i mercanti mandinka e, dopo il '400, anche portoghesi. Ciò era ravvisabile specie nella conformazioni delle città: l'hinterland delle zone urbane era direttamente puntato verso il mare e, di conseguenza, verso il Mali. Tra l'altro, a differenza del Kurufaba, la Magnolia non aveva una larga e densa fetta di popolazione indigena che vivesse in maniera sedentaria e che avesse, di conseguenza, già creato insediamenti. I porti inoltre, che permettevano dalla loro fondazione al commercio di schiavi di entrare, e al commercio di beni primari di uscire dal Paese, dal secolo seguente si rivelarono strumentali nella difesa contro i pirati, novità assoluta derivante dall'entrata in scena di altri attori europei, come la Spagna, l'Inghilterra, la Francia e le Province Unite. I rapporti che l'impero mantenne con queste potenze dunque, fu per lungo tempo ostile.
La società magnoliana non era molto complessa. Al vertice, risiedevano, come già detto, i capitani, discendenti degli antichi comandanti di canoe che avevano accompagnato Mansa Qu nel suo trionfale viaggio; loro proprietà erano gli schiavi, specie mossi e songhai, e che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione senza alcun diritto. Al di fuori di essa, si ponevano quelle poche tribù indigene che ancora resistevano, sole e isolate, contro la marea nera degli invasori; l'unico collante, quindi, era rappresentato da questa comune minaccia, insieme con la lingua araba, imposta come mezzo comune fra stirpe differenti, e soprattutto la religione musulmana. Un capitolo a parte meritano i cosiddetti nuovi uomini: con questo termine, i cronisti usano riferirsi a quei pochi schiavi che, convertiti all'Islam, riuscivano a far carriera nella società e costituivano tutta quella vasta classe di mercanti che gestiva i traffici fra il Vecchio e il Nuovo Mondo.
Ritratto di uno schiavo Songhai in rivolta, eseguito dal pittore olandese Albert Eckhout
Non è facile capire per i moderni quanto intrinseca fosse l'istituzione della schiavitù all'interno della struttura coloniale: secoli primi che i britannici inizarono il loro famoso asiento de negros, più schiavi avevano già raggiunto la Magnolia di quanti avrebbero mai raggiunto il Nord America; il commercio di esseri umani nel Paese sarebbe continuato per circa cinquecento anni, confermandosi come il più lungo di qualsiasi altra nazione nelle Americhe. Per entrare nella mentalità dei mercanti dell'epoca, basti citare un esempio famoso: i songhai erano maggiormente richiesti per la loro rarità, e avevano un valore monetario maggiore dei mossi poiché molti di loro provenivano dall'esercito del loro re, e quindi erano già familiari con le armi, necessarie in caso si verificasse un attacco indigeno.
La gente, chiaramente, lavorava per resistere alla servitù in vari modi: queste forme di ribellione andavano da cose lievi come il rifiuto di prestarsi e il sabotaggio delle piantagioni, fino all'elaborazione di piani complicatissimi per attuare la vendetta nei confronti dei padroni e addirittura il suicidio collettivo, compresa la morte di molti bambini. Questi mezzi estremi erano motivati dal fatto che difficilmente le rivolte finivano bene: i capitani erano molto abili a intervenire con le proprie milizie coloniali ovunque si manifestassero segnali di insurrezione. In ogni caso, gli schiavi fuggitivi, che molto spesso fondavano comunità proprie e indipendenti nella giungla mischiandosi coi nativi, rimasero un problema endemico per il regime schiavista della colonia, e non si riuscì mai ad eradicarlo del tutto.
La colonizzazione della Magnolia, comunque, non era sempre stata un'impresa tanto facile quanto poteva sembrare. Anche a causa del terribile atteggiamento adottato dai capitani, fattualmente indipendenti l'uno dall'altro e che non esitavano a confrontarsi tra di loro, quando non muovevano guerra ai nativi; per i primi ottant'anni dunque, i mandinka si presentarono ai magnoliani con un'attitudine da crociati e maggiormente incentrata sul saccheggio, che sullo sviluppo dei territori sottratti agli indigeni. Le cose inizarono a cambiare, manco a dirlo, con l'arrivo di Sera il Bello, in esilio dal Wolof; questi, la cui fama lo inseguiva fin oltre l'Oceano, venne salutato come un eroe dagli abitanti, e anche i capitani vollero riconoscergli un primato d'onore. Sera, da uomo umile qual era diventato, sulle prime cercò di rifiutare, ma alla fine l'insistenza dei magnoliani fu tale che egli dovette accettare la carica. Fondò una nuova città, la già citata Befee Muhammad, dove innalzò una splendida moschea, ancor oggi la più grande della Magnolia, con un tributo che spontaneamente i capitani liberi decisero di inviargli in dono; fu lì che il martoriato corpo di Mansa Qu ebbe finalmente riposo. E fu proprio su questa lievissima base di potere che Sera incominciò a concentrare sempre più piccole riforme a carattere decisionale nelle sue mani; lui, che era di sangue Wolof, sarebbe stato insomma il fondatore della nazione magnoliana. Ancor oggi, gli abitanti citano con passione un suo discorso (peraltro notevolmente impopolare all'epoca della schiavitù), quando vogliono rafforzare l'amor di patria:
"Voi, figli
del fiume Isingan (Senegal), e voi, figli del fiume Gambra (Gambia), e
soprattutto voi, figli del fiume Joliba (Niger): porgetemi le vostre orecchie e
ascoltate! Io vi dico che c'è una terra, oltre il Grande Mare, dove vi aspettano
la pace, invece che la guerra, la ricchezza, invece che la povertà, la libertà,
al posto del giogo! E questa terra io la chiamo Magnolia: ed essa è davvero il
Giardino promessoci da Maometto, dove non si è mai stanchi e il piacere scorre
beato con le acque...
Venite, dunque, cosa aspettate? Godete con noi della felicità della realizzata
promessa!"
Sera il Bello, padre della Magnolia, in una stampa occidentale
.
La stagnazione e il lento declino
Ad Uli II il Restauratore successe nel 1481, come da legge, il figlioccio Mahmud, che prese il nome di Mahmud II. Questi, però, non aveva un briciolo dell'autorità del padre, e si trovò ben presto ad essere succube della potenza delle sue guardie fulani, che spadroneggiavano indisturbate nel Paese, sicché non si poteva fare a meno della loro forza militare per tenere in riga i nobili. Già a partire dal 1477, quando l'imperatore suo padre si stava ormai indebolendo, il re mossi di Yatenga prese parte a un'importante spedizione vendicativa per fermare le razzie dei commercianti di schiavi mandinka all'interno del suo territorio, riscuotendo ampio successo: l'armata mossi si fece strada fino alla provincia del Ghana, l'antico impero di Wagadou, conquistandola e rivendicando il titolo di mansa. Il pericolo corso dal Kurufaba fu gravissimo: si rischiava infatti che il territorio dell'impero restasse spezzato in due, senza, per giunta, alcuna possibilità di tenere contatto aperto con la Magnolia. Fu proprio il governatore di quest'ultima, riuscito nella non facile impresa di compattare dietro al suo carro tutti e 17 i capitani che temevano di perdere l'apporto del commercio servile, a salvare la situazione: per la prima volta, dopo neanche due secoli dalla colonizzazione, erano i protetti a correre in soccorso dei protettori, e non, come c'era da aspettarsi, il contrario.
Nel 1481, peraltro, approfittando della morte di Uli II, alcuni fulani tentarono di ripetere il colpo gobbo che si era verificato all'assassinio di suo fratello Musa III, dichiarando il loro legame di sudditanza esaurito e dandosi alla macchia nella foresta del Tekrur. In questo caso, però, le memorie alla corte di Timbuktu erano ancora fresche, e l'immagine di tragedia che si profilava in caso i ribelli non fossero stati fermati spinse i cortigiani a darsi una mossa: ancora una volta, si presero contatti con l'esercito fulani dell'est, e tramite immensi donativi si riuscì a comprarne la fedeltà; i ribelli, conseguentemente, vennero spazzati via. Ma non era affatto finita: sulla via del ritorno, Akilu, il capo dell'esercito fulani penetrarono sacrilegamente in Timbuktu, richiedendo all'imperatore il governo militare del paese. La tracotanza di questo gesto è tale che gli scolari arabi alla corte del mansa non ce ne testimoniano il nome, avendolo condannato ad una damnatio memoriae perpetua, e per conoscerne l'identità dobbiamo affidarci ai diari di viaggiatori portoghesi; ma di fatto, quell'uomo era l'unica forza effettiva nell'impero, e nessuno poteva opporglisi.
Il ridispiegamento delle forze fulani, ora a difesa del reggente presso Timbuktu, però, non poteva passare inosservato: nel 1493 il grande re dei Songhai, Sunni Ali, riuscì finalmente nell'impresa che da tempo si prefissava, scippando ai mandinka il controllo delle saline di Taghazza, economicamente fondamentali e perfino della metropoli di Gao, dove spostò la sua capitale. Lo storico della corte di Timbuktu, il maghribino Al-Sa'df, disapprovò con parole tonanti le gesta di Sunni Ali, descrivendolo come un intollerabile tiranno:
"Sunni Ali è entrato a Taghazza, commettendo gravi impurità, distrusse e bruciò la città, e torturò brutalmente molte persone all'interno del cerchio delle mura di quella città. Quando il reggente Akilu seppe dell'arrivo di Sunni Ali, pensò di non potergli resistere e inviò un migliaio di cammelli per portare in salvò le ricchezze di Gao e portarla al sicuro entro il cerchio delle mura di Timbuktu... Il tiranno senzadio si impegnò a massacrare quelli che rimasero entro il cerchio delle mura di Gao, e ne umiliò il clero."
Timbuktu fu la prima città del Kurufaba a venire circondata di mura
Come c'era da aspettarsi, Akilu tentò di organizzare una difesa dell'imperatore e della capitale, ma proprio quando c'era maggiormente bisogno di lui, egli morì, lasciando un gigantesco vuoto di potere. Senza l'ingombrante figura del reggente, si potrebbe pensare che l'imperatore ne avrebbe approfittato per riprendersi il potere; invece, Mahmud II andò in panico, cercando di appellarsi ai portoghesi per un'alleanza, che non venne mai firmata. Egli pretendeva di essere il più potente dei sovrani del mondo, superato in splendore solo dai sultani dello Yemen, di Baghdad, del Cairo e di Takrur (cioè i Wolof, cui non si voleva riconoscere l'indipendenza e si continuava a considerare la loro terra provincia): ciò chiaramente non bastò per convincere Giovanni II del Portogallo a mandare i suoi uomini a morire nel profondo dell'Africa. Egli rifiutò di inviare qualunque tipo di aiuto nel 1495.
Al conquistatore di stirpe songhai non pareva vero: di fronte a lui si stagliava la preda più ambita, la città imperiale stessa, Timbuktu la Grande, sulle cui cupole si narravano molte leggende, che viaggiavano rapide per la savana e penetravano perfino nel fitto della foresta tropicale, facendo compagnia ai leoni selvaggi. Inutile dire che mosse il suo esercito vittorioso; all'ultimo, però, cinta la capitale d'assedio, la sua tracotanza gli fu fatale, giacché venne colpito alla testa da una freccia avvelenata, finendo presto per morire. Mahmud II non poté nemmeno godere del trionfo, giacché molto presto morì anch'egli per cause naturali; è l'anno 1496 dell'era cristiana e 902 di quella maomettana, e il Kurufaba difetta di qualsiasi tipo di capo o agente politico.
In queste condizioni, non fu difficile per il secondo in comando di Sunni Ali, Askia Muhammad, assurgere a una posizione di primo pelo nelle lotte di potere: l'esercito songhai era allo sbando in terra straniera e necessitava ad ogni costo di un leader, onde trovare una strada da percorrere. Askia, che sarebbe stato ricordato come il Grande, sapeva di non avere alcuna prerogativa al titolo regale sui Songhai, né tantomeno su quello imperiale, essendo, per giunta di probabile origine soninke; perciò, decise di spolverare per conto proprio le azioni del reggente Akilu. Stiamo parlando di una di quelle enormi personalità della storia che sanno un ritagliarsi un posto sullo stesso livello degli eroi del passato e inscrivere il proprio nome insieme a quello dei condottieri che hanno vinto con le armi onore e gloria.
Il figlio di Mansa Mahmud II, Mahmud III, pur non sapendo niente della soprammenzionata abilità, fiutò il pericolo; non che ci volesse molto, con l'esercito songhai accampato a pochi kilometri dalla capitale. Perciò prese la straordinaria decisione di abbandonare Timbuktu, fuggendo nottetempo col favore della disorganizzazione che regnava sovrana nell'armata nemica, in cui il primato di Askia Muhammad doveva ancora essere imposto dall'alto. Pur avendo imposto ai nobili di difendere la città ad ogni costo, mentr'egli si appellava a ciò che restava dei suoi armati fulani per tentare di organizzare una resistenza ad est, nulla si dimostrò capace di resistere al rullo compressore songhai. Askia Muhammad avanzò verso ovest, lasciando la città, completamente isolata, di Timbuktu a capitolare per fame; sommerse la marea del duca dei Dogon, re vassallo ostinatamente fedele al Mansa, e infine sconfisse anche un'incursione tuareg da nord. L'assedio di Djenné, rifornita dalla canoe via Niger, gli impiegò non meno di sette anni, ma, alla fine, la sua perseveranza riuscì nell'impossibile: l'antica origine dei Keita, Niani, restava l'unico rifugio di Mahmud III. Quest'ultimo, disperato, spremette le miniere d'oro e d'argento come poté, per garantirsi la fedeltà dei fulani. Non contento, inviò una seconda spedizione presso il Portogallo, nella speranza di ottenere truppe.
Giovanni III, nipote di Giovanni II, non era detto il Pio a caso e, in un certo senso, acconsentì alle richieste del Mansa: di fronte alla possibilità di entrare a far parte delle lotte di potere dell'Africa sottraendo qualche territorio agli islamici e riconducendolo sotto l'autorità della Chiesa cattolica, egli non si tirò indietro; la spedizione portoghese di Peros Fernandes, però, sbarcata a Kansala nel 1534, si rivelò ben presto un falso alleato con il condottiero straniero che favorì il tentativo del duca del Baraquri di dichiararsi indipendente, aprendo un ulteriore fronte per i fulani di Mahmud III. Fu in questo contesto che Askia mostrò davvero il suo genio: invece di calare direttamente su Niani da nord, aspettò pazientemente che le truppe del mansa si dissanguassero nel tentativo di limitare i postumi della ribellione di Kansala, che aveva preso d'assalto Cassa e Bati. Finalmente, nel 1545, i discendenti di Askia Muhammad decidono di farla finita con le pretese universali di mansa Mahmud: il saccheggio di Nianai da parte di Daoud, fratello del reggente Ishaq, rappresentò di fronte al mondo la caduta della dinastia Keita, il cui unico sopravvissuto, Mahmud, venne preso prigioniero e chiuso nel suo palazzo dorato di Timbuktu, a vista del reggente. Giovanni III, visto sconfitti il loro campione, abbandonò il supporto alla spedizione di Peros Fernandes, e la secessione, infine rientrò. Fatta eccezione per alcuni assalti wolof, dunque per la prima volta dopo un cinquantennio di guerre civili, fra gli africani era finalmente la pace.
Il Kurufaba sotto la reggenza Askia (1496-1591): 1 – Baraquri; 2 – Tekrur; 3 – Bambuk; 4 – Kong; 5 – Wagadou e Niani (formalmente possesso dell'imperatore, in realtà amministrate del reggente Askia); 6 – Songhai (sotto gli Askia); 7 – Yatenga
Per parlare del periodo di reggenza Askia, non si può evitare di parlare della vita e delle attitudine di Askia il Grande, fondatore della dinastia. Come già detto, egli non possedeva alcun background familiare che gli consentisse di incoronarsi sovrano di un bel niente; ciò nonostante, Askia riuscì a bypassare le leggi che gli impedivano di accentrare su di sè il potere, pretendendo per sè, oltre al titolo di re dei Songhai, quello di reggente dell'impero. Il nucleo della sua potenza era, ovviamente l'esercito, tanto potente che nessuno che gli si opponesse faceva una bella fine, ma questo indicatore da solo non basterebbe per spiegare il grandioso successo della sua opera. Piuttosto, bisogna fare riferimento a una disposizione emanata dallo stesso Askia, subito dopo essere entrato in Timbuktu: essa recitava che bisognasse distinguere tra i civili e i soldati, non come ai tempi dei padri, quando ognuno era anche un soldato. Ciò, che si tradusse non solo nei fatti nel disarmo dei mandinka, in realtà processo inizato già da tempo, ma anche in quello di numerosi fulani, cooptati nell'esercito e nell'amministrazione, gli garantì il dominio assoluto del Kurufaba.
Si dice che Askia possedesse un occhio cinico verso quei regni che mancassero di eserciti professionali come il suo. Ad esser sinceri, egli era un tattico peggiore di Sunni Ali, cui dopotutto era riuscita la penetrazione nell'indifeso impero del Mali, ma, a sua differenza, trovò successo nell'alleanza con il popolino. I sudditi dell'imperatore erano stufi della guerra costante, che faceva male agli affari con magnoliani (i quali, dopo che il traffico di schiavi fu ricominciato, non ebbero difficoltà a riconoscere la reggenza di Askia, che preservava le forme) e portoghesi, e desideravano soltanto la pace. Non solo: a differenza di Sunni Ali, conquistatore tirannico e spietato, Askia era un devoto musulmano, cosa che valse ad assicurargli il supporto del diffuso clero islamico, che si prodigò subito nel fare propaganda nei più remoti cantoni dell'impero in favore del reggente e della sua politica; quest'ultimo li ricompensò aprendo scuole religiose, costruendo moschee e aprendo la corte del Mansa all'influsso di scolari e poeti da tutto il mondo musulmano, tanto ch'egli fu uno dei pochi notabili stranieri con cui il sultano Solimano mantenne rapporti cordiali. E nonostante mandasse i suoi figli a una scuola islamica e rafforzasse il patrocinio della lingua araba e della sharia sull'impero, era tollerante delle altre religioni, permettendo a mercanti portoghesi, italiani ed ebraici di aprire fondaci nelle proprie città e anzi rispettando l'usanza di antiche pratiche tribali ch'erano fondamentali per la vita culturale dell'impero.
Come l'illuminato Musa, Askia decise di completare uno dei Cinque Pilastri dell'Islam mettendosi in viaggio per un pellegrinaggio alla Mecca, e, proprio a guisa dell'imperatore, si portò dietro un enorme ammontare d'oro. Ne diede un po' in carità ed uso il restò in regali lussiosi, in modo tale da impressionare gli arabi con la ricchezza sfrenata del Kurufaba e convincere molti a seguirlo. Il risultato di questa iniziativa fu la maturazione della decisione di dichiarare la guerra santa ai regni vicini dei Mossi: conquistò Yatenga, ma non li forzò alla conversione all'Islam, così da preservare il commercio di schiavi. Il suo rinomato esercito all'epoca era certamente il più forte e diversificato dell'Africa: consisteva di canoe da guerra, cavelleria esperta, armature moderne, armi con punta di ferro, per una milizia complessivamente molto bene organizzata.
Non solo patrono dell'Islam, dunque, ma anche dotato nell'amministrazione: per fan ben volere il suo dominio evitò di toccare i privilegi dei nobili nelle province, ma centralizzò lo Stato e stabilì, per la prima volta nella storia delle genti nere, una burocrazia efficiente che fosse responsabile dell'esazione fiscale ed esigesse il pagamento delle tasse per la prima volta dalle persone e non dai feudatari; all'interno del periodo di reggenza Askia, dunque, si colloca l'anno 1000 del Medioevo africano, con il potere sulle province che lentamente smetteva di risiedere nelle mani dei nobili e passava alla capitale. Ordinò la costruzione di canali in modo da sviluppare l'agricoltura, specie di piante magnoliane, ma soprattutto introdusse pesi e misure e la figura di un ispettore per ciascuno dei principali centri di scambio dell'impero, e il commercio trans-sahariano fiorì di conseguenza.
Askia il Grande alla presa di Timbuktu
Nemmeno il declino dell'impero che successe alla morte di Askia, con i suoi numerosi figli che si confrontavano per il titolo di reggente, poté intaccare lo splendore del Kurufaba, ch'era entrato nel Rinascimento a pieno titolo quale protagonista di un magnifico splendore. Al suo picco, la capitale Timbuktu diventò un centro commerciale e culturale vivissimo, che attirava uomini da metà del mondo conosciuto, diventando rinomata per l'intelligenza dei dibattiti che si disputavano all'università di Sankore per tutta l'Umma. Eppure, la grandiosa metropoli non era che una delle tante che coprivano il territorio dell'impero, il quale, per l'anno 1500, si era espanso fino a coprire la stupefacente cifra di un milione e mezzo di chilometri quadrati.
Il commercio si svolgeva attraverso due strade principalmente: il Sahel, e la Grande Via della Magnolia, coadiuvata dai fiumi Niger e Gambia. Il primo, ch'era principalmene su terra, era permesso da quattro fattori: i cammelli rasportavano le merci, le tribù amiche riportavano le provvigioni, la fede islamica consentiva l'alleanza con le genti del deserto, e la struttura imperiale suppliva all'organizzazione politico-militare necessaria perché tutto ciò avvenisse. L'oro, che incominciava a decadere in numero, venne superato in importanza dal sale, essenziale per la sopravvivenza umana, e quest'ultimo dunque giunse a costituire la più importante voce d'ingresso per le entrate dell'impero durante tutto il periodo della reggenza. Verso nord, viaggiavano avorio, pelli ostriche e anche artefatti nativi, apprezzati dalle corti europee per la propria particolarità; verso sud, cavalli, cammelli, tessuto e soprattutto arte, fra cui addirittura pittori occidentali.
La gran via della Magnolia, invece, mantenne inalterato il proprio primato per il commercio di schiavi in ingresso e prodotti delle piantagioni in uscita: i beni venivano scaricati da asini e cammelli direttamente entro le concave canoe ormeggiate a Kansala, che provvedevano poi a compiere il periglioso viaggio di circa 500 miglia avanti e indietro per l'Oceano, usando, di volta in volta, correnti favorevoli alla navigazione.
La società songhai, basata su un rigido sistema di clan e caste, esportò questo modello nel resto dell'impero, contribuendo al rafforzamento della compagine disparata di territori su cui governava il reggente Askia di turno. Il clan a cui una persona apparteneva aveva molto spesso una tradizione (guerriera, manifatturiera, mercantile...) cui ci si aspettava che l'uomo comune si conformasse. I più comuni impieghi, nelle classi più basse, erano quelli di pescatore, carpentiere e fabbri; siccome poi, il sistema delle caste impediva ai poveri, anche fossero ricchi, di salire di grado, questo garantiva ai posti più alti delle fondamenta stabili sulle quali amministrare il potere. In un posto di mezzo stavano i Julla, mercanti che guadagnavano dalla partnership con lo Stato e le città portuali del Niger; spesso si riciclavano come produttori di artefatti, che riciclavano nella vendita. Infine, in cima stavano l'antica aristocrazia mandinka e i diretti discendenti dei capiclan songhai, la stragrande maggioranza dei quali, in assenza della guerra, emigrarono in massa presso il cuore dell'impero, Timbuktu, Gao, Djenné e così via. Le città stesse erano ormai molto cosmopolite, e i viaggiatori faticavano a indovinare quale individuo appartenesse all'etnia mandinka, fulani, songhai o addirittura qualche vetusto wagadou o intraprendente wolof, attirato dalla ridente vita urbana; si era di fronte, insomma, a un vero e proprio processo di etnogenesi, con cui stirpi provenienti da tutto il bacino del Niger si stavano amalgamando in un solo popolo, attorno ad un'unica identità: quella imperiale, garantita dalla collaborazione fra il mansa mandinka e il reggente songhai.
Degli imperatori di questo periodo, di fatto ritirati, non sappiamo quasi nulla; purtroppo, invece, siamo a conoscenza di una quantità inimmaginabile di forti e ambiziosi nomi Askia che, dopo la morte di Muhammad, vollero combattere fra loro per decretare quale fosse il più titolato a succedergli. Nella mischia selvaggia che scoppiò dopo la fine di Askia il Grande quindi, Askia Ishaq fu il primo a manenere il potere nelle sue mani per un periodo di tempo che non fosse breve, circa dieci anni. Ciononostante, non riuscì mai a farsi riconoscere il titolo di reggente dal mansa, a causa della propria crudeltà che le rendeva, secondo il legittimo detentore del potere, inadatto al titolo. Una poesia imperiale dell'epoca dice in suo proposito: "Se avesse immaginato che un suo amico qualunque stesse facendo la pur minima mossa per sottrargli il bastone del comando, avrebbe senza eccezioni ordinato il suo esilio oppure la sua eseucuzione."
Fu per evitare questa sorte che suo fratello Daoud, già citato, decise di fuggire preventivamente presso sud, rifugiandosi a corte del re della città Hausa di Zazzau; era il 1548 e gli Hausa entravano per la prima volta nella storia dell'impero, allorché Ishaq sarebbe morto l'anno seguente. Daoud, che si era assicurato il supporto di Zazzau sposandone la nipote Amina, allora quindicenne, era pronto e con una rapidissima marcia verso nord riuscì a entrare in Timbuktu prima che altri contendenti potessero soffiargli la nomina di reggente.
Il reggente Askia Dawud ritratto all'occidentale; questo dipinto, ritenuto perso a causa dei dissapori che sarebbero spuntati alla sua morte (un attendente zelota pensò che fosse sconveniente e volle venderlo all'asta), rimase per moltissimo tempo l'unico esemplare di sovrano africano a farsi dipingere come un monarca europeo
Il periodo di reggenza di Askia Dawud fu visto da molti come la naturale prosecuzione di quello del suo grande antenato: pacifico, presentò poche lotte interne, permettendo lo sviluppo ulteriore dell'impero. In realtà, più che di lui, i suoi sudditi ebbero di che sproloquiare rispetto alla sua consorte hausa, Amina, figura a dir poco eccezionale. La regina guerriera, come venne spesso denominata, si assentava spesso dalla corte, per guidare in guerra l'esercito imperiale: durante la sua vita, avrebbe imposto tributo ai regni di Katsina, Kano e altre città-Stato Hausa, assicurando da un lato il controllo dell'intero corso del Niger all'impero, e dall'altro il primato assoluto della città di Zazzau sui suoi rivali Hausa. Le leggende dicono che prendesse un nuovo amante in ogni città che visitasse, tagliando la testa ad ogni uomo che giacesse con lei in modo tale che nessuno vivesse per raccontarne la storia. Per proteggere le sue conquiste, Amina fece erigere numerose fortezze al confine col ceppo orientale dei fulani e con l'impero rivale del Kanem, del quale decretò l'inizio della decadenza perché escluso dalle rotte commerciali imperiali. Il motto ch'ella ripeteva sempre ("Tenete sempre le armi affilate!") rende onore alla sua armata, composta di ventimila uomini di tutte le stirpi e mille cavalieri sceltissimi, anche fra popolani che non avrebbero dovuto, secondo le leggi vigenti, andare in guerra.
Quando il suo caro marito,
Daoud, tirò finalmente le cuoia, ella non volle ritirarsi: nel contesto delle
guerre di successione che avrebbero deciso una volta per tutte la fine del
regime di reggenza, Amina si fece avanti e pretese il titolo per sé, in qualità
di consorte dell'ultimo Askia a detenere la carica. Purtroppo, la situazione
presentava così tanti pretendenti da non poter essere risolta in tempi brevi,
nemmeno con l'aiuto della superba Amina di Zazzau, la-vergine-che-combatteva.
Ancora oggi, il suo mito è ricordato in svariate ballate diffuse fra i mandinka,
gli hausa, i fulani (specie dell'est) e i Songhai: la si ricorda come "Amina,
figlia di Zazzau, una donna capace di guidare gli uomini in guerra."
Amina di Zazzau, la regina guerriera, alla testa della sua cavalleria scelta
.
La caduta
Il responsabile del crollo dell'impero nel tardo '500 ha un identikit molto preciso, che si scoprirà senza troppe sorprese appartenere al nemico di sempre della civiltà del Niger: Ahmad al-Mansur, sultano del Marocco. Questi aveva intavolato, col tempo, proficue relazioni con i monarchi europei, e per questo la bilancia commerciale del suo Stato era in forte deficit; per evitare la bancarotta, e continuare nel frattempo a mantenere il proprio dispendioso stile di vita, il sultano sapeva che l'unica soluzione si trovava a sud, oltre i confini del suo regno: stiamo parlando, ovviamente, dell'oro imperiale, insieme con il sale di Taghazza. Per conseguire questo fine, lasciò mano libera al primo dei suoi consiglieri, Abd el-Ouahed ben Messaoud, il quale era un uomo d'intelligenza rilevantissima e con un'astuzia politica senza pari; basti dire che a ben Messaoud riuscì il colpaccio di stabilire un'alleanza con l'Inghilterra in funzione anti-spagnola, dalla quale egli poté ricavere l'impressionante numero di 20.000 fucili e 8 cannoni, da usare nella campagnia contro l'impero del sud. Per avere un'immagine della straordinaria formazione militare che si andava costituendo in quegli anni, si possono prendere in prestito le parole dello stesso al-Mansur, che sosteneva, di fronte alla regina Elisabetta, che il suo esercito era talmente potente che sarebbe riuscito a riconquistare al-Andalus dagli spagnoli, dando seguito alla sua pretesa sul titolo califfale, e che, sommerso l'impero delle sue forze, si sarebbe volto a popolare la Magnolia di marocchini, in modo tale da far prevalere l'Islam nelle Americhe. "Il Mahdi sarà venerato su entrambe lo sponde dell'Oceano", diceva, ignorando che la situazione reale non fosse poi tanto diversa da quella ch'egli auspicava, poiché anche la dinastia Keita rivendicava un titolo simile.
La straordinaria impresa è resa possibile anche dall'anarchia che vige in quel momento nell'impero: come già detto infatti, l'ultimo dei grandi reggenti Askia, Daoud, è morto dopo un lungo e felice regno, facendo sì che si riaccendessero immediatamente le consuete faide per la successione alla carica. E nonostante l'abilità della regina Amina, che sconfigge tutti coloro che osano pararsi davanti al suo portentoso esercito, il caos non accenna a diminuire, ma anzi si amplifica, poiché i discendenti di rami paralleli degli Askia si rifugiano oltre confine, chi dai mossi, chi dai benin, e chi perfino dai Wolof, esigendo, in maniera simile a quanto agito dal reggente Daoud, il tributo di un'armata per conquistarsi l'impero. E siccome, perfino le forze della superba Amina non sono imbattibili dopotutto (si patisce soprattutto la malaria e altre malattie riportate dalle zanzare anofele nel tentativo di penetrare nella giungla onde stanare i ribelli), pur'ella non può evitare di attingere in maniera sempre più consistente all'enorme serbatoio di uomini che è rappresentato dalle città-Stato Hausa, con le quali l'impero instaura in quegli anni un rapporto quasi simbiotico. Anche il nuovo mansa, Mahmud IV, inaspettatamente si dimostra uomo di polso; sognando segretamente di scacciare gli Askia dal Mali e restaurare anche in pratica quel primato d'onore che nessuno gli ha mai negato, avoca a sé molti nobili, attirati dal sogno di una restaurazione mandinka, ed estende segretamente il proprio potere sulla provincia imperiale, senza rompere con nessuno dei pretendenti. La sua posizione si mantiene su una stretta neutralità, e mentre abroga numerosi dei provvedimenti voluti da Askia il Grande, restituisce le armi a fulani e mandinka, costituendo un imponente esercito, armato, però, ancora all'antica, in un estemporaneo tentativo di riportare in auge proprio tutte le tradizioni dei primi Keita.
Proprio questa sua attitudine, rivolta essenzialmente al passato, gli sarà fatale. Questo perché, il 16 ottobre 1590, al-Mansur fa scattare l'operazione che ha con tanta dedizione preparata per tutto il suo regno; Messaoud, che si è visto affidato il comando di un piccolo ma fortissimo drappello di truppe scelte (le stime parlano di circa 4000 uomini tra moriscos e magribini, 500 rinnegati europei e 60 ufficiali inglesi di supporto, amici personali dell'ambasciatore) attraversa a tappe serrate il Sahara e piomba sull'impero intorno ai primi di dicembre. L'imperatore, desideroso di vincere un grande trionfo d'immagine che gli consentisse di fortificare il proprio potere, gli venne incontro con un esercito, dicono le fonti, di dieci volte superiore. Il mansa stesso non diede molto peso alla battaglia, sicuro com'era di vincere, e date le adeguate disposizioni perché questa si svolgesse come desiderava, non aspettò molto prima di tornare a corte. In realtà, la strategia adottata dal Messaoud fu di gran lunga superiore: disposte le proprie truppe a semicerchio proprio al di sotto di una duna, aspettò che il vento iniziasse a soffiare prima di dare l'ordine di aprire il fuoco contro l'armata nemica, accampata in modo disorganizzato poco distante; con la sabbia negli occhi che gli impediva di vedere, i soldati imperiali non seppero agire una carica coordinata e si gettarono all'arma bianca contro gli invasori, finendo stesi uno per uno. Fu un autentico massacro: alla fine dell'oretta scarsa di battaglia, a terra si contavano non meno di 25.000 vittime mandinka, dando adito alla tesi dei cronisti arabi secondo la quale gli imperiali fossero in enorme sovrannumero, e meno di 100 morti magribini. Non solo: senza il suo esercito, l'impero presentava ora porte aperte, anzi, spalancate, al Messaoud, che entrò senza troppe difficoltà a Timbuktu, prendendo il mansa prigioniero. Divertito dal suo tentativo, il Messaoud decise di liberarlo, ingiungendogli di giocare a fare la guerra da un'altra parte; Mahmud IV voleva prendersi la rivincita, ma sapendo bene quanto per i signori della guerra Askia la sua permanenza nell'impero che con la sua sola idiozia aveva condannato al fallimento fosse intollerabile, prese la decisione eccezionale di travestirsi da minatore e imbarcarsi a Kansala, percorrendo con una rapidità incredibile la gran via della Magnolia verso occidente. Finalmente in salvo, fu accolto dal governatore di Befee Muhammad, che stupito, accettò di proteggerlo. Allora Mahmud IV operò un grande discorso, diffuso grazie alla stampa occidentale e autoctona, con il quale condannò l'invasione marocchina, lavandosene tuttavia le mani (logicamente) e riconobbe che il titolo di reggente sarebbe andato a quel principe che avesse vinto la resistenza dei conquistatori stranieri, permettendo all'imperatore il rientro in sicurezza presso la città santa di Timbuktu, caduta in mani sbagliate.
Lungi dal proclama imperiale, comunque, la situazione era disperata: nonostante i periodici tentativi di sommergere gli invasori con la forza dei numeri, gli Askia semplicemente non avevano la tecnologia necessaria per sloggiare gli invasori, e molto presto si rimediarono a condurre una guerra di posizione attaccando i convogli e i rifornimenti marocchini. Messsaoud si accorse di questo: e per rimediare all'attacco ch'egli subiva da due fronti (Askia da ovest e Amina da est) prese la risoluzione di concedere a un membro qualunque della famiglia, che faceva nome Suleyman, il titolo di reggente imperiale, appellandosi a una concessione effettuata da al-Mansur, il quale, sosteneva, avendo avanzato pretese al titolo califfale, era una guida di ordine superiore rispetto al Mansa per la gestione della comunità islamica. Ovviamente nessuno gli credette, e sia i signori Askia, sia Zazzau continuarono la resistenza ad oltranza, ma questo evento è da ricordare per un motivo fondamentale: per la prima volta, nella millenaria storia della civiltà della valle del Niger, l'impero si separa, almeno formalmente, come entità, dall'imperatore. Per questo motivo, l'attacco di al-Mansur, seppur terribilmente luttuoso e giunto a rompere uno dei momenti più prosperi per la storia dell'impero, è da tenere in considerazione come punto di svolta nella storia e terminale per il Medioevo africano, e ancora oggi viene celebrato con un giorno di digiuno e riflessione prescritto dalle madrase di quasi tutto il Kurufaba.
Ritratto di Abd el-Ouahed ben Messaoud ben Mohammed Anoun, ambasciatore del re del Marocco al-Mansur presso Elisabetta I, nonché primo pascià (governatore) del Wagadou per conto di quest'ultimo
Dopo che Suleyman venne nominato reggente imperiale, Messaoud valutò di avere le spalle abbastanza coperte nel Wagadou per tentare un attacco al Dendi, vale a dire la nuova frontiera orientale del dominio Askia, volendosi inserire nelle lotte fra i principi rivali. Già Askia Ishaq II, il più legittimo tra i successori di Daoud, era fuggito da quelle parti; ma mal gliene incolse, giacché, appena sette mesi dopo il crollo di Timbuktu, i marocchini si erano voltati da quel lato del fronte, volendo fare piazza pulita dei rimasugli imperiali. In Dendi, dunque, Ishaq II venne deposto da suo fratello Muhammad Gao, che si proclamò nuovo reggente col nome regale di Muhammad II. Nemmeno a questo finì troppo bene, nel senso che venne colto nel sonno da sicari inviati dall'intrigante marocchino, il Messaoud; allora il comando della resistenza finì ad Askia Nuh, figlio di Askia Daoud, che grazie alla propria parentela riuscì a mettere in atto un collegamento con la regina Amina, evitando in questo modo il collasso definitivo dell'impero, ora diviso, ma sempre formalmente unito. Askia Nuh, insomma, fu una benedizione per le sorti del Kurufaba: con numerose campagne militari riuscì ambo a contenere la minaccia magrebina e a sconfiggere gran parte dei suoi familiari, stabilizzando il potere di quello che divenne ufficiosamente noto come regno del Dendi, sotto l'alta autorità del mansa di Magnolia e in realtà governato dagli Askia. La capitale di Nuh era situata nel fitto della giungla, nella città mimetizzata di Lulami, talmente ben nascosta che agli archeologi non è ancora riuscito il colpo grosso di trovarla.
Ma nemmeno le forze marocchine, pur tecnologicamente superiori, erano infinite o invincibili. In primis perché, imparando dalla sconfitta, Askia Nuh si interessò personalmente di concludere affaroni con i portoghesi e, novità delle novità, inglesi e francesi che giungevano in quegli anni a stabilirsi sulle coste del Senegal, insidiando il regno dei Wolof e portando il cristianesimo nell'Africa Nera. Il reggente dovette fare numerose concessioni, consentendo agli europei di stabilire basi per il commercio direttamente sul proprio territorio; la ricompensa, tuttavia, superava di molto il prezzo. Grazie agli accordi con gli europei, infatti, le armi da fuoco iniziavano a penetrare nel territorio dell'impero; Askia Nuh fu severissimo a questo proposito, considerandole un bene preziosissimo per la resistenza contro i marocchini ne requisì un gran numero e propose che ogni singola bocca da proiettili che si trovasse all'interno del Dendi dovesse appartenere per legge all'esercito imperiale. Sia per supplire alla mancanza di armi indigene dunque, sia per guadagnare dalla vendita allo Stato, alcuni europei iniziarono a implementare alcune primitive manifatture per la costruzione di armi da rivendere proprio agli Askia direttamente sul suolo imperiale; i reggenti, comprendendo che era solamente grazie a questo meccanismo che ancora resisteva il loro regno, fecero il possibile per proteggere e incoraggiare la nascente industria, per la quale erano impiegati soprattutto diseredati e lazzaroni delle città mandinka, senza lavoro a causa dell'esaurimento delle miniere d'oro.
La sconfitta, perciò, paradossalmente rappresentò una vittoria, perché in essa il Kurufaba trovò le energie necessarie per aggiornarsi e tenere il passo con l'Europa. Anche perché, come sempre accade, un sovrano che peccando di troppa sicumera fa il passo più lungo della gamba, prima o poi viene punito: ciò accade quando Mahmud ibn Zarqun, nuovo pascià del Wagadou poiché coi suoi sotterfugi il Messaoud era caduto in disgrazia presso la corte califfale marocchina, si lanciò nell'ennesimo assalto alle frontiere di Dendi. Askia Nuh resistì all'attacco tramite l'impiego di una costosa guerriglia che impiegò i magribini per quasi due anni. Nel 1594 lo Zarqun era ormai stato piegato, e costretto a rinunciare alla guerra si ritirò, solo per finire ammazzato in un'imboscata tesa dalla tribù dei Dogon, con cui Nuh si era probabilmente alleato. Il terzo pascià, Mansur, tentò di continuare la guerra, e di nuovo Nuh fu costretto a battere in ritirata, ricorrendo alla guerriglia. Tuttavia questa era costosa per la gente mandinka, e suo fratello Harun ne approfittò per sobillare le grandi famiglie alla deposizione di Nuh; ciò avvenne nel 1599, e per dieci anni allora Askia Harun tenne fede alla propria promessa, senza muovere la frontiera fra imperiali e marocchini di un palmo. Nel 1609, però, Djenné la bella si rivoltò contro il regime di occupazione e la legge marziale; il Dendi non poteva esimersi dall'intervenire, e allora, riprendendo le armi, scese in guerra, liberando l'importante metropoli. Si badi bene che i pascià erano ancora in grado di ribaltare la situazione, militarmente parlando; ma ormai, con la morte di al-Mansur, il corso della marea si era invertito e la mancanza di supporto dalla madrepatria iniziò a farsi sentire, specie quando i nomadi Tuareg e Fulbe, adirati per il continuo stato di guerra, decisero di manifestare il proprio dissenso attaccando le carovane che attraversavano il Sahara, finendo per l'interrompere i collegamenti con il Marocco.
Nel 1612, Askia al-Amin salì al potere in Dendi; era un lontano parente di Askia Ishaq II, figlio di madre marocchina e per questo disprezzato dalla popolazione, che dopo un breve regno di sei anni insorse per scacciarlo dal Kurufaba. Venne rimpiazzato da Askia Daoud II, di ascendenza incerta e che perciò per imporre il suo primato dovette levare di mezzo numerosi familiari e membri dell'esercito. Perfino suo fratello dovette scappare, e si rifugiò a Timbuktu, aspettandosi di essere accolto dai pascià marocchini. Così avvenne; ma questi ultimi, ancora non pienamente consci della situazione in patria, dove, dopo la morte di al-Mansur, era scoppiata una furiosa guerra civile fra i suoi due figli, sovrastimarono grandemente le proprie forze. Daoud II dichiarò guerra ai pascià pur di poter tagliare la testa a suo fratello con le sue mani; nel 1639 dunque, a seguito di una lunghissima ed estenuante campagna militare, la città di Timbuktu finalmente cadde, e insieme con essa ebbe termine il regime d'occupazione marocchino. L'impero era finalmente riunificato; ma a quale prezzo? Amina era morta, e il primato sugli Hausa era ancora da imporre, e ciò in barba al fatto che le energie dei reggenti Askia erano di fatto stremate da mezzo secolo di guerra costante. Non solo: i problemi ch'erano costati al Kurufaba la separazione prima e la caduta poi, continuarono a ripetersi. Durante tutta la loro esistenza, gli Askia continuarono a farsi guerre per procura, limitando l'estensione dell'impero verso sud e costringendo quest'ultimo a sopportare continui regni instabili, colpi di Stato e contro-colpi di Stato, finché non si arrivò a un punto di svolta con l'estinzione della dinastia Keita.
Il reggente Askia Nuh contratta l'acquisto di armi da fuoco dagli emissari inglesi
Che cos'era successo in Magnolia, nel frattempo? Anche qui, infatti, si ripercuotavano gli effetti del disastro. Dopo un breve "regno" di una decina d'anni, ai primi del '600 Mahmud IV si era spento, senza mai rinunciare alla sua pretesa sul Kurufaba e anzi non premurandosi nemmeno di fare testamento, convinto com'era che da un giorno all'altro gli sarebbe giunto un emissario Askia recante la notizia dell'avvenuta riconquista. Così non fu; e di fronte alla realtà, cioè che Mahmud era morto lasciando la bellezza di tre figli in esilio senza ben specificare quale di essi dovesse succedergli, ognuno di essi fece vela per una zona della Magnolia, rivendicandola come propria e usando il titolo di mansa, ormai completamente svuotato del suo significato originario. Kangaba, già sede di Mahmud IV, divenne il capoluogo della sfera settentrionale; l'area centrale, governata dal più autorevole dei figli di Mahmud, Joma, fissò la propria residenza a Siguiri estendendo la propria influenza anche su Befee Muhammad, capitale morale della Magnolia perché in essa sedeva ancora il governatore, ormai privo di qualunque reale potere; infine Hamana, il più giovane dei figli del mansa, si stabilì a Kourossa, nel sud del Paese, amministrando la zona più debole e maggiormente esposta agli attacchi dei marocchini.
Eh già, perché, approfittando del tracollo del mansa, al-Mansur aveva dato seguito alla promessa con cui abbiamo aperto questa lettura: diverse spedizioni marocchine avevano insidiato il Rio de la Plata, sloggiando le poche missione spagnole in loco. Madrid, presa com'era dal confronto con la Francia nella guerra dei trent'anni, non seppe o non volle rispondere; così, le comunità magribine, in massima parte costituite da moriscos e marranos rifugiati in Marocco che così si prendevano la propria rivincita sui castigliani, poterono metter su radici e costruirsi una nuova patria. Nel 1630, addirittura, il comando della colonia, presto tagliata fuori dai contatti con la madrepatria a causa della guerra civile, passò a Joel Sirkis, eminente rabbino ebraico, che fece di necessità virtù, pubblicizzando, in maniera del tutto simile a quanto agito da Sera il Bello, le Americhe come Nuova Canaan: qui si trasferirono, di conseguenza, un numero spaventoso di giudei in fuga dalle persecuzioni dell'Europa della Controriforma, che andarono a costituire la base dell'economia, spiccatamente industriale e al contempo bancaria, della colonia. La nomenclatura donata dal Sirkis, dopotutto, piacque, giacché faceva riferimento al mito fondatore comune di ebrei, musulmani e, se vogliamo, cristiani; perciò, in mancanza di meglio, tenne e anzi si affermò presto pure presso le corti europee. Nel 1645 nel contesto delle solite guerre di posizione che scoppiavano periodicamente tra Cananea e Hamana, i primi raccolsero un importante successo, conquistando entrambe le sponde del fiume Paranà fino a Kourossa, costringendo il preteso Mansa in esilio. Questo, lungi dal riunire le anime della Magnolia intorno a un nemico comune, fu la pietra tombale per un qualsiasi tentativo di unificare il Paese, giacché le istanze degli abitanti, personificati dai fratelli rivali, si dimostrarono troppo diverse per guidare a medesimi intenti. Sarebbe stato solo nel 1667, quando ormai, morti tutti gli zii, Mama Maghan V riprese in mano propria l'intera Magnolia, nacque un nuovo scontro coi cananei che si risolse in una disastrosa sconfitta.
L'imperatore, volendo risollevare gli animi della Magnolia, ridiscese il Paranà con il suo esercito, giungendo fino allo sbocco sul mare. Ma a Canaan si era tutto meno che stupidi: consci dell'inferiorità numerica, i coloni attaccarono lo sguarnito nord, raccogliendo l'ennesimo trionfo. Per giunta, la capitale di Canaan, nuova Gerusalemme, presa d'assedio da Maghan V per ben tre anni, fece pagare al conquistatore la sua presa col sangue: il mansa venne piegato dalle malattie tropicali endemiche della regione, e morì nel 1670, con l'esercito cananeo che aveva appena saccheggiato e bruciato Befee Muhammad e si era spinto fino a Kangaba. Così devastato, Maghan V fu costretto a stipulare una pace con il nemico, promettendo di non superare mai in armi il Tropico del Capricorno. Avvilito e psicologicamente distrutto, l'ultimo dei Keita si gettò nel fiume Paranà, per cui aveva dato tutto, lo stesso anno: era l'ingloriosa fine di una dinastia che per più di quattro anni aveva regalato al mondo i più splendidi tra i monarchi. La Magnolia, e il Kurufaba, erano allo sbando.
L'America Meridionale e la Magnolia nel 1670. In marroncino la Magnolia, con le aree assegnate ai tre figli di Mahmud IV segnate in rosso; in rosa la Terra di Canaan; in verde chiaro la colonia portoghese del Pequeneza (Piccola Venezia); in giallo i vicereami della Nuova Spagna; in lilla la Guiana olandese
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L'ascesa dei Coulibaly
Abbiamo lasciato la complessa compagine dei popoli africani alla deriva nella tempesta, senza un'ordine né tantomeno un capo; situazione aggravata poi, dall'instabilità del regime Askia. Nonostante la riunificazione dunque, senza l'esercito della regina Amina, che si era disciolto alla sua morte, furono numerosi i tentativi da parte delle singole province di staccarsi dall'egemonia della capitale. Kong, Macina, i Fulani e gli Hausa: tutte queste genti ricercarono prima di tutto l'autonomia, che si risolse in seguito nello scoppio di guerre esterne onde espandere il proprio potere. Analizziamo dunque la situazione geopolitica dell'Africa occidentale alla caduta della dinastia Keita e del regime Askia:
> Kong impose il proprio dominio sui mossi, ma venne contrastata in questo dalla tribù ashanti, che guidò una resistenza ostinata contro gli schiavisti e infine riuscì a vincere, fondando un proprio regno, embrione della nazione mossi che sarebbe durata fino a oggi;
> Gli Hausa, dal canto loro, tornarono a frazionarsi molto presto nelle loro lotte di potere interne, dopo la parentesi di Amina sotto l'egida imperiale, ma non mancavano per questo di avanzare la propria influenza sul basso Niger, e soprattutto, in competizione col Dahomey, regno in rapidissima ascesa, divennero il nuovo centro del commercio di schiavi, sicché l'impero, indebolito, ne perse il monopolio;
> I Fulani, imbrigliati troppo a lungo dai reggenti Askia, imbracciarono le armi e iniziarono a combattersi senza sosta, non mancando anche di lottare contro altri vassalli riottosi e il potere centrale. Il risultato è interessante per un motivo in particolare: l'invasione del Senegal, che segnò un punto di svolta nella storia del popolo Wolof. Da un lato, infatti, questa permise l'insediamento di missionari ed esploratori francesi nella regione; dall'altro, portò all'integrazione tra le genti originali della zona e gli invasori, formando il nerbo dell'attuale nazione del Senegal;
> L'impero del Kanem trasse ampio profitto dal crollo della civiltà della valle del Niger, subentrando all'impero come punto di partenza dei traffici transahariani e rilanciando così la propria presenza, ch'era entrata in declino;
> Per fortuna degli imperiali, il Marocco era entrato anch'esso in decadenza con la nuova dinastia sultanile, e non rischiava di funestare nuovamente la rinascenza dell'impero con ulteriori incursioni devastanti;
> Kansala, diventata la maggiore città del Mali dopo la decadenza che era toccata in sorte alla capitale, aveva rigettato le offensive di tutti i signori della guerra vassalli degli Askia, e si era eretta a repubblica mercantile, diventando simile, per ordinamenti, agli antichi comuni italici. Inizlamente si dispose che il popolo eleggesse un reggente della metropoli fino alla morte (formalmente infatti, la cornice entro cui inserirsi era sempre quella imperiale); ma quando si vide che la repubblica era caduta in mano dei demagoghi, il primo esperimento di democrazia in terra africana venne rigettato per l'azione di un consesso di ricchi mercanti della città, che assunsero su di loro il peso del reggimento di Kansala e, per effetto, dei traffici oceanici. La città di Qu, infatti, era rimasta l'unica via per il commercio di oro, avorio, sale e altre merci preziosi per gli europei a causa della decadenza del Marocco; i cristiani, specie se atlantici, ritenevano inconveniente e soprattutto scomodo recarsi fino a Costantinopoli o ad Alessandria per acquistare le mercanzie orientali che transitavano per il Kanem, e preferirono stabilire ambasciate e metter su radici presso l'intermediaria Kansala. Proprio per quest'ultima ragione, nessun africano tentava di attaccare la città, non potendo prescindere dai contatti con l'estero, che portarono numerosi mercanti, missionari e viaggiatori in Africa occidentale: Kansala poté perciò istituire una vera e propria talassocrazia sull'Atlantico centrale, profittando dell'assenza di seri competitori ed insidiando la costa africana di propri fondaci.
L'Africa Occidentale dopo il crollo del regime di reggenza; in rosso, i confini dell'antico impero; in giallo, quelli dello scomparso regno di Amina, la regina guerriera di Zazzau
Insomma: dopo un secolo di agonia, il cordone ombelicale col mondo islamico si era rotto, il sistema feudale era finalmente esploso e gli Askia dominavano effettivamente solo sul Wagadou e il Songhai, ostinatamente fedele per ovvie ragioni. In aggiunta, numerose innovazioni occidentali cominciavano a penetrare nella giungla, rivoluzionando la società: la tecnologia (emblematici i fucilieri bambara, che vedremo fra poco), la cultura dell'espansione e del profitto, una diversa concezione dello Stato, e, ultimo ma non per importanza, predicatori domenicani e gesuiti che si prefiggevano l'ardito compito di evangelizzare il continente nero. Se non ci riuscirono, com'era prevedibile, a causa delle rimostranze dimostrategli dai maomettani, la confessione cattolica si diffuse ugualmente nel territorio, per non essere più spodestata; questo, soprattutto perché i missionari furono estremamente capaci nel reinventare la retorica antischiavista, la stessa che gli aveva consentito di collezionare ampi proseliti, al tempo di Roma antica. Eppure, l'impero langue ancora, diviso fra signori della guerra e senza qualcuno che ne vesta la corona...
Ma non è detta l'ultima parola. Tra i vassalli ribelli, rifulge una stella: Mamari Coulibaly, faama (re) di Macina. A dire il vero, come suggerisce il numerale, la sua iniziativa non era proprio sorta dal nulla: i Coulibaly erano una dinastia antica, salita al potere nel quadro dei disordini ch'erano succeduti all'instaurazione del primo regime di reggenza sotto Askia il Grande, e ch'era riuscita a ritagliarsi un piccolo dominio centrato sulla città di Ségou, accumulando ricchezze grazie alla posizione chiave detenuta dalla città e ai numerosi studenti che si recavano a studiare presso l'università della città, e già Kaladian, bisnonno di Mamari, aveva condotto portentose campagne dall'amplissima portata intorno alla sua capitale, sottomettendo numerosi stirpi e città alla sua egemonia. Erano gli anni che andavano dal 1670 al 1680, e le numerose vittorie detenute da Kaladian dimostravano una cosa soltanto: con la morte del mansa, era venuta a mancare quell'importantissimo simbolo di identità comune che solo manteneva uniti le genti del Niger. Il reggente, infatti, se non aveva, per motivi incontingenti (le costanti guerre civili), la capacità effettiva di opporsi al re di Macina, difettava soprattutto della forza ideologica necessaria per imporsi sui propri sudditi. Da molti imam, durante la chiamata al minareto, si levava la voce: "Quale trono è chiamato a sostenere il reggente, ora che manca il re?", e questa si spandeva rapida per la savana, portata a dorso dai cammelli.
Che i Coulibaly fossero destinati a cambiare questo stato di cose si vide quasi subito. In primis, con Kaladian, il quale fu a un passo dall'entrare in Timbuktu da trionfatore; purtroppo, nel 1680, morì, permettendo agli Askia di tirare nuovamente un sospiro di sollievo. Il popolo bambara, infatti, era uno dei pochi di stirpe mandinka a non aver ancora abbandonato le antiche tradizioni in favore dell'Islam e del principio dinastico: in assenza di un successore abbastanza forte dunque, le singole tribù ricominciarono a combattersi, seguendo la virtù di ora questo, ora quel re guerriero. Se non altro, questo periodo è rinomato per un fattore: le canzoni da battaglia dei cantastorie, che viaggiavano di villaggio in villaggio offrendo i propri servizi a questo o a quel capoclan mecenate. La tradizione voleva che il loro canto, accompagnato dal bolon, avesse il potere di ispirare gli uomini alla battaglia e fuggire il timore dai cacciatori prima dell'attacco; ma perché questo potere venisse evocato, era necessario che il re volenteroso decapitasse la testa di un nemico che aveva personalmente catturato in guerra (oppure anche di uno schiavo, andava bene comunque; per questo, nell'anarchia, i traffici di merce umana non si fermarono, ma anzi subirono un'impennata); solo allora il musicista, del tutto simile ad un aedo dell'antica Grecia, poteva riconoscere il valore dell'uomo che gli stava davanti indicandolo con una coda di cavallo recisa, procedendo poi a intingere il suo strumento nel sangue. Allora, dopo che il rapsode si era seduto sulla testa del malcapitato sgozzata, poteva iniziare il canto, che si accompagnava con un'azione di frenesia estatica; commentatori europei riferiscono che, sebbene questo rituale fosse il più terrorizzante cui un buon cristiano potesse assistere, la sua capacità di infervorare gli uomini e prepararli allo scontro era indiscutibile. I guerrieri bambara dunque, sapevano bene utilizzare i propri fucili: appostati nella foresta, sparavano una selva di cariche, per poi ottenere il duplice risultato di terrorizzare il nemico e galvanizzarsi con i propri riti. Solo allora si consumava il crudele attacco finale, composto di un secondo colpo con moschetti, e poi da un assalto all'arma bianca per finire chi ancora resisteva con l'ausilio della baionetta. Unico, l'utilizzo della cavalleria poteva impensierire la forza dei soldati bambara; ma a partire dalla decadenza dell'impero, non era stato più possibile armare fantini, fosse anche cavalleggeri, in quantità, a causa del loro costo proibitivo. Dunque, molto spesso la questione si riduceva ad un mero riscontro numerico.
Suonatore di bolon contrae e ripone il proprio strumento, immortalato in uno scatto francese del XIX secolo
Eppure, se la situazione si fosse limitata al conflitto perenne, i bambara non avrebbero potuto avere occasione di convincere il mondo della propria grandissima forza. L'eroe aveva un identikit ben preciso, che già prima abbiamo menzionato: Mamari dei Coulibaly. Questi ebbe un'intuizione generale: concependo che la disunione fosse causata dai conflitti ancestrali tra villaggi rivali, ideò una struttura entro la quale poter far rientrare ogni bambara, indifferentemente dal clan di apparenza. Si chiamava tòn, ed era nei fatti un'organizzazione di giovani formata su una fortissima base egalitaria, giacché Mamari promise alle energie più fresche del Paese la gloria se solo avessero combattuto sotto le sue insegne, e proclamava di abolire i privilegi detenuti dai vetusti clan su ampi spazi di terra. Per disvelare la menzogna, basta poco, sicché il Coulibaly era esso stesso erede di un'importante dinastia; ma si sa, in guerra, come in amore, tutto è concesso, e la propaganda che ne seguì fu sufficiente per terrorizzare i notabili, convincendo i più a sottometterglisi e costringendo coloro che restavano allo scontro diretto, che si risolveva rigorosamente con l'esilio o la morte. Non bisogna tuttavia pensare che Mamari raccontasse solo frottole: molti degli oppositori che il faama si trovò a combattere durante la sua scalata al potere, erano realmente feudatari che governavano su amplissimi latifondi in modo parassitario e che il Coulibaly non si fece troppi problemi a decapitare; in ciò, insomma, possiamo trovare i primi prodromi dell'instaurazione di un sistema assolutistico anche in Africa occidentale, a tutta similitudine con quanto stava avvenendo allora in Europa.
Per quanto riguarda la situazione al di fuori di Macina, non c'è davvero molto da dire. Uniti in un tòn ch'era al solo servizio personale e indiscusso del faama, i bambara erano un osso davvero troppo duro da rodere: per merito della sua armata di zeloti sanguinari, Mamari poté estendere il proprio dominio su tutto il basso e l'alto corso del Niger, dando seguito alle prime persecuzioni contro i cristiani, condotte formalmente per attinenza alla personale idea di guerra santa che aveva la sua gente, ma in realtà per appropriarsi delle armi da fuoco che ogni buon viaggiatore occidentale si portava appresso. Nessun signore della guerra poteva resistergli: tutti erano troppo attaccati al proprio oro e a quel poco sale che gli restava per pensare di poterlo usare per mettere in piedi un esercito, mentre, per proporzionalità inversa, ad ogni feudatario che soccombeva e veniva spodestato, le risorse di Mamari crescevano, anche perché il suo tòn, novità assoluta, era aperto alle genti di tutte le razze e di tutte le fedi (fuorché ovviamente quella cristiana): così, il faama otteneva il duplice obiettivo di abolire quei privilegi secolari detenuti dalla casta guerriera dei fulani e poi dalle armate territoriali songhai che avevano caratterizzato il Medioevo africano da un lato, e potenziare il proprio esercito dall'altro, anche perché l'unico requisito per entrare a farvi parte era sottoscrivere un giuramento di assoluta fedeltà al faama, che, se tradito, comportava l'essere utilizzato come vittima sacrificale per gli strumenti da guerra dei bambara (qui non ne abbiamo parlato diffusamente, ma ne avevano una grandiosa varietà, con corrispondenti maniere di essere scotennato, anche vivo: il simbi, il douga, il bobo balafon, senza parlare delle dasche in maschera...)
Kong fu il primo regno a sottostimare la potenza dei rivali, e la sua clamorosa sconfitta suonò un campanello d'allarme per ogni altra potenza ostile nell'area, dato che essa comportò l'esodo totale e imposto dei loro guerrieri, che non si volevano sottomettere, verso sud. Era il segnale, insomma, che con i Coulibaly non si scherzava; e se questo non fosse bastato, ricordavano quale fosse lo stato reale delle cose le teste di numerosi signori della guerra che, passati a fil di spada ad uno ad uno, ruzzolavano rovinosamente a terra. Solo Kansala dimostrò di avere un poco di fegato: il comune della metropoli chiamò i cittadini alle armi, promettendo per giunta agli schiavi che si impegnassero in battaglia la libertà; non bastò per salvare la repubblica, ma intanto procurò ai mercanti il tempo necessario per ultimare i preparativi necessari ad accusare l'assedio che Mamari si apprestava a portargli. La repubblica, primo Stato in Africa ad assumere questo ordinamento dai tempi di Cartagine, più di millecinquecento anni prima, resistette così con tenacia all'assalto portato dai barbari del popolo bambara; eppure, tutto il suo valore non fu sufficiente per convincere l'animo del più vile fra i mercanti di Kansala, un portoghese di probabile fedeltà spagnola, dal momento che ai tempi le due corone erano unite, il quale, valutando a rischio i propri commerci, si mise segretamente d'accordo col re straniero, aprendogli una notte le porte della più grande città dell'Africa nera. Gli schiavi terrorizzati, allora, deposero le armi, ritenendo le proprie vite ormai condannate in virtù della leggenda nera che si era già diffusa per il corso del Niger a seguito delle atroci gesta che il faama aveva intrapreso in tutto l'impero; sorpreso, Mamari accettò di accordare alla città, unico caso nella sua storia di ferro e violenza, una pace onorevole, ma esigendo comunque un tributo di sangue per placare la sete dei suonatori di bolon. I mercanti, increduli poiché avevano ottenuto di poter tornare alle proprie attività con salvo non solo la testa, come avevano sperato, ma finanche il patrimonio, proposero la testa del traditore; allora si dice che il crudele conquistatore, al culmine di una grassa risata, avesse affermato: "Quello che il mercante fa del denaro è disgustoso; quello che il denaro fa del mercante è spaventoso!"
I portentosi fucilieri bambara consentirono ai Coulibaly di estendere in ogni dove il proprio potere
intanto a Timbuktu si aspettava e si pregava, fortificando la capitale e profondendo un immenso sforzo dalle esauste casse imperiali per armare un esercito di molte migliaia di uomini e perfino una marina di canoe da guerra; questo servì a poco, comunque, giacché le prime erano armate all'antica e per le seconde, ormai nel primo '700, era scaduto il loro primato sui campi di battaglia. Mamari non ebbe alcuna difficoltà a sgominare le raccogliticce truppe songhai del reggente, ormai completamente demoralizzate e convinte di trovarsi di fronte a un demonio (è proprio così che gli ultimi cronisti arabi, aboliti dalla conquista bambara, chiamano Mamari: djinn) invincibile. Molti soldati, appena il reggente si dispone a controllare un altro gruppo di uomini, buttano le armi a terra e chiedono pietà, unendosi all'armata nemica. Sotto le bandiere del clan Coulibaly, marcia ormai qualche decina di migliaia di uomini, e in essa i bambara, créme de la créme dell'esercito del faama, costituiscono solo una piccola parte dell'armata: la stragrande maggioranza è costituita da fulani, mandinka, songhai fuggitivi, schiavi mossi liberati, prigionieri di guerra da ogni dove (perfino wolof!) e per giunta qualche occidentale di carnagione bianca, visti con sospetto dai neri e spesso ghettizzati perché accusati di aver mantenuto la propria fede cristiana nonostante la conversione di facciata all'Islam, tollerato unicamente perché il faama si rende conto che inimicarsi il clero e gli scolari ora come ora sarebbe un autentico suicidio. Timbuktu la Grande, a dispetto della propria fama, non resiste che pochi mesi, stroncata dalla fame e, si dice, dal torrente di lacrime rovesciato in allora dagli Askia, che temevano di essere rovesciati; penetrato in essa, Mamari ne resta deluso, aspettandosi l'ombelico del mondo di cui narra la leggenda, e trovando invece solo poche macerie e rovine a costellare le vie dell'antica metropoli, e anzi concentrate intorno al palazzo del reggente, prima sede imperiale, e all'università di Sankore, unico centro di qualche vitalità che si presuppone la missione di conservare gli archivi storici dell'impero. Il faama ha schifo di una città così spaventosamente decaduta: ritiene che la gloria abbia diritto a possederla solo chi è forte, e che nessuna gloria passata, per quanto magnifica, possa evocare lo spettro dei morti illustri nel presente e restaurare la grandezza perduta; così, dopo aver provveduto a un generale saccheggio, ordina di dare alle fiamme la metropoli, con tutti i suoi abitanti chiusi dentro, perché possa far da monito al mondo intero. È la fine della stessa capitale dalla quale Mansa Musa e i suoi successori avevano amministrato con successo il Kurufaba per più di 300 anni, e che nemmeno gli Askia, per il peso simbolico che essa aveva mantenuto, si erano definitvamente risolti ad abbandonare; sic transit gloria mundi.
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La rinascenza
Il lungo regno di terrore di Mamari Coulibaly ebbe fine nel 1710, quando, secondo la leggenza, venne colpito da una fortissima febbre a seguito dell'atto sacrilego di aver bruciato Timbuktu. La gente mormorava allora che i mansa, dal paradiso, si erano vendicati per mezzo della potenza di Allah; ma a noi, in questa sede, delle leggende poco importa. A Mamari successero, senza che nessuno osasse mettersi in mezzo, il suo figlio maggiore Bakari, che sventuratamente morì dopo un singolo anno di regno. Allora si ripeterono le guerre di successsione che avevano già sconvolto gli Askia numerose volte; la differenza, tuttavia, è che questa volta il territorio dell'impero non venne intaccato, giacché la base del potere non seguiva affatto dal possesso di territori ma dalla grandezza del proprio tòn, permettendo così alla ricostruzione di progredire. La prerogativa urbana del territorio venne definitivamente formalizzata, poiché le distruzioni e lo stato di incertezza nelle campagne conducevano molti a preferire la vita d'aggregazione nelle città, molto più facilmente difendibili a causa delle mura; la stragrande maggioranza dei villaggi era abbandonata per non essere più nuovamente abitata.
Comunque, la stirpe di Mamari non aveva nessuna intenzione di scomparire dalla storia con tanta facilità. Furono proprio loro, a dire il vero, ad imbarcarsi in primo piano nell'impresa di riedificare lo Stato del Niger, martoriato da un secolo di guerre (l'epoca dei regni combattenti del Niger si colloca approssimativamente dal 1590 al 1710, dall'attacco di al-Mansur alla morte del capobarbaro Mamari); e in effetti, in un contesto imbalsamato a causa dell'aderenza a norme ormai fallite, solo l'irruenza poteva garantire al sistema imperiale di sopravvivere. Un imperatore era necessario, questo era chiaro a tutti: era a questo che serviva il trono, mantenere l'unità di facciata mentre la vera politica si svolgeva altrove. A questo scopo i Coulibaly restaurarono la carica di reggente, che venne a coincidere con quella di faama, conservandola come prerogativa esclusiva della propria famiglia come già gli Askia avevano fatto prima di loro. Ma a chi concedere la corona del Leone? Di certo, non poteva essere un bambara a salire sul trono. Non solo perché non erano musulmani, requisito non scritto ma fondamentale per tenere una posizione considerata di fondamentale importanza simbolica e religiosa, ma la loro stessa presenza era ormai associata da molti alla rovina e massacri portati dal loro capostipite, Mamari Biton (Biton per la tradizione bambara è il serpente creatore, una divinità tra le più importanti nel pantheon africano). Non restava che rivolgersi ai vecchi nemici: gli Askia, insomma, erano l'unica famiglia dotata della seppur minima legittimità per ascendere alla carica. A questo scopo, fruttando dell'antichità della famiglia, faama de-Koro, terzo reggente Coulibaly, si prodigò in un magnifico viaggio oltre il mare, portandosi dietro l'intero clan Askia, alla volta della Magnolia. Questo fu importante per due motivi: in primis, per ricondurre la colonia sotto l'egida della madrepatria, che aveva abbandonato ormai da più di un secolo; in secundis, per gli sviluppi futuri, giacché, inspiegabilmente, saltarono fuori alcune carte private dell'ultimo mansa, Maghan V, con le quali riconosceva il diritto, in caso di mancanza di eredi della dinastia, del reggente di salire al trono. Le cose erano molte diverse allora da un secolo prima: la gente era stanca e desiderava solo pace; indi per cui, nonostante quelle sudate carte fossero un clamoroso falso, esplicito già all'epoca, nessuno volle andare a piantare grane in faccia al faama, tanto più che il sistema retto da quest'ultimo funzionava. Del resto, sostenevano i bambara, le cose non erano tanto diverse rispetto a quelle agite dagli stessi Keita, in età classica: la dinastia aveva sottratto ai Ghana, sovrani del Wagadou, il mandato a governare sul bacino del Niger e ora, alla loro estinzione, era giusto che questo tornasse a qualcun altro.
Askia Maghan VI prese questo nome proprio per onorare gli antenati Keita, ai quali venne tributato postumo un culto quasi religioso, e con la sua personalità pacata e il suo zelo nei riti costituiva un ideale contraltare alle violenze e agli eccessi dei bambara, i quali governavano da Sègou concedendo all'imperatore di reinsediarsi presso Timbuktu. La tradizionale capitale dell'impero assurse in quegli anni a straordinario emblema della rinascenza del Kurufaba: maestranze occidentali e manovali africani si riunirono allora per riedificare una sede sontuosa, seppur sobria, per il potere restaurato. L'imperatore si fece costruire un nuovo splendente palazzo, per il quale, essendo in bancarotta, elargì stipendi in forma di conchiglie di ciprea, dal caratteristico coloro rosato chiaro: erano, insomma, le prime monete a circolare in terra africana, ed avevano lo stesso valore delle banconote che in Europa ancora nessuno aveva intenzione di attuare. A costruzione eseguita, il mansa ottenne dal faama che il palazzo fosse elevato, anche nella religione antica africana, a luogo dell'energia: era la nascita del consiglio del kòmò, primo embrione della camera alta del Parlamento del Kurufaba, con il compito inizialmente di dirimere questioni religiosi e teologiche e che sarebbe successivamente accresciuto col tempo.
Il palazzo della nuova Timbuktu, sede dell'imperatore e del kòmò
In pace comunque, i Bitonsi (figli del Serpente), come amavano farsi chiamare i discendenti di Mamari, erano più un fastidio che un aiuto, giacché lo spirito combattivo dei loro tòr doveva essere temprato regolarmente, con sanguinari regolamenti di conti tra questo e quel pretendente alla carica di faama. Non ci volle molto perché alcuni ambasciatori del trono, inviati da Askia Mansa III nel tentativo di invitare alla concordia e ricondurre alla quiete, fossero ritrovati ammazzati il giorno successivo. Lo scandalo fu grande nel Paese: ora che l'imperatore era finalmente tornato a rinverdire i fasti del Kurufaba, qualcuno osava ancora opporglisi? Per la reputazione dei Coulibaly, già disprezzati, fu un colpo basso, e questa non si riprese mai più, mentre da più parti si gridava alla loro destituzione. Nessuno, tuttavia, poteva seriamente pensare di sconfiggere un tòn, anche perché tutte le armi da fuoco erano immediatamente requisite per sostenere lo sforzo degli eserciti in lotta. Allora, si può ben capire lo stupore che giunse come un fulmine a ciel sereno quando l'ultimo dei Coulibaly venne trovato morto, riverso a terra, per mano di uno schiavo che era solito seviziare crudelmente: il suo nome era Ngolo Diarra, e come si può facilmente desumere non aveva niente a che fare con la civiltà della valle del Niger, ma era palesemente di etnia mossi, per giunta di fede cristiana, che, come già detto, aveva fatto scalpore tra gli schiavi.
Sembrava la fine del mondo. Ngolo Diarra venne portato in trionfo dal popolo da Ségou stessa fino a Timbuktu, dove l'imperatore lo ricevette nella sala del trono, alla presenza del kòmò. La cosa era a dir poco eccezionale: il mansa gli aveva affidato la carica di reggente, ora che i Coulibaly erano scomparsi, e dopo infiniti secoli di schiavitù e sterminio, un mossi e un cristiano governava sul Kurufaba! Ngolo si diede subito ad un imponente opera di riassestamento dell'impero e modernizzazione che avrebbe fatto impallidire chiunque per la propria mole. Ma non il faama: egli, totalmente inadatto alle armi (aveva ucciso il suo carceriere nella notte e di soppiatto!), oltre che un grande diplomatico, era un uomo estremamente casto e moderato, e l'unico piacere che si concedeva era il Dolo, il vino di palma fermentato, così da risultare piacevole a tutti i suoi sudditi. Il faama mossi, però, non aveva abolito il modello di società africana, per quanto, con l'invito a numerosi missionari a stabilirsi nell'impero, ne patrocinasse l'occidentalizzazione: essa era fortemente militarizzata e patriarcale, e se il tòn venne abolito perché il concetto di fedeltà personale era pericoloso, così non fu per i todyon (guerrieri) che, liberi dagli obblighi di casta, divennero finalmente rappresentanti di una professione libera al pari delle altre. Ad ogni todyon, in tempo di pace, era attribuito in proprio un pezzo di terra e per loro era considerato un disonore praticare il commercio, mentre l'esercito funzionava come una grande famiglia allargata, in cui il capo di un reggimento, che era come un signore assoluto per i suoi uomini, si chiamava Fa (generalmente il maschio più anziano in vita) ed aveva il dovere di prendere tutte le decisioni. Tuttavia Ngolo ebbe l'intelligenza di non concedere ai suoi uomini un potere realmente incontrastato: il fa infatti doveva sempre rapportarsi al reggente, che tra l'altro sceglieva alla sua morte il successivo fa. Molti fa comunque, potevano permettersi di avere più di una moglie; ciò divenne in breve il simbolo della ricchezza (nel bene e nel male!) cui poteva giungere un uomo che si riciclasse all'interno del sistema burocratico statale, spingendo molti ad entrare a farne parte nella speranza di migliorare la propria condizione di vita. In merito alle donne, si può dire questo: era allora usanza scegliere una bara muso (moglie preferita) che sovrintendeva a tutte le questioni domestiche della casa, ma non c'era teoricamente limite al numero delle mogli che un fa poteva avere. Ngolo, per conto suo, non ne tenne mai più di tre o quattro; seppure spesso i fa tenessero numerose concubine, era tradizione che i fratelli più giovani sposassero le vedove dei fratelli maggiori defunti e ne adottassero i figli. Per porre un argine alle lotte di successione, si dispose che i figli delle concubine e quelli delle mogli non fossero più equiparati nella spartizione dell'eredità, riprendendo una consuetudine già imposta dal papa a Carlo Magno secoli e secoli prima.
Si potrebbe pensare che, in un paese a schiacciante maggioranza musulmana, la presenza di un faama cristiano causasse problemi. Non è affatto vero: in primis, poiché, come già detto, Ngolo era un individuo fuori dal comune, e tutti i suoi discendenti misero sempre al primo posto l'equilibrio prima della dimostrazione di superiorità della loro fede, consci com'erano della propria minoranza. I Diarra, comunque, continuarono a coltivare la speranza di convertire il proprio impero, mantenendo le frontiere rigorosamente aperte verso i Paesi occidentali (riscuotendo anche begli insuccessi, specie nel campo del contrabbando). Ma la questione era troppo importante per venire abbandonata in tronco. Ngolo riprovò più volte; non riuscì, seppur collezionando indirettamente effetti nel numero spaventoso di conversioni che avvenne tra i wolof e i mossi, soprattutto tra gli schiavi, consuetudine abolita. Senza che questa fosse più permessa dunque, i ricchi si videro costretti a reinventare il proprio capitale: lo Stato diede il buon esempio, prendendo spunto dai primi abbozzi di opifici e workhouses proprie del Vecchio Continente. I presupposti per il decollo industriale c'erano tutti, dalle risorse, alla manodopera, al capitale conservato e da reinvestire; così questa approdò, seppure con una certa timidezza, per la prima volta in un'altra zona di terra al di fuori della Prussia e delle isole britanniche, antecedentemente perfino alla Francia. Proprio con la Francia, si consumavano in quegli anni decisivi dissapori: il tentativo di Parigi di insediarsi in Senegal, attenendosi ad alcuni vecchia accordi stipulati con la repubblica di Kansala, rappresentavano un attacco diretto alla stabilità dell'impero e vennero fermati. Nel 1756, allo scoppio della guerra dei sette anni, il Kurufaba tradusse in pratica le sue disposizioni, inviando a Londra le sue disposizioni per un'alleanza. Re Giorgio, al culmine della sorpresa, accettò, valutando che un amico in più non poteva che far bene al suo fronte. I Diarra, comunque, com'era prevedibile, non combatterono in Europa, ma concentrarono i propri attacchi contro le colonie spagnole in Sud America, dove l'alleanza col Portogallo svolse importanti successi: già per il 1760, gli iberici erano stati completamente spazzati via dalle Americhe, resistendo solo con le proprie roccaforti in Messico e in Perù. La débacle borbonica fu tale che perfino il Marocco, presa la decisione di rimettersi in armi, riuscì dopo non poche fatiche a sloggiare Madrid dal proprio territorio e anzi riprendere la colonia perduta di Canaan, che, finita l'epoca d'oro della pirateria, non oppose resistenza e prese il molto meno suggestivo nome di al-Gharbia (l'Occidentale). I magnoliani fecero valere la forza dei numeri, prendendo per sé ampie porzioni della foresta ed insediando il Perù; al termine del conflitto, agli inglesi riuscirono perfino due successivi sbarchi, uno in Cile, e l'altro presso Panama, che misero definitivamente in crisi le scarse difese spagnole prendendole da dietro. Insomma: a prescindere dagli sviluppi sul continente, il fronte di Londra aveva stravinto la guerra coloniale, cosa che fu sancita definitivamente ai tavoli di pace. Francia e Spagna, in declino, persero quasi tutti i propri possedimenti ultramarini: il Pequeneza si estese verso ovest, Messico, Louisiana e i Caraibi passavano a Londra (con la rilevante eccezione del regno di Haiti, dove gli schiavi mossi si ribellarono, costituendo una piccola potenza indipendente che mantenne rapporti cordiali col Kurufaba), i viceregni del Perù e del Rio de la Plata vennero integrati come colonie imperiali e perfino in India i rapporti di forza si ribaltavano, dal momento che i Diarra ottenevano di inserirsi, per la prima volta, nei traffici asiatici con la concessione da parte di Parigi di Pondichérry. Anche se francesi, olandesi e britannici poterono installarsi in Cile, spartandoselo, era un trionfo straordinario, che dimostrava al mondo la forza restaurata della civiltà della valle del Niger.
L'America meridionale a seguito del trattato di Parigi (1763)
Il benessere che seguì alle vittorie dell'impero non mancò di farsi sentire, dando un'ulteriore spinta alla sua modernizzazione, con i suoi benefici ed eccessi. Oltre i vantaggi che abbiamo già citato, si possono citare l'abbandono di molte antiche tradizioni in favore di una fisionomia molto più simile a quella europea e dell'aderenza rigorosa al canone imposto dalla propria fede, che fosse cristiana, ebraica o musulmana, tutte fedi rappresentate in un impero multietnico e straordinariamente tollerante. Voltaire, e con lui altri filosofi e viaggiatori illuministi, visitarono numerose volte il Kurufaba, lasciandone una descrizione accuratissima e un'impressione assolutamente positiva (citiamo Mungo Park a proposito di Ségou: "La vista dell'immensa città, delle numerose canoe sul fiume, la popolazione indaffarata, insieme con le prospere campagne e l'operosità delle piccole ciminiere, rappresentò tutta un prospetto di civiltà e magnificenza che poco mi aspettavo di trovare nel mezzo dell'Africa"). In Occidente dunque, iniziano le prime furibonde discussioni fra i sostenitori del razzismo ad oltranza, ed invece coloro, come il sopracitato Voltaire, che in nome del cosmopolitismo accettano di riconoscere ogni uomo del mondo come loro pari. E del resto, Ngolo Diarra ne era la prova evidente: nato schiavo, fatto faama, nero, eppure furbo come pochi, nonché dominatore di un impero immenso, come mai si era verificato in terra d'Africa dai tempi di Askia il Grande.
I suoi successori riuscirono a mantenere coeso lo Stato, seppure, gli eccessi che abbiamo menzionato poco prima, divennero ben presto una norma, in un impero dove tradizione e progresso coesistevano con sempre maggiore difficoltà, insieme a un reggente cristiano che governava su di un impero (e un imperatore!) musulmani. Le famiglie più potenti ottennero dunque rappresentanza nel consiglio del Mansa, il kòmò, e ottennero sempre maggior peso nel decidere le sorti del Paese. Gli stregoni, insieme con altre figure basilari per la vita di villaggio, scomparvero, risucchiati come un vortice dalle città. D'improvviso, a nessuno interessava più stabilire quale antenato si fosse reincarnato in un bambino, e perfino leggere il futuro era un'attività ridicolizzata adesso. I griot, cantori col bolon fondamentali nelle lotte dell'epoca precedente, smisero di tramandarsi oralmente le storie, le leggende e i racconti legati sia alla tradizione africana, sia alle singole famiglie importanti, sia agli eventi storici più significativi dell'impero (guerre vinte, incoronazione di re, miti vari...) e si giunse ben presto ad una loro codificazione nelle lingue locali, che per la prima volta guadagnarono una loro identità al pari dell'arabo, impiegato nella religione. In ultimo, in ragione dello sviluppo, si diffuse come ai tempi dei Keita un senso di superiorità da parte degli imperiali nei confronti delle genti africane che vivevano al di fuori dell'impero, considerati come barbari incivili: esso, seppure attenuato dall'abbandono dello schiavismo, fu alimentato dal fatto che i secondi non avevano ancora iniziato a costruire grandi città e permanevano, molte volte, sulla strada del commercio di esseri umani. I discendenti di Ngolo fecero di questo sentimento il punto cardine della propria politica, conducendo a numerose campagne che sortirono l'effetto di integrare una volta per tutte i divisi Hausa all'impero e scontrarsi numerose volte coll'impero rivale del Kanem, ricacciato indietro. Le tribù capirono che non c'era storia: se ancora erano indipendenti, ciò si doveva solamente al fatto che in quel momento al reggente, impegnato nell'integrazione delle popolose città Hausa, attaccate perché accusate di perpetuare lo schiavismo, non conveniva aprirsi un altro fronte e si mossero conseguentemente su un sentiero di aggiornamento su tutti i fronti. Il regno ashanti, quello wolofulo, il Dahomey e perfino il Kanem, cui il destino aveva in serbo di divenire a sua volta irradiatore di civiltà, raccolsero, ognuno a suo tempo, il guanto di sfida lanciato inconsapevolmente dei faama, raggiungendo un punto di sviluppo considerevole. L'unica potenza africana con cui l'impero mantenne rapporti cordiali, a ben vedere, era il Kongo; e questo, se si spiega in parte con il fatto che questo regno fosse cristiano, è agito sopratutto per conservare al faama uno base privilegiata nei traffici verso l'India.
Mansong Diarra, ricordato come grande guerriero nonché figlio ed erede di Ngolo Diarra, fu il secondo reggente dai tempi di Askia Daoud II a farsi ritrarre all'occidentale
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L'età del grande impero
Le rivoluzioni, da una parte quella americana, dall'altra quella francese, e non ultima quella industriale cui abbiamo già accennato, non poterono evitare di cambiare il mondo, e il Kurufaba per sempre. Ora, siccome dell'economia e della società in generale si è già largamente discusso, non ci resta che parlare degli sviluppi politici che l'impero attraversò armoniosamente tra il XVIII e il XIX secolo. Come spesso capita, questi avevano un protagonista assoluto: Omar Saidou Taal, che, ripetendo un copione già visto, a dire il vero non era neanche di natali imperiali, essendo venuto alla luce come decimo di dodici figli in Halwar, all'epoca sotto il dominio degli imam wolofula del Senegal; proprio questa condizione, tuttavia, lo avrebbe messo nella prospettiva di spingere oltre il dibattito politico del Kurufaba, giacché, a differenza dell'impero, il potere dei regnanti del Senegal era in vistoso declino a causa della penetrazione prima francese e poi britannica, tanto che i wolofula erano stati costretti dallo svilupparsi degli eventi ad abbandonare la loro magnifica capitale di Kayor, che forse i più arditi ricorderanno, in favore del piccolo villaggio di Orefonde, nell'entroterra. Il giovane Taal crebbe dunque in un clima di oscurantismo da una parte, dovuto alla reazionaria politica degli imam, che erano a tutti gli effetti re-sacerdoti, e dall'altra avendo in odio la pochezza della vita materiale cui era costretto dall'arretratezza del suo Paese. A neanche vent'anni perciò (era nato nel 1794) si preoccupò di passare di soppiato il confine coll'impero, avendo sentito favoleggiare delle ricchezza e del progresso del Kurufaba; qui dovette risiedere per molto tempo, mentre frequentava la grande madrasa di Ségou, anche detta università: qui, pur avendo finalmente la possibilità di lavorare costruendosi perciò un discreto gruzzolo e anzi potendo gustare il primo assaggio della vita eccelsa e culturalmente elevata che sognava, non riuscì a saziare la sua fame di conoscenza, appena intaccata da quei pochi volumi "recenti" (in realtà la cosa più moderna a Ségou, dove il dibattito era notevolmente indietro rispetto al canone occidentale, era il Candido di Voltaire); il Taal era infatti, come il nostro Ulisse, un'anima senza pace e dalla curiosità sconfinata, disposta a tutto pur di estendere il proprio sapere. Nel 1828 dunque, per quello che ormai era un adulto in piena regola, si verificò il punto di svolta. Trovandosi presso Kansala in un viaggio di studio per conto dell'università, adocchiò il costo davvero ridicolo di una bagnarola olandese che partiva per l'Europa; messo di fronte alla scelta di proseguire su per quella strada del sapere che aveva sempre desiderato intraprendere e una noiosa, seppur stabile vita come topo di biblioteca scelse la prima, e mollando tutto nonché gli sforzi di una vita, s'imbarcò avendo a dietro appena il denaro sufficiente per pagare la sua personale odissea.
Si disse a questo proposito una cosa falsa, seppur emblematica: Omar Taal era forse il primo africano a raggiungere il Vecchio Continente senza le catene ai polsi dai tempi di sant'Agostino. Proprio con quest'ultimo, tuttavia, è interessante istituire un paragone: le lore vite non avrebbero essere più differenti, e al contempo simili. Differenti, poiché Taal era sì un sognatore, ma anche un moderato e parsimonioso, che seppe vivere del suo gruzzolo per diversi anni; simili, poiché, come sant'Agostino, nella sua ricerca per la verità Taal s'imbatté nella filosofia, e fece sua questa disciplina, studiandone i più disparati ambiti. A Londra, città dove risiedette di più in assoluto, scoprì gli scritti di Locke e studiò il modello politico inglese, trovandolo straordinariamente interessante: era infatti giusto, nella sua opinione, che ambo faama e mansa si facessro da parte nella gestione dello Stato, sicché la loro ascendenza non era garanzia di buongoverno, e i più meritevoli ascendessero al governo. E non era il solo a pensarla così: le sue convinzioni riflettevano una modalità di pensiero che si stava diffondendo in tutto l'impero, nelle menti della classe borghese in ascesa, che ricercava la libertà politica e la libertà d'impresa, ancora pesantemente sanzionate dal reggente tramite la censura. Tuttavia, citare solamente questo modello non basterebbe a spiegare i rivolgimenti politici del Kurufaba nel secolo a venire. Omar Taal, infatti, non si era limitato a visitare Londra: dopo un breve soggiorno a Parigi, città che non lo entusiasmò particolarmente (sosteneva che i francesi fossero gente troppo litigiosa!) si recò a Berlino, dove poté assistere ad una delle ultime lezioni di Hegel. Per quanto la dottrina del filosofo idealista non lo convincesse, il suo pernottamento in Germania fu importante per un altro fattore, e cioè l'entrata in contatto con l'ascesa del concetto di nazione come incarnazione spirituale delle istanze portate dalla tradizione e dal popolo; dire che ne fu sconvolto, da imperiale qual era, è dire poco. Per spiegare quest'affermazione, bisogna ricordare che seppure nel Kurufaba fossero presenti e anzi ben riconosciuti gruppi etnici, mai si poteva pensare che ognuno di essi, in virtù di un bieco nazionalismo, giungesse a disertare la sacra unione e sfilarsi dal dominio degli Askia. Taala riconobbe la capacità persuasiva di quell'idea che iniziava appena a prendere forma, nelle colorite espressioni che davano in quegli anni i primi sommovimenti per giungere all'unità tedesca; e si persuase ch'era sbagliata, forse anche per le umiliazioni che sentiva di aver subito nelle disquisizioni che lo legarono a mirabolanti poeti romantici che itineravano, di città in città, predicando la grandezza della propria nazione. Così, il pensatore nero si decise ad abbandonare la culla della filosofia. Era il 1831: dopo aver fatto barba e bagagli (i libri da lui riportati nell'impero fecero per lungo tempo scuola!) prese la via del sud, attraversò l'Italia, dove si trattenne per qualche giorno nella città dei Cesari allo scopo di osservare il Papa a messa, s'imbarcò a Ostia e sbarcò a Melilla, ormai restaurata al suo hinterland magrebino, dal momento che perfino il sultano di Fez aveva intrapreso, in ragione del rinnovamento seguito alla vittoria nella guerra dei sette anni, un periodo di ripresa. Taal fu dunque tra i primi viaggiatori a rendersi conto che l'impero aveva ormai perso il dominio del Sahara, in favore del suo rivale settentrionale; ma ormai, in pieno '800, il controllo delle carovane costituiva un vantaggio secondario, e il reggente poteva permettersi di non scatenare una guerra per questo.
Dall'ultima frase parrebbe di poter intendere che l'impero, potenza industriale a pieno titolo, sceglieva con cura i suoi obiettivi; non era così. Come spesso accade, i reggenti che discesero dal primo grande Diarra si mostrarono perlopiù incapaci di mantenere il potere, indebolendo progressivamente il proprio potere a favore del kòmò, dov'erano i più ricchi a venire largamente rappresentati. Era la nascita del fenomeno cui il Taal, avrebbe dato forza e vigore perché l'impero rientrasse a pieno nel novero dei Paesi al passo e in sviluppo, concedendo all'Africa tutta di entrare nell'epoca più gloriosa della sua storia; ma, ovviamente, questo Omar Taal non poteva saperlo, e temendo di venire perseguitato dall'autorità religiosa per il possesso di libri bizzarri, decise di stabilirsi appena fuori dai confini imperiali, a Sokoto. Questa era stata protagonista, a partire dal secolo scarso di un peculiare tentativo politico: stiamo parlando dell'insurrezione generale fula, stufi di essere impiegati come mercenari dai ricchi mercanti delle città aro, sulla costa, e guidata da un tale Muhammad Bello, che giunse al punto di proclamarsi califfo. Tale incontro fu fondamentale per lo sviluppo del pensiero del filosofo di pelle nera: egli infatti, che aborriva quanto stava accadendo ritenendo che solo la separazione netta fra Stato e faccende di fede potesse garantire al Paese le condizioni necessarie per un qualche sviluppo, si lanciò in tutta una serie di epistole discriminatorie nei suoi confronti, le quali, contenendo una fortissima accusa (un filologo giunse al punto di definire queste le Filippiche e il suo autore il Demostene africani!) all'indirizzo dell'autoproclamato califfo. Questa fu, senza quasi volerlo, l'inizio della sua carriera politica, giacché, non solo i capi della confederazione ne apprezzarono le qualità e lo sforzo diretto contro uno dei suoi nemici, concedendogli il titolo onorifico di marabout (con questo termine, nell'Africa permeata dalla cultura di stampo ancora arabo di Ségou, si indicava qualcuno da cui si avesse a imparare), ma le missive furono ricopiate e lette in pubblico, circondando nel Kurufaba, dove contribuirono a costruirne la fama, e giunsero perfino in Europa, venendo utilizzate in molti contesti per la chiarezza nell'argomentare e la capacità persuasiva del Taal (un esempio famoso fu la rilettura che ne diede Cavour, adattando il contenuto al contesto italiano, in una seduta del Parlamento subalpino) allo scopo di propagandare la missione storica della laicità dello Stato.
Nel 1837 dunque, profittando dell'offerta di ospitarlo propostagli da alcuni discepoli, si spostò prima nell'ormai piccola Timbuktu e poi, nel 1840, a Djenné, città rinomata per la sua facoltà di teologia. Qui, coadiuvato dall'aiuto di alcuni scolari giovani che, essendo suoi fanatici sostenitori, si prodigarono a raccogliere in volumi tutto quello che avesse detto, si lanciò in profondissimi attacchi contro i saggi imam, la cui professione giunse al posto di ritenere inutile, e a favore dello svecchiamento della società. Molti borghesi, pur non accostandosi al filosofo in pubblico, apprezzavano il sapore dei suoi discorsi, ritenendosi in grado di salire al potere facendo questi argomenti propri. Nel 1848 dunque, dopo un lungo periodo di preparazione che aveva visto la sua setta crescere in adepti e risorse fino a raggiungere la straordinaria dimensione di circa 50.000 scolari, dispose che avrebbe pensato lui stesso a tradurre dalla teoria alla pratica le proprie disposizioni, dal momento che i Diarra, subissati da ogni parte, erano ormai impopolarissimi e sembravano incapaci di reagire alle ingiurie loro riportategli, certamente fuori misura, mentre il mondo civile, sosteneva, si era già mosso da tempo (fa riferimento, com'è scontato, ai moti di quell'anno). La marcia del marabout, come venne ricordata, ebbe uno straordinario successo. Nessuno si oppose, vuoi per paura, o, diceva Taal, per aderenza ai suoi ideali, e il filosofo, improvvisandosi demagogo, riuscì a farsi aprire le mura di Ségou senza che venisse sprecata una singola goccia di sangue; il reggente, a questo punto, temette per la propria vita e decise di fuggire dalla capitale, portandosi dietro la propria famiglia e un discreto tesoro. La Gloriosa rivoluzione del Kurufaba era fatta, in pace e senza grossi contrasti; si noti che in questo processo storico, pur fondamentale, l'imperatore non prese nessuna parte, avendo ormai un ruolo puramente celebrativo e formale.
La portata degli eventi era eccezionale e, cosa strana quanto mai, pienamente sotto il controllo del suo fondatore, che possedeva un carisma, a quanto ci dicono le fonti, pari soltanto a quello che poteva avere un Mahdi. Nei raduni di folla oceanici che si dispiegavano sotto il palazzo abbandonato dal reggente, Omar Taal sostenne che la sua rivolta era stata condotta per amore del Kurufaba e della sua gente: non bisognava temere, infatti, ch'egli volesse mettere mano alle tradizioni sociali ed economiche del Paese, prettamente liberista, solo per il fatto che avesse rovesciato il reggente. No, continuava: il suo obiettivo era il bene dell'impero, ma da perseguirsi con ogni mezzo. La sua retorica semplice gli concesse il favore di chi lo seguiva, in larga parte ora costituito da analfabeti disfunzionali; la sua seconda marcia lo condusse nel cuore del Kurufaba, che pulsava con l'energia del kòmò; stiamo parlando di Timbuktu, ovviamente. Qui il rivoluzionario si accordò con il potere costituito, che da una parte ne sospettava, e dall'altra parte lo rispettava. Omar aveva temuto di essere costretto allo scontro con l'assemblea e le guardie imperiali, che erano armate di tutto punto e avrebbero potuto facilmente sbandare la sua marmaglia di popolani; così non fu, giacché i maggiorenti del Kurufaba si accordarono per lasciarlo andare a discorrere con l'imperatore, il quale, seppur legittimo detentore del potere e centro di tutto, dal processo rivoluzionario era stato completamente escluso. Askia Daoud IV era un uomo pacato, fedele alle tradizioni della sua dinastia e tutto intento nella sua opera di pacificatore, simbolo pubblico e rispettoso dello Stato: incarnava davvero, insomma, lo spirito delle leggi dell'impero e si confermava dunque come un soggetto autorevole per il Taal con cui discutere. L'imperatore e il trascinatore si rinchiusero nelle stanze private del primo per due giorni e una notte, parlando diffusamente; nessuno sa di preciso cosa si siano detti, ma dal confronto Omar uscì per essere portato in trionfo e Daoud con un sorriso benevolo: l'impero diventava costituzionale, e il kòmò, da consiglio privato del Mansa, divenne vero Parlamento, con potere di eleggere il capo del governo, dal nome di qutb, che significa l'uomo universale, il quale regge la santa gerarchia. La rivoluzione si era compiuta.
L'Africa occidentale a seguito della rivoluzione di Omar Taal
Punto focale della politica portata avanti da Omar Taal, ovviamente rieletto ad oltranza alla carica di faama, era l'indipendenza dell'impero e, per converso, degli africani da ogni intrusione esterna. Con gli europei, sosteneva, bisogna trattare da pari; a questo fine, non esitò a imbracciare le armi egli stesso, in qualità di primo (e ultimo) qutb guerriero. Sconfisse dunque innanzitutto un'ingerenza francese nel 1857, grazie all'alleanza con i Wolofulo, di cui era pur sempre un esponente, e ricacciandoli al di fuori del Senegal. Gli europei erano atterriti: era la prima volta dai tempi degli Almoravidi che una potenza africana ne sconfiggeva una occidentale, senza peraltro ricevere grossi contraccolpi per questo. Gli inglesi da una parte dunque, in ragione dell'amicizia che legava Ségou e Londra da un secolo, si attestarono su una politica di alleanza con l'impero, promettendo di conservarne l'indipendenza di fronte al consesso di grandi potenze che ancora non guardava con cupidigia alle ricchezze dell'Africa, e si mantennero sulle proprie basi, tanto più che, possedendo già un impero coloniale immenso, non avevano realmente bisogno delle ricchezze africane; simili furono le politiche intraprese da Portogallo, Spagna e Stati Uniti, ormai non più soggetti vitali o poco interessati al dominio del continente nero. Per il 1860 gli accordi con gli europei erano stati stipulati; il qutb quindi, già circonfuso dell'aura di eroe contro il colonialismo, continuò la sua azione antifrancese, coagulando intorno a sé le istanze non solo dei wolofulo, ma anche dei mossi, del Dahomey e degli aro, che preferivano la tutela imperiale contro il preoccupante rischio di annessione inglese, che si erano già insediati sulle coste. Impresa che gli valse ulteriori stupefacenti trionfi: nel 1861 iniziò l'invasione del Kanem, tradizionale avversario del Kurufaba e obiettivo principale della politica di espansione del Taal, che mirava a riunire tutte le energie degli africani in un solo, vasto impero, per tenere botta contro gli europei. Questi si era ormai diviso, a causa di una rivolta nelle sue regioni meridionali, fra il regno del Kanem proprio e quello del Bornu. La capitale settentrionale di Njimi cadde rapidamente all'assalto portato dall'esercito imperiale, armato all'occidentale; Omar, il suo ultimo imperatore, fuggì a sud, dove detronizzò i suoi cugini, colpevoli appena di averlo accolto, e si insediò sul trono, continuando la tradizione dinastica del Kanem tramite gli idoli tradizionali della famiglia reale che si era portato. Da parte sua, Omar Taal non se ne curò (dal Bornu, i kanemiti sarebbero presto riusciti a ricostruire il loro impero) preso com'era nelle sue conquiste: ora egli volgeva il suo sguardo ancora più a est, oltre i confini del Kanem, dove nessun suddito imperiale si era mai spinto; il qutb guidò la sua armata attraverso luoghi sconosciuti e meravigliosi, sconfiggendo i piccoli sultani di Air, Waddai e Funj, estremo ramo orientale dei fulani. Si calcola che più di 70.000 vite umane furono spezzate nelle tre battaglie che seguirono; ma Omar, se non poteva riportare in vita i morti, ricompensò gli abitanti del Sahel costruendo una diffusa rete di strade e mettendo al posto dei monarchi abbattuti una proficua rete amministrativa, figlia della superiore civiltà del Kurufaba, che avrebbe risvegliato le genti di quei luoghi dal sonno della ragione portandole alla civiltà.
L'odissea dell'eroe Taal
Solo il mare fermò l'avanzata del conquistatore: l'armata imperiale era giunta sul Mar Rosso, e già giungevano ambasciatori egiziani, inviati dall'intimorito khediv, per stipulare alleanza con il qutb. Egli accettò: sapeva infatti di essersi spinto fin troppo oltre, e che i rifornimenti dal Kurufaba sarebbero potuti difficilmente giungere fin lì; così, si risolse ad accettare le profferte egiziane, stipulando un'alleanza e percorrendo la terra dei faraoni con il suo esercito per tornare indietro. Attraversò il Cairo, godendo della stessa ovazione trionfale che avevano ricevuto Mansa Musa e il reggente Askia Muhammad il Grande; così poté considerare completa la sua ascesa nel pantheon eterno degli eroi di pelle nera. Ma non si accontentò di questò: accettando le richieste del khediv, con cui aveva stretto amicizia, si recò in Palestina, dove pregò ad al-Quds (Gerusalemme) e si mise al comando delle truppe egiziane, vincendo in battaglia le arretrate armate del sultano turco e guadagnando dunque l'indipendenza all'Egitto; completò dunque il suo Ḥajj alla Mecca e a Medina, le città più sante del mondo islamico, ottenendo anche il non secondario effetto di sospingere i confini del Cairo fin lì. Colmo di gloria e onori, alla guida di un'armata fedelissima di arabi e neri riuniti, il sultano cercò di mantenerlo presso di sé, facendo leva sul buon rapporto che li legava; alla fine del 1862 però, dopo due anni di battaglie e vita intensa, l'eroe era ormai stanco e desideroso solo di tornare presso casa, della quale aveva nostalgia. Il sultano non poté opporsi alla decisione del suo benefattore, pur essendogli superiore per grado.
L'Africa Settentrionale alla morte di Omar Marabout, l'eroe Taal
Purtroppo, l'epopea del Tall era destinata, in un modo o nell'altro, a finire. Ciò avvenne quando, avendo avuto sentore delle mosse kanemite per riprendersi Njimi, decise di prendere la strada della Libia, costeggiando il Mediterraneo; Lalla Fatma N'Soumer, vedova dello sceriffo Boubaghla, capo della resistenza antifrancese, avendo ricevuto notizia della sua venuta, gli inviò dei messi per convincerlo a combattere insieme a lei gli invasori, pur essendo imprigionata. Com'è ovvio, Taal non si fece pregare; anzi, a dirla tutta, dopo che l'ebbe liberata in seguito ad una vittoriosa battaglia, in quel breve tempo in cui i due si conobbero, scoppiò l'amore, che si risolse nella nascita di un bambino. Questi era ricordato come figlio della morte, poiché, nello scontro decisivo, il Taal venne colpito ad una gamba da un proiettile francese e cadde rovinosamente a terra, senza che i suoi potessero più riconoscerlo a causa della battaglia che infuriava. La sabbia penetrò nelle sue ferite, e ben presto si generò un infezione dal quale il qutb non ebbe speranza di curarsi, anche perché, e ciò sembra essere il fattore più importante, per diversi giorni dopo gli scontri nessuno riuscì a ritrovarlo; il qutb, disperando di sopravvivere, si era ritirato in una grotta, dove inizialmente sperava di riprendersi e ritornare alla sua armata. Ma il destino aveva già riservato troppo gloria ad un solo uomo perché anche in questa occasione si dimostrasse clemente; il 14 febbraio 1864, alcuni esploratori fulani lo ritrovarono morto, accanto alla sua spada. Senza il suo esercito, Lalla non aveva davvero possibilità di riconquistare l'Algeria ai francesi; perciò si ritirò col figlio in un'oasi del deserto, portando con sé, in un mitico esodo, quanti avessero voluto seguirla, insieme col corpo dell'eroe. La leggenda narra che il figlio della morte, accudito e cresciuto da Lalla nell'odio degli invasori, sarebbe riuscito nell'impresa di sgominare i francesi dell'Algeria.
La morte, e soprattutto, l'operato dell'eroe Taal fece per l'Africa da spartiacque fra due epoche, come era stata quella di Napoleone per l'Occidente. Questo perché, senza la virtù del conquistatore, il grande impero del Kurufaba andò rapidamente in pezzi; come già accennato infatti, i re del Bornu mossero dalla propria roccaforte alla riconquista del proprio regno, e non diversamente agirono i diversi sultani che il Taal aveva spodestato dal proprio trono. Eppure, non si commetta l'errore di pensare che per questo l'epopea del Kurufaba al comando del più valoroso dei suoi figli mancò di riscuotere conseguenze; per affrontare le quali, è bene dividere il discorso in due fronti: l'africano e il neoafricano.
A sinistra, Omar Taal fotografato al Cairo in un momento di riposo; a destra, la sua famosa spada, recuperata fortunosamente dalle sabbie del deserto e ancora oggi adoperata in numerose manifestazioni
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Vicissitudini contingenti in Magnolia e parentado
L'evento fondamentale fu lo scoppio dell'ennesima rivolta anti-schiavista nel fitto della giungla amazzonica, di recente colonizzazione; come accadeva sovente, i magnoliani vennero scacciati dalla zona e si dovettero ridurre sulla costa. Bisogna ricordare, infatti, che, mentre i Diarra avevano abolito la schiavitù già nel '700 e finanche avevano proibito il commercio di esseri umani, la situazione non poteva che essere diversissima in America: qui la società e l'economia si reggevano su di un vasto strato servile, del quale era impossibile fare a meno. Solo la rivoluzione industriale parve cambiare le cose: essa determinò l'ascesa di una nuova classe borghese, improntata alla produzione in opifici che viveva del libero commercio con l'estero, giacché la madrepatria, molto più industrializzata, non necessitava di acquistarne i prodotti. Taal volle intervenire per cambiare questo stato di cose: desiderava infatti che anche gli africani d'oltreoceano fossero coinvolti nel suo grande progetto d'unificazione, e a questo scopo sfruttò l'autorità del mansa, teoricamente sovrano di entrambe le nazioni, per imporre pesanti limitazioni al commercio magnoliano con Paesi altri dall'impero. La decisione non mancò di causare rivolgimenti; l'ultima ambasceria dei moderati, che si era recata in Kansala (e non oltre, perché sarebbe stata percepita in Magnolia come un atto servile!) per contrattare condizioni migliori nel 1860, venne bellamente ignorata dal qutb, che era già partito per la sua avventura ad oriente.
Questa fu la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso. I magnoliani di ultima generazione, figli ormai di una mescolanza razziale tra africani e indigeni, e che vivevano di un impianto socio-economico di impostazione liberale, si rivoltarono anch'essi, aizzando la parte più bassa della popolazione a combattere contro la decadente aristocrazia capitanile, la quale governava ancora le colonie. I liberali, logicamente, non avevano a disposizione un esercito che potesse resistere alle guardie dei capitani, esperte da secole nella razzia; perciò, dovettero ricercare l'unità di intenti con gli schiavi, dei quali, comunque, non avevano interesse a mantenere l'attuale condizione, in quanto industriali. Il latifondo venne abbattuto, e nell'assemblea generale delle colonie del 1864 si proclamò l'indipendenza della Magnolia, funestata dalla frattura irrisolvibile fra i ceti basso e medio da una parte e quello alto dall'altra; dichiarano che, siccome la madrepatria si è da tempo dedita al continente ed è ormai incapace di tutelare efficacemente i propri interessi, e anzi tollera l'istituzione anti-umana della schiavitù, esiste solamente la possibilità di ricercare l'autonomia.
Dichiarazione d'indipendenza della Magnolia in una foto d'epoca; di fronte ad Ahuna Calafate e ai maggiorenti delle colonie riuniti per l'occasione, due donne interpretano simbolicamente la lotta contro la madrepatria
Protagonisti assoluti della guerra furono, per la Magnolia, Ahuna Calafate e Kouka Sanim per il Birù e il Lungo, dove presto si ripeterono gli eventi della prima colonia per importanza. Entrambi, grandi rivoluzionari, politici e uomini d'arme, condussero più volte i propri eserciti alla vittoria contro i realisti, scacciandoli dalle Americhe; il loro modello, com'era largamente preventivabile, erano gli Stati Uniti d'America. Similmente agli USA quindi, il loro obiettivo finale consisteva nell'unione di tutte le colonie in un solo, nuovo soggetto politico che avrebbe potuto fare competizione al mondo per il ruolo di grande potenza; a questo scopo, venne convocato il Congresso di Befee Muhammad nel 1869, con il quale venne per la prima volta proclamata la confederazione della Grande Magnolia. MMa la realtà è che era inevitabile, in una situazione di dimensioni tanto vaste, la formazione di Stati più ridotti e certamente più equilibrati.
Il seme della discordia, ancora una volta, si generò a partire dagli schiavi. Questi, aggiungendo il fatto che erano per la maggior parte di etnia mossi, temevano di ripetere le sventure che avevano vessato per ben cinque secoli, solo sotto nuovi padroni; al fine di evitare che quest'evenienza paventasse dunque, i liberati si sottrassero per primi alla confederazione, costituendo un proprio Stato nell'Amazzonia selvaggia e ancora per la maggior parte inesplorata. Qui si riunirono con ciò che restava delle antiche popolazioni amerinde; venivano a portare la notizia che entrambe le loro genti erano vittime della persecuzione di padroni maligni, e che proprio in virtù della propria attitudine ostile avrebbero presto portato nuova pena ai poveri abitanti dell'entroterra. Era vero: nessuno, in quel di Befee Muhammad, poteva infatti tollerare che gli ex-schiavi si gestissero per conto proprio, pena innanzitutto il rischio che la confederazione risultasse spaccata in due dalla presenza di uno stato autonomo nel bel mezzo dei propri possedimenti, e poi anche un enorme e vistoso danno d'immagine, derivato dall'essere sorta come nazione che faceva del concetto di libertà il proprio perno assoluto, ma dalla quale i cosiddetti liberati non desideravano che scappare.
Il Sudamerica dopo le lotte che seguirono alla liberazione
Così il continente sudamericano si spaccò in due fronti contrapposti: da un lato, i vecchi indipendentisti, espressione della provvida borghesia industriale della costa che diede ben presto seguito ad uno sviluppo simile a quello dell'impero, dall'altra gli ex-schiavi, fusi con la popolazione aborigena. Il concilio generale delle tribù, convocato e permesso dalla presenza di rapidi corrieri mossi che percorrevano con agilità la giungla, elesse un re e dispose l'insediamento dei liberati nelle aree spopolate del nascente Stato, evitando così la presenza di aree isolate che sarebbero potute facilmente cadere preda dei loro antichi alleati. Il Calafate, a causa della divisione fra i diversi animi della ribellione, che ormai era diventata attività controrivoluzionaria, smise le armi e dichiarò che non avrebbe più combattuto, ritirandosi a vita privata; il Sanim fa la stessa cosa qualche anno più tardi, giacché anch'egli, che aveva inizialmente accettato di combattere gli ex-schiavi pur di mantenere coese le colonie, si arrende alle istanze contrastanti che provenivano dal Lungo, dal Birù e della Magnolia. Questa era causata dalla necessità di definire i confini, persi nell'enormità dei territori nominalmente sottomessi all'una e all'altra capitale; numerose guerre, dunque, consumarono le vite dei sudamericani, condannando una volta per tutte quell'idea di unità che aveva inizialmente smosso gli spiriti assopiti dei coloni.
La bandiera della Confederazione di Grande Magnolia portava in capo la corolla dell'omonimo fiore, che ancora oggi campeggia sulla bandiera di Magnolia
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Cosa vissero gli africani dopo la dipartita dell'eroe Taal
Oltre alla gloria che il Taal conquistò per il Kurufaba, l'eroe regalò a quest'ultimo anche una discendenza disputata: oltre al figlio primogenito, Ahmadu infatti, in quel di Ségou si fece strada anche suo nipote, Tidiani. Dei due, il secondo era il cervelllo, mentre il primo faceva da braccio destro già al padre, assicurando l'ordine nelle retrovie mentre l'eroe procedeva instancabile. Tidiani dunque subentrò al nonno, venendo eletto a furor di popolo qutb per il suo carisma e l'importante cognome; ma suo cugino si stufò ben presto della situazione, probabilmente anche perché sobillato dalle energie dell'aristocrazia rimanente, che si aggrappò a quel pretendente consigliandogli di marciare su Timbuktu, prendere in custodia l'imperatore e costringere quest'ultimo ad abrogare il kòmò, restaurando così il regime di reggenza dinastico. La cosa era anche fattibile, sia perché le previdenti disposizioni dell'eroe avevano fatto risorgere il Sudan tramite la costruzione di strade, ponti, acquedotti e soprattutto il restauro dell'antichissima Aksum, dal cui mito Omar era affascinato, sia perché Ahmadu, degno erede di suo padre, era molto più abile del cugino. Quando i re del Bornu restaurarono il proprio potere dunque, il kòmò ordino ad Ahmadu di intervenire, riportando collegamento in un impero troncato in due; ma quello fece orecchie da mercante, infischiandosene e anzi rafforzando la propria posizione, ben conscio che la capitale non aveva alcun reale potere su quella terra così lontana e anzi era adesso impelagata nelle Americhe con la guerra d'indipendenza magnoliana. L'impero, formalmente unito, risultò così realmente partito in due a lungo, fra Oriente e Occidente, l'uno ancora attaccato a un regime assolutista di tipo feudale, l'altro costituzionale e borghese; a smuovere la situazione venne solo la morte di Tidiani Taal, che si verificò nel 1888.
Il kòmò, infatti, non aveva nessuna intenzione di riconfermare alcun privilegio ai figli di quest'ultimo, né tantomeno (figuriamoci!) ad un folle signore della guerra che risiedeva dal'altra parte del continente; dal canto suo, Ahmadu non mostrò di apprezzare particolarmente i toni accusatori che provenivano dalle missive che riceveva dalla capitale, e decise che il posto di qutb gli spettava di diritto, proclamando guerra. Fu in questo contesto dunque, che il Kurufaba, impossibilitato a fronteggiare direttamente il nemico, decise di secedere per la prima volta dalla sua secolare neutralità, accettando di scendere a patti con le altre nazioni africane: e se con l'Egitto, che serbava un ricordo positivo di Omar Taal, fu facile intessere amicizie, con il Kanem fu complicato per frutti che derivano dalla stessa radice. Ma in fin dei conti, il guerrafondaio Ahmadu rappresentava un problema per tutti, e un accordo fu ben presto trovato: nel 1890, un esercito egiziano penetrò fin nel profondo del Sudan, sgominando l'autoproclamato reggente, che fuggì a ovest, profittando del fatto che l'influenza dei re del Kanem non fosse ancora ben impiantata nella regione desertica al confine fra questo e l'Egitto. Qui sarebbe morto sette anni dopo, senza per questo rinunciare alla sua irriducibile lotta; fu lui, in effetti, a preparare la strada per la rivolta del Mahdi che dette tante grane da pelare al Cairo e anzi permise la formazione di un piccolo stato neo-fulani nel sud, del quale l'esistenza venne tollerata in quanto utile cuscinetto e cuneo fra le aree occupate, rispettivamente, da Ndjimi e dal Sultano.
Il Continente Nero nel 1890
Eppure, il fallimento di Ahmadu non deve far pensare che il progetto di suo padre sia stato dimenticato. Ciò che è cambiato nella politica del Kurufaba parlamentare, è solo che ci si è resi conti che la violenza e la sopraffazione, pur circonfusi dalla buona fama, non sono di per sé né corrette né, soprattutto, mezzi bastevoli per costruire qualcosa che duri a lungo, come tanti esempi della storia della civiltà del Niger hanno dimostrato. La dottrina dell'eroe, piuttosto, si diffonde in tutti i Paesi che ha toccato con la sua armata, e dove non è arrivata, sono le navi del Kurufaba a portarla: è in questo periodo ch'essa, dunque, viene battezzata, prendendo il nome di africanismo. Gli africanisti, nel Kurufaba come nel Kanem, in Egitto come in Marocco, spingono per l'autonomia e l'indipendenza delle nazioni africane da ogni ingerenza esterna; e quest'ideologia, essendo comoda ambo al popolo, infiammato dai discorsi, e per giunta a chi conta davvero, non manca di salire al potere in molte nazioni africane, che si allineano col Kurufaba, nel quale il kòmò fa presto a disporre una legge per la quale all'alleanza devono seguire immediatamente pesanti investimenti nei Paesi firmatari. L'economia cresce, la popolazione sperimenta un boom pazzesco ed enormi aree, prima disabitate a causa della loro inadempienza agli standard di vita, sono insediati da coloni neri grazie alle nuove tecnologie: è ciò che gli storici sono ormai abituati a chiamare la Grande Divergenza, unico termine adatto per delineare nel suo complesso, tutta quella serie di avvenimenti trionfali in ragione dei quali l'Africa e le parti del Nuovo Mondo in cui le sue genti erano divenute predominanti, superò i vincoli alla crescita tipici del mondo premoderno ed emerse infine nel XIX secolo come la più avanzata e potente civiltà del globo, superando per innovatività e ricchezza altre civiltà storicamente importanti quali l'India, la Cina, il mondo occidentale o il Giappone. Il continente tutto è investito dunque da questa politica vincitrice, anche se ovviamente con i propri alti e bassi: è un'era di grande splendore e progresso, nelle arti e nelle scienze, delle quali supremo trionfo è il taglio dell'istmo di Suez, capace di accrescere notevolmente il volume del già fiorente commercio africano. Tutto questo avviene, pure se alcune nuovi correnti che fanno la propria comparsa in Africa proprio in questo periodo in ragione del suo imponente sviluppo, come quella socialista da un lato, e nichilista dall'altro, ne evidenziano le evidente falle, pregustandone la fine.
La crescita del PIL delle principali nazioni africane lungo tutta la propria storia
Ma intanto, che cosa è successo in Europa? Al contrario di quanto accaduto in Africa, l'unificazione di Italia e Germania ha sprofondato il continente nella rivalità; impossibilitate a sfociare nella guerra per il timore di entrambi di scatenare un conflitto di proporzioni bibliche, il cancelliere Bismarck ha provato a sfogare queste ultime nella competizione oltreoceano per l'acquisto di nuove colonie. Ciononostante, alla conferenza di Berlino del 1884-1885, disertata e maledetta dalla Gran Bretagna che è fedele alleata del Kurufaba, si presentano solo gli emissari francesi, con cui, manco a dirlo, i tedeschi iniziano presto a litigare. Prendere risoluzioni decisive è impossibile: gli europei non sanno accordarsi fra di loro per spartirsi il continente, tanto più che i tentativi di sbarco di altezzosi esploratori dai baffi a manubrio sono presto rintuzzati dalle truppe delle nazioni africane, certamente non disposte a perdere la propria indipendenza a un così misero prezzo. D'altra parte, mobilitare l'intero esercito rappresenta non solo un intollerabile smacco all'onore del Kaiser come dei repubblicani francesi, ma sembra ache una misura fin troppo eccessiva per finanziare il conflitto contro delle "razze inferiori", tanto più che nell'epoca dei feroci nazionalismi nessun Paese può permettersi di impegnare le proprie forze armate in una guerra interminabile con potenze, se non alla pari, quantomeno capaci di intrattenere una resistenza indomabile, consapevoli, grazie al Taal, che l'alternativa è la sottomissione. Anche gli USA, anticolonialisti per storia e Costituzione, sono favorevoli all'amicizia con il Kurufaba e la sua rete di alleanze, specie dopo aver ricevuto l'assicurazione che quest'ultima non si sarebbe mai espansa fino a inglobare la Liberia, pupillo USA; in un famoso discorso che si tenne durante la visita di Stato di Timbuktu nel 1903, l'imperatore Muhammad V e il presidente a stelle e strisce Theodore Roosevelt pronunciarono congiuntamente che "come l'America spettava agli americani, anche l'Africa spettava agli africani", e che "L'era del colonialismo di rapina europeo era definitivamente giunta al suo termine".
Le mirabolanti parole dell'imperatore non devono però far pensare che la situazione fosse così rosea come auspicava, se è vero com'è vero ch'egli passo alla storia come Muhammad il Sognatore. In concreto, perché le energie che l'Occidente non impiegò nella sottomissione dell'Africa, vennero rivolte verso l'Asia e in particolare la Cina, spartita fra le potenze europee a seguito del cattivo esito della rivolta dei Boxer. Pure il Siam venne occupato dai tedeschi, che non perdevano occasione di inserirsi nelle dispute anglofrancesi a proprio vantaggio. Non solo: come abbiamo già illustrato per la Francia in Algeria, gli europei mantennero numerose roccaforti di una considerevole grandezza in prossimità delle coste, pure se molti attacchi furono reindirizzati al mittente. Esempi di tali avvenimenti si possono ritrovare in Tunisia nel 1881, quando i francesi tentarono di sequestrare il bey venendo fermati dall'intervento egiziano, in Etiopia nel 1896 quando gli italiani dichiararono stupidamente guerra al negus d'Etiopia, e, soprattutto, nel 1905, quando la cannoniera tedesca Panther entrò nella rada di Agadir, imponendo al Marocco un protettorato. La strategia del protettorato, tuttavia, benché scoperta tardi, si scoprì efficace, giacché i tedeschi si infiltrarono nei gangli vitali dello Stato di soppiatto, senza far pesare più di tanto la propria presenza; così, il Paese sperimentò un notevole incremento nella propria economia, al prezzo di allineare il proprio archetto all'orchestra che suonava in Berlino.
Molte altre potenze, impressionate dal successo collezionato dal Kaiser, si resero conto che, all'alba del nuovo secolo, era perfettamente inutile continuare nel proprio atteggiamento ostinatamente razzista, ma che, piuttosto, risultava più conveniente trattare con gli africani sullo stesso livello, da pari a pari. Così, alcuni degli Stati più deboli (Monomotapa, stati somali, boeri o zulu, Merina...) caddero a loro volta sotto l'artificio giuridico del protettorato, mantenendo però la propria autonomia, mentre le maggiori potenze furono coinvolte nel sistema di alleanze contrapposte che stava andando costruendosi simultaneamente in Europa. All'amicizia tedesco-marocchina fece da contraltare il famoso Trattato delle Piramidi, siglato da Francia ed Egitto, ed in reazione al quale Turchia ed Etiopia finalizzarono il proprio ingresso nella Triplice. Anche il Kongo venne irretito dalle proposte francesi, mentre il Kanem, pur titubante, si sentiva minacciato dalla presenza francese in Algeria e preferì avvicinarsi alla Germania. Unico, grande assente dal tavolo dei negoziati era il Kurufaba; e non perché, si presti attenzione, non venisse sufficientemente blandito con allettanti proposte da una parte o dall'altra. Piuttosto, il kòmò si crogiolava nel ricordo dei tempi felici in cui gli occidentali non avevano ancora inquinato i cuori degli africani con le lore sozze millanterie; e più di ogni altra cosa, temeva i potenziali sviluppi dirompenti di una guerra che avesse incendiato il continente, per colpa di qualche conflitto straniero. Purtroppo, la storia gli darà ragione.
La spartizione della Cina che seguì alla rivolta dei Boxer
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La guerra
Purtroppo i timori del kòmò erano fondati, e, com'era prevedibile, lo scoppio del conflitto in Europa non mancò di trascinare anche i Paesi africani nella guerra. Non da subito, a dire il vero: per un breve tempo, infatti, il pacifico mansa Maghan VI poté sperare di trascorrere i suoi ultimi anni di vita in pace, come testimoniano anche le sue epistole. Ma infine, le istanze belliciste spinsero gli establishment delle varie nazioni al conflitto, osannato peraltro dalle popolazioni, prese dalle istanze più deviate dell'africanismo. L'obiettivo, adesso, non era più quello descritto da Taal, cioè che gli africani acquistassero dignità propria di fronte agli europei, ma che li sopravanzassero, ripetendo gli stessi errori che avevano commesso gli occidentali su alcune coste del Continente Nero. Secondo il più blasonato dei poeti di corte del Kurufaba, Lakhdar Ben Cherif, algerino di madre songhai, era non solo giusto, ma necessario che l'onta derivata dall'uccisione dell'eroe e da secoli di schiavismo (ignorando dunque, il fatto che gli stessi imperi locali avessero collaborato con i mercanti di carne umana) non poteva che essere lavata col sangue. E così, nonostante le rimostranze imperiali, la dichiarazione di guerra venne infine firmata; con chi, e contro chi, tuttavia, è tutto un altro discorso.
La Grande Guerra in Africa
Il primo a portare la guerra nel Continente Nero fu, per l'Intesa, l'Egitto, legato alla Francia dal Patto delle Piramidi, e che volle schierarsi a sua difesa quando questa subì la potente offensiva tedesca di fine estate. A ruota, seguirono prima il Kanem e l'Etiopia, ugualmente desiderosi di saltare al collo del sultano, e poi il Marocco, che nutriva analoghe mire sulla porzione di Algeria sotto controllo francese. A questo punto, il Cairo, vistosi perduta, anche perché gli ottomani avevano presto colto l'occasione attaccando dall'Anatolia, ricorse alla stipula di antichi trattati proprio con il Kurufaba, che si era attestato fino a quel momento su posizioni neutrali. Per quest'ultimo, che non aveva reali nemici, la scelta con chi schierarsi in guerra si riduceva alla questione algerina, con la quale, a seguito dell'epopea del Taal, erano andati a rafforzarsi costantemente i rapporti. La porzione libera di Algeria, infatti, di suo contava molto poco: era un piccolo Paese, dalla popolazione esigua e perlopiù desertico. La fortuna di quelli che Parigi continuava a considerare formalmente ribelli fu appunto il collegamento aperto con Ségou: in ottica anti-colonialista, l'impero aveva interesse a difendere l'indipendenza dei guerriglieri algerini, anche per onorare la memoria del Taal, la cui ombra non aveva mai smesso di aleggere su tutto il Kurufaba. Dunque, da una parte la scelta più logica poteva essere quella di mettersi con l'Alleanza, per marciare con facilità sulle colonie francesi; ma quest'eventualità era stata segata via proprio dalla miope politica estera guglielmina, che al molle e parlamentare Kurufaba (sig!) aveva preferito i regimi autoritari del Marocco e del Kanem, tradizionali rivali della civiltà della valle del Niger. La decisione, quindi, fu obbligata; anche perché, se gli imperi centrali avessero determinato la caduta dell'Egitto, sicuramente l'Europa, come l'Africa, avrebbe iniziato a star loro stretta. L'impero dichiarò guerra alla Germania, al Marocco, al Kanem e all'Etiopia nel 1915, solo dopo aver stipulato un accordo segreto con una Francia allo stremo e in procinto di crollare, per il quale questa avrebbe dovuto concedere all'Algeria un referendum per l'indipendenza qualunque sarebbe stato l'esito della guerra; il resto è storia.
Un capitolo a parte meritano le vicende che interessarono le altre nazioni africane. Se il bey di Tunisia da un lato, fu praticamente costretto dalla diplomazia egiziana a scendere in campo al loro fianco in cambio dell'assoluzione di alcuni esosi e antichi debiti mai ripagati dal 1861 a questa parte, d'altro canto molte potenze seguirono un ragionamento pressoché simile a quello affrontato dal kòmò, stipulando patti più o meno nascosti con l'Intesa in cambio della cessione di prerogative su questo o quel territorio. La Somalia fu la prima a scagliarsi, nel 1915, contro l'Etiopia, penetrando come un coltello nel burro nello scarsamente difeso Ogaden, e solo quella naturalmente insormontabile barriera difensiva che è l'Acrocoro poté arrestare, almeno per il momento, la furia dei soldati somali, mossi ancora dalla convinzione di combattere per la fede musulmana contro gli idolatri copti. Kongo, Zanzibar e i protettorati del sud (Monomotapa, Zulu, Merina, Swaziland) invece, pur essendo sin da subito vicini all'Intesa per evidenti ragioni geopolitiche, dilazionarono i propri atti ostili a lungo nel tempo, poiché miravano a vedersi riconosciute dalle potenze europee le annessioni che avevano condotto nell'entroterra a scapito della scarna popolazione nativa, e le cui risorse gli avevano concesso, nell'ultimo decennio, il tanto sospirato decollo indistriale. Alla fine, a conflitto iniziato né Londra né Parigi videro sensato prolungare i combattimenti oltremodo, se potevano godere di un perenne afflusso di soldati neri (addestrati o meno poco importava) da usare come carne da cannone nelle trincee, e accettarono. Questi mutamenti sancirono in un certo senso la fine del conflitto anche in Europa, giacché il costante reintegro delle divisioni africane da una parte, e gli aiuti inviati dalle banche e industrie del Kurufaba dall'altra guadagnarono all'Intesa il vantaggio in termini di vettovaglie, viveri, armi e forniture, consentendo quindi alla linea di trincea di reggere i ripetuti assalti portati avanti con coraggio e tenacia dall'esercito tedesco, che, infine, spossato ed esausto, ripiegò in rotta.
Soldati del Kurufaba in divisa militare
Eppure, le cose non sembravano essere così facili in Africa, continente che, per ora, la guerra non l'aveva agita ma solo subita. Già, perché dopo l'onorevole resistenza accanita degli eserciti di Etiopia e Kanem, addestrati e riarmati da ufficiali tedeschi per sostenere l'impeto delle superiori armate del Kurufaba nonostante i primi risultassero accerchiati da più parti, il punto focale del conflitto era divenuto l'Atlante, dove maghrebini e imperiali combattevano ferocemente, l'uno in difesa della propria patria, l'altro per stroncare la resistenza del Paese atlantico, base fondamentale per le operazioni della flotta tedesca nel grande oceano meridionale. Operazioni che avevano anche avuto l'occasione di stordire e infastidire più di un contendente americano: la Magnolia decise molto presto di unirsi al grande fronte anti-autocratico che si stava formando, mentre anche l'al-Gharbia, ormai unita alla madrepatria solo da legami convenzionali, prese la straordinaria decisione di tagliare una volta per tutte il sottile filo rosso che ancora la legava al Marocco, schierandosi contro di esso al mero scopo di vedersi appoggiata la propria indipendenza dai Paesi dell'Intesa. Ma il cappio al collo dell'economia dell'Alleanza, tagliata fuori da qualunque commercio, ormai era già stato teso, in Africa come in Europa; restava solo da vedersi quanto le potenze che facevano della supremazia terrestre il proprio centro vitale avrebbero resistito.
E la risposta fu poca cosa: quand'ormai Kanem ed Etiopia stavano per cadere, Berlino fece un estremo tentativo di salvare il fronte africano telegrafando a Bangui, città di recentissima formazione (si pensi che aveva sperimentato la sua rifondazione su rovine più antiche solo nel 1889) come capitale del Califfato di, per l'appunto, Bangui. Che cos'era successo da quelle parti? Muhammad Bello, il capo dei fulani orientali, dopo aver incassato una vistosa sconfitta ambo politica e morale dal Taal, non si era dato per vinto, ma aveva decretato che la guerra santa volgeva verso sud. Il suo popolo si mise dunque in moto: ai suoi ordini, i fulani diedero per l'ennesima volta prova della loro virtù guerriera, conquistando, grazie a moschetti retrogradi e antichi cannoni, la supremazia su una notevole fetta di popoli bantu. Si trattava, a ben vedere, di un fenomeno uguale e speculare a quello agito dal Taal a nord; ma al contrario di quant'era accaduto all'impero di quest'ultimo, alla morte del suo fondatore il Califfato, ben impregnato di religione musulmana, impiegata per cementificarne le fondamenta, non era crollato, e si era preservato tramite l'istituzione di un regime semifeudale, con i vari capi fulani che ricevevano a turno dal preteso Califfo l'amministrazione di questa o quella provincia. Il Califfo Muhammad II, per conto suo, avrebbe desiderato la discesa in guerra, essendo vicino da una parte all'ideologia autoritaria su cui si sorreggevano le potenze dell'Alleanza, e anelando dall'altra ad un ingrandimento delle sue terre, minacciate dal primato dei nobili; ma, in questo caso, si può dire che fu proprio l'arretratezza dell'impero fulani a salvare la coalizione dell'Intesa, sicché i grandi feudatari non vollero mettere a rischio i propri possedimenti gettandosi nello scontro con le altre potenze, e imposero al califfo la neutralità, che fu anche funzionale alla modernizzazione dello Stato, giacché esso ospitò più volte nel suo unico porto e nei gangli fondamentali del sistema amministrativo, personale sia civile sia bellico proveniente dall'Europa e importanti uomini d'affari africani, che desideravano un luogo lontano dai rivolgimenti della guerra dove condurre i propri affari senza il timore di vedersi requisita la merce per sostentare lo sforzo bellico.
La svolta decisiva, però, non venne dall'Africa, ma dal mare; questo avvenne sicché il lord dell'Ammiragliato britannico, tale Winston Churchill, attuò un ardito piano per lo spezzamento del fronte africano con uno sbarco in Marocco, concretizzatosi fra il 1915 e il 1916. Benché non si possa dire che la campagna raccolse un successo, dal momento che gli alleati europei vennero fermati a pochi passi da Fez, impantanandosi, come in Europa, in un inferno di reticoli e trincee, il fuoco incrociato sortì il non trascurabile effetto di distrarre sufficientemente il Marocco dal proprio sforzo a sud costringendo il Sultano a sganciare numerose truppe e impegnarle a nord. Infine, dunque, uno dei continui attacchi del Kurufaba sortì il tanto desiderato effetto, spezzando il fronte e superando di parecchi chilometri il confine, fino a che il distaccamento responsabile della sortita non chiuse una buona parte dei reparti marocchini in un sacca. La manovra ebbe ampia risonanza, se è vero come è vero che oltre a segnare la sconfitta per il Marocco, ultima delle nazioni belligeranti in terra d'Africa, causò anche la morte dell'imperatore Maghan VI, straziato dalla notizia dei saccheggi che le sue truppe avevano imposto alla ricchissima Marrakesh, centro industriale e storico di rilevanza fondamentale per tutto il continente. Ma a noi, più che della triste sorte di Maghan VI, interessa la sorte di chi gli successe: per la prima volta da secoli, infatti, la famiglia Askia era agli sgoccioli, essendosi molto probabilmente consumata tutti i geni buoni nella politica di matrimonio intrafamiliare ch'era costume all'interno della corte imperiale per preservare il carattere sacrale del monarca. Già allora alcuni arditi, di ispirazione socialista, proclamarono che fosse necessario stabilire una repubblica; ma gli alti papaveri del governo, temendo che una riforma del carattere dello Stato in tempo di guerra avrebbe potuto scoraggiare i soldati, non diedero seguito alla proposta e fecero anzi riconoscere al kòmò la successione della più giovane fra le sue figlie, unica, peraltro, che non fosse affetta da malattie ereditarie più o meno gravi. Salamatu Adebowale, dunque, fu la prima, e finora, l'unica donna a vestire la corona di imperatrice del Kurufaba; solo il suo nome, era tutto un programma, dal momento che, a voler improvvisare una traduzione, corrisponde a "la gran regina (la traslitterazione africana del nome di Salomone va interpretata in questo modo) la cui corona arriva a casa". E in effetti, per gran parte del suo popolo, impegnato nelle due terribili guerre mondiali, ella rappresentò una casa.
Neppure la figura materna di Salamatu, però poteva attenuare gli orrori della guerra. A Marocco liberato, infatti, i francesi rispettarono la propria parte dell'accordo, valutando di potersi facilmente rifare in Asia, dalle spoglie dell'impero ottomano; ma in questo caso, furono gli africani, nella persona dell'Egitto, a non rispettare i termini anteposti, lanciando un'invasione in vasta scala della Turchia, che in breve tempo raccolse l'importante risultato di ottenere la caduta del regime dei Giovani Turchi. Fondamentale in questo processo fu la rivolta araba, di cui il Sultano del Cairo, facendo fruttare la sua doppia identità di arabo e africano, si mise a capo. Ciò, tuttavia, non impedì che nella rivolta si stagliasse la figura dello sceriffo della Mecca, al-Husayn ibn Ali, insieme coi suoi figli; la famiglia hascemita, in quegli anni, da semplice vassalla del Cairo, si costruì attorno un vero potere, oscurando il primato degli egiziani nella liberazione dell'Arabia agli occhi del polo sottomesso quando lo sceriffo si proclamò "sovrano del Paese degli Arabi" (malik bilād al-ʿarab), intendendo con ciò rivendicare la sua signoria morale potenzialmente su una buona fetta del mondo, non ultimo l'Iraq, nel quale si installò da governatore al comando delle schiere dei suoi fedelissimi. Ironia della storia, fu che questa mossa non sarebbe stata possibile senza l'appoggio della Persia, che con il crollo degli imperi russo e turco era tornata una pedina fondamentale nel gioco orientale, e volle accostarsi all'Intesa pur mantenendo le sue riserve sull'Egitto; dal breve conflitto, guadagnò con pochissime morti l'intero Azerbaijan. In questo quadro, è bene ricordare che ormai gli Osmanlı non avevano più alcun reale potere; già nel 1917, sulla spinta delle sollevazioni degli armeni ribellatisi allo sterminio e dell'esercito greco che era sbarcato in Anatolia, il sovrano turco rinunciò al suo potere, venendo preso in custodio dal re di Grecia. Il grande impero era scomparso, e con esso ogni sua vestigia, dal momento che perfino la Turchia, dove più forte doveva essere il suo ricordo, si costituì ben presto in repubblica sulla punta della spada di un certo Mustafa Kemal, non ancora detto Atatürk, di cui avremo a riparlare in futuro.
La spartizione dell'Impero Ottomano così come stabilita al Cairo
Con i due trattati di Timbuktu (1919) e del Cairo (1920), dunque, finiva la grande guerra in Africa, senza che le potenze europee vi avessero giocato un ruolo considerevole; questa posizione venne assunta dagli africani, in particolare da Egitto, Kongo e Kurufaba, nazioni maggiori dell'Intesa africana. Nonostante le large compensazioni, il sultano d'Egitto si ritenne comunque mal ricompensato, sicché egli mirava ad annettere tutto il complesso dei paesi di lingua araba, così da legittimare la sua pretesa al titolo califfale; dal canto loro, nessuna delle altre potenze africane volle riconoscergli tale titolo ed espansione, poiché avrebbe fatto sicuramente da precedente per una rivendicazione egiziana al resto del continente, che era, per una buona porzione, di religione musulmana. Greci, armeni, georgiani, dal canto loro, ringraziarono, avvicinandosi definitivamente alll'Africa, ma manifestarono apertamente le loro rimostranze dall'aderire al nuovo processo unificante che stava prendendo atto più a sud. Già, perché pretese egiziane a parte, la guerra aveva significato per il continente tutto un momento unico nella sua storia: per la prima volta, genti nere da tutto il continente si radunavano insieme in un solo congresso da figure indipendenti. A Timbuktu si decise di mantenere questo spirito d'unione, al contrario dei severi meccanismi punitivi che volevano per allora essere applicati in Europa: Marocco, Kanem ed Etiopia non vennero puniti più di tanto, perdendo appena qualche territorio di confine, e ci si mosse invece per preservare la pace, almeno sul continente, che era arrivata ad essere considerata il bene più prezioso in assoluto. Il 1919, dunque, vide la nascita dell'Unione Africana, con sede nella neutrale Bangui, onde appianare serenamente i conflitti che potevano accendersi fra una nazione e l'altra nel contesto di confini tracciati in mezzo a giungle, deserti e altre località impervie e poco mappate. Si trattava, insomma, di una confederazione a maglie, almeno per il momento, molto larghe; ma rispetto al coevo tentativo della SdN, della quale l'Africa determinò indirettamente il fallimento non sottoscrivendo l'adesione, godeva di reale potere decisionale sicché i Paesi che vi aderivano erano vincolati a seguirne le direttive nel campo degli esteri, e, qualora queste ultime non venissero rispettate, interveniva l'esercito di una delle nazioni membre a garantire l'ordine. Erano i primi semi di qualcosa di grande e completamente nuovo; era il felice epilogo, nonostante tutto, di quello spirito di fratellanza che Taal auspicava.
La prima bandiera dell'Unione Africana mostra, al suo centro, sei stelle a simboleggiare i Paesi che contribuirono decisamente alla sua fondazione: da sinistra verso destra, Impero, Egitto, Kongo, Marocco, Kanem e Bangui.
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Il periodo interbellico
Nonostante l'intraprendenza dimostrata dal kòmò e dai suoi comprimari, la giovane Unione fu costretta sin da subito ad affrontare prove pericolosissime, che ne avrebbero minato la stessa esistenza. In primis, al suo interno: la possibilità di uno Stato tuareg indipendente, per tutti i Paesi confinanti, era un incubo che non doveva assolutamente realizzarsi. Questo, per la fisionomia della nazione tuareg, nomade per definizione, cui dunque non sarebbe stato possibile tracciare precisi confini; eppure, nemmeno era possibile inimicarsi quella gente, poiché nessuno, al termine di una guerra interminabile, aveva davvero voglia di impelagarsi in una terribile guerra di oasi in oasi per stanare beduino su beduino, ottenendo anche lo spiacevole risultato di rovinare il territorio, comunque fondamentale per i collegamenti all'interno della confederazione. Questo Moussa ag Amastan, amenokal di Kal Ahaggar nelle montagne Hoggar in Algeria meridionale, lo sapeva bene: così, piuttosto che continuare una resistenza suicida, decise di prendere contatto con le alte autorità dell'Unione tramite i contatti che aveva stabilito già in precedenza con alcuni funzionari del governo algerino quando questi ultimi consumavano la propria lotta contro i francesi, rifugiati a sud. I capi di Stato della confederazione, riaccolti in assemblea presso Timbuktu per l'occasione, ascoltarono quanto l'amenokal aveva da dire, e dopo alcune confabulazioni, decisero di accettare. I tuareg ottenevano così un proprio Stato nazionale, nella forma di una monarchia estremamente decentralizzata con sede proprio a Kal Ahaggar, a patto che questo entrasse a far parte dell'Unione e non minacciasse mai le comunicazioni e lo scambio commerciale su terra tra le città tunisine, marocchine, algerine, imperiali e kanemitiche. Moussa tenne fede ai patti: nel 1920, dopo aver simbolicamente messo la prima pietra della sua capitale a terra sulla cima di un colle che aveva studiato a questo scopo, chiamò a raccolta tutti i tuareg per contribuire all'edificazione della rete militare e burocratica su cui si fonda anche la più misera delle fondazioni politiche. L'eccitazione era alle stelle, e molti risposero alla sua chiamata, liberando molte frontiere da una presenza indesiderata (i tuareg, dalle altre civiltà d'Africa, sono sempre stati considerati un po' alla maniera in cui gli europei sono soliti guardare agli zingari); ciononostante, Kal Ahaggar non superò se non in epoca recente i 150.000 abitanti (per noi, una miseria, per i Tuareg, una spaventosa metropoli) e nel suo complesso il regno si attestò stabilmente su una popolazione intorno ai 3 milioni di abitanti, mentre restavano forti, nella cultura, i richiami dei vecchi medium carovanieri per un ritorno alle origini.
La
bandiera dell'Azawad, Stato nazionale Tuareg,
riprende i colori di quella dell'Unione Africana
Ma per una miccia che veniva disinnescata in tempo, molte altre restavano accese. Alcuni Stati africani, tenendo alla propria autonomia e temendo per la propria indipendenza, avevano deliberatamente accettato di non entrare nell'Unione; tuttavia, coloro che avevano deciso di perseguire per questa strada si resero ben presto conto che si trattava di una follia. Nei vasti imperi del meridione, conflitti etnici erano veloci a scoppiare, come accadde sovente tra i confini di Bangui, Kongo e Zanzibar, retti da un élite, a seconda dei casi, guerriera, cristiana o musulmana, che non rispecchiava gli animi della popolazione. Le esigenze di quest'ultime, tuttavia, vennero temperate dalla crescita economica che susseguì all'apertura dei confini fra i Paesi africani e alla ripresa postbellica, nonché dalla politica di progressiva inclusione intrapresa da questi Stati su consiglio del Kurufaba, che in materia di convivenze fra stirpi disparate aveva una lunga storia alle spalle. Tale politica, tuttavia, non poteva essere intrapresa da chi basava la propria attività su di un razzismo esasperato ed esasperante. Stiamo parlando, ovviamente, dell'Unione Sudafricana, nata proprio dopo la guerra dalla convergenza di molte litigiose repubbliche boere e che aveva assunto questo nome solo in spregio a quanto stava accadendo più a nord. I boeri erano estremamente espansivi, e spesso attaccarono in scaramucce di confine le genti swazi e zulu, catturandone le miniere ed espellendone molti verso i loro Stati a nord. Come spesso accade a chi viene messo all'angolo, i coloni di ascendenza olandese divennero ancora più crudeli con il passare del tempo, tanto che alcuni rifugiati si spinsero a parlare di un regime di segregazione razziale vigente in quelle terre, che escludeva non solo dal voto ma anche da qualunque diritto la maggioranza nera; e per evitare ulteriori aggressioni, che lo stremato Regno Unito non sembrava intenzionato a voler fermare, per timore di perdere anche il suo ultimo possedimento africano di qualche considerazione (la colonia del Capo, strumentale al controllo dei traffici oceanici), tutta quella varietà di Stati e staterelli che va sotto la generica definizione di protettorati fu costretta a cambiare padrone, passando dagli europei ad altri africani. L'Unione prese sotto la propria ala protettiva quelle genti, ottenendo il duplice risultato di porre un termine alle violenze e attestarsi, una volta per tutte, sull'Oceano Indiano, assumendosi dunque sulle spalle il peso di essere una vera potenza continentale con cui tutti coloro che agivano in Africa dovevano fare i conti.
Tutti, meno che una nazione: la Liberia, che si faceva forte della sua amicizia con gli Stati Uniti. I rapporti fra l'uno e l'altro lato dell'Atlantico, in quel frangente, si fecero momentaneamente (e inutilmente) complicati. Questo perché, nonostante il proprio secolare isolamento, il presidente Woodrow Wilson vedeva nell'Unione Africana (e in particolare nel Kurufaba, che ne era stato il principale ispiratore) l'autrice della clamorosa soffiata del ruolo di padre nel rapporto familiare (di padre e figlio) invertito che si era stabilito con l'Europa grazie e in seguito alla guerra. Dopo che il senso del conflitto si era ribaltato a causa del massiccio afflusso di soldati neri nel Vecchio Continente infatti, la maggioranza del Congresso statunitense aveva ritenuto i propri interessi economici tutelati in ogni caso senza la necessità di intervenire; a sua volta, l'Unione aveva partecipato ai congressi di pace europei da protagonista, dettando regole e imponendo limitazioni a chicchessia, poiché gli africani sapevano bene che le potenze occidentali, uscite letteralmente a pezzi dal conflitto, non potevano prescindere dai propri aiuti in termini di beni industriali e alimentari.
Ciò, lungi dal riavvicinare le parti, aveva causato l'insorgere di un clima di diffidenza tra le due sponde del Mediterraneo, e fra le due metà di quella che era stata un tempo l'Intesa: i regimi fascisti in particolare, ma anche le democrazie inglese e francese usavano spesso incolpare gli africani di tutti i difetti del proprio sistema, adoperando, ora la retorica del complotto, adesso quella della vittoria mutilata.
L'orgoglio degli occidentali dovete scontrarsi con la ragione, prima con la vittoria dei repubblicani alle elezioni statunitensi nel 1921, che fecero rientrare la spaventosa potenza americana nel proprio alveo; poi, e fu la mazzata decisiva, con la crisi economica del 1929, cui plaudivano come sintomo evidente del crollo del sistema di potere (e, consequenzialmente, di valori) occidentale i due potenti modelli di civiltà alternativa che erano scaturiti dalle ceneri della Grande Guerra: da una parte, l'Unione Africana, che superò efficacemente la crisi grazie alla collaborazione e al dislocamento di risorse tra i vari Stati della confederazione, dall'altra, l'Unione Sovietica, che non venne effettivamente coinvolta nel momento basso perché esclusa dal commercio internazionale a causa delle brutali politiche staliniane. Effetto necessario della situazioni fu non solo che Regno Unito e Francia dovettero abbassare la cresta, riavvicinandosi all'Unione (ma gli screzi rimasti non sarebbero stati sanati che dalla guerra, giacché, per tutto il periodo interbellico, impedirono l'amicizia formale e, dunque, un impegno concreto per fermare l'aggressività nazifascista); ma anche che molti dei microstati africani che prima, gelosi di mantenere la gestione esclusiva dei propri affari interni, erano restati per i fatti loro, furono costretti da una riassegna a sangue freddo del loro tenebroso bilancio a venire a patti con la confederazione che, proprio dai loro confini, li sovrastava e scrutava con goliardia. Accordi di cooperazione e collaborazione, che sarebbero infine sfociati nell'adesione alla confederazione, vennero stipulati con Wolofulo, Kong, Ashanti (anche conosciuto come Mossi; si tratta dello stesso rapporto che si ha fra i due termini Persia e Iran, con il secondo che rappresenta, di fatto, un'estensione del primo, e il primo, invece, preferito in certi casi per le sue implicazioni culturali certamente superiori), Dahomey, e perfino la superba Liberia, piegata dall'ultrainflazione, mentre patti consimili, ma di fine diverso, furono sottoscritti con Oman, Arabia (lo Stato hascemita), Grecia, Turchia (farli andare d'accordo, specie in ragione di quanto diremo dopo, fu davvero complesso), Armenia e Iran, con cui dopotutto, le vicende di collaborazione erano ancora fresche.
L'imperatrice Salamatu, qui ritratta in abiti regali, rappresentò per la sua gente con la magnificenza del suo aspetto e i valori che incarnava, una vera e propria personificazione dei bei tempi che intercorrevano allora per l'Africa
A cosa abbiamo accennato prima, parlando della Turchia? Ma arrivarci è semplice, coraggio: l'operato di Mustafa Kemal. Questi era un combattente eccezionale, oltre che un trascinatore di popolo assolutamente fenomenale; ottenuto il potere, in breve tempo assunse le funzioni di capo supremo dell'esercito, ricacciando indietro greci e armeni da ciò ch'egli ritenne essere territorio turco. Mustafa comunque, era tutto meno che stupido: sapeva che, da sud, gli occhi della confederazione erano puntati su di lui, e che in un contesto di guerra totale con la potente Unione, decise di non strafare, fermandosi prima di tentare uno sbarco sul continente europeo. Il Marocco, per conto della superpotenza nera, supervisionò ai trattati di pace; in cambio del trattamento mite offerto, l'Unione ricavò l'inclusione della nuova repubblica turca, laica e che si rifaceva al modello africano, nella sua sfera d'influenza.
Nel delineare tutto questo, ad ogni modo, abbiamo fatto i conti senza l'oste. L'ascesa dei totalitarismi in Europa, non poteva evitare di lanciare sirene anche nel resto del mondo. Ciò si verificò in maniera preoccupante in Egitto, dove il Sultano, già deluso dall'esito del conflitto, accolse alla propria corte la rutilante e instancabile retorica di un filosofo itinerante, tale Sati' al-Husri. Sati', a dire il vero, era nato in Yemen nel 1880, ma il fatto che la sua famiglia dovesse costantemente muoversi per lavoro aveva fatto in nascere in lui, al contrario del nazionalismo dominante in quegli anni, una vocazione per il pan-arabismo, già espressa politicamente dalle opposte pretese califfali degli Alawiyya, in Egitto, e degli Hascemiti, in Iraq. Nei suoi scritti, Sati' combinava elementi di pensiero marxiano ad una molto chiara impronta di patriottismo romantico, che era giunto tardivamente in Arabia. Gli egiziani apprezzavano i suoi discorsi, e tanto più li apprezzava Fuad I, sultano d'Egitto, che vedeva in esso il mezzo per vedere finalmente coronate le sue pretese. A Sati' bisogna riconoscere il merito di aver finalmente spostato il punto della discussione dall'egemonia sull'Umma alle qualità della nazione araba; così, il partito da lui fondato, quello ba'ath (il Partito del Risorgimento Arabo Socialista) assurse al potere, poiché le elezioni glielo rinnovavano continuamente. Ritenendosi inadatto all'amministrazione, Sati' si riservò la carica di Ministro dell'Educazione, ch'egli tramutò sinistramente, negli anni in cui comandò da dietro le quinte, in una sorta di efficiente gestione della propaganda. Considerando dunque superate le organizzazioni dell'unità africana, Sati' spinse perché l'Egitto se ne allontanasse, imputando anzi alle prime di essere monopolizzate dal Kurufaba (non aveva tutti i torti); invece, egli premette perché nelle scuole si insegnasse il nazionalismo arabo e l'incrollabile fedeltà al governo. Secondo il gran mufti di Alessandria, noto oppositore del regime e che per questo perse anche la carica e venne per giunta assassinato in una rivolta di popolo orchestrata dal governo, il suo proposito, e insieme principale risultato, era quello di "inculcare nei ristretti circoli di potere militari ed economici del Paese la proposizione permanente al raggiungimento di un Egitto non forte, ma fortissimo, destinato un giorno a guidare non solo l'intero mondo arabo, ma anche a prendersi la rivincità su quella maledetta e corrotta plutocrazia che era il Kurufaba."
Del resto, come poteva non essere così? All'Egitto, diceva Sati', fra tutte le nazioni africane era profetizzato un avvenire più grande delle altre, essendo la prima delle civiltà ad essere sbocciata in terra d'Africa più di quattro millenni addietro; e inoltre, col controllo del canale di Suez, si confermava come il naturale carrefour di vie di commercio e comunicazione fra l'Africa e l'Arabia, e fra l'India e l'Europa. "Il Sole nasce dal Nilo", sostenevano i ba'athisti; era la nascita del primo movimento che contestava la direzione democratica e pacifista imposta da Ségou alla sua creatura, l'UA, forgiata nel segno di un'opposizione ricercata e desiderata all'odiata eredità del sogno di Taal.
Sati' al-Husri, fondatore del movimento ba'athista e dittatore de facto dell'Egitto dal 1921 al 1938 [Nota Bene: si ricordi che questa è solo un'ucronia]
Sati' e i ba'athisti trovarono, come già accennato, trovarono un potente alleato nell'ascesa di Mussolini prima, e Hitler poi, in Europa. Già nel 1919, oltre alle conquiste contro l'impero ottomano, l'Egitto ottenne la striscia di confine del Darfur dallo sconfitto Kanem, ricca di materie prime, che gli consentirono di mettere in atto un'industrializzazione incessante e che procedeva a un ritmo davvero possente, tramite lo sfruttamento indiscriminato di masse di lavoratori indottrinati dalla propaganda di regime. Seguirono ulteriori pretese territoriali: nel 1935, imponendola come regolamento dai mai riscossi debiti, l'Egitto si prese una porzione di deserto, chiamata striscia di Aozou, dalla debole Tunisia; dopodiché, l'esercito egiziano invase e occupò lo Yemen nel 1937 e il Funj nel 1938, isolati com'erano dal punto di vista internazionale (nessuno dei due Stati, per paura di perdere le proprie prerogative, aveva intrattenuto diplomazia con l'UA); a questi fatti, l'Unione non seppe rispondere con rapidità e prontezza, temendo di inimicarsene un suo componente fondamentale, tanto più che il ba'athismo non aveva mancato di lanciare sirene a più di qualcuno nei territori settentrionali della prima. E del resto, Sati' era molto bravo a giocare con le parole, faccendo passare ogni sua conquista come l'ultima necessaria alla ripresa del suo Paese; ma alla fine del 1938, per fortuna o purtroppo, egli venne spodestato dal suo ruolo da una congrega di suoi sottoposti, stufi della sua tirannia. In realtà, si trattava di una lotta di potere interna al partito per la successione al dittatore; da essa, spuntò vincitore il giovanissimo avvocato Ahmed Husayn, che, essendo a capo del braccio armato del movimento (le famigerate Camicie Verdi), era stato l'autore materiale delle operazioni di contenimento del disordine nei territori conquistati militarimente negli anni precedenti e perciò godeva di un'estesa popolarità. Husayn, assunto il potere, gettò subito la maschera di eroe per assumere quella di spietato principe; non spodestò il sultano, ch'era la fonte legittima del suo potere, ma abrogò le elezioni (si poteva solo fare carriera all'interno del Partito), mise al bando ogni opposizione e attuò una decisa politica razzista, opposta dal suo predecessore che perciò venne raggiunto nel suo esilio da un sicario e ucciso, nei confronti di ogni minoranza etnica che non presentasse i tratti tipici degli arabi: neri del profondo sud, tuareg isolati, ebrei della diaspora, curdi e turchi sparsi per le montagne al confine settentrionale, tutti, indiscriminatamente, furono vittime delle sue persecuzioni. Insomma: se possibile, spostò il pallino del ba'athismo ancora più a destra, mentre nel frattempo si prodigava ad asserire la superiorità dell'elemento egiziano in mezzo agli altri arabi (si seminavano, allora, i primi semi del kemetismo). Come, infine, manifestò di voler attaccare l'Etiopia, stato membro della confederazione, l'Unione non poté più tollerarlo, espellendo l'Egitto dall'assemblea di Stati africani e pronunciando che qualora un atteggiamento ostile fosse stato ulteriormente perseguito nei confronti dell'antico Paese, rifugio dei copti, le minacce si sarebbero tramutate in guerra.
Detto fatto: Husayn non aspettava altro. Proclamando la "patria in pericolo", il tiranno mise mano agli accordi con Germania, Italia e Giappone, di cui rappresentava la necessaria cerniera tra le parti: presto, aggiunse l'Egitto al patto tripartito, che divenne così Asse Roma-Berlino-Cairo-Tokyo. Il dittatore fece appena in tempo a pagare una visita di servizio in Europa ai suoi nuovi alleati prima che scoppiasse la guerra. Inutile dire che, quando questa infine detonò, l'impero egiziano che si era costruito dal 1917 al 1939 vi entrò a pieno titolo, aggredendo, com'era prevedibile, l'Etiopia; allora l'UA non poté più lavarsi le mani, e dovette accostarsi a Francia e RU per combattere la nuova minaccia.
Il Continente Nero prima della Seconda Guerra Mondiale
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Battaglia per la civiltà
La seconda guerra rappresentò un autentico scossone per l'UA, sicché questa, come si suol dire, troppo lungamente si era cullata sugli allori della vittoria nel primo conflitto, e, soprattutto, troppo poco si era curata del rinforzo dell'esercito, senza parlare della forze aeree, completamente assenti. Husayn Ahmed, sapendo di questa giacenza a causa della lunga permanenza dell'Egitto all'interno della confederazione, non si era preoccupato di fare sconti al nemico; senza curarsi di coloro che lo additavano come traditore, dunque, egli mosse le armate egiziane verso ovest e verso sud, sommergendo con la forza dei numeri Tunisia e Somalia. Il decantato acrocoro, che tante pene aveva dato agli eserciti della prima guerra mondiale, qui venne facilmente subissato, dato che le truppe ba'athiste non dovevano scalare ogni singolo picco e prendere d'assalto la fortezza che lì era locata, ma un pugno di paracadutisti ben strutturati poteva gettarsi dall'alto e conquistare posizioni strategiche per il bombardamento tattico senza che si perdesse una sola vita per questo. Tutto questo si consumò nel giro di un annetto scarso di guerra; a salvare l'Unione fu, più che la straordinaria resistenza dei suoi soldati presso il nevralgico lago Ouaddai e l'attività distruttiva degli esploratori tuareg, l'arretratezza delle regioni conquistate. Tunisia e Somalia, infatti, erano probabilmente tra le aree meno sviluppate della confederazione, e costruire un aeroporto come base avanzata per le operazioni aeree richiedeva tempo. Oltretutto, sul mare, la congiunzione delle marine imperiale, britannica, marocchina, kongolese e zanzibariana rappresentò una sfida fin troppo ardua per le scarne flotte di Italia ed Egitto, che, sfruttando Malta e Cipro inglesi come basi, gli africani riuscirono presto a separare, chiudendo in una morsa le economie dei Paesi belligeranti. Ovviamente, ciò non bastò ad evitare del tutto i collegamenti fra Europa, Egitto e Giappone, specie quando le conquiste dell'Asse si sarebbero espanse a macchia d'olio; ma in ogni caso, il paventato ruolo della terra dei Faraoni come adiuvante cerniera fra la componente occidentale e quella orientale del patto quadripartito fu, per la maggior parte evitato. Si aggiunga a questo quadro l'occupazione africana dei territori che ancora restavano in mano alla Francia nel continente, subito dopo che quest'ultima cedette alla Germania, e il governo delle colonie passò formalmente al regime di Vichy; il governo in esilio della Francia Libera protestò contro questo abuso, ma, come nel primo conflitto, tutti erano troppo impegnati a esercitare l'uso delle armi contro i nazisti per prestarvi sufficiente attenzione, tanto più che in questi luoghi l'UA fu lesta a istituire Stati indipendenti, liberi dalle grinfie dei rapaci amministratori parigini, a patto ovviamente che entrassero a pieno titolo nella confederazione per essere cooptati nello sforzo bellico.
Alla fine del '41, incurante degli sviluppi dei fronti balcanico e africano, ancora aperti, poiché l'UA era tutto meno che disposta a cedere, essendo arrivata al punto di inviare propri reparti nelle isole greche per preservare la resistenza degli ultimi rimasugli dell'esercito greco all'avanzata di Mussolini, Hitler lanciò la sua terribile operazione Barbarossa, diretta contro l'URSS. In tal modo, anche il colosso sovietico veniva svegliato, e veniva trascinato nella mischia selvaggia; alla fine di combattere il comunismo dunque, che considerava il peggior nemico della millenaria civiltà egiziana (e dire che Sati' aveva trovato ispirazione negli scritti di Marx!), Husayn proclamò la leva generale, ammassando un gigantesco esercito; mai in terra d'Africa se ne vide uno maggiore per qualità e disposizione bellica, se è vero che solo l'intero esercito dell'Unione combinata poté superarlo in termini di numeri (ma non di addestramento!) alla fine del conflitto. Con questa spaventosa arma nelle sue mani, il dittatore anelava a sottomettere l'India britannica e anzi giungere fino nelle remote steppe del nord, dove avrebbe contato di aggiungere i suoi al mucchio anti-sovietico; poco importava se, sulla strada per Mosca e Nuova Delhi, si trovavano all'incirca una decina di Stati e altrettante, se non di più, nazioni; arabe non erano di certo, e perciò per loro si poteva riservare solo l'eliminazione.
La grande offensiva ebbe inizio con la primavera del '42: com'era ovvio, nessuno poteva resistere allo schiacciasassi egiziano, se perfino la colonia di Aden, britannica, venne facilmente sgominata. Armenia, Georgia, Circassia, Arabia, Oman, Aden e perfino la superba Persia, seppure con difficoltà maggiori, vennero piegate dall'incontrastabile avanzata egiziana, cui seguì la naturale arabizzazione delle genti che semite non erano per niente. La Turchia, ancora retta da Mustafa Kemal, venne risparmiata dagli orrori della guerra perché il suo leader, nonostante le somiglianze che accomunavano il suo regime a quello dei Paesi totalitari (o forse proprio a causa di queste ultime), ebbe l'accortezza di proclamarsi rigorosamente e assolutamente neutrale, sganciandosi dall'orbita dell'Unione. Solo gli ebrei si salvavano; e questo perché, mentre la guerra infuriava in Europa, Hitler aveva valutato che gli risultava più conveniente rispedire gli israeliti "a casa", piuttosto che sostenere i costi dello sterminio generalizzato. Per un eccidio risparmiato, tuttavia, se ne generò un altro, di cui ne fecero le spese, per numeri molto maggiori, armeni, assiri, libanesi, georgiani, azeri, curdi e iranici in generale, accusati di essere (cosa poi vera, in attesa della liberazione) quinta colonna delle potenze occidentali (per i cristiani) o dell'Unione Africana (per gli iranici). La famiglia hascemita, per fortuna, avendo avuto sentore delle persecuzioni, si salvò, ché, pur essendo arabissima, certamente Husayn l'avrebbe fatta giustiziare per eliminare l'unico contendente valido al titolo di Califfo; durante la fuga, essa portò con sé gli antichissimi simboli del potere arabo, ereditati direttamente dagli abbasidi, cosicché il tiranno senza corona d'Egitto non potesse rivendicare legittimamente quella importantissima carica cui aspirava. Non che, con ciò, gli hascemiti potessero togliere al folle la passione per il Carnevale, dal momento che Husayn si divertì ugualmente a vestire il Sultano come fosse il Profeta redivivo, chiamandolo Califfo ugualmente. Molti buoni fedeli, anche arabi, si ribellarono a questo sopruso, considerandolo blasfemia (e figuratevi gli sciiti di Persia!): contro di essi, Husayn non mancò di esercitare la stessa mano furiosa che aveva riservato ai non-semiti, considerandoli feccia della peggior specie, che rinunciava ai propri diritti per tutelare quelli di un libro scritto secoli addietro; per effetto del sanguinario periodo di sottomissione agli egiziani dunque, ancora oggi in tutto il mondo arabo il termine di Califfo è visto con sospetto e chi lo usa è additato come tiranno, illegittimo detentore di un onore (khalifa significa proprio successore) che è giusto spetti solo e soltanto a Maometto.
Massima espansione dell'Asse durante la Seconda Guerra Mondiale
Le armate egiziane e tedesche dunque, ancora potenti seppur esauste, convergerono sul Caucaso, chiudendo in una morsa le truppe sovietiche deputate alla difesa di quel fondamentale bastione, e, soprattutto, prendendo possesso dei depositi di petrolio della zona, ricchissimi per entità. A quel punto l'Asse dominava, con le rilevanti eccezioni, su ben tre continenti, e possedeva per giunta la maggioranza di tutto il carburante prodotto al mondo; così, seppure la resistenza sovietica, africana e cinese guidata da Mao, insorto al dominio coloniale, erodesse ingenti risorse e perfino nelle retrovie degli imperi del male si consumava una logorante azione partigiana, Hitler e Husayn contavano ancora di averla vinta, per la miglior qualità dei loro eserciti, ora alimentati a pieno regime. Ma si sbagliavano: e ciò non solo per la già menzionata, ma sempre degna di ricordo, strabordante supremazia numerica che offrivano le superpotenze, ora unite da uno sincero spirito di alleanza, ma anche perché gli impianti industriali oltre gli Urali, in Marocco, Kongo, Zanzibar e Kurufaba erano sostanzialmente intaccati dalla guerra. In aggiunta a tutto questo va considerata la discesa in campo degli Stati Uniti, minacciati dall'espansionismo giapponese; e infine, bisogna tenere in conto anche il peso delle sconsiderate decisioni belliche di Husayn e compagnia, dettate più dall'esaltazione retorica della propria forza, che da una reale considerazione delle forze impegnate nei combattimenti. Di tale tenore fu l'attacco ordito dal dittatore egiziano contro l'India, estrema fortezza incuneata fra le punte più avanzate delle milizie ba'athiste e di quelle giapponesi; dopo una superficiale considerazione, infatti, i capi delle due potenze avevano deciso che se se proprio non gli riusciva di possedere in pianta stabile il mare, l'unica via sicura per mantenere attivo il collegamento fra le sfere gemelle dell'Asse era proprio passare per il subcontinente. Qui gli indiani dimostrarono davvero di che pasta erano fatta, offrendo prova di una resilienza degna di nota, anche perché Churchill, da Londra, aveva finalmente concesso al Raj l'indipendenza, se solo i sudditi di Sua Maestà Britannica avessero ancora una volta provato la loro fedeltà al re.
Verso la fine del '42, a seguito di numerosi sbarchi anglo-americani nei porti atlantici dell'Unione e, soprattutto, dell'inizio della sconsiderata campagna indiana, che sottraeva il grosso dell'esercito egiziano al sacro compito di proteggere la madrepatria, il più lungo fronte della storia militare venne finalmente spezzato, nei pressi di Aozou, dove tutto, sette anni prima, era iniziato; subitaneamente, le armate africane e occidentali si spartirono i compiti, con le seconde deputate a proseguire l'offensiva verso est e i primi che, per la primavera del '43, avevano ormai liberato interamente il territorio tunisino. In questo contesto, per una volta, l'insurrezione di funj ed etiopi, fratelli nel dolore, fece comodo agli interessi del Kurufaba, che poté così avanzare rapidamente fino al Mar Rosso, tagliando in due l'esercito del Nemico. Solo la decisiva volontà dell'imperatrice Salamatu, vero emblema dell'unità africana, che nessun fratello restasse indietro, proseguì l'agonia dei figli del Nilo, dal momento che per tutto il '43 i soldati africani si dedicarono a togliere di mezzo quanto restava operativo dell'esercito egiziano in Somalia, ribattezzata dai ba'athisti, che coltivavano un gusto malsano per l'antichità, Zona di Caccia Punt.
La truppa speciale kanaga (kanaga erano detti in generale, i soldati dell'UA, riprendendo un antichissimo simbolismo africano raffigurante un uomo stilizzato, e che alla luce dei recenti eventi venne rivisitato per significare fratellanza universale) veste cappelli da cowboy americano in un momento di svago subito precedente allo sbarco in Sicilia
Infine giunse il momento di tentare lo sbarco alla fortezza Europa; la marea aveva defintivamente mutato corso, e mentre i kanaga davano manforte all'avanzata occidentale grazie al proprio sovrabbondante apporto numerico (basti sapere che l'intera popolazione africana, allo scoppio del conflitto, costituiva più del 10% della popolazione mondiale), nel '44 l'UA prese una volta per tutte il Nilo, attestandosi con enorme perdite, giacché gli egiziani, indottrinati a dovere dal Partito Ba'ath, nutrivano una fede incrollabile per il regime, presso Suez. Conseguentemente alla liberazione del territorio nazionale, l'esausta Unione inviò inattese profferte di pace a Husayn, sempre più disceso nel tetro baratro della pazzia; addirittura, quando gli africani fecero presente che il suo caro Califfo era stato catturato vivo e poteva essere scambiato per la sua resa, Husayn rifiutò, sostenendo che non riconosceva più la sua autorità, proclamandosi Faraone e sprecando le ultime energie di quello che a tutti gli effetti era ormai il suo parco giochi personale per farsi edificare una nuova, sontuosa capitale presso la vecchia Babilonia. Il piccolo Faysal II d'Arabia e il suo reggente nonché capo de facto della casata 'Abd al-llah tornarono dall'esilio, ponendosi a capo dei ba'athisti redenti (ma solo se non fossero di ascendenza egiziana) che combattevano la tirannia husaynide con ogni mezzo, volendo davvero riunificare la nazione araba; allora venne proclamata dagli hascemiti la seconda, grande rivolta araba, che riscosse molto più vasto successo popolare della prima. Nel '45 l'incubo d'Oriente, com'era ormai soprannominato Husayn, ebbe fine, poco dopo quella trovata da Hitler nel suo bunker di Berlino; proprio come quest'ultimo, tuttavia, la giustizia non poté svolgere il suo dovere, giacché all'appropinquarsi dell'Armata Nera, il tiranno, ormai completamente impazzito, si era gettato dalle torre più alta del suo palazzo di oro e zaffiri; una fine simile fece anche la sua ultima capitale, Nuova Tebe, che venne deliberatamente inabissata nelle sabbie del deserto dagli eserciti congiunti kanaga e locali, contravvenendo agli ordini degli alti comandi che volevano preservarla per fare incetta dei tesori che Husayn si era certamente portato come simbolo del suo potere, dall'Egitto fin lì. Così, per il fatto che nessuno volesse avere più niente a che fare con uno solo degli oggetti lordati dalla mano immonda del Nemico, si perse per sempre non solo l'ucronistico tentativo di restaurazione faraonica tentato da Husayn, denominato da alcuni kemetismo, frangia insieme derivata e contraria dal ba'athismo, ma anche uno dei più importanti patrimoni dell'egittologia.
Una delle poche foto a colori pervenuteci di Nuova Tebe
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Imperatrice del Fuoco, con la corona del Leone
Eclissi negli occhi l'Unione di noi Kanaga;
Imperatrice del Fuoco, qualunque stagione ci si opponga
L'Anno è un ciclo infinito, Tu restaurerai il nostro cuore e ci porterai alla
gloria:
Resteremo per sempre nelle Tue grazie.
Imperatrice del Fuoco, salvaci tutti:
Il Fiume Ti insulta, la canoa è affondata e la rotta è perduta.
Imperatrice di Fiamma, credi in noi tutti:
Stringici in un abbraccio e vestici con spade
e illumina i nostri cuori col Tuo Sangue Antico, così impavido;
Resteremo per sempre nelle Tue grazie.
Imperatrice di Fiamma, con la corona del Leone
Eclissi negli occhi l'Unione di noi Kanaga;
Imperatrice di Fiamma, qualunque stagione ci si opponga,
l'Anno è un ciclo infinito, Tu restaurerai i nostri cuori e ci porterai alla
gloria:
Resteremo per sempre nelle Tue grazie. »
(nella più popolare delle canzoni di guerra Kanaga si nota bene l'impronta
nigeriana donata alla cultura africana dall'egemonia della civiltà della valle
del Niger)
[Nota dell'Autore: per scrivere il canto di guerra Kanaga mi sono ispirato all'OST di un famoso videogioco, che ho giocato e apprezzo molto; se volete sentire l'originale, vi lascio la versione francese e inglese dello stesso canto]
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Il dopoguerra
Il primo evento considerevole che ebbe luogo dopo la guerra fu, logicamente, la conferenza di pace; ed è interessante notare che, in questa sede, essa congiunse in una sola località (Alessandria) trattative che sortirono effetti in tutto il mondo, a differenza di quanto era accaduto solo venticinque anni prima, quando ogni continente aveva avuto le sue (molte) paci. L'UA ovviamente vi tenne un ruolo fondamentale: oltre a integrare al suo interno, ormai, la totalità del continente, fatta salva per la repubblica boera e il Capo inglese, bisognava tuttavia risolvere il problema arabo. Era ormai chiaro che quella araba, infatti, non era e non poteva essere una di quelle nazioni riguardo alle quali si agisce inventando confini artefatti per tutelare i propri interessi; e se l'unità d'Arabia, dunque, era ormai un fatto inequivocabile per l'azione degli hascemiti, che ne possedevano la corona, questi non potevano prescindere dal fondamentale supporto che l'Unione gli aveva fornito e senza il quale non sarebbero mai potuti diventare padroni della gran penisola. Gli africani furono molto chiari a questo proposito: Faysal II poteva regnare solo a condizione che non usasse il titolo di Califfo (ma questo era già ovvio per tutti, dopo gli orrori ba'athisti) dalle implicazioni troppo elevate, e che il suo Stato entrasse a pieno titolo nella confederazione. Del resto, l'imperatrice non aveva mandato i suoi figli a morire in Oriente solo per pura generosità nei confronti dei popoli sterminati, tanto più che molti dei territori su cui Husayn dominava non erano conquiste recenti, ma datavano ancora alla sconfitta ottomana e, perciò, a quando l'Egitto faceva ancora parte dell'Unione; l'opinione pubblica africana non avrebbe mai accettato di perdere quei territori, tanto più che erano enormemente prestigiosi (Medina, la Mecca, Damasco...) e questa soluzione di compromesso fu la migliore che si potesse trovare. 'Abd al-llah, reggente hascemita, dal canto suo rifiutò, sostenendo che così facendo l'Arabia avrebbe perso l'indipendenza per cui aveva tanto a lungo combattuto; ma, misteriosamente, quest'ultimo venne tolto di mezzo, scomparendo nel nulla, e di esso né si parlo né si seppe più niente. Al suo posto, il sultanato si avviò ad una normalizzazione democratica, favorita sia dalla tutela dell'Unione, sia dal fatto che Faysal II fosse ancora un bambino, e, per giunta, un bambino cresciuto più all'ombra di Timbuktu che a Baghdad.
Armenia, Persia e Grecia non erano in una situazione migliore: devastate dalla guerra, ora le loro élites temevano di essere invase ed evirate da Stalin; il terrore rosso, ovverosia la paura del comunismo e della rivoluzione, permeava allora la società, gia di per sé molto tradizionalista, di questi Paesi. Allora, venne trovata una soluzione: oltre a tornare nella sfera d'influenza africana, vennero sottoscritti patti di comune allineamento militare, e basi africani vennero poste su tutto il territorio delle tre nazioni. Non era tutto male, però: ad una maggiore integrazione nel mercato comune continentale, seguì una spaventosa crescita economica; era il famoso boom orientale, che avrebbe portato questa regione del mondo a essere una delle più ricche, e non solo per il proprio petrolio. Resta una sola incognita: la Turchia. A guerra conclusa, non aveva senso scatenarne una seconda contro una nazione solo per punirla della propria acquiescenza verso il ba'athismo; tanto più che il clima internazionale si stava rapidamente raffreddando, e ora la penisola anatolica diventava una posizione altamente strategica e un utile alleato. Così, offrendo ad Ankara la Cilicia, Unione e Turchia si riavvicinarono, al punto che, per i soliti motivi, la seconda si convinse a firmare trattati amichevoli dello stesso tenore di quelli che erano stati creati ad hoc per gli Stati che con l'Anatolia confinavano o collimavano.
La Guerra Fredda nel Vecchio Continente
L'Europa, invece, fu una gatta da pelare ben più grossa dell'Oriente, dove l'influenza africana era già accettata. In primis, perché i contendenti non erano solo due, ma ben tre: gli USA, da occidente, l'UA, da meridione, e l'URSS, da oriente; si stavano già delineando, insomma, quelli che sarebbero stati i futuri schieramenti dell'imminente Guerra Fredda. I russi, ch'erano avanzati fin'oltre l'Oder, furono i più facili a contentarsi; con gli USA, d'altra parte, si ebbero maggiori screzi, ché, com'era già accaduto, entrambi volevano attestarsi come padroni delle nazioni che stavano sull'Atlantico. L'UA, in questo contesto, agì da terzo incomodo, appoggiandosi ora agli americani, ora ai russi, per tutelare i propri interessi; e tale politica fu ampiamente coronata, se l'Italia, occupata per ben sei anni dalle truppe kanaga, non venne mai contestata agli africani. Anche l'Austria e la Francia meridionale stavano sotto la presenza nera; ma se nel caso di quest'ultima nazione, formalmente cobelligerante, gli africani dovettero ben presto sloggiare, quando l'UA rinunciò, congiuntamente alle altre potenze, alla propria zona d'occupazione tedesca, si vide molto presto che la nuova Germania gravitava molto chiaramente verso il Continente Nero. E questo grazia all'ennesima, saggia decisione dei meridionali; la quale era stata, appoggiarsi al movimento di unificazione europeo, sostenendolo con aiuti economici, ma soprattutto, militari. Datata 1951 era stata la fondazione dell'AMED (l'identificazione con il nome comune era voluta), Accordo MEDiterraneo, sorta di alleanza politico-militare parallela alla NATO e al Patto di Varsavia con sede a Genova; nel 1957, questa associazione, che comprendeva, oltre che sostanziali aiuti economici e libertà di circolazione, commercio e impresa in tutti i Paesi membri, si era ormai espansa fino a comprendere anche Francia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo. Nel 1973 sarebbero entrati Danimarca e Irlanda, vogliosi di smarcarsi dall'influenza russo-americana; per ragionamenti consimili l'AMED si sarebbe espanso ancora, con le adesioni, nel 1981 di Grecia e Armenia e nel 1986 di Persia e Turchia. Ma è chiaro che ormai, arrivati a questo punto, il nome di mediterranea a quest'organizzazione sta stretta, e che è necessario fare un passo indietro.
La bandiera dell'AMED riprende la congiunzione fra Occidente e Meridione, inastando una corona d'alloro al cui centro perfetto risiede un kanaga
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L'eredità di Britannia
Era chiaro a tutti, ormai, che alla metà del '900 l'ora finale per gli imperi coloniali era ormai suonata da un pezzo. E non solo per le colonie asiatiche, spesso liberate da imponenti sollevazioni di popolo (Mao in Cina, Gandhi in India), ma anche per quei pochi residui che restavano in Africa: il Capo inglese si separò presto dalla madrepatria, ma essendo anch'esso dominato da una minoranza bianca, preferì unirsi ai boeri settentrionali in un solo Stato, per meglio tutelare lo status privilegiato dell'élite. L'Unione Sudafricana, lancia appuntita puntata al cuore dell'UA, non solo fisicamente, ma anche e soprattutto ideologicamente, si affidò agli USA per proseguire indisturbata il proprio regime di apartheid. In questo contesto, si può dire che gli USA giocarono le proprie carte molto meglio rispetto a UA e URSS, nel senso che spesso si presentavano nelle ex-colonie come alternativa preferibile e naturale prosecuzione del regime britannico, liberale e capitalista. Anche il Giappone, e perfino la Gran Bretagna, finirono sotto l'ala protettiva degli americani. Solo nei due casi sopracitati, si può dire che Washington fallì, giacché l'India, su ispirazione delle idee pacifiste ed ecumeniche di Gandhi che trovavano ampio riscontro negli ideali fondativi dell'UA, si allineò a quest'ultima, mentre, in una situazione decisamente più complessa rispetto alla nostra, la Cina non si sentì mai abbastanza forte da rompere il cordone ombelicale con l'URSS, a differenza di Yugoslavia e Albania, protette dalla benevolenza africana.
Una terribile guerra per procura si scatenò invece in America Latina, ventre molle dell'impero americano. Questo perché, ognuna delle tre potenze aveva una ragione per risultare attraente alle genti del continente: l'UA, perché non bisogna ricordare che in questa TL il Sud America è di popolazione più nera che bianca, gli USA, per naturale vicinanza, estendevano l'azione del proprio governo fino a includere i Paesi del sud, considerandoli, in un certo senso, come il proprio giardino di casa; infine, l'URSS, che rappresentava sempre l'alternativa del possibile alle logiche di potere dei tiranni che si scannavano l'un l'altro senza apparente fine, e supportando nel processo innumerevoli mafie e azioni molto losche. Benché le crisi che si accesero, e subitaneamente si spensero per l'azione pacificatrice del santo pontefice, fossero numerose, generalmente si può dire che se, rispettivamente, il Pequeneza, Cuba e la Magnolia fossero saldamente sotto l'influenza americana, sovietica e africana, le altre nazioni variavano schieramento a seconda delle amministrazioni incoronate o abbattute dall'azione dei servizi segreti. Un freno a questa pratica venne solo dall'ONU, l'Organizzazione delle Nazioni Unite, nata subito dopo la guerra: siccome nel suo Consiglio di Sicurezza sedevano, in pianta stabile e con potere di veto, UA, USA e URSS (e nessun altro, ché, qualunque ulteriore attribuzione sarebbe risultato a vantaggio o svantaggio di una delle tre potenze), si riusciva spesso a trovare un accordo sottobanco che salvasse il mondo dall'incubo di un'apocalisse nucleare.
Il logo della SIA
Eh sì, perché, nel frattempo che si combatteva la guerra, la scienza ha fatto passi da gigante: in breve tempo, oltre alla bomba atomica, hanno fatto la propria comparsa i primi computer, si è diffuso l'utilizzo dell'automobile e degli elettrodomestici, e forse la cosa più importante, le tre potenze, impedite dal combattersi apertamente, hanno spostato il pallino dei propri interessi allo spazio. L'URSS era la più interessata a questo ambito, e mise a segno una serie di importanti successi, tra cui, ad esempio, il primo satellite artificiale e il primo uomo in orbita intorno alla Terra, un certo Yuri Gagarin. Quando gli USA, sotto l'amministrazione Kennedy, decisero di recuperare, in Bangui nessuno gli credeva: pareva assurdo, infatti, non solo giungere sulla Luna, ma anche soltanto credere alle scadenze pronunciate dal presidente americano; inutile dire il clima di sorpresa e sgomento che successe al trionfo raccolto dalla NASA quando quest'ultima riuscì a far atterrare il primo uomo sulla Luna. Allora la competizione si fece sfrenata, giacché né i sovietici potevano tollerare di essere battuti, né gli africani potevano restare esclusi dalla spartizione dello spazio, pena la perdita dello status di superpotenza; e mentre la NASA restò con gli occhi ben piantati sul nostro satellite, i sovietci puntarono a Marte (famoso ancora oggi resta lo slogan: ai rossi il Pianeta Rosso!), mentre gli africani ripiegarono su Venere, che fra i tre pareva essere il meno interessante, dal momento che, con la sua temperatura proibitiva, era decisamente impossibile sperimentare i primi prodromi dell'atterraggio e, in prospettiva, della colonizzazione. Ma a dire il vero, ciò, lungi dallo scoraggiare gli scienziati della SIA (Space In Africa), rappresentò un incentivo alla ricerca: gli africani risolsero il problema lanciando nello spazio gigantesche piattaforme orbitanti intorno al pianeta dell'amore, dei quali il primo prototipo fu la stazione Nye (in ntomba, una delle principali lingue dell'impero fulani, significa pace). In questi luoghi proteti risiedevano gli astronauti, procedendo alla ricerca attuata in condizioni di gravità zero che diede un importante vantaggio, in termini di tecnologie, all'UA sui suoi rivali. L'ultimo traguardo, ma non meno importante, raggiunto dall'Unione fu la creazione di una flotta di navicelle riutilizzabili per il viaggio Terra-Nye-Venere, che dopo la distensione furono spesso adoperate, con i dovuti accorgimenti, per il trasporto di merci e persone tra la rete di piccole colonie istituita nel frattempo dagli USA sulla Luna e addirittura per il contatto con le remote basi sovietiche su Marte, che altrimenti sarebbero stati condannate all'inedia per la distanza dei collegamenti, problema che gli ingegneri russi, essendosi concentrati su altri ambiti di ricerca, qui non sembravano in grado di risolvere. Per l'anno 2000, il più lontano avamposto dell'umanità era appunto la Stazione Gagarin, sul Pianeta Rosso, di proprietà della Federazione Russa e più comunemente nota con il nome di Jump Zero, per gli esperimenti che vi si tenevano nella speranza di scoprire una modalità di viaggio iperluce e oggi abbandonati.
Le "città volanti" della SIA su Venere (da questo sito)
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Rivolgimenti interni alle superpotenze
La vita dei kanaga e, in generale di tutti, ad ogni modo, non poteva limitarsi alla politica estera e ai trionfi fra le stelle. In particolare, perché un gran numero di problematiche sociali restavano irrisolte. In Africa, ciò riguardava da un lato la laicizzazione della cultura popolare, che nel mentre che si affermava il consumismo, si staccava lentamente dagli ultimi strascichi fideistici e tribali, dall'altro la differenziazione di benessere e ricchezza fra le varie zone dell'Unione. Il primo ministro dell'impero fulani, tale Lumumba, cui spettava la presidenza di turno dell'Unione, agì per contrastare tali mancanze rafforzando il potere della struttura confederale sui singoli Stati: nel 1958, trasformò la conferenza panafricana che aveva contattato per discutere dello stato attuale delle cose in un vero e proprio Parlamento a nomina elettorale, il primo nella giovane storia dell'Unione. Inutile dire che il movimento di popolo che successe a questo avvenimento fu tale che Lumumba, a capo dell'appena nato Partito Federalista, vinse le elezioni, disponendo la scrittura della prima Costituzione panafricana e aggiungendo all'autorità federale numerosi poteri che prima non le erano concessi, tra cui il comando esclusivo delle diverse forze armate in una sola e la capacità di ordinare la sanità, l'istruzione e l'economia a livello sovranazionale. Tali misure riscossero ampi successi, se è vero che l'egemonia dei federalisti sulla cosa pubblica non si interruppe per lungo tempo; in ogni caso, è bene ricordare che non è corretto assimilare il modello africano, in quanto sostanzialmente equidistante da URSS e USA, ad una di entrambe queste creature politiche. Per esempio, l'UA, per quanto fautrice di una decisiva centralizzazione che assimilò progressivamente (il processo è ancora in corso) le prerogative dei singoli Stati membri, non aveva un Presidente e neanche un governo, ma tutte le disposizioni di interesse federale erano proposte, dibattute e accettate nello stesso Parlamento, mentre il corpus legislativo di un Paese che entrasse a far parte della federazione non era soggetto a modifiche da parte dell'autorità federale, che si occupava unicamente di faccende che riguardassero tutta l'Africa.
Un grosso problema, che non dipendeva dalla federazione, ma ne intaccava pesantemente la credibilità sul piano internazionale, era rappresentato, come già accennato, dall'Unione Sudafricana. L'avversione contro ogni forma di razzismo era inserita nella Costituzione africana e ben radicata negli animi della gente da tempo immemore, come aveva efficacemente dimostrato la lotta al ba'athismo; allo stesso modo, quelle forme di supremazia di una singola tribù o gruppo etnico sugli altri su cui si reggevano alcuni dei più retrogradi fra gli Stati africani (l'impero fulani e il sultanato di Zanzibar, per fare un esempio) vennero progressivamente smantellate tramite riforme, e le distinzioni iniziarono a essere fatte un po' dappertutto secondo il censo e non la provenienza, per quanto ampi strascichi campanilistici nella cultura rimasero a lungo. I boeri, invece, avevano basato il loro stesso Stato sull'apartheid, e il fatto stesso che questo modello fosse affermato e reggesse un Paese fungeva da insulto persistente (e impertinente) ai valori su cui l'Unione si fondava. Per questo, Bangui supportò fin dall'inizio l'attività rivoluzionaria di un certo Rolihlahla Mandela, che si batteva per l'abolizione del regime di segregazione razziale. Il fatto che fosse socialista non interessava: negli anni, il supporto internazionale al suo partito, l'ANK (Afrikaanse Nasionale Kongres) crebbe a dismisura, fino a quando nemmeno gli USA poterono più sostenere l'operato dei boeri e il primo ministro della repubblica boera, tale Pieter Willem Botha, dovette scarcerare Mandela (dieci anni prima!) e affidargli il governo del Paese. Prima mossa di Mandela, fu, chiaramente, sottoscrivere l'ingresso nell'Unione: l'ANK divenne da allora la principale forza politica del Paese, di ispirazione socialista, progressista e terzomondista. Erano i primi segni dello sfaldamento dell'impero americano, prima delle tre grandi potenze a cadere: poco prima, infatti, erano crollate le dittature fasciste in Portogallo e Spagna, insieme con molte altre installate dalla CIA in giro per l'Asia e le Americhe; in questo contesto, la Magnolia strinse legami definitivi con l'Unione, insieme alle altre antiche colonie maliane. La guerra del Vietnam poi, in ultima analisi, si rivelò un gigantesco fallimento e i repubblicani, al potere ininterrottamente dall'epoca di Truman, furono costretti a cedere la palla ad un freschissimo Jimmy Carter, che inaugurò con il suo doppio mandato non solo l'egemonia democratica, durata ininterrottamente fino a Clinton, ma anche la politica di avvicinamento e alleanza con l'UA. Cadevano allora le barriere fra la Gran Bretagna e l'Europa, che così, nel 1983, dopo la disastrosa parentesi Thatcher poteva tornare al suo alveo, aderendo all'AMED insieme con i paesi iberici sopracitati.
Pur senza ritenere alcuna carica ufficiale, Mandela traghettò l'UA nel mondo contemporaneo, senza per questo ridurre l'attività dell'Unione nel mondo. La fondazione del movimento dei Paesi non allineati, onde raccogliere al suo interno tutti quei Paesi che non volevano far parte dell'orbita né degli USA né dell'URSS si deve a lui: essa rappresentò uno splendente bastione di sicurezza, nel momento in cui i sovietici invadevano l'Afghanistan. L'UA non minacciò la guerra, ma intraprese severi provvedimenti economici contro i sovietici, subito seguita dagli USA, dai Paesi AMED e dai non allineati; così il sistema sovietico, completamente isolato, entrò in crisi. Se gli anni '70 dunque, avevano visto il collasso degli USA, consumati dal neocolonialismo e da una politica di sfrenato liberismo, gli anni '80 videro la decomposizione pezzo per pezzo dell'URSS, di cui emblema fu la caduta del Muro di Berlino, nel 1989; e anche se la Russia, come gli USA, era davvero troppo grossa per essere circuita facilmente dall'Unione, le ex repubbliche sovietiche, liberate, entrarono presto nell'AMED, che ora si trovava nella situazione di comprendere buona parte del complesso continentale eurasiafricano. Urgevano cambiamenti: l'aggettivo africano cadde, e l'Unione restò solo "Unione", senza qualifiche; la capitale venne spostata a Gao, nell'antico impero del Kurufaba, dove l'imperatore concesse la sua benedizione alla metropoli. Come mai? Be', le ragioni sono diverse, e rispecchiano quattro requisiti principali:
1)
simbolico: la Capitale deve simbolicamente rappresentare il centro
del mondo;
2) politico: la Capitale deve soddisfare gli
interessi di più potenze possibili;
3) sostenibile: la Capitale deve essere
sostenibile e rappresentare il trend futuro del mondo, sempre più lontano
dall'inquinamento;
4) futuristico: la Capitale deve beneficiare
del prossimo step della nostra evoluzione, anche conosciuta come civiltà
interplanetaria.
Avviciniamoci un po'...
Troverete anche voi che Gao è la miglior città sulla Terra per venire incontro a questi difficili standard.
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In termini simbolici:
Gao ha la stessa identica longitudine di Greenwich! Il Primo Meridiano passa attraverso Gao esattamente come passa attraverso Londra; quindi, proprio alla maniera della capitale britannica, Gao è letteralmente "il centro del mondo";
Gao è in Africa, e, senza voler rimarcare il ruolo propulsivo avuto dall'UA come agente unificante in questa timeline, il Continente Nero è il posto da cui tutte le stirpi e tutti gli uomini sono derivati. E ora, da Gao, si sottintende che l'umanità insieme ricomincerà la propria avventura verso le stelle insieme.
In termini politici (si noti bene che USA, Russia, India o Cina sono esclusi dal processo, perché troppo potenti per essere fagocitate facilmente dall'Unione):
dal momento che Gao è in Africa, tutti i Paesi del continente saranno automaticamente soddisfatti da questa scelta;
Più del 90% delle persone nel Kurufaba è musulmana, quindi l'intero mondo arabo sarà felice di questa scelta;
Ma allo stesso tempo, il Kurufaba non è un Paese arabo, quindi Iran, Pakistan, Indonesia e altre nazioni, sciite o meno, musulmane ma non arabe, apprezzeranno la delicatezza;
Il Kurufaba gode di una storica vicinanza relazionale con la Magnolia, quindi buona parte dell'America Meridionale concorderà con questa scelta;
I Paesi europei saranno trascinati dall'influenza che l'Africa ha sul Vecchio Continente da mezzo secolo ormai.
In termini di sostenibilità:
Gao gode di molte risorse e di un impianto industriale collaudato fin dal '700, da collaudare solo con le nuove tecnologie rinnovabili;
Gao ha solo 200 mm di precipitazioni all'anno e ha un clima molto caldo, ma il grande fiume Niger attraversa la città, quindi la città gode di acqua fresca a un ritmo costante e a una disponibilità quasi infinita;
Sempre il fiume Niger, poi, si assomma alle infrastrutture già presenti, come via tracciata per il commercio e veloce per arrivare fino al gran porto di Kansala;
Gao è nel bel mezzo del deserto del Sahara, quindi c'è uno spazio quasi illimitato di terra per la costruzione urbana;
Gao gode di una fonte praticamente inesauribile di energia tramite lo sfruttamento di energia solare con grandi campi di pannelli.
In termini di futuro:
Come già menzionato, la latitudine di Gao è solo di 16° N, ed è molto più a sud di Cape Canaveral o Baikonur; già qui l'UA ha lanciato molti dei propri missili, e quindi sarebbe un posto poco costoso per l'invio di ulteriori costrutti artificiali nello spazio.
Il mondo oggi
Nell'anno 2000 nella nuova Unione, istituita nel 1991, entrò ufficialmente in vigore l'aureo, nuova moneta di corso mondiale; e nonostante le rimostranze dimostrate dalle altre potenze a venir incluse nel nuovo progetto di unificazione, con la globalizzazione crescente nessuna nazione può più prescindere dalle decisioni prese a Gao, specie dopo che l'Unione ha ufficialmente deciso di abbandonare l'ONU, condannando quest'organizzazione al fallimento e isolando i singoli Stati nelle proprie rivalità.
Dopo i festeggiamenti per il
nuovo millennio, un ventennio scorre essenzialmente pacifico, nel progresso
delle scienze e nell'estensione di diritti alle minoranze di ogni tipo, con
Internet che, diffondendosi in ogni dove, costituisce un monumento in sé
all'unità di fondo della specie umana. Solo la terribile prova della pandemia,
scoperta in Cina nel 2019, ma scoppiata solo l'anno seguente, può brevemente
interrompere il ritrovato idillio; ma già verso la fine dell'anno, precisamente
il 29 dicembre di quell'anno, le genti del mondo ritrovano speranza nel lancio
della Mansa Qu, navicella di nuovissima fattura e, soprattutto, prima con
equipaggio umano, composto di uomini e donne di tutte le stirpi e di ogni fede e
filosofia, che si spinge a tastare con mano il sapore del vento solare appena
dopo Giove.
Sulla sua fiancata, campeggiano a caratteri cubitali le lettere della didascalia
che la leggenda sostiene Mansa Musa abbia riferito al suo amico, prima che il
sovrano intraprendesse quel lungo viaggio che ha cambiato la storia dell'umanità
intera: Ala ye duba i ye, Mansa Qu! (Bon voyage,
Mansa Qu!)
L'inno dell'Unione
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Se volete farmi sapere che ne pensate, scrivetemi a questo indirizzo.